Il mosaico è un mistero di luce rivelata

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S_Daniele
00mercoledì 25 novembre 2009 06:56




La bellezza secondo Marko Ivan Rupnik

Il mosaico è un mistero di luce rivelata


di Timothy Verdon

Intendo parlare di un'opera mistica, nata dalla preghiera contemplativa che porta chi la vede a pregare. Né trovo parole più adatte per introdurla di quelle usate da Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti del 1999, quando affermava che "ogni autentica intuizione artistica va oltre ciò che percepiscono i sensi e, penetrando la realtà, si sforza di interpretarne il mistero nascosto. Essa scaturisce dal profondo dell'animo umano, là dove l'aspirazione a dare un senso alla propria vita si accompagna alla percezione fugace della bellezza e della misteriosa unità delle cose" (6).

Papa Wojtyla qui parlava del mistero della creatività nell'artista credente, e proprio questo è il tema della presente opera:  un dvd realizzato nel 2008 dal Centro Aletti del Pontificio Istituto Orientale, col titolo:  Il colore dell'amore. L'arte di Marko Ivan Rupnik e del suo atelier. Non trattiamo qui dei mosaici di Rupnik, bensì di un saggio filmico d'analisi del processo per cui l'artista arriva, insieme ai suoi collaboratori, a creare opere che toccano milioni di cristiani - tra cui programmi monumentali nei santuari mariani di Lourdes e Fatima, nonché nello stesso Palazzo Apostolico del Vaticano. Le opere di Rupnik sono mosaici in grande scala, e così anche questo film, che in cinquanta minuti riunisce tessere di diversa provenienza - ricordi personali e frammenti di storia, sogni e visioni di bellezza - in un "mosaico" scintillante e commovente da cui emerge gradualmente un volto, quello dell'uomo-sacerdote-artista Marko Rupnik, a cui però vediamo sovrapporsi un altro volto, quello dell'Artifex, Alto Sacerdote e Uomo-Dio, Cristo. "Non vivo più io, ma Cristo vive in me" (Galati, 2, 20), diceva san Paolo, e nei momenti culminanti del filmato la regista Maria Amata Calò infatti propone dei primi piani di padre Rupnik mentre celebra l'Eucaristia davanti a un suo grande mosaico absidale raffigurante il Salvatore.

Tuttavia il tema del film non è l'arte di Rupnik, né Rupnik come uomo, ma la creatività umana al servizio del Dio Creatore. La luce è forse il tema visivo dominante di questo film che porta chi lo vede, insieme all'artista credente di cui tratta, appunto ad affacciarsi sull'abisso luminoso la cui sorgente è Dio. La luce della fede del padre Rupnik in mezzo alla foresta di Kocevski Rog, la luce sulla neve e sull'acqua, la luce delle candele nella grotta di Lourdes dove, mentre passano i malati, Rupnik narra della sua sorella morta di un tumore. E racconta una figura che la sorella gli ha descritta - la figura mentale del letto di un fiume ripieno di pietre, le quali - se coperte di fango - non sentono l'acqua, ma una volta liberate dal fluire dell'acqua stessa, la sentono. "Queste pietre sono il dolore che fanno sentire la vita che scorre dentro di me", diceva la sorella - e di nuovo ricompare la ballerina nella luce accecante, e appaiono anche giovani sloveni in abiti tradizionali, che danzano en ronde, come si faceva un tempo ai matrimoni di campagna. "C'è una sola forza capace di unire ma che lascia liberi, ed è la carità", dice Rupnik. "La carità tira dall'isolamento verso la comunione".

Vediamo poi l'immenso sagrato del Santuario di Fatima, altro luogo dove Rupnik è stato chiamato, come a Lourdes, e - nel piazzale inondato di luce - ci sono pellegrini che, in ginocchio o strisciando per terra, avanzano verso la basilica. Luce e sofferenza, luce e fede, e poi la cappella nuova con i mosaici di padre Marko, con il Cristo nelle tessere d'oro. E viene a mente un altro passo della Lettera di Giovanni Paolo II - una frase presa da Pavel Florenskij:  "L'oro, barbaro, pesante, futile nella luce diffusa del giorno, con la luce tremolante di una lampada o di una candela si ravviva, poiché sfavilla di miriadi di scintille, ora qui, ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste" (n. 8). Ecco, il film fa capire che tra le mani credenti di Rupnik l'oro dei mosaici diventa rivelazione della luce nascosta nel carbone. La luce qui è inseparabile dalla sofferenza che la prepara, ma anche la sofferenza è ormai inseparabile dalla luce che l'inonda.

Citiamo vari passi dalla Lettera di Giovanni Paolo II perché Marko Rupnik era vicino al vecchio Papa, insieme al comune amico cardinal Spidlík - tutti e tre uomini dall'est. La commissione per una cappella "orientale" nel palazzo pontificio - la Cappella Redemptoris Mater - nacque infatti da quest'amicizia. Guardando ora il "mosaico" di immagini e parole, d'esperienze e impressioni che il film di Maria Calò propone non si può non pensare a un'opera antica in cui, in maniera analoga, l'Oriente cristiano è stato trasposto in Occidente:  la Pala d'Oro della basilica marciana di Venezia. Si tratta di una tavola d'altare - un'"ancona" - composta di oro, smalti e gemme, il cui nucleo originale risale agli anni 976-978. Ingrandita con l'aggiunta di altri pannelli smaltati nel 1105, la pala venne ulteriormente impreziosita dai tesori riportati da Constantinopoli nel 1204, assumendo la sua forma definitiva nel 1345; larga 3, 48 metri e alta 1, 40, è un assemblaggio di 83 lastre d'oro con immagini in smalto cloisonné e 38 piccoli tondi in smalto raffiguranti angeli. La superficie è tempestata di 1300 perle, 400 granati, 300 smeraldi, 90 ametiste, 15 rubini e 4 topazi.

Vista alla luce delle lampade nella luminosità diffusa dell'interno mosaicato di San Marco, la Pala d'Oro produce un effetto simile a quello evocato da Pavel Florenskij e citato da Giovanni Paolo II, sfavillando di "miriadi di scintille, ora qui ora là, facendo presentire altre luci non terrestri che riempiono lo spazio celeste". È un effetto, questo, vicino alla spiritualità esicasta che, a distanza di secoli, anima sia l'opera di Rupnik che il film che ne racconta l'energia sorgiva; parlo della corrente mistica ed estatica sviluppatosi nel mondo bizantino dal XI al XIV secolo e che ebbe eloquente articolazione negli scritti di Gregorio Palamas. Tra gli obiettivi dell'esicasmo c'era quello di contemplare l'increata, eterna luce di Dio, normalmente insopportabile ad occhi umani.

È questa l'estetica alla base dei mosaici di Rupnik e del "film-mosaico" di Maria Calò:  un senso del bello tipico del cristianesimo orientale, che predilige materiali preziosi e colori brillanti in cui ritiene di contemplare l'infinita gamma cromatica del cosmo da cui provengono l'oro e l'argento, le pietre multicolori e le gemme. Il senso di questa "mistica cosmica" fu espresso già nel VI secolo da Paolo Silenziario, un funzionario della corte di Giustiniano il Grande, quando descriveva i rivestimenti interni della basilica imperiale di Haghia Sofia, realizzati con "marmi verde-primavera di Karisto e variegati della Frigia, in cui il rosso e l'argento brillano come fiori e il porfido è tempestato di puntini che sembrano polvere di stelle. Qua il giallo sfavilla come oro, là vediamo qualcosa come latte versato su pelle nera, e punti azzurri spuntano nel marmo bianco come fiorellini in neve appena caduta". Secondo Paolo Silenziario chi guardava le colonne di marmo e i capitelli dorati di Haghia Sofia vedeva "i ruscelli della Tessalia contornati di fiori", "una vite con boccioli verdi", "la pace profonda di un mare estivo", "il verde fresco dello smeraldo", "gemme sfavillanti nel marmo della Tessalia, con trecce d'oro" (Descrizione di Santa Sofia, 152 e seguenti).

Questi passi suggeriscono l'ambito percettivo in cui sia la Pala d'Oro nel medioevo, sia le opere di Marko Rupnik oggi trasmettono il loro messaggio. Oltre l'ostia bianca e il vino color sangue sull'altare, oro e gemme evocano il cielo, la terra, il mare, le piante, il sole e la luna. Il Dio che si è fatto uomo, l'Uomo che si è dato come pane, il pane fatto di chicchi germogliati nella scura terra da cui nascono oro e gemme, sono contemplate nell'inebriante varietà di un creato che rivela il Creatore, e che così viene ricapitolato, unificato. Il cosmo intero in un disco di pane, vino che riflette lo sfavillio di pietre venate e colorate:  Paolo Silenziario diceva che, frammiste con le tessere musive di Santa Sofia, ci furono frammenti delle ossa dei martiri.

Il film termina con una simile affermazione della "misteriosa unità delle cose", chiedendo ancora che senso abbiano le vittime, non solo sloveni ma in tutto il mondo e in ogni tempo-"Che senso hanno le urla che nessuno ha sentito?". Poi in rapida dissolvenza fa vedere:  la ballerina nella luce, fiori bianchi, un agnello musivo, i danzatori contadini, la croce di Cristo. Maria Amata Calò ci sposta finalmente davanti all'altare dove il sacerdote Rupnik tiene tra le mani, non più il marmo per le tessere, ma l'ostia e un calice d'oro crivellato, "ferito", ma innalzato dal prete-artista mentre sullo sfondo contempliamo Gesù Cristo in mosaico.


(©L'Osservatore Romano - 25 novembre 2009)
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