Immigrati: aspetti economici, sociali e religiosi

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Cattolico_Romano
00domenica 13 settembre 2009 07:12
Immigrati: aspetti economici, sociali e religiosi

RECOARO TERME, sabato, 12 settembre 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo il testo dell'intervento sul tema "Immigrati: aspetti economici, sociali e religiosi" pronunciato dall'Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo questo sabato al Convegno Rezzara di Recoaro Terme (Vi).

* * *

  Nel 2006, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite organizzò un Dialogo ad Alto Livello su Migrazione Internazionale e Sviluppo, a cui parteciparono i rappresentanti di 132 Stati Membri. In quell'occasione fu sottolineato il contributo positivo delle migrazioni internazionali allo sviluppo sia del Paese di origine del migrante che di quello di arrivo, purché esse siano sostenute da politiche giuste. Si osservò inoltre che sebbene le migrazioni internazionali contribuiscano allo sviluppo non sono un sostituto degli aiuti internazionali in tal senso.

Difatti, le cause che spesso costringono i migranti a lasciare il proprio Paese, e a cercare migliori opportunità altrove, sono la povertà, l'impossibilità di trovare un impiego adeguato e dignitoso, più o meno stabile, nel Paese di origine, oppure la fuga da catastrofi naturali, conflitti, guerre e persecuzioni di carattere politico o religioso, o da violazioni dei diritti umani. Se fossero invece vigenti, nel Paese di origine, situazioni di pace e sicurezza, di buona ‘governance', di accessibilità al lavoro decoroso, rispettoso della legge, allora le migrazioni internazionali potrebbero essere realizzate per scelta, e non per forza, facilitate anche dalla globalizzazione dei mercati del lavoro, della tecnologia e del capitale. La globalizzazione, infatti, influenza gli orientamenti dei flussi migratori. Comunque "il processo di globalizzazione - disse Giovanni Paolo II nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni del 1999 - può costituire un'opportunità, se ... la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana". Perciò il grande squilibrio economico e sociale che oggi esiste e spinge il flusso migratorio, "non va visto come una fatalità, ma come una sfida al senso di responsabilità del genere umano" (Messaggio per la Giornata Mondale delle Migrazioni 1996).

Le migrazioni internazionali, in ogni caso, devono essere considerate anche nella prospettiva dei programmi pure internazionali per lo sviluppo e delle relative strategie nazionali. Infatti, le rimesse dei lavoratori migranti hanno dato un grande contributo all'economia in generale, ma particolarmente a quella dei Paesi in via di sviluppo, da cui molti provengono, ed ha permesso il miglioramento della vita di molte famiglie e comunità.

Certo la partenza di lavoratori altamente qualificati e di professionisti da tali Paesi ha avuto effetti negativi su di essi, soprattutto se piccoli e di basso reddito, in cui sono danneggiati anzitutto i settori della sanità e della scuola. Così ci si rende conto che la cooperazione internazionale deve tenere in considerazione non soltanto i vantaggi che un Paese può trarre dal rapporto con un altro, ma di pari passo anche le necessità di quest'ultimo. E' perciò importante che i Paesi di destino effettuino un "reclutamento etico" e cooperino nella formazione dei professionisti che sono necessari nei Paesi di provenienza degli immigrati di grande competenza.

E' dunque importante che i Governi dei Paesi di origine rafforzino altresì i legami con i propri cittadini che si trovano all'estero. Essi, infatti, danno contributi significativi allo sviluppo della loro terra natale non soltanto con le rimesse ma anche con l'"importazione" in patria del loro "know-how" e delle nuove tecnologie conosciute, qualora vi ritornino.

Purtroppo il fenomeno migratorio conosce altri lati negativi, anche se non ci dobbiamo fermare solo ad essi. L'emigrazione non è solo un problema, disse una volta Papa Benedetto XVI. Spesso, per esempio, porta come conseguenza la separazione delle famiglie; inoltre può essere occasione di contrabbando e di sfruttamento dei migranti, di tratta, in diversi casi, soprattutto di donne e bambini, da parte di persone senza scrupoli, creandosi così nuove forme di schiavitù. Le migrazioni possono anche causare tensioni sociali collegate all'integrazione o meno degli immigrati e il sorgere di discriminazione, razzismo e xenofobia - realtà diverse ma con gli stessi effetti -, soprattutto quando la presenza dei migranti senza documenti è forte. Vale la pena dunque di esaminare un po' la situazione dei migranti nei Paesi di arrivo.

Anzitutto desidero citare un articolo a questo riguardo basato su un discorso del sig. Kofi Annan, Segretario Generale delle Nazioni Unite al tempo del Dialogo ad Alto Livello già menzionato. Ecco il testo: "Tutti i Paesi hanno il diritto di decidere se ammettere o meno gli immigrati volontari (contrapposti ai rifugiati bona fide, che in base alla legge internazionale hanno diritto di protezione). Ma chiudere le porte sarebbe insensato ... Spingerebbe anche sempre più gente a tentare di entrare dalla porta di servizio ... L'immigrazione illegale è un problema reale, e gli Stati hanno bisogno di collaborare nei rispettivi sforzi per fermarla... Combattere l'immigrazione illegale dovrebbe però essere parte di una strategia più ampia. I Paesi dovrebbero fornire veri e propri canali per l'immigrazione legale, e cercare di coglierne i benefici nella salvaguardia dei diritti umani fondamentali dei migranti ... Gestire la migrazione non è soltanto una questione di porte aperte e di unione di forze a livello internazionale. Richiede anche che ciascun Paese faccia di più per integrare i nuovi arrivati. Gli immigrati devono adattarsi alle nuove società e le società devono adattarsi a loro volta. Soltanto una strategia creativa di integrazione garantirà ai vari Paesi che gli immigrati arricchiscano la società ospite più di quanto la disorientino... Gli immigrati sono parte della soluzione, non parte del problema" (da "Why Europe needs an immigration strategy", articolo basato sul Discorso del Segretario Generale dell'ONU Kofi Annan al Parlamento Europeo il 29 gennaio 2004, ripreso il 18 giugno 2009 in http://www.un.org/News/ossg/sg/ stories/sg-29jan2004. htm).

L'immigrazione irregolare è sempre esistita, ma debbo aggiungere che spesso è stata tollerata perché forniva quella riserva di forza-lavoro da cui poter attingere man mano che i migranti regolari miglioravano la loro posizione e si inserivano in modo stabile nel mondo del lavoro. Oggi il fenomeno ha assunto però la fase di emergenza sociale poiché, in seguito all'aumento nel loro numero, c'è nel mercato un'offerta di manodopera che supera di gran lungo le esigenze dell'economia, che in molti casi non riesce più ad assorbire nemmeno l'offerta locale. Nasce così il sospetto che lo straniero sottragga posti di lavoro agli autoctoni, quando spesso sono essi stessi a non volersi impegnare in determinati tipi di attività, di lavoro, che considerano "sporco" o umiliante. Il fenomeno va dunque prevenuto, da una parte, con contrapposizione a chi sfrutta l'espatrio degli irregolari e, dall'altra, con cooperazione internazionale, mirata a promuovere la stabilità politica e a rimuovere le cause endemiche del sottosviluppo. La condizione di irregolarità comunque "non consente [di fare] sconti sulla dignità del migrante, anche quando irregolare. Egli è dotato di diritti inalienabili che non possono essere violati né ignorati" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni 1996), da quelli più elementari nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, ai diritti enunciati nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, a quelli lavorativi contenuti nella Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, entrata in vigore nel luglio 2003. E' questa una pietra miliare nella difesa dei diritti dei migranti, poiché associa i migranti in situazione regolare e irregolare nella protezione dei diritti. Riconosce inoltre le dimensioni sociali della persona del migrante, come la sua famiglia, e chiama gli Stati a facilitare la sua riunificazione, riconoscendo alle donne lo status di migrante e non soltanto in dipendenza dei migranti maschi, cioè del marito o del padre.

Certo l'immigrato non può solo avere pretese nella società di arrivo, bensì offrirvi anche il suo contributo. Difatti per lui è doveroso rispettare l'identità e le leggi del Paese di destino, impegnarsi per una giusta integrazione (non assimilazione) in esso e impararne la lingua. Occorre avere stima e rispetto per il Paese ospitante, fino a giungere ad amarlo e difenderlo (cfr. l'Istruzione Erga migrantes caritas Christi -EMCC- , 77, documento fondamentale per la pastorale dei migranti). La società, infatti, è anche frutto delle mutue relazioni esistenti tra i suoi componenti, e dunque anche tra immigranti e autoctoni, dipendenti della loro capacità di dialogare per giungere al reciproco arricchimento creando così una società "nuova" per tutti. Va comunque detto che "l'apertura alle diverse identità culturali però non significa accettarle tutte indiscriminatamente, ma rispettarle   perché inerenti alle persone   ed eventualmente apprezzarle nella loro diversità ... La pluralità è ricchezza e il dialogo è già realizzazione, anche se imperfetta e in continua evoluzione, di quell'unità definitiva a cui l'umanità aspira ed è chiamata" (EMCC, 30).

Certamente la parola dialogo è diventata una delle accezioni maggiormente soggette a usura, a inflazione: qualcuno la confonde addirittura con una semplice conversazione. Dialogo è invece, soprattutto, confronto, interazione, capacità di ascoltare e di entrare nella visione dell'altro, disponibilità ad accoglierlo, senza semplicismi e superficialità e senza perdere la propria identità (cfr. Agostino Marchetto, "Religion, Migration and National Identity" in People on the Move, 109, pp. 29-35). Il dialogo poi non si riduce a cosa intellettuale, ma soprattutto deve coinvolgere la vita vissuta, e va espresso magari con un semplice gesto di rispetto, di saluto, di solidarietà, di fraternità. Il vero incontro, infatti, non avviene tra culture astrattamente considerate, ma tra persone concrete, che pure hanno la loro cultura e la loro religione: parte cioè dal vissuto delle persone stesse, dalla loro esperienza quotidiana in famiglia, sul lavoro, nella scuola. In questo modo è possibile colmare quel deficit di cittadinanza e di coscienza mondiale, di "responsabilità collettiva", che è alla base, oggi, di alcuni movimenti di violenza considerata come unica soluzione di inveterati problemi.

Con il dialogo anche la tolleranza è un'altra parola un po' erosa dall'uso, ma ancora molto importante. Per esempio si sta diffondendo oggi, di fatto, l'immagine dell'Islam come "monolito intollerante", religione di conquista, mentre la maggioranza dei musulmani si sente e si proclama tollerante. E' questa contrapposizione che rischia di compromettere gli sforzi di dialogo e provoca una reazione che può diventare esplosiva. Da una parte si lascia spazio quasi al razzismo, dall'altra si spinge al ripiegamento su se stessi. Entrambe le religioni, quella cristiana e quella musulmana, hanno invece alla loro base una tradizione di ospitalità e di accoglienza, "mutatis mutandis". Ricordo qui che molti aspetti del rapporto tra cristiani e musulmani sono stati trattati nell'Assemblea Plenaria del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti del 2006, sul tema: "Migrazione e itineranza da e per i Paesi a maggioranza islamica" (cfr. "Atti" in People on the Move, 101 Suppl.).

Giovanni Paolo II invitava i cristiani "a passare dalla mera tolleranza verso gli altri al rispetto autentico delle loro diversità", aiutati dall'"autentico amore evangelico" (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2003). Anzi, egli sottolineava "la necessità del dialogo fra uomini di culture diverse in un contesto di pluralismo che vada oltre la semplice tolleranza e giunga alla simpatia" (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2005). La simpatia! Certo realista, e con gli occhi aperti sul concreto. Giovanni Paolo II metteva in guardia ancora contro "una semplice giustapposizione di gruppi di migranti e di autoctoni" che può tendere ad una "reciproca chiusura delle culture, oppure all'instaurazione tra esse di semplici relazioni di esteriorità o di tolleranza", quando "si dovrebbe invece promuovere una fecondazione reciproca delle culture" (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2005). Qui è sottinteso, capite, tutto il discorso che distingue multiculturalismo e intercultura.

A proposito del dialogo e della tolleranza, Giovanni Paolo II affermò che "Lo stile e la cultura del dialogo sono particolarmente significativi rispetto alla complessa problematica delle migrazioni. L'esodo di grandi masse da una regione all'altra del pianeta, che costituisce sovente una drammatica odissea umana per quanti vi sono coinvolti, ha come conseguenza la mescolanza di tradizioni e di usi differenti, con ripercussioni notevoli nei vari Paesi di origine e in quelli di arrivo. L'accoglienza riservata ai migranti da parte dei Paesi che li ricevono e la loro capacità di integrarsi nel nuovo ambiente umano rappresentano altrettanti metri di valutazione della qualità del dialogo tra le differenti culture" (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2001).

Dove lo straniero diventa ospite e viene accolto, si smonta, infatti, gradualmente la possibilità di vedere l'altro come un nemico. L'ospitalità come fratellanza, invece, è concetto purtroppo trascurato dal lessico politico contemporaneo - ma la cosa non è solo di oggi - , che tende a privilegiare piuttosto l'uguaglianza e la libertà, le quali possono anche poggiare su un fondamento individualistico, libertario. Comunque accogliere lo straniero, per il vero cristiano, significa accogliere Dio stesso. Insistendo con la categoria della ospitalità, i testi biblici, in effetti, dell'Antico e del Nuovo Testamento, pongono le basi per la costruzione di una fratellanza universale. Un'ampia trattazione su tali testi si trova nell'EMCC, 12-18.

Anche il mondo islamico ha una tradizione di ospitalità che si manifesta nel Corano: in particolare nel mondo della medina, la città "illuminata", che nasce pluralista e porta agli altri. La tradizione all'apertura è quindi alla base pure della religione islamica, che però conosce oggi frange, anche assai consistenti purtroppo, estremiste e violente. Il compito dei musulmani, a nostro parere, è quello di individuare nuovi processi educativi, capaci di arginare questi estremismi, di isolarli e far prevalere il dialogo vero, autentico, rispettoso della reciprocità (v. People on the Move, 101 Suppl., pp. 45-47). L'11 Settembre è stato però sicuramente uno spartiacque, una "rivelazione", che ha evidenziato grandi contraddizioni nel ruolo delle religioni nella costruzione della pace. Questa "rivelazione" comporta la necessità di un salto di qualità nell'incontro interreligioso: siamo tutti invitati ad ascoltare e a metterci in gioco per l'altro (v. EMCC, 34-43; 59-69, dove per la prima volta nei documenti ecclesiali sulla pastorale migratoria troviamo una categorizzazione dei migranti dal punto di vista religioso).

Se è vero che il tema dello scontro passa anche all'interno di ogni singola comunità, è altrettanto vero che vi sono molte persone che questo scontro non vogliono, che praticano la convivenza, che si riconoscono nei valori della persona, della pace, dei diritti umani, della coesistenza, della pluralità. Chi dunque vi si trova è chiamato a lavorare insieme e a testimoniare concretamente la sua opposizione legittima a ogni forma di violenza, fatte le debite distinzioni.Qualcuno ha chiamato questa disponibilità la "riscoperta della piazza", piazza intesa non come imposizione all'altro - e penso ad alcune manifestazioni recenti sulle maggiori piazze italiane - ma punto d'incontro, di scambio di idee, luogo di composizione di una vera democrazia, in cui tutti godano piena cittadinanza e in cui tutti possano far sentire la propria voce, con rispetto di quelle altrui. Papa Giovanni parlava poi della fontana della piazza del villaggio, che per noi è la Rivelazione di Dio.

Desidero terminare con la seguente osservazione: la ricerca di un equilibrio soddisfacente tra un codice comune di convivenza e l'istanza della molteplicità culturale pone problemi delicati e di non facile soluzione. Non dobbiamo nasconderci che le domande identitarie incutono sempre paura in coloro ai quali esse vengono rivolte. Talora, queste paure prendono la via dell'annientamento o della negazione dell'identità dell'altro, volendola magari assimilare alla cultura dominante; tal altra, la paura conduce all'adozione di pratiche meramente assistenziali, che umiliano coloro che ne beneficiano perché feriscono la stima che essi hanno di sé. Eppure, come ci ricorda Giovanni Paolo II nel già citato Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2001, "il dialogo tra le culture... emerge come un'esigenza intrinseca alla natura stessa dell'uomo e della cultura" (n. 10). Il compito da assolvere è allora quello di gettare sul tavolo del dibattito la proposta di una via capace di scongiurare Scilla e Cariddi, cioè l'imperialismo culturale, che porta all'assimilazione delle culture diverse rispetto a quella dominante, e il relativismo culturale, che conduce ad una balcanizzazione della società.

Il modello di integrazione interculturale, di cui ho detto brevissimamente, è fondato sul riconoscimento della scintilla di verità presente in ogni visione del mondo (cfr. EMCC, 96), una visione che consente di mettere assieme il principio di eguaglianza culturale (che è declinato sui diritti universali, sulla dignità di ogni persona) con il principio di differenza culturale (che si applica ai modi di sua traduzione nella prassi giuridica di quei diritti). L'approccio del riconoscimento veritativo, non ha altra condizione se non la "ragionevolezza civica" di cui parla W. Galston: tutti coloro che chiedono di partecipare al progetto interculturale devono poter fornire ragioni per le loro richieste politiche; nessuno è autorizzato a limitarsi ad affermare ciò che preferisce o, peggio, a fare minacce. Non solo, ma queste ragioni devono avere carattere pubblico - in ciò sta la "civicità" -, nel senso che devono essere giustificate mediante termini che le persone di differente fede o cultura possono comprendere e accogliere come ragionevoli, e dunque tollerare, anche se non pienamente rispettabili o condivisibili (cfr. Scorza, Jason A., "Facing Up to Civic Pluralism: A Friendly Critique of Galston" in Theory and Research in Education, Vol. 4, N. 3 - 2006 - , pp. 291-311). Solo così - penso - le differenze identitarie possono essere sottratte al conflitto e alla regressione. Del resto il grande impegno, anche in Italia, oltre la sicurezza è, dovrebbe essere, l'accoglienza, l'integrazione. A questo riguardo si veda la mia intervista a Jesus (giugno 2009) in cui affermavo che lo zelo del Governo italiano per la sicurezza è degno di miglior causa. Mi riferivo, appunto, all'impegno per l'integrazione, che non si oppone certo alla sicurezza, ma ne è pure espressione.

Desidero lasciarvi con un'immagine del profeta Isaia, cara a Giovanni Paolo II, quella delle "sentinelle del mattino" (cfr. Is 21,11-12). "Come sentinelle - scriveva il Papa - i cristiani devono anzitutto ascoltare il grido di aiuto proveniente da tanti migranti e rifugiati, ma devono poi promuovere, con attivo impegno, prospettive di speranza, che preludano all'alba di una società più aperta e solidale" (Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2005).

Grazie!
Cattolico_Romano
00giovedì 17 settembre 2009 06:51
L'immigrazione, opportunità per “sentire” la Chiesa universale

Intervento di monsignor Marchetto a un congresso sulla mobilità umana



di Inma Álvarez


BRASILIA, mercoledì, 16 settembre 2009 (ZENIT.org).- L'immigrazione, “segno dei tempi”, può essere un'occasione per sperimentare nelle Chiese particolari l'ecclesiologia di comunione e missione prevista dalla Lumen Gentium nel Concilio Vaticano II.

Lo ha affermato questo mercoledì monsignor Agostino Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, al III Congresso sulla Pastorale della Mobilità Umana, in svolgimento in Brasile.

La pastorale dell'accoglienza nei confronti dei migranti “contribuisce a rendere visibile l’autentica fisionomia della Chiesa e valorizza la valenza ecumenica e dialogico-missionaria delle migrazioni. È anche attraverso di esse, infatti, che si realizzerà tra le genti il disegno di comunione salvifica di Dio”, ha indicato.Per gli immigrati cattolici, inoltre, è offerta “l’opportunità privilegiata, sia pur spesso dolorosa, di giungere a un maggior senso di appartenenza alla Chiesa universale oltre ogni particolarità”.

Il presule ha spiegato in primo luogo che per una giusta lettura del documento fondamentale di questa pastorale, l'Istruzione Erga migrantes caritas Christi, è decisiva una corretta interpretazione dell'ecclesiologia dei documenti del Concilio Vaticano II.Nel Concilio, ha sottolineato, non si è verificata una rottura con la Tradizione, anche se alcuni gruppi e certe correnti sono riusciti a monopolizzarne l'interpretazione.

Nella Lumen Gentium, la Costituzione sulla Chiesa, coesistono la visione della Chiesa come Corpo mistico e come Popolo di Dio, come gerarchia e come comunione, come universale e come particolare, senza che vi sia contraddizione, nonostante certe interpretazioni successive, ha rilevato monsignor Marchetto.

“In effetti la Chiesa ad intra e ad extra è stata l’asse portante di tutto l’impegno conciliare, la risposta fontale, in Cristo, vero uomo e vero Dio, ai 'segni dei tempi', il Segno posto da Dio anche fra i migranti”, ha spiegato.

La pastorale della Chiesa con i migranti, quindi, deve essere realizzata in comunione gerarchica con il Vescovo, il clero, i laici e i religiosi, e con un concetto di “missione”: “la missione non si realizza solo nei cosiddetti territori missionari, tradizionalmente in Africa o in Asia, dato che oggi gli abitanti dei vari continenti si spostano, e con essi la missione”.

La preoccupazione della pastorale con i migranti deve basarsi sull'“accoglienza”, il “dialogo” e l'“annuncio”.“La Chiesa si fa storia di un popolo in cammino che, partendo dal mistero di Cristo e dalle vicende dei singoli e dei gruppi che la compongono, è chiamata a costruire una nuova storia, dono di Dio e frutto della libertà umana”.

“Ecco dunque la trama della storia che entra nell’ordito di Dio, nel mistero pasquale di morte e di vita, anche la trama delle gioie e dei dolori dei migranti, pellegrini sulla terra”, ha concluso.
Cattolico_Romano
00mercoledì 23 settembre 2009 07:08
Mons. Crociata: gli immigrati hanno bisogno del Vangelo

Il Segretario Generale della CEI al convegno della fondazione Migrantes



CITTA' DEL VATICANO, martedì, 22 settembre 2009 (ZENIT.org).-

Nel messaggio che ha indirizzato al convegno dei direttori diocesani della fondazione Migrantes, in corso da questo lunedì fino al 24 settembre a Frascati sul tema “Nuovi cieli e nuova terra”, monsignor Mariano Crociata, Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha sottolineato “quanto ci sia bisogno d'annuncio del Vangelo tra i migranti”.

Il presule, ricorda “L'Osservatore Romano”, ha affermato che la missione svolta dalla fondazione Migrantes “non può prescindere da quanto si agita, anche in fatto di migrazione, nella società civile, in particolare nel mondo del lavoro, dell'alloggio, della scuola, dell'unità familiare, come pure nell'acceso dibattito sulle politiche migratorie, sull'integrazione socio-culturale, sulla convivenza interetnica”.

“Il vostro lavoro non è disincarnato, il prossimo con il quale ogni giorno v'imbattete ha sempre e ovunque volto umano, spesso alle prese con situazioni difficili e non di rado drammatiche”, ha aggiunto.

Riferendosi agli immigrati, monsignor Crociata ha sottolineato che molti “sono ancora del tutto digiuni di Vangelo e per essi la migrazione può diventare areopago di evangelizzazione”.

Alcuni, invece, “anche se sono già nostri fratelli nella fede, a causa anche della vicenda migratoria, hanno bisogno di una nuova evangelizzazione”, mentre altri ancora “hanno portato con sé un patrimonio inestimabile di pratica cristiana, di sane tradizioni, di autentica inculturazione della fede che ora tra di noi, nella nostra Chiesa italiana che è pure la loro Chiesa, merita di essere coltivato”.

In questo contesto, è fondamentale l'accoglienza degli immigrati, elemento che è al centro del messaggio inviato al convegno dagli Arcivescovi Antonio Maria Vegliò e Agostino Marchetto, presidente e segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.

“Di fronte alla sempre più complessa realtà delle migrazioni - scrivono -, l'accoglienza diviene l'elemento chiave per una pastorale in grado d'aiutare, nel contesto attuale economico, sociale e religioso, chi cerca una vita migliore lontano dalla propria patria”.

“Il calore della schietta accoglienza amica di chi è diverso da noi e viene da lontano è la testimonianza più bella e può predisporre all'annuncio diretto del Vangelo”.

Dal canto suo monsignor Piergiorgio Saviola, direttore generale della fondazione Migrantes, ha ammesso che “parole di fiducia e di speranza non hanno presa, se non sono percepite come fraterna partecipazione da parte nostra, come profonda solidarietà e se non sono accompagnate, quando possibile, da interventi concreti”.

Il presule ha anche messo in guardia perché l'opera verso i migranti “non si riduca a interventi di prima accoglienza”, che finiscono per vedere il migrante solo “sotto il prevalente profilo della povertà”.

L'intervento d'emergenza, ha riconosciuto, “continua a essere necessario e urgente”, ma l'obiettivo della fondazione Migrantes è “far uscire il migrante da un rapporto di dipendenza e di stimolarlo a rendersi autonomo, a camminare con i propri piedi, fino a poter programmare per la sua vita non più in una terra straniera, ma in una terra nuova, diventata per lui nuova patria”.
Cattolico_Romano
00venerdì 25 settembre 2009 06:35
Intervista all'arcivescovo Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

Il dovere della solidarietà verso i rifugiati e i migranti


di Nicola Gori

Alla Chiesa non compete valutare le scelte politiche in materia di immigrazione, ma spetta comunque la responsabilità di richiamare tutti al "dovere della solidarietà verso coloro che vivono in situazioni di maggiore vulnerabilità, come rifugiati e migranti". Lo afferma l'arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, ricordando che quello all'asilo è "un diritto umano fondamentale", il cui rispetto "viene prima dei problemi concreti legati alla sua attuazione". Anche se - riconosce - esistono difficoltà economiche e giuridiche reali che richiedono "politiche lungimiranti". Basate, come precisa l'arcivescovo, su una "conoscenza oggettiva del fenomeno a livello internazionale" e orientate a "gestirlo tenendo in dovuta considerazione i suoi differenti aspetti".

Il Catechismo della Chiesa cattolica afferma che la Chiesa difende il diritto dell'uomo  a  emigrare  e  tuttavia  non  ne  incoraggia l'esercizio, riconoscendo che "la migrazione ha un costo molto elevato e a pagarne il conto sono sempre i migranti". Non c'è contraddizione tra queste due asserzioni?

Poste nei rispettivi contesti, le due affermazioni non si contraddicono, ma si completano. In effetti, il fenomeno migratorio esige di essere analizzato e interpretato da diverse angolature, per la vastità e la complessità dei fattori che lo compongono. La visione del Pontificio Consiglio anzitutto coglie le migrazioni come conseguenza di situazioni di ingiustizia e come "male minore" per milioni di donne e uomini, anziani e bambini che ne sono coinvolti. Tuttavia, è pure importante non trascurare l'elemento positivo e provvidenziale delle migrazioni, che il magistero della Chiesa non ha mancato di mettere in luce già a partire da quando, a cavallo tra il xix e il XX secolo, si verificavano migrazioni di massa specialmente dal continente europeo verso quello americano. Del resto, la migrazione è un fatto complesso e ambivalente, con elementi positivi e negativi, nei quali siamo interpellati a riconoscere il progetto di Dio, in una dimensione cristiana. Dunque, si tratta spesso di coniugare aspetti diversi, in modo che non accada che nell'interpretazione sociologica prevalgano gli elementi negativi, mentre in quella teologica si intravedano improvvisamente ingenui bagliori.

Il Pontificio Consiglio si occupa di varie categorie di persone, tra le quali i nomadi, i rifugiati, la gente del mare e della strada. A proposito del dramma della tratta degli esseri umani, che colpisce spesso bambini e donne, quali iniziative concrete promuove il dicastero?

Secondo stime ufficiali, nel mondo sarebbero 2,5 milioni le vittime della tratta degli esseri umani. Per rispondere alla sua domanda, prendo lo spunto da un esempio concreto:  l'osservatorio pastorale della Conferenza episcopale dell'America Latina (Celam) ha recentemente diffuso le cifre sulla tratta dei migranti secondo un'inchiesta della commissione nazionale dei diritti umani messicana, durata da settembre 2008 a febbraio di quest'anno. Ebbene, ogni mese in Messico spariscono più di 1.600 persone dirette irregolarmente negli Stati Uniti d'America. È lo scandalo del sequestro massiccio di immigrati, che sono oltraggiati e, spesso, vengono liberati solo dopo aver pagato un gravoso riscatto a bande organizzate, che contano su reti e risorse. Il Messico - come Paese di origine, transito, meta e ritorno di migranti - rappresenta una delle frontiere con la maggiore affluenza migratoria al mondo. Ogni anno, secondo le cifre del Consiglio nazionale della popolazione, circa 550.000 messicani emigrano negli Stati Uniti. Allo stesso tempo, negli ultimi tre anni l'Istituto nazionale per la migrazione ha riscontrato una media annuale di 140.000 migranti senza documenti, in maggioranza dei Paesi dell'America Centrale, che cercano di arrivare nel Paese nordamericano. L'ampiezza di questo fenomeno costituisce una singolare sfida dovuta alla complessità che caratterizza l'immigrazione internazionale attuale. Inoltre questa situazione risulta aggravata dalla grande estensione e dall'alto rischio dei tragitti che le persone devono percorrere, che spesso le espone e le rende vulnerabili a differenti violazioni dei loro diritti umani. Di solito i migranti sono catturati a bordo dei treni che li portano oltre confine, oppure mentre si nascondono nelle stazioni in attesa di partire. Dopo averli maltrattati, i trafficanti chiedono ai migranti un riscatto dai 1.500 ai 5.000 dollari a persona. Cifre alla mano, il traffico potrebbe aver fatto guadagnare ai malviventi almeno 25 milioni di dollari in soli sei mesi.
In questo contesto, come in altre situazioni simili in diverse zone del mondo, il nostro Pontificio Consiglio esercita una particolare azione di promozione e di sostegno alle conferenze episcopali, agli istituti religiosi e a tutti quegli organismi, soprattutto di ispirazione cristiana, che già sono presenti sul territorio e si occupano, nel vasto fenomeno della mobilità umana, anche della tratta dei migranti. Come dice la Costituzione apostolica Pastor bonus, all'articolo 149, nostro compito è quello di assistere il Papa per dirigere "la sollecitudine pastorale della Chiesa alle particolari necessità di coloro che sono stati costretti ad abbandonare la propria patria o non ne hanno affatto". Ecco perché incoraggiamo il lavoro "in rete" di tutte quelle cristallizzazioni regionali e continentali in favore dei migranti, dei rifugiati e di altre persone in mobilità. È di esempio la recente costituzione dell'International network of religious against trafficking in persons (Inratip), una rete di religiose che opera sia nelle nazioni di provenienza che in quelle di destinazione delle vittime della tratta, che sono in maggioranza donne e bambini. In tal modo, si promuovono solidi legami tra Chiese, organizzazioni caritative e istituzioni locali, per avviare progetti in grado di studiare e stroncare il tragico fenomeno.

Il Papa ha definito "doverosa" l'accoglienza di quanti fuggono da situazioni di guerra e persecuzione, pur ammettendo che essa "pone non poche difficoltà". Come si può salvaguardare il dovere dell'accoglienza di fronte alle obiettive difficoltà che essa comporta?

Quello dell'asilo è un diritto umano fondamentale, come recita la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo all'articolo 14. Il rispetto di tale diritto viene prima dei problemi concreti legati alla sua attuazione. Si costituisce in tal modo la piattaforma di uno Stato di diritto, il quale deve sentirsi impegnato a fare tutto il possibile per rispettare i diritti umani fondamentali.
Bisogna ricordare che l'80 per cento dei rifugiati del mondo - che solo lo scorso anno 2008 sono stati 42 milioni - si trova nei Paesi in via di sviluppo, così come la stragrande maggioranza degli sfollati, stando ai dati diffusi dal "Global Trends", il rapporto statistico annuale pubblicato dall'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). L'Unhcr si occupa di 25 milioni di persone, fra i quali 14, 4 milioni di sfollati e 10,5 milioni di rifugiati. Sono, invece, 4,7 milioni i rifugiati palestinesi sotto la competenza dell'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l'occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa). Dai dati provvisori del 2009, poi, si assiste a un consistente movimento forzato di popolazioni, principalmente in Pakistan, Sri Lanka e Somalia.
Concretamente, se fissiamo l'attenzione sui Paesi dell'Unione europea, emergono chiare indicazioni sul diritto d'asilo:  la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Carta europea dei diritti dell'uomo e le direttive dell'Unione sul diritto d'asilo esplicitano la prassi concordata da adottare nei confronti dei rifugiati riconosciuti come tali. I problemi sorgono, come sempre, laddove vi sono risorse da condividere e ricchezze da distribuire, vale a dire alloggio, casa, sanità, istruzione, impiego lavorativo, e via dicendo. Lo Stato, in tale contesto, deve vigilare e agire in modo da garantire questi beni a tutti, autoctoni e non, comprese le fasce di popolazione più vulnerabili, tra cui vi sono i rifugiati. Ora, per il fatto che essi pesano, soprattutto inizialmente, sulle casse dello Stato - sono gli ultimi arrivati e sono stranieri - negli ultimi decenni è stato facile per alcune frange di certi Paesi europei, come Germania, Svizzera, Gran Bretagna, Austria e Olanda, identificarli come intrusi e approfittatori dei sistemi di assistenza sociale. Invece, nei recenti Paesi di rifugio - come Italia, Grecia, Malta e nazioni dell'Est europeo - il rifugiato è ancora troppe volte confuso con l'immigrato per motivi economici e non gode dei dovuti sostegni sociali. In effetti, non bisogna dimenticare che i motivi di fuga sono molto complessi e spesso le persone non scappano da persecuzioni politiche direttamente rivolte alle loro persone, ma da situazioni generali di pericolo e di violazione dei diritti umani, che rendono la vita impossibile in numerosi Paesi, per cui risulta difficile distinguere tra migranti "economici" e rifugiati.
Il vero problema, poi, risiede nell'accesso allo status di rifugiato. Dal momento, infatti, che esso reclama diritti, gli Stati tendono a concederlo a un numero limitato di persone per risparmiare denaro e strutture, anche perché tendenzialmente le domande si moltiplicano. Di anno in anno, comunque, le leggi riguardanti l'asilo in Europa si fanno sempre più restrittive. La tendenza recente sviluppata dai Paesi dell'Unione europea è quella della esternalizzazione del diritto d'asilo, che mira a impedire l'accesso al territorio dell'Unione e a obbligare i richiedenti asilo a fermarsi nei Paesi di transito.
Non compete al magistero della Chiesa valutare le scelte politiche in questo campo, ma certo non posso eludere una considerazione generale, indirizzata a tutte le persone di buona volontà, che domanda conto alla retta coscienza del dovere di solidarietà verso coloro che vivono condizioni di maggiore vulnerabilità, come rifugiati e migranti, ma anche, mutatis mutandis, anziani, disabili e malati terminali, nei confronti dei quali non possiamo tollerare che si avvallino tentativi che vanno contro il diritto alla vita.
È ovvio che bisogna fare i conti con la limitatezza delle risorse, ma dobbiamo anche chiederci:  si sta già facendo il possibile per l'equa distribuzione delle ricchezze? A che punto siamo con l'impegno, a livello internazionale, per risolvere conflitti di lunga durata? Quali comportamenti vengono adottati nei confronti di Governi dittatoriali che "producono" migranti e rifugiati? Quali orientamenti stanno indirizzando la gestione del fenomeno migratorio, in maniera lungimirante e non populista?

La tutela della sicurezza e della legalità è conciliabile con le dimensioni e le caratteristiche del flusso immigratorio che attualmente interessa il continente europeo?

È probabile che sicurezza e legalità, in equa e armonica simbiosi, non possano essere raggiunte pienamente in nessuna società. Si constata, infatti, che nelle "società aperte", come quelle dei Paesi democratici, caratterizzate dall'economia di mercato e dal libero movimento di alcune categorie di persone, è quasi impossibile non correre rischi. D'altra parte, un eccessivo apparato di sicurezza rallenta la mobilità e gli scambi necessari ai sistemi economici e, ciò che maggiormente conta, lede la libertà di cui i cittadini sono legittimamente gelosi.
Nello specifico ambito migratorio, legalità e sicurezza possono essere favorite da politiche lungimiranti, che si basano sulla conoscenza approfondita e oggettiva del fenomeno a livello internazionale e cercano di gestirlo tenendo in dovuta considerazione i suoi differenti aspetti, senza sottovalutare le conseguenze delle scelte politiche. Per fare qualche esempio, possiamo senz'altro accertare che un'eccessiva chiusura delle frontiere determina l'aumento dell'immigrazione irregolare e alimenta le organizzazioni malavitose che trafficano esseri umani; poi, il mancato investimento in progetti di inserimento dei figli degli immigrati nell'area della formazione crea insuccesso e abbandono scolastico, alimentando il disagio giovanile e la conseguente criminalità o devianza; ancora, l'insufficiente attenzione alla situazione abitativa di immigrati e cittadini autoctoni più poveri favorisce la crescita di ghetti e di aree socialmente degradate; infine, le paure dei cittadini possono essere alimentate o sottaciute da chi amministra la cosa pubblica e da chi gestisce i canali dell'informazione, anche in risposta a propri interessi. Tutto ciò non può essere ingenuamente ignorato e deve essere affrontato con oggettività, per non rischiare di creare reazioni xenofobe e razziste.
A ogni buon conto, sicurezza e legalità si raggiungono solo con il positivo apporto di tutti, anche degli immigrati. Allo stesso tempo, sia gli immigrati che gli autoctoni devono poter vivere sicuri e rapportarsi in egual misura alle leggi del Paese in cui vivono.

Le paure che si diffondono tra la gente nei confronti degli immigrati sono gestibili attraverso appositi provvedimenti politici e legislativi oppure è necessario coinvolgere anche le istanze culturali, educative e sociali?

Senza dubbio non bastano le leggi per favorire la crescita di una società integrata, in cui le varie componenti convivano pacificamente e mutuamente si arricchiscano. Tutte le istanze culturali ed educative devono essere coinvolte in un processo che è epocale e riguarda tutti gli ambiti di vita. L'Europa presenta già un volto multietnico, multireligioso e multiculturale, ma ancor più manifesterà tali caratteristiche nel futuro, in un dinamismo che investirà anche le rimanenti aree del pianeta. Questo dato attualmente non può essere messo in discussione. Negare la metamorfosi che sta avvenendo a livello internazionale non solo è un'assurdità - smentita comunque dalla realtà dei fatti - ma è anche una scelta pericolosa e irresponsabile, perché non accetta di gestire un fenomeno che ha già assunto tratti strutturali e globali, cercando di favorirne gli aspetti positivi e di ridurre quelli negativi. È necessario, quindi, offrire adeguati percorsi di formazione alle nuove generazioni, in modo particolare, ma anche a tutta la popolazione - sia autoctoni che immigrati - per prepararsi alla convivenza con le diversità. Certamente in questo processo i Governi devono essere in prima linea, soprattutto legiferando e adottando opportuni provvedimenti per dare impulso in misura corretta ed equilibrata a tale cammino di apprendimento.

La sfida che gli immigrati pongono alle comunità si gioca anche a livello ecclesiale oltre che sociale. Non vi è il rischio di perdere l'identità cristiana di fronte a consistenti afflussi di rifugiati appartenenti ad altre religioni? 

Il rischio potrebbe essere reale, quantunque io sia convinto che l'arrivo di migranti e rifugiati appartenenti ad altre religioni sia uno stimolo più che una minaccia per l'identità cristiana. In effetti, essi arricchirebbero se stessi e il nuovo ambiente se si trovassero a confronto con una diversa identità religiosa davvero solida e coerente. A mettere in pericolo l'identità cristiana è piuttosto il processo di avanzata secolarizzazione, che talora sta degenerando in secolarismo intollerante e, nel vecchio continente, sta ormai facendo perdere le radici cristiane dell'Europa, negate in sede istituzionale e in alcuni ambiti della società. Di fatto, mediante il laicismo e il relativismo, l'Europa sta costruendo una comunità senza Dio e ciò non è solo un ostacolo alla sua identità, ma è anche un impedimento alle politiche di integrazione. Se fossimo coraggiosi testimoni del Vangelo, forse un numero maggiore di migranti e di rifugiati, in ricerca e in fuga da realtà oppressive, anche sul piano religioso, sarebbe affascinato dalla fede cristiana o, quanto meno, essa sarebbe apprezzata per il suo contributo nell'ambito culturale, storico e artistico. Mi pare, invece, che il cristianesimo in Europa sia guardato con sospetto da migranti e rifugiati non cristiani allorquando si lascia identificare con uno stile di vita che lo contraddice e con la mancanza di genuina religiosità da parte degli autoctoni.
Talvolta, poi, si paventa l'espansione demografica dei non cristiani in Europa. Ma anche in questo caso dovremmo chiederci perché non siamo in grado di equilibrare il dinamismo demografico e, soprattutto, di trasmettere la fede cristiana alle nostre nuove generazioni, che, per quanto in calo, sono ancora numericamente in maggioranza.

Sul terreno del rispetto dei diritti e della dignità  della  persona,  crede  che  le Chiese siano adeguatamente impegnate nel sollecitare le coscienze dei fedeli e della società?

Le Chiese locali sono molto impegnate a sensibilizzare cittadini e società al rispetto dei diritti e della dignità della persona umana, a seconda dei vari contesti nazionali in cui si trovano. Talora, in verità, esse corrono il rischio di limitarsi all'annuncio dei principi fondamentali o alla risposta immediata alle emergenze umanitarie, forse senza tenere sufficientemente in conto che è necessaria anche un'adeguata formazione ed educazione cristiana, soprattutto delle giovani generazioni. Infatti, accanto agli interventi sociali e alle opere caritative, è importante investire molto anche nella formazione dei cristiani, affinché possano comprendere a fondo e applicare negli ambiti della società il rispetto dei diritti e della dignità della persona. Infine, per quanto riguarda i migranti, è urgente superare il tono assistenzialista, che prevale talvolta nelle prese di posizione di chi vede nel migrante soltanto il povero disgraziato, mentre anch'egli è portatore di diritti e di doveri. Così come è indispensabile operare una corretta sensibilizzazione dei media perché offrano un'informazione obiettiva e realistica.

Quali sono le prossime iniziative e gli appuntamenti che ha in programma il Pontificio Consiglio?

I migranti non hanno pausa e anche durante il periodo estivo il Pontificio Consiglio, sebbene a ritmo meno serrato, ha continuato senza interruzioni la sua attività di promozione della pastorale specifica della Chiesa nel mondo della mobilità umana. Ora, comunque, ci prepariamo a importanti appuntamenti, che ci porteranno in varie parti del mondo. Dopo il terzo incontro nazionale di pastorale della mobilità umana, che si è svolto a Brasilia, dal 16 al 18 settembre, celebreremo, nella sede del nostro Pontificio Consiglio, il primo incontro europeo per la pastorale della strada, dal 29 settembre al 2 ottobre. Nei giorni 27 e 28 novembre, a Bhopal, in India, parteciperemo alla conferenza nazionale per la pastorale dei nomadi nel continente indiano, mentre sempre nella sede del dicastero organizzeremo l'incontro dei direttori nazionali della pastorale per i circensi e i fieranti, l'11 e 12 dicembre. Nel frattempo, offriremo il nostro contributo a diversi incontri dell'apostolato del mare in Finlandia, Australia, India, Oceania, Giappone e Corea. Ma l'evento più significativo sarà senza dubbio il vi congresso mondiale per la pastorale dei migranti e dei rifugiati, che si svolgerà in Vaticano dal 9 al 12 novembre. È un appuntamento quinquennale di verifica, studio e progettazione, che convocherà oltre trecento esperti e operatori internazionali della pastorale dei migranti e dei rifugiati sul tema "Una risposta al fenomeno migratorio nell'era della globalizzazione".


(©L'Osservatore Romano - 25 settembre 2009)
Cattolico_Romano
00sabato 26 settembre 2009 21:26
Da martedì a Roma su iniziativa del dicastero vaticano per i migranti e gli itineranti

Il primo incontro europeo di pastorale della strada


Esplorare nuove forme di promozione della dignità della persona umana che vive on the road; sensibilizzare ed educare gli automobilisti a una guida sicura:  sono alcuni degli obiettivi che si propone il primo incontro europeo di pastorale della strada, in programma a Roma dal 29 settembre al 2 ottobre prossimi nella sede del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti.

L'iniziativa - informa un comunicato del dicastero organizzatore - segue quella per l'America Latina svoltasi nell'ottobre 2008 a Bogotá, in Colombia. Il tema è tratto dal racconto dei due discepoli di Emmaus:  "Gesù in persona si accostò e camminava con loro (Luca, 24, 15). Pastorale della strada:  un cammino insieme", e nelle quattro giornate dei lavori, vescovi, sacerdoti, religiosi, membri di associazioni di apostolato e volontari si confronteranno a livello continentale sulle sfide poste alla Chiesa dagli utenti della strada - automobilisti e camionisti - e della ferrovia, dai ragazzi e dalle donne di strada, e dai senza fissa dimora, al fine di promuovere un'"etica della strada" degna e cristiana. Questo tipo di pastorale, del resto, abbraccia un'ampia categoria di persone che hanno stili di vita fuori dagli schemi abituali e non sono raggiungibili dall'ordinaria cura parrocchiale.

L'incontro di Palazzo San Calisto intende esprimere la sollecitudine del Pontificio Consiglio guidato dall'arcivescovo Antonio Maria Vegliò per questo tipo specifico di pastorale. Un'attenzione rinata nel 2003, in occasione del raduno europeo dei direttori nazionali, seguito da un secondo incontro tenutosi tre anni dopo. Nel contempo si è svolta una serie di riunioni internazionali sui vari aspetti di questa preoccupazione pastorale:  per i ragazzi di strada nel 2004, per la liberazione delle donne di strada nel 2005 e per la cura dei senza fissa dimora nel 2007, anno in cui sono stati pubblicati gli "Orientamenti per la pastorale della strada". Al momento della sua divulgazione il documento ebbe una vasta eco nei mezzi di comunicazione, poiché contiene anche una sorta di "decalogo" dell'automobilista, in analogia con i Comandamenti del Signore. Tra questi:  cortesia, correttezza e prudenza; l'automobile non sia espressione di potere; sostieni le famiglie delle vittime di incidenti; fa' incontrare la vittima e l'automobilista aggressore affinché possano vivere l'esperienza liberatrice del perdono. La struttura degli Orientamenti del 2007 costituisce la base delle tavole rotonde e dei gruppi di studio che animeranno l'incontro della settimana prossima.

Nel comunicato reso noto venerdì 25 settembre, il Pontificio Consiglio riporta anche alcuni dati sulla realtà della  mobilità umana nel vecchio Continente, caratterizzato da una serie di necessità e problemi particolari che richiedono attenzione e valutazione costanti e specifiche. Per questo nell'Unione europea sono già in atto importanti iniziative per l'applicazione di strumenti legali, a cui va aggiunto il lavoro di numerose Ong, organizzazioni caritative e programmi civili ed ecclesiali che si prendono cura di tante difficili situazioni.

L'esame dei quattro ambiti di attenzione pastorale nel corso dei lavori contribuirà a far luce non solo sull'ampiezza del compito ma anche sulla necessità di risposte urgenti.

Il primo, dunque, riguarderà gli utenti della strada - automobilisti, camionisti e quanti sono al loro servizio - e della ferrovia. Dal primo incidente mortale, avvenuto nel 1896, a oggi la strada ha mietuto trenta milioni di vite umane. Le ultime statistiche indicano che negli incidenti restano coinvolti ogni giorno tremila adulti e cinquecento bambini, mentre ogni anno i morti sono 1,2 milioni e i feriti cinquanta milioni. Benché oltre l'85 per cento di questi infortuni avvenga nei Paesi a basso e medio reddito, nel corso del 2008 nei Paesi europei sono morte 43.000 persone in incidenti stradali, mentre quasi due milioni sono rimaste ferite, anche in modo grave. Va infine ricordato che solo il 16 per cento di queste morti in Europa sono attribuibili ai camionisti. Di contro nel continente il 44 per cento dei beni viaggia su strada, con un numero di autoarticolati che, entro il 2010, avrà avuto un aumento pari al 50 per cento rispetto al 1988.

Il secondo ambito riguarderà la pastorale delle donne di strada, che pone la Chiesa di fronte a una rete complessa di atteggiamenti culturali e sociali connessi al modus operandi della stessa industria legata al crimine e al traffico di esseri umani. La risposta pastorale in Europa si trova di fronte a tre modelli legislativi riguardanti il fenomeno della prostituzione:  il proibizionismo, il regolamentarismo e l'abolizionismo. Dopo la caduta del sistema sovietico, in molti Paesi dell'Europa centrale e orientale la prostituzione ha conosciuto un vero e proprio boom. In particolare il trafficking è diventato un problema grave in tutto il Continente. Ogni anno, infatti, un numero sempre più elevato di persone, per la maggior parte donne e bambini, sono vittime del traffico a scopo sessuale. Questo fenomeno ha raggiunto livelli senza precedenti, tanto da essere considerato una nuova forma di schiavitù. Poiché ogni Paese e regione presenta questioni e problemi specifici legati alla sua ubicazione, chiaramente influenzati dal contesto socio-economico, ciò rende necessario il ricorso a metodi specifici, centrati sulle necessità continentali, nazionali e locali. Occorre anche sviluppare una rete a livello globale e regionale al fine di stimolare il sostegno reciproco e lo scambio di informazioni per quanti partecipano a questo ministero pastorale.

Terzo ambito:  i ragazzi di strada. Oggi non c'è città europea in cui non siano presenti, anche se sono spesso visibili. Il problema è globale e in ascesa e ha origine dalla povertà e da ciò che ne consegue:  migrazione, disgregazione delle famiglie, abusi, abbandoni, incuria. Benché manchino dati concreti su questi ragazzi, è presumibile che il loro numero si aggiri tra i 150.000 e 250.000. Un programma europeo di ampia portata che veda coinvolti gli Stati membri dell'Ue e i network europei delle Ong potrebbe contribuire, assieme alle iniziative ecclesiali, a risolvere il problema in maniera "sostenibile". Secondo una valutazione prudente ci sarebbero annualmente 1,2 milioni di bambini oggetto di traffico a scopo di lavoro o di sfruttamento sessuale.

Infine, l'ambito dei senza fissa dimora:  universo complesso, fatto di persone, itinerari e situazioni molto diversi tra loro. Si stima che ci siano attualmente oltre un miliardo di senza tetto nel mondo. Migrazioni interne e internazionali, povertà, disgregazione familiare, malattie mentali e dipendenza sono solo alcune delle cause che portano le persone a vivere sulla strada.

Per molti ciò significa la perdita non solo di un tetto, ma del luogo che dà dignità, sicurezza e salute. In Europa i Paesi differiscono largamente nella risposta a questi problemi, nella raccolta di dati e nelle legislazioni. Poiché la definizione esatta di homelessness non è delineata chiaramente e può includere il dormire all'aperto o in speciali ricoveri, una sistemazione temporanea o dopo il soggiorno in istituti penali o medici ecc., le cifre esatte del fenomeno non sono facili da accertare. Si ritiene che circa tre milioni di persone abitino on the road, su un totale di 460 milioni di abitanti, il che equivale a un individuo ogni 153.
La cura pastorale per quanti hanno fatto della strada la propria dimora, necessita di una varietà di risposte sostenute da una maggiore comprensione del significato esatto della stessa homelessness, mancanza di fissa dimora.

L'incontro di Palazzo San Calisto testimonia ancora una volta l'esistenza e la varietà di una risposta ecclesiale nei riguardi dei più poveri. In linea con gli "Orientamenti per la pastorale della strada", esso mira a considerare la risposta della Chiesa alle necessità del mondo della mobilità umana e a identificare nuove strategie di evangelizzazione. Da parte sua il Pontificio Consiglio ritiene di poter ampliare in tal modo la comprensione di questa pastorale, per offrire aiuto e incoraggiamento a quanti sono impegnati in questo apostolato, attraverso le Conferenze episcopali e le loro commissioni nazionali per la mobilità umana.


(©L'Osservatore Romano - 27 settembre 2009)
S_Daniele
00mercoledì 7 ottobre 2009 11:16
Mons. Marchetto: sulla terra c'è spazio per tutti

Il Segretario del dicastero per i migranti riflette sulla “Caritas in Veritate”



di Roberta Sciamplicotti


VICENZA, martedì, 6 ottobre 2009 (ZENIT.org).-
 
Sulla terra c'è spazio per tutti; per questo, il fenomeno delle migrazioni non deve allarmare, ma far scoprire la ricchezza che qualsiasi uomo o donna può apportare a una società.

Lo ha sottolineato l’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo questo lunedì a Vicenza sul tema “L'Enciclica Caritas in Veritate e la pastorale per i migranti” in occasione dell’Incontro promosso dalla Fondazione Migrantes diocesana.

Nell'Enciclica, ha ricordato, il Papa si riferisce alle cause che inducono milioni di uomini e donne ad emigrare, come l’“estrema insicurezza di vita, che è conseguenza della carenza di alimentazione”, la questione dell’acqua, dell’agricoltura, dell’ambiente, dell’energia, la ricerca di un lavoro degno.Un'altra causa di migrazione è la globalizzazione, che ha “grandemente contribuito a far uscire intere regioni dal sottosviluppo”, ma come ha scritto il Papa può anche “concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana”.

La società sempre più globalizzata, infatti, avvicina ma non rende fratelli. Per questo, ha spiegato l'Arcivescovo, è “necessario che questa maggiore vicinanza tra le persone, oggi, si trasformi in vera comunione, se si vuole arrivare all’autentico sviluppo dei popoli”, che dipende soprattutto dal riconoscere di essere una sola famiglia.

Come ha affermato il Pontefice (n. 50), “c’è spazio per tutti, su questa nostra terra: su di essa l’intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l’aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l’impegno del proprio lavoro e della propria inventiva”.

Le migrazioni, causa o effetto dello sviluppo?

Il rapporto tra migrazioni e sviluppo, ha riconosciuto monsignor Marchetto, è “assai complesso” perché “non è lineare il rapporto causa-effetto tra i due termini del binomio”.

Se da un lato, ha infatti spiegato, “si ritiene che la mancanza di sviluppo nella terra d’origine generi emigrazione, perché ivi è difficile assicurare una vita degna, o addirittura soddisfare alle fondamentali necessità di sopravvivenza, per sé e per la propria famiglia”, dall'altro “l’emigrazione stessa può anche generare una mancanza di sviluppo, reso assai difficile se si priva il Paese originario delle migliori risorse umane atte a dare un contributo significativo alla produzione locale e ai processi ad essa connessi”.

Il presule ha quindi ricordato le diverse situazioni dei migranti, molti dei quali sono “altamente qualificati e competenti”, situazione che provoca nei Paesi meno sviluppati” il cosiddetto “brain drain”, o fuga di cervelli.

Tale contesto è particolarmente problematico se si parla dei lavoratori del settore sanitario, “eppure sarebbe un violare i loro diritti umani e la loro libertà di movimento se si attuassero provvedimenti che togliessero loro la possibilità di decidere liberamente se partire o meno”.

Accanto a questo tipo di emigrazione, ce ne sono altri “più numerosi e anche più dolorosi”, perché “non si tratta del caso di persone in fondo privilegiate, ricercate da datori di lavoro che necessitano di conoscenze e capacità professionali o tecnologiche non facilmente reperibile in loco”.

Anche questi altri tipi di migranti, ad ogni modo, sono necessari perché “sono pronti a svolgere mansioni che i locali non vogliono più eseguire”. “E che dire di coloro che sono fuggiti dalla terra natia a causa di guerre, violenze, o persecuzioni per motivi politici, etnici, religiosi o per le loro convinzioni? O di chi si è allontanato da catastrofi ambientali naturali o provocate dall’uomo?”, ha chiesto.

Integrazione o assimilazione?

Vivere in una società diversa dalla propria rappresenta “una vera sfida per l’immigrato”, che si trova davanti alle difficoltà materiali quotidiane e a una “questione scottante, che potrebbe anche disorientare: l’integrazione”.

“Quando si parla di integrazione significa che l’immigrato deve adattarsi al modello di vita locale, fino a diventare una copia dell’autoctono, trascurando le proprie legittime radici culturali?”, ha domandato monsignor Marchetto, sottolineando che se così fosse “verrebbe assimilato e non integrato”.L'assimilazione, constata, rappresenta un impoverimento anche delle società d’accoglienza, “perché il contributo culturale e umano dell’immigrato alla società che lo ospita è in tal modo minimizzato se non annullato”.

Se i migranti devono “senz’altro” compiere “i passi necessari per essere inclusi socialmente nel luogo di destino”, questo processo deve tuttavia “rispettare l’eredità culturale che ognuno porta con sé”.

L’integrazione, ha concluso monsignor Marchetto, non è ad ogni modo “una strada a senso unico, non è cammino da percorrere solo dall’immigrato, ma anche dalla società di arrivo, che, a contatto con lui, scopre la sua 'ricchezza', cogliendone i valori della cultura”.

Entrambe le parti devono dunque essere disposte a impegnarsi, “giacché motore dell’integrazione è il dialogo, e ciò presuppone un rapporto reciproco”.Solo in questo modo, come ha ricordato il Papa nella sua Enciclica, si potrà “dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio”.
S_Daniele
00lunedì 26 ottobre 2009 13:07
L’Enciclica “Caritas in veritate” e la pastorale per i migranti

VICENZA, sabato, 24 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 5 ottobre scorso dall’Arcivescovo Agostino Marchetto, Segretario del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, intervenendo a Vicenza a un incontro promosso dalla Fondazione Migrantes diocesana.


 * * *

I. Introduzione

Vi sono grato per l’invito ad aprire il Vostro programma pastorale 2009-2010.

La Caritas in Veritate1, oggetto della nostra attenzione stasera sotto il particolare angolo di visuale che è la pastorale per i migranti, è nella linea delle grandi encicliche che costituiscono la dottrina sociale della Chiesa, dalla Rerum Novarum alla Populorum Progressio, dalla Sollecitudo Rei Socialis alla Centesimus Annus, per citarne alcune. Essa tratta dello “sviluppo umano integrale”, ma – è sua specificità – alla luce della “carità nella verità”, ritenuta “la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (N. 1). Non ignorando certo il contesto sociale e culturale in cui viviamo, che tende a “relativizzare il vero”, ugualmente il Papa afferma che “l'adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo umano integrale” (N. 4). Fra di essi, la carità, se separata dalla verità, sarà “relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni” e “esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata universale” (ib.).

Così dopo l’inizio folgorante del documento, per noi una vera e propria teologia pastorale con base nella carità e verità, di cui riprenderemo qualche linea fondamentale, presenteremo qui alcuni tratti dell’enciclica che hanno relazione con la pastorale specifica della mobilità umana, prima e dopo il N. 62 del documento, il quale tratta direttamente del macrofenomeno delle migrazioni (e sul quale sosteremo più a lungo).

In effetti il nostro Pontificio Consiglio si occupa di ben nove Settori di pastorale della mobilità, quella migratoria (interna a un Paese e internazionale, di tipo economico e forzata – rifugiati, richiedenti asilo, profughi, soggetti al traffico di esseri umani, lavoratori forzati, apolidi, ragazzi soldato, ecc. –, e riferentesi agli studenti esteri) e quella itinerante, che comprende altresì i turisti internazionali, assieme ai pellegrini, oltre a nomadi, zingari, circensi, lunaparkisti, pescatori, marinai e croceristi, viaggiatori e lavoratori dell’aeronautica civile e infine automobilisti e autotrasportatori, ragazzi e donne di strada e persone senza fissa dimora. Queste ultime quattro categorie sono articolate nel Settore “Apostolato – o Pastorale – della strada”.

II. Visione generale dell’enciclica in rapporto alle migrazioni

L’inizio del documento è un nuovo inno alla carità, in linea con quello di S. Paolo (I Cor, 13), in binomio con la verità, basato in Gesù Cristo, morto e risorto, “forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (N. 1). “In Cristo, la carità nella verità diventa il “Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto” (ib.), e fra di essi ci sono anche i migranti.

Per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa, come appare dall’enciclica, la carità è la sua via maestra (cfr. N. 2), alla cui dinamica, ricevuta e donata, risponde la stessa dottrina (cfr. N. 5); la carità poi è “amore ricevuto e donato. Essa è grazia” (ib.).

Vi è qui una conseguenza, per Benedetto XVI, che desidero richiamare, sempre in prospettiva pastorale, e cioè che “Per [lo] stretto collegamento con la verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica” (N. 3). “La verità, infatti, è ‘logos’ che creadia-logos’ e quindi comunicazione e comunione” (N. 4).

Trovasi ivi la radice di quell’umanesimo cristiano (N. 78), che è molte volte auspicato nel testo dell’enciclica e che risulta una delle sue caratteristiche espressioni (v. “un umanesimo nuovo”: N. 19, “un vero umanesimo integrale”: N. 78, “un umanesimo trascendente”: N. 18, “un umanesimo aperto all’Assoluto”: N. 78, che si manifesta pure nella “civiltà dell’amore”: N. 33, la quale deve puntare anche alla “civilizzazione dell’economia”: N. 38).

1. Due criteri orientativi: la giustizia e il bene comune

Caritas in veritate è principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa (N. 6), con due criteri orientativi, in particolare, dettati in special modo dall’impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione: la giustizia e il bene comune (v. N. 7, 36, 78). Lo sono per noi, espressamente, per una delle manifestazioni della globalizzazione che richiama allo sviluppo umano integrale, e cioè il macrofenomeno delle migrazioni. Sottolineo qui in modo speciale il bene comune, poiché continuamente abbiamo proposto quattro principi per il regolamento legittimo dei flussi migratori da parte dei Governi, e cioè :Il loro impegno a far sì che non sia necessario a chi vive in Paesi poveri il dover emigrare per vivere conformemente alla propria dignità umana (diritto a non emigrare);

quello a emigrare;

il diritto delle pubbliche autorità nazionali a regolare i flussi migratori (con rispetto dei diritti umani fondamentali dei migranti e della distinzione, nei loro flussi misti, fra quelli “economici” e i rifugiati e richiedenti asilo ), tenendo presente il bene comune della nazione;

ma nel contesto del bene comune universale (v. N. 7; cfr. pure la bella parte finale del N. 34 e l’affermazione che “i poveri non sono da considerarsi un ‘fardello’, bensì una risorsa anche dal punto di vista strettamente economico”: N. 35. In ogni caso “ogni lavoratore è un creatore”: N. 41).

2. Continuità di Magistero

Occorre sottolineare che le novità presentate dall’attuale enciclica sono in continuità con il Magistero sociale dei precedenti Pontefici, sia dopo che prima del Concilio Vaticano II, e dello stesso Sinodo ecumenico. Infatti “non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale. Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta. La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono.
Ciò salvaguarda il carattere sia permanente che storico di questo «patrimonio» dottrinale che, con le sue specifiche caratteristiche, fa parte della Tradizione sempre vitale della Chiesa” (N. 12).

Ci sia permesso a questo punto, richiamare l’attenzione sulla rilettura, nel documento in parola, della Populorum Progressio, che il Santo Padre fa nel capitolo primo di questa nuova enciclica, all’inizio programmata proprio per il quarantesimo di pubblicazione, prendendovi egli lo spunto anche per ribadire l’importanza del Concilio Ecumenico Vaticano II, il fecondo rapporto della Populorum Progressio con tale Concilio e, in particolare, con la Costituzione pastorale Gaudium et Spes (N. 11). Il Papa sottolinea che detta enciclica, “non rappresenta una cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale Magistero nella continuità della vita della Chiesa” (N. 12). È evidente qui il riecheggiare del discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, sulla corretta ermeneutica conciliare.2

L’insegnamento conciliare è poi legato al discernimento dei segni dei tempi (cfr. N. 18), tra i quali certamente è da considerare la mobilità umana3, e cioè sia la migrazione che il turismo, nel contesto dell’autentico sviluppo, il quale “deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo” (18), pure di chi è migrante, dunque, sia sul piano naturale che soprannaturale (cfr. ib.).

3. Solidarietà e reciprocità

A questo punto varrà ricordare il costante richiamo alla solidarietà, nella nuova enciclica, (v. N. 19, 25, 27s., 35s., 38s., 41, 43 e 59: “solidarietà universale”; N. 44, 47: “solidarietà della presenza, dell’accompagnamento, della formazione e del rispetto”; N. 49s., 53s., 60: “solidarietà sociale”; N. 73: “sviluppo solidale dei popoli”; N. 76: “nuove solidarietà”) e alla reciprocità (N. 36, 38, 57). Per entrambi questi argomenti, con applicazione ai migranti, rimando alla nostra Istruzione Erga migrantes caritas Christi (d’ora in poi EMCC).4

Particolare taglio ivi ha il “principio della reciprocità” (EMCC, N. 64).

In ogni caso, già al N. 21 della presente enciclica, il Papa parla degli “imponenti flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti”, con rimando, al N. 25, al “grave pericolo per i diritti dei lavoratori, per i diritti fondamentali dell’uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali forme dello Stato sociale”.

4. La dimensione culturale dello sviluppo

Proseguendo l’analisi, sempre tenendo in considerazione la nostra prospettiva, di particolare valore e interesse risulta l’elemento culturale dello sviluppo, che per noi significa dialogo interculturale, portato anche da migrazioni e turismo5.

Nel capitolo II il Papa dichiara così che il “mondo ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore” (N. 21).

Sull’elemento cultura, come causa dello sviluppo, Benedetto XVI si sofferma in alcuni numeri dell’enciclica (N. 22, 25). Nel N. 26, poi, specialmente, dà attenzione “all’intima consapevolezza della specifica identità dei vari interlocutori” e al duplice pericolo della “mercificazione degli scambi culturali”: eclettismo–relativismo e appiattimento culturale. “Così le culture non sanno più trovare la loro misura in una natura che le trascende, finendo a ridurre l’uomo a solo dato culturale” (N. 26).

Siamo nel mezzo, dunque, di una “crisi culturale e morale dell’uomo” (ib.), che va superata in un impegno a “favorire un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria” (N. 42). “Ciò [il cogliere la globalizzazione in tutte le sue dimensioni] consentirà di vivere ed orientare la globalizzazione dell’umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione” (ib.).

Si potrebbe proporre, proprio in contesto culturale (“La creatura umana in quanto tale si realizza nelle relazioni interpersonali”: N. 53), la questione dell’identità personale e anche quella dei vari popoli (cfr. ib.), poiché “l’unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti, l’uno verso l’altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità” (ib., cfr. N. 54). Non è questa affermazione di particolare importanza nella integrazione, non assimilazione, degli immigrati? (V. N. 59, e indicazione della legge naturale: N. 59, 68 e 75.)

Il numero 55 riprende, con base nella rivelazione cristiana, il tema dell’unità del genere umano, che “presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale. Anche altre culture e altre religioni insegnano la fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande importanza per lo sviluppo umano integrale”.

A tale proposito ci sia permesso ricordare l’aspetto del dialogo interreligioso, che si dilata naturalmente per il fatto della presenza degli immigrati appartenenti ad altre Chiese, Comunità ecclesiali e Confessioni, di cui tratta l’Erga migrantes caritas Christi. Certo questo non fa dimenticare le contro testimonianze a cui si riferisce lo stesso N. 55 e il pericolo del sincretismo religioso, “fattore di dispersione e disimpegno”.

In effetti “la libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali” (N. 55). A tale proposito, nel documento, il Santo Padre lamenta la sua mancanza (N. 56), e noi ce ne facemmo umilmente, ma con forza, eco al pensare ai cristiani che non ne godono, specialmente in alcuni Paesi in cui gli immigrati sono centinaia di migliaia.6

Naturalmente tale libertà va inserita nel contesto dei diritti umani. In effetti “nel laicismo e nel fondamentalismo si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede … A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione” (N. 56, cfr. N. 74 e 75).

In ogni caso vi è necessità di “incentivare la collaborazione fraterna tra credenti e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace dell’umanità” (N. 57, cfr. Gaudium et Spes, N. 12), e anche tra credenti di altre religioni e gli uomini di buona volontà (cfr. N. 57).

Per quanto riguarda la vita, ancora in campo migratorio, vorremmo citare il N. 15 del documento, che si riferisce all’Humanae vitae, con richiamo ai “forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale”, e conferma, grazie pure ad Evangelii nuntiandi, che “per parte sua ha un rapporto molto intenso con lo sviluppo”. Da ciò il grande rilievo della dottrina sociale della Chiesa “come elemento essenziale di evangelizzazione”. Essa “è annuncio e testimonianza di fede. E’ strumento e luogo imprescindibile di educazione ad essa” (N. 15).

In tale contesto richiamiamo anche il N. 28, in cui ci si riferisce all’importanza del rispetto per la vita, con condanna delle “pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono la contraccezione e giungono a imporre anche l’aborto”, e ciò riguarda pure gli immigrati, fra i quali si diffonde questa piaga.

Il Santo Padre così attesta: “L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo … nel rispetto del diritto fondamentale di ogni popolo e di ogni persona alla vita” (ib., cfr. pure N. 51 sulla ecologia umana). Tutto questo è vincolato altresì alla “crescita demografica” e alla denatalità (cfr. N. 69, 74 e 75), trattata anche in tema di migrazioni, e ciò riguarda pure la famiglia migrante e la sua unità (cfr. N. 44).

5. Cause delle migrazioni

Non può qui mancare il riferimento di Benedetto XVI alle cause che inducono milioni di uomini e donne ad emigrare, come l’“estrema insicurezza di vita, che è conseguenza della carenza di alimentazione” (N. 27), la questione dell’acqua, dell’agricoltura (ib.), dell’ambiente (N. 48), e dell’energia (N. 49), naturalmente nella combinazione di diritti e doveri (v. N. 43), e con attenzione al nesso diretto tra “povertà e disoccupazione” e al “lavoro decente” (N. 63), che è diritto di tutti i lavoratori anche di quelli irregolari (v. N. 64 e “Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie”).

Da tener presente, comunque, è l’attestazione pontificia che “c’è spazio per tutti, su questa nostra terra: su di essa l’intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente, con l’aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l’impegno del proprio lavoro e della propria inventiva” (N. 50). In ogni caso bisognerà adottare “nuovi stili di vita” (N. 51), e ciò è strettamente connesso con l’educazione (v. N. 61), senza dimenticare la necessità di realizzare “un nuovo ordine economico-produttivo, socialmente responsabile e a misura d’uomo” (N. 41).

Altra causa di migrazione è la globalizzazione stessa, di cui il macrofenomeno della mobilità umana è espressione. Non possiamo qui naturalmente seguire lo sviluppo del pensiero pontificio sulla globalizzazione, con lettura approfondita specialmente dei numeri 42 (“un’umanità che diviene sempre più interconnessa”, con “possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto … Bisogna correggerne le disfunzioni … La globalizzazione è fenomeno multidimensionale e polivalente…”), 66 (“responsabilità sociale del consumatore”) e 67 (“riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale”).

Ci limitiamo dunque solo a rilevare l’importanza del governo della globalizzazione, che dev’essere di tipo sussidiario e poliarchico (N. 57), mentre si spezza una lancia a favore della presenza di una vera Autorità politica mondiale, fra l’altro “per regolamentare i flussi migratori” (N. 67).

III. Premessa e analisi del N. 62 della caritas in veritate

Passiamo ora all’analisi approfondita del N. 62 che tratta del rapporto fra sviluppo umano integrale e fenomeno migratorio, ma con qualche premessa.Quando nell’enciclica Populorum Progressio Paolo VI trattava di sviluppo aveva di esso una visione ben precisa e articolata, ripresa da Benedetto XVI: “Con il termine «sviluppo» [Paolo VI] voleva indicare l'obiettivo di far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall'analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace” (N. 21). Orbene, con ragione, dal cuore di Benedetto XVI sgorga ora una domanda: “Dopo tanti anni, mentre guardiamo con preoccupazione agli sviluppi e alle prospettive delle crisi che si susseguono in questi tempi, ci domandiamo quanto le aspettative di Paolo VI siano state soddisfatte dal modello di sviluppo che è stato adottato negli ultimi decenni” (ib.).

La situazione di crisi che il mondo sta attraversando è di fatto prova tangibile che lo sviluppo non può essere solo tecnologico e economico, che pur avendo “tolto dalla miseria miliardi di persone” e “dato a molti Paesi la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale”, continua comunque “ad essere gravato da distorsioni e drammatici problemi” (N. 21). Lo sviluppo deve rivestire “la totalità della persona in ogni sua dimensione” (N. 11), cosicché esso non diventi un obbiettivo in se stesso, ma un mezzo per la realizzazione della persona umana, “del destino stesso dell’uomo che non può prescindere dalla sua natura” (N. 21). In lui è “l’immagine divina” che lo porta a “scoprire veramente l’altro e a maturare un amore che ‘diventa cura dell’altro e per l’altro’” (N. 11). L’essere umano si sviluppa attraverso i suoi rapporti con gli altri e dunque lo sviluppo non può essere un fatto individuale ma necessariamente sociale. E’, “umanamente e cristianamente inteso, il cuore del messaggio sociale cristiano”, avendo “la carità cristiana come principale forza a [suo] servizio” (N. 13). E’ dunque destinato a contribuire all’edificazione di quella “civiltà animata dall’amore” prospettata da Paolo VI, “il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura” (N. 33).

Migrazioni internazionali

Questa premessa ci aiuta ad affrontare la questione delle migrazioni internazionali, effetto e causa dell’attuale processo di globalizzazione, cioè di quell’“esplosione dell’interdipendenza planetaria” già intravista da Paolo VI nella Populorum Progressio (N. 3). Di per sé si tratta di un fenomeno che ha grandemente contribuito a far uscire intere regioni dal sottosviluppo. La globalizzazione però “può [anche] concorrere a creare rischi di danni sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana” (N. 33). Difatti “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità”. E questa “mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli” si annovera fra le cause più importanti del sottosviluppo (N. 19). E’ dunque necessario che questa maggiore vicinanza tra le persone, oggi, si trasformi in vera comunione, se si vuole arrivare all’autentico sviluppo dei popoli. Di fatto esso “dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita da soggetti che non vivono semplicemente l'uno accanto all'altro” (N. 53).

2. Rapporto tra migrazioni e sviluppo

Il rapporto tra migrazioni e sviluppo è comunque assai complesso7, perché non è lineare il rapporto causa-effetto tra i due termini del binomio. Si ritiene che la mancanza di sviluppo nella terra d’origine generi emigrazione, perché ivi è difficile assicurare una vita degna, o addirittura soddisfare alle fondamentali necessità di sopravvivenza, per sé e per la propria famiglia. Eppure l’emigrazione stessa può anche generare una mancanza di sviluppo, reso assai difficile se si priva il Paese originario delle migliori risorse umane atte a dare un contributo significativo alla produzione locale e ai processi ad essa connessi.

In ogni caso siamo qui di fronte ad un “fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte, per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva, per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale” (N. 62). Si stima che dopo il 2010 ci sarà una media di 2,3 milioni di migranti l’anno dai Paesi in via di sviluppo (Africa, Asia escluso il Giappone, America Latina e Caraibi, Oceania escludendo l’Australia e la Nuova Zelanda) a quelli che lo hanno raggiunto (America del Nord, Australia, Europa, Giappone, Nuova Zelanda), assicurandovi in tal modo la non diminuzione di popolazione. Dal 1960, il numero di migranti verso le regioni più sviluppati fu in costante aumento, fino ad arrivare al valore massimo di una media di 3,3 milioni di persone l’anno tra il 2005 al 2008, per diminuire poi – è previsione – a 2,3 milioni l’anno fino al 2050. Si ritiene perciò che nei prossimi 40 anni ci sarà una grande richiesta, da parte dei Paesi sviluppati, di lavoratori provenienti da Paesi in via di sviluppo.8

3. Circa gli immigrati altamente qualificati

Comunque è già in atto in molti Paesi di destino una politica di captazione di lavoratori altamente qualificati e competenti provenienti da Paesi meno sviluppati, inclusi studenti universitari e post-universitari, con l’intento di incoraggiare questi ultimi a rimanere. Da qui la difficile questione del “brain drain”, o fuga di cervelli, chiamiamola così. Ma si argomenta che il fatto si verifica solo se è inequivocabilmente evidente che l’emigrazione ha avuto un impatto negativo sulla situazione socio-economica del Paese di origine. E’ il caso della crescente emigrazione di professionisti ed operatori nel settore della sanità. Eppure sarebbe un violare i loro diritti umani e la loro libertà di movimento se si attuassero provvedimenti che togliessero loro la possibilità di decidere liberamente se partire o meno. In ogni caso, l’effetto negativo dell’emigrazione qualificata si associa soprattutto al trasferimento permanente, perché se così non fosse, vi sarebbe opportunità, per chi rientra, di comunicare ai connazionali il “know-how” acquisito all’estero. Ci potrebbe essere altresì la possibilità di investire localmente i risparmi accumulati nel corso del lavoro svolto altrove. Da considerare infine le rimesse, una significativa fonte di reddito per molti Paesi in via di sviluppo. Il beneficio che i Paesi di origine ricaveranno dall’emigrazione dei loro cittadini dipenderà certamente dalla progettazione e applicazione concreta di politiche che ne ottimizzino i benefici e ne minimizzino i costi.9

4. Riguardo agli altri immigrati

Ci sono, comunque, altri tipi di emigrazione, più numerosi e anche più dolorosi, perché non si tratta del caso di persone in fondo privilegiate, ricercate da datori di lavoro che necessitano di conoscenze e capacità professionali o tecnologiche non facilmente reperibile in loco. Anche questi altri tipi di migranti sono necessari perché essi sono pronti a svolgere mansioni che i locali non vogliono più eseguire. Il Paese di arrivo è affollato dunque di immigrati i cui Paesi di provenienza non sono più in grado di assorbirli nel proprio mercato del lavoro, e che cercano migliori opportunità di vita, inseguendo magari un sogno che si scontrerà con dure realtà.

E che dire di coloro che sono fuggiti dalla terra natia a causa di guerre, violenze, o persecuzioni per motivi politici, etnici, religiosi o per le loro convinzioni? O di chi si è allontanato da catastrofi ambientali naturali o provocate dall’uomo?

“Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni che accompagna i flussi migratori” (N. 62), scrive Benedetto XVI. E purtroppo sofferenze e disagi non finiscono una volta varcato quel confine che nella mente dell’emigrato rappresenta l’inizio di una nuova vita; fortunatamente peraltro molte volte anche le aspirazioni perdurano. E per chi è cristiano dolori e aspirazioni possono essere occasioni che nutrono la speranza, “una potente risorsa sociale a servizio dello sviluppo umano integrale” (N. 34).

5. Integrazione, ma non assimilazione

Vivere in una società diversa dalla propria presenta una vera sfida per l’immigrato, che si trova davanti ad una questione scottante, che potrebbe anche disorientare: l’integrazione (cfr. sempre il N. 62).

Quando si parla di integrazione significa che l’immigrato deve adattarsi al modello di vita locale, fino a diventare una copia dell’autoctono, trascurando le proprie legittime radici culturali? In realtà, se così fosse, verrebbe assimilato e non integrato. I giovani immigrati – del resto – potrebbero essere forse più attratti immediatamente da questo tipo di “inserimento”, anche se non sempre.10 Il problema è che tale assimilazione rappresenta in fondo un impoverimento anche delle società d’accoglienza, perché il contributo culturale e umano dell’immigrato alla società che lo ospita è in tal modo minimizzato se non annullato. Senz’altro i migranti devono fare i passi necessari per essere inclusi socialmente nel luogo di destino, ma tale processo deve rispettare l’eredità culturale che ognuno porta con sé.11

All’estremo opposto, può accadere invece, che, trovandosi in un nuovo ambiente, l’immigrato prenda consapevolezza della propria identità, forse mai sperimentato prima con tale intensità. Così egli cerca compagnia e sicurezza tra coloro che provengono dalla medesima nazione e cultura. Se egli però non si apre alla realtà più vasta della società d’approdo, corre il pericolo di formare, insieme agli altri suoi simili, un ghetto, con relativa emarginazione.

Giovanni Paolo II, nel suo ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato (2005), ribadì la definizione utilizzata dall’EMCC, che non opta per l’integrazione come “assimilazione, che induce a sopprimere o a dimenticare la propria identità culturale. Il contatto con l’altro porta piuttosto a scoprirne il ‘segreto’, ad aprirsi a lui per accoglierne gli aspetti validi e contribuire così ad una maggior conoscenza di ciascuno. E’ un processo prolungato che mira a formare società e culture, rendendole sempre più riflesso dei multiformi doni di Dio agli uomini. Il migrante, in tale processo, è impegnato a compiere i passi necessari all’inclusione sociale, quali l’apprendimento della lingua nazionale e il proprio adeguamento alle leggi e alle esigenze del lavoro, così da evitare il crearsi di una differenziazione esasperata”.12

Occorre però ricordare che l’integrazione non è una strada a senso unico, non è cammino da percorrere solo dall’immigrato, ma anche dalla società di arrivo, che, a contatto con lui, scopre la sua “ricchezza”, cogliendone i valori della cultura.13 La vera integrazione quindi si realizza là dove l’interazione tra gli immigrati e la popolazione autoctona non si limita al solo campo economico-sociale, ma si attua in pienezza, comprendendo anche quello culturale. Ambedue le parti, comunque, devono essere disposte a farlo, giacché motore dell’integrazione è il dialogo, e ciò presuppone un rapporto reciproco.14

6. Ricaduta economica

E’ comunque interessante notare che il rapporto tra le culture ha la sua ricaduta anche in campo economico. Nell’enciclica stessa si ricorda che “l'appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica, se nel breve periodo può favorire l'ottenimento di profitti, nel lungo periodo ostacola l'arricchimento reciproco e le dinamiche collaborative”, in quanto “il lavoratore tende ad adattarsi passivamente ai meccanismi automatici, anziché liberare creatività” (N. 32). E lo sviluppo tecnologico è nato proprio “dalla creatività umana quale strumento della libertà della persona” (N. 70). Occorre tuttavia tener presente i pericoli che la tecnicizzazione (N. 48 e anche N. 32) e la tecnica stessa, con volto ambiguo (v. N. 69-71), rappresentano. La dottrina sociale della Chiesa ritiene comunque che “anche all'interno dell'attività economica e non soltanto fuori di essa” si possono vivere “rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità” (N. 36).

Tali rapporti facilitano il riconoscimento del “contributo significativo [che i lavoratori stranieri danno] allo sviluppo economico del Paese ospite con il loro lavoro”, mentre essi collaborano a “quello del Paese d’origine grazie alle rimesse finanziarie” (N. 62). Il lavoratore straniero è dunque “ponte” economico, ma non solo, tra i Paesi di origine e di arrivo. Il suo lavoro collega gli esseri umani, ma anche le nazioni, tra di loro, in un rapporto d’interdipendenza, fatto già noto al tempo dei Padri della Chiesa.15

Va comunque sottolineato che il lavoratore straniero è persona, “immagine di Dio”. Egli infatti è soggetto del lavoro e le varie azioni che egli compie, indipendentemente dal tipo di attività, devono portare alla realizzazione della sua umanità, all’adempimento della vocazione ad esser persona. Non è il genere di lavoro che si compie a determinare il suo valore, ma il fatto che chi lo attua è una persona.16 Quindi non si può considerare il lavoratore migrante “come una merce o una mera forza lavoro”, né trattarlo “come qualsiasi altro fattore di produzione”. Egli “possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione” (N. 62, cfr. EMCC, N. 5).

La ricerca di lavoro, che porta sempre più uomini e donne a varcare le frontiere delle loro nazioni, con o senza autorizzazione dei Paesi di arrivo, coinvolge praticamente tutti gli Stati nel fenomeno migratorio, come terra di origine, di transito e/o di destino. Pertanto il Papa può scrivere che “siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente affrontato” (N. 62). Tale politica esige “una stretta collaborazione tra i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano”, coadiuvata “da adeguate normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati” (ib.). Vale la pena qui ricordare che, a questo riguardo, un passo importante da compiere, da parte dei Governi che non l’hanno ancora fatto, è la ratifica della Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, adottata dall’Assemblea Generale della Nazioni Unite nella sua risoluzione 45/158 del 18 dicembre 1990, e entrata in vigore il 1 luglio 2003. Ne abbiamo già sopra accennato ed è richiesta sia di Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI.

7. Conclusione

Caritas in Veritate, ponendoci dinnanzi alle grandi sfide del nostro tempo, mette in guardia contro il rischio “che all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano” (N. 9). L’autentico sviluppo, infatti, proviene dalla “condivisione dei beni e delle risorse”, che “non è assicurata dal solo progresso tecnico e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà” (ib.). A questo proposito già anche l’EMCC sollevava la “questione etica … della ricerca di un nuovo ordine economico internazionale per una più equa distribuzione dei beni della terra, che contribuirebbe … a ridurre e moderare ì flussi … delle popolazioni in difficoltà”. Si riconobbe infatti che tale nuovo ordine richiede una nuova visione “della comunità mondiale, considerata come famiglia di popoli, a cui finalmente sono destinati i beni della terra, in una prospettiva del bene comune universale” (EMCC, N. 8).

In effetti, “nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del nostro tempo” (N. 62). Nella nostra “società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio” (N. 7). Sottolineamo “città senza barriere di Dio”.

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1 Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2009.
2 Cfr. Benedetto XVI, “Discorso alla Curia Romana in occasione della Presentazione degli Auguri Natalizi”, 22 dicembre 2005: L’Osservatore Romano, 23 dicembre 2005, pp. 4-6. V. anche Agostino Marchetto, Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, con edizione in lingua spagnola, dell’EDICEP, in attesa della prossima pubblicazione in lingua inglese e (parziale) in lingua russa.

3 Cfr. Benedetto XVI, “Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2006”: L’Osservatore Romano, 29 ottobre 2005, p. 4; Agostino Marchetto, “Le migrazioni: segno dei tempi”: La Sollecitudine della Chiesa verso i Migranti (Collana Quaderni Universitari del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti), Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005, pp. 28-40.

4 Cfr. Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, Erga Migrantes Caritas Christi, N. 6, 9, 11, 30, 33, 36, 39-43, 64, 79, 83, 96, 101-102: aas XCVI (2004) 765, 766-767, 768, 777-778, 779, 780, 783-785, 794, 800-801, 802, 809, 811.

5 Cfr. EMCC, N. 2, 9, 30, 34-36 e il nostro “Messaggio pastorale per la Giornata Mondiale del Turismo 2007”: People on the Move XXXIX, N. 104, agosto 2007, p. 251, e quello di quest’anno.

6 Cfr. People on the Move XXXVIII, N. 101 Suppl., agosto 2006: Atti della XVII Sessione Plenaria, 15-17 maggio 2006, su “Migrazione e Itineranza da e per i Paesi a maggioranza islamica”.

7 Ampiamente esaminato in occasione del I e del II Forum Mondiale su “Migrazione e Sviluppo”, rispettivamente a Bruxelles, dal 9 all’11 luglio 2007, e a Manila, dal 28 al 29 ottobre 2008. V. i miei “Interventi”, durante i due incontri, su People on the Move, rispettivamente Vol. XXXIX, N. 104, agosto 2007, pp. 309-310, e Vol. XL, N. 108, dicembre 2008, pp. 299-300.

8 Cfr. International Organization for Migration, World Migration Report 2008, Ginevra 2008, Textbook 1.5, pp. 36-38.

9 cfr. ib., pp. 61-64.

10 Cfr. Agostino Marchetto, “Integration of Young People with a Migration Background. Christian Motives and Contribution of the Churches”: People on the Move XL, N. 108, dicembre 2008, pp. 139-148.

11 Id., “Religion, Migration and National Identity”: People on the Move XLI, N. 109, aprile 2009, pp. 29-35.
12 Giovanni Paolo II, “Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2005”, N. 1: L’Osservatore Romano, 9-10 dicembre 2004, p. 4.

13 cfr. ib.

14 Cfr. Stefano Zamagni, “I Rifugiati dai Paesi a maggioranza islamica”, Atti della XVII Sessione Plenaria del nostro Pontificio Consiglio, 15-17 maggio 2006: People on the Move XXXVIII, N. 101 Suppl., agosto 2006, pp. 233-237.

15 Cfr. S. Giovanni Crisostomo affermava: “Se il fabbro non volesse servire alcuno, trarrebbe in rovina sé, i suoi e quelli che abbisognano del suo lavoro, e lo stesso dicasi del sarto, del contadino, del mugnaio, del maestro e così via” (in ep. I ad Cor., hom. 10,4: PG 61, 87).

16 Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Laborem Exercens, N. 6: AAS LXXIII (1981) 589-590.
S_Daniele
00giovedì 29 ottobre 2009 08:36
Sicurezza e immigrazione, due problemi distinti

Presentato a Roma il XIX Dossier Caritas/Migrantes sull'immigrazione

di Roberta Sciamplicotti

ROMA, mercoledì, 28 ottobre 2009 (ZENIT.org).-
 
E' stato presentato questo mercoledì a Roma il XIX Dossier statistico della Caritas e della Fondazione Migrantes, basato sul tema “Conoscenza e solidarietà” e che chiede un “pacchetto integrazione” per gli immigrati in Italia.

Secondo il rapporto, gli immigrati regolari sono ormai 4.329.000, il 7,2% della popolazione nazionale.

Padre Vittorio Nozza, direttore della Caritas Italiana, ha affermato intervenendo alla presentazione che “l’impressione è quella di trovarci di fronte ad una grande povertà culturale incapace di cogliere che gli immigrati per noi sono sì una ‘scomodità’. Ma una scomodità che fa crescere”.

A suo avviso, “sicurezza e immigrazione rimangono due problemi distinti”, e ciò che oggi ostacola “un autentico clima di pace e sicurezza sociale” è “l’eccessiva disuguaglianza nei diritti e doveri delle persone che vivono e lavorano insieme, piuttosto che il mancato riconoscimento delle relative identità culturali”.

“C’è bisogno di organizzarci in tanti a favore di tutti, a favore di una convivenza corresponsabile, partecipata, costruttiva, giusta, fraterna e solidale”, ha aggiunto.

Franco Pittau, coordinatore del Dossier, ha affermato dal canto suo che sono necessarie tre azioni: “inquadrare gli immigrati come regolari e non come clandestini; inquadrarli come lavoratori e non come delinquenti; inquadrarli come cittadini e non come stranieri”.

Se è vero che gli immigrati regolarmente residenti in Italia sono circa quattro milioni, ha spiegato, “è fuorviante continuare a inquadrare il fenomeno nell’ottica degli sbarchi irregolari, prendendo una parte per il tutto e dipingendo negativamente la situazione”.

In questo contesto, bisogna passare anche “dall’immagine dell’'immigrato criminale' a quella dell’'immigrato lavoratore'”.

A questo riguardo, Pittau ha sottolineato che gli stranieri hanno “un tasso di attività di 12 punti più elevato degli italiani”, “una maggiore esposizione al rischio” e “un maggior bisogno di tutela” “sia quando sono regolarmente assunti, sia ancor di più quando sono costretti a lavorare nel sommerso”.

Il coordinatore del Dossier ha quindi ricordato che la riflessione sull’immigrazione “resta incompleta se limitata all’utilità dei lavoratori immigrati e va estesa alla sua considerazione come nuovi cittadini”.

Contro questa realtà, ha osservato, ci si scontra spesso con due riserve, una di natura finanziaria e l’altra di natura culturale.

La prima consiste “nell’eccepire che accoglienza, inserimento, integrazione sono prospettive finanziariamente costose e gli immigrati non devono pesare ulteriormente sul bilancio dello Stato e degli Enti Locali”.

In realtà, secondo i dati gli immigrati incidono per il 7% sulla popolazione residente e per il 10% sulla creazione della ricchezza nazionale, e pagano almeno 4 miliardi di euro di tasse ma secondo la Banca d'Italia incidono solo per il 2,5% sulle spese per istruzione, pensione, sanità e sostegno al reddito.

La riserva di natura socio-culturale-religiosa “è più insidiosa”, e porta ad aver paura degli immigrati “perché si ritiene che essi inquinino la società con le diverse tradizioni culturali di cui sono portatori e contrastino l’attaccamento alla nostra religione”.

Le indagini sul campo attestano in realtà che “la maggior parte degli immigrati mostra apprezzamento per l’Italia” ed esprime “lo stesso apprezzamento anche per la comunità cattolica, che è stata fin dall’inizio al loro fianco per aiutarli a far valere le loro aspettative”.

Monsignor Bruno Schettino, Presidente della Commissione Episcopale Migrazioni e Migrantes, ha invece applicato nel suo discorso il classico metodo pastorale del discernimento, strutturato nelle tre fasi “Vedere – Giudicare – Agire”, intendendole come “prendere atto dell’immigrazione come nuovo segno della società”, “capire le ragioni della crescita dell’immigrazione” e promuovere un “pacchetto integrazione”, senza il quale “non c’è una vera politica migratoria”.Per il presule, la presenza immigrata è “funzionale allo sviluppo del Paese”, essendo “un puntello al nostro malandato andamento demografico e alle carenze del mercato occupazionale”.

Per questo, esorta alla creazione di un “pacchetto integrazione”, di “un’impostazione più equilibrata che non trascura gli aspetti relativi alla sicurezza ma li contempera con la necessità di considerare gli immigrati come nuovi cittadini portandoli a e essere soggetti attivi e partecipi nella società che li ha accolti”. Allo stesso modo, ha proposto “a tutte le persone di buona volontà” sei “piste di impegno”: “riconsiderare il fenomeno migratoria in una visione storico-antropologica sul futuro prossimo della nostra società italiana, sempre più multiculturale”, “rivedere i flussi migratori, superando, senza essere superficiali, i rallentamenti della burocrazia”, “dare maggiore risalto alla conoscenza della lingua italiana e delle tradizioni”, “pervenire al riconoscimento del diritto di cittadinanza”, “considerare maggiormente i motivi umanitari per concedere i permessi di soggiorno”, “ricreare una coscienza collettiva, nell’ambito di un processo educativo integrale, per superare le paure nei confronti delle nuove generazioni”.
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