In memoria di Paolo VI servo di Dio

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Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:12

PAOLO VI

ANGELUS DOMINI

Domenica, 6 agosto 1978

Diamo qui di seguito il testo del discorso, preparato per l’«Angelus», che Paolo VI non ha potuto pronunciare, come era suo desiderio, alla presenza dei pellegrini a Castel Gandolfo, a causa della malattia. Il Papa è entrato nella pace del Signore alle 21,40 di oggi, domenica 6 agosto, Trasfigurazione del Signore.
 

Fratelli e Figli carissimi!

La Trasfigurazione del Signore, ricordata dalla liturgia nell’odierna solennità, getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra. Sulla cima del Tabor, Cristo disvela per qualche istante lo splendore della sua divinità, e si manifesta ai testimoni prescelti quale realmente egli è, il Figlio di Dio, « l’irradiazione della gloria del Padre e l’impronta della sua sostanza» (Cfr. Hebr. 1, 3); ma fa vedere anche il trascendente destino della nostra natura umana, ch’egli ha assunto per salvarci, destinata anch’essa, perché redenta dal suo sacrificio d’amore irrevocabile, a partecipare alla pienezza della vita, alla «sorte dei santi nella luce» (Col. 1, 12). Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo «partecipi della natura divina» (2 Petr. 1, 4). Una sorte incomparabile ci attende, se avremo fatto onore alla nostra vocazione cristiana: se saremo vissuti nella logica consequenzialità di parole e di comportamento, che gli impegni del nostro battesimo ci impongono.

Il tempo corroborante delle vacanze sia a tutti propizio per riflettere più a fondo su queste stupende realtà della nostra fede. Ancora una volta auguriamo a voi tutti, qui presenti, e a quanti possono godere di una pausa ristoratrice in questo periodo di ferie, di trasformarle in occasione di maturazione spirituale.

Ma anche questa domenica non possiamo dimenticare quanti soffrono per le particolari condizioni in cui si trovano, né possono unirsi a chi invece gode il pur meritato riposo. Vogliamo dire: i disoccupati, che non riescono a provvedere alle crescenti necessità dei loro cari con un lavoro adeguato alla loro preparazione e capacità; gli affamati, la cui schiera aumenta giornalmente in proporzioni paurose; e tutti coloro, in generale, che stentano a trovare una sistemazione soddisfacente nella vita economica e sociale. Per tutte queste intenzioni si alzi fervorosa oggi la nostra preghiera mariana che stimoli altresì ciascuno di noi a propositi di fraterna solidarietà. Maria, Madre sollecita e premurosa, a tutti rivolga il suo sguardo e la sua protezione.

www.vatican.va

Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:14
 Inviato: 03/08/2008 19.19




















La Diocesi di Milano ricorda Paolo VI a 30 anni dalla morte

CITTA’ DEL VATICANO - L'arcivescovo di Milano, il Cardinale Dionigi Tettamanzi, commemorerà in questi giorni Papa Paolo VI, scomparso trent'anni fa. La Diocesi di Milano ricorderà Montini presso il Sacro Monte di Varese, il santuario mariano che l'allora Arcivescovo di Milano raggiunse ben 13 volte per pregare e raccogliersi in meditazione. Le celebrazioni del trentennale della morte di Paolo VI si apriranno sabato 2 agosto alle 16.45 con la Messa presieduta dall'arcivescovo Tettamanzi. Al termine della funzione, sul sagrato davanti al monumento dedicato a Paolo VI, seguirà la commemorazione, con l'intervento del Cardinale. Domenica 3 agosto, alle ore 11.00, sempre presso il santuario, il Cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i vescovi, presiederà la Santa Messa. Papa Paolo VI, già arcivescovo di Milano dal 1954 al 1963, morì nella serata di domenica 6 agosto 1978.


http://www.papanews.it/news.asp?IdNews=8754#a

Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:14

Il cardinale Tettamanzi ricorda "la sapienza umana ed evangelica" di Paolo VI

"E' indubbiamente molto bello ma anche estremamente impegnativo tentare di offrire, in breve tempo, una degna commemorazione di Paolo VI, a causa della stessa singolare ricchezza di cui è segnata la sua figura umana, sacerdotale, pastorale e spirituale". Con queste parole ieri pomeriggio l’arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, ha ricordato Papa Montini durante la Messa solenne celebrata sul Sacro Monte di Varese che ha aperto le commemorazioni nella diocesi del capoluogo lombardo. Il porporato ha rievocato il ''grande orizzonte ecclesiale nel quale si colloca il servizio papale di Paolo VI: l'orizzonte del Concilio Vaticano II, che egli con sapienza umana ed evangelica, e straordinario coraggio, ha concluso e accompagnato nel suo delicato e fecondo cammino applicativo". E ancora: ''In questo orizzonte, si situa tra l'altro una rinnovata attenzione alla parola di Dio come anima e forza della vita e della missione della Chiesa nella storia'' e ''ne è testimonianza la costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, Dei Verbum''. Il cardinale Tettamanzi, ordinato sacerdote dallo stesso Paolo VI, ha poi spiegato il grande valore affettivo che aveva il Monte Sacro di Varese per Papa Montini che qui spesso si recava a pregare quando era ancora arcivescovo di Milano.


www.radiovaticana.org

Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:16

Paolo VI
1963-1978

Les Prochaines assises (La società democratica) - Lettera - 2 luglio 1963
Salvete fratres - Allocuzione - 29 settembre 1963
Ecclesiam suam - Lettera Enciclica - 6 agosto 1964
Investigabiles divitias Christi - Lettera Apostolica - 6 febbraio 1965
Mense maio - Lettera Enciclica - 29 aprile 1965
Diserti interpretes - Lettera - 25 maggio 1965
All'assemblea generale dell'ONU - Discorso - 4 ottobre 1965
Mysterium fidei - Lettera Enciclica - 3 settembre 1965
Altissimi cantus - Motu proprio - 7 dicembre 1965
Christi Matri - Lettera Enciclica - 15 settembre 1966
Indulgentiarum doctrina - Costituzione Apostolica - 1 gennaio 1967
Populorum progressio - Lettera Enciclica - 26 marzo 1967
Signum magnum - Esortazione Apostolica - 13 maggio 1967
Sacerdotalis caelibatus - Lettera Enciclica - 24 giugno 1967
Humanae vitae - Lettera Enciclica - 25 luglio 1968
Laudis canticum - Costituzione Apostolica - 1 novembre 1970
Causas matrimoniales - Motu proprio - 28 marzo 1971
Octogesima adveniens - Lettera Apostolica - 14 marzo 1971
Evangelica testificatio - Esortazione Apostolica - 29 giugno 1971
Ad pascendum - Motu proprio - 15 agosto 1972
Testamento - 14 luglio 1973
Pensiero alla morte - 14 luglio 1973
Marialis cultus - Esortazione Apostolica - 2 febbraio 1974
Apostolorum limina - Lettera Apostolica - 23 maggio 1974
Paterna cum benevolentia - Esortazione Apostolica - 8 dicembre 1974
Gaudete in Domino - Esortazione Apostolica - 9 maggio 1975
Romano Pontifici eligendo - Costituzione Apostolica - 10 ottobre 1975
Evangelii nuntiandi - Esortazione Apostolica - 8 dicembre 1975

Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:17
 

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Paolo VI

La vita

Il 26 settembre 1897 Giovanni Battista Montini nasce a Concesio (Brescia) da Giorgio Montini, esponente di primo piano del cattolicesimo sociale e politico italiano di fine Ottocento, e da Giuditta Alghisi. Ordinato sacerdote il 29 maggio 1920, il giorno seguente celebra la prima Messa nel Santuario di Santa Maria delle Grazie in Brescia. Trasferitosi a Roma, tra il 1920 e il 1922 frequenta i corsi di Diritto civile e di Diritto canonico presso l'Università Gregoriana e quelli di Lettere e Filosofia presso l'Università statale. Nel maggio 1923 inizia la carriera diplomatica presso la Segreteria di Stato di Sua Santità essendo inviato a Varsavia come addetto alla Nunziatura Apostolica. Rientrato in Italia nell'ottobre dello stesso anno, viene nominato dapprima (1924) assistente ecclesiastico del Circolo romano della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), quindi nel 1925 assistente ecclesiastico nazionale della stessa Federazione, carica che lascerà nel 1933. Il 13 dicembre 1937 è nominato Sostituto della Segreteria di Stato e il 29 novembre 1952 Pro-Segretario di Stato per gli Affari Straordinari. Il 1° novembre 1954 Pio XII lo elegge arcivescovo di Milano. Il 15 dicembre 1958 è creato cardinale da Giovanni XXIII. Il 21 giugno 1963 viene eletto Pontefice e il 29 settembre apre il secondo periodo del Concilio Ecumenico Vaticano II, che, alla fine del quarto periodo, concluderà solennemente l'8 dicembre 1965. Il 1° gennaio 1968 celebra la prima Giornata mondiale della Pace. Il 24 dicembre 1974 apre la Porta Santa nella Basilica di San Pietro, inaugurando l'Anno Santo del 1975. Il 16 aprile 1978 scrive alle Brigate Rosse implorando la liberazione di Aldo Moro e il 13 maggio nella basilica di San Giovanni in Laterano assiste alla messa in suffragio dello statista assassinato e pronuncia una solenne preghiera. Il 6 agosto 1978, alle ore 21.40, muore nella residenza estiva dei papi a Castel Gandolfo.

Il magistero

Le encicliche Ecclesiam Suam (6 agosto 1964), sul dialogo all'interno della Chiesa e della Chiesa con il mondo. Mense Maio (29 aprile 1965) che invita a pregare la Madonna per il felice esito del Concilio e per la pace nel mondo. Mysterium fidei (3 settembre 1965) sull'Eucaristia. Christi Matri (15 settembre 1966) con la quale chiede nuovamente preghiere alla Madonna per la pace nel mondo. Populorum progressio (26 marzo 1967) sullo sviluppo dei popoli. Sacerdotalis caelibatus (20 giugno 1967) sul celibato sacerdotale. Humanae vitae (25 luglio 1968) sul matrimonio e sulla regolazione delle nascite. Altri documenti Assai numerose le Lettere Apostoliche, le Esortazioni, le Costituzioni. Tra questi documenti meritano particolare menzione: le costituzioni apostoliche Paenitemini (17 febbraio 1966) sulla nuova disciplina del sacramento della Penitenza e Regimini Ecclesiae universae (15 agosto 1967); Octogesima adveniens (14 maggio 1971) per l'80° dell'enciclica di Leone XIII Rerum novarum; le esortazioni apostoliche Evangelica testificatio (29 giugno 1971) per il rinnovamento degli Ordini religiosi secondo l'insegnamento del Concilio, Marialis cultus (2 febbraio 1974) sul culto alla Madonna, Gaudete in Domino (9 maggio 1975) ed Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975) sull'evangelizzazione.

I viaggi

Paolo VI fu il primo papa ad usare l'aereo per numerosi viaggi all'estero e in Italia. All'estero Terra Santa (4-6 gennaio 1964), nel corso del quale si incontrò con il patriarca ortodosso Atenagora. India (2-5 dicembre 1964). ONU, New York (4-5 ottobre 1965). Fatima (13 maggio 1967). Turchia (25-26 luglio 1967), nel corso del quale, ad Istanbul si incontrò nuovamente con il patriarca Atenagora. Colombia (22-25 agosto 1968. Ginevra (10 giugno 1969) dove visita il Bureau International du Travail e il Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Uganda (31 luglio-2 agosto 1969). Estremo Oriente (26 novembre-4 dicembre 1970). In Italia 1964: Orvieto (11 agosto) e Montecassino (24 novembre); 1965: Pisa (10 giugno); 1966: Alatri, Fumone, Ferentino, Anagni (1 settembre) e Firenze (24 dicembre); 1968: Taranto (24 dicembre); 1970: Cagliari (24 aprile); 1971: Subiaco (8 settembre); 1972: Udine, Venezia, Aquileia (16 settembre); 1973: Acilia (31 ottobre); 1974: Fossanova, Aquino, Roccasecca (14 settembre); 1976: Bolsena (8 agosto); 1977: Pescara (17 settembre).

Concistori

Paolo VI tenne sei Concistori (22 febbraio 1965; 26 giugno 1967; 28 aprile 1969; 5 marzo 1973; 24 maggio 1976; 27 giugno 1977) creando 143 nuovi Cardinali. Paolo VI fissò a 120 il numero massimo dei cardinali elettori del papa e con il motu proprio Ingravescentem aetatem stabilì che al compimento dell'80° anno di età perdono il diritto alla partecipazione al Conclave per l'elezione di un nuovo papa ma non quello di essere eletti.

Principali incontri e udienze

1963: J.F. Kennedy, S. U Thant, A. Segni; 1964: il patriarca Atenagora, Re Hussein di Giordania, Sukarno; 1965: G. Saragat; 1966; M. Ramsey, arcivescovo di Canterbury; 1967: N.V. Podgornyj, due volte il patriarca Atenagora, L.B. Johnson, Ch. De Gaulle; 1968; S.S. Mobutu, il patriarca Makarios III; 1969: R. Nixon, Hailé Selassié; 1971: Tito, il card. J. Mindszenty; 1972: G. Leone, Suharto; 1973: N. Van Thieu, Golda Meir, N. Ceausescu, il Dalai Lama; 1975: G.R. Ford; 1977: Coggan, arcivescovo di Canterbury, J. Kadar, K. Waldheim, E. Gierek; 1978: S. Pertini.

Riforme e innovazioni

Numerose le riforme e le innovazioni apportate da Paolo VI nelle strutture e nella vita della Chiesa. Tra queste: l'istituzione della Pontificia Commissione per le Comunicazioni sociali (11 aprile 1964); l'istituzione del Segretariato per i non cristiani (19 maggio 1964); l'istituzione del Segretariato per i non credenti (9 aprile 1965; l'istituzione del Sinodo dei Vescovi (15 settembre 1965); la riforma del S. Offizio (7 dicembre 1965); l'istituzione del Consiglio per i laici e della Pontificia Commissione "Iustitia et pax" (6 gennaio 1967); l'istituzione della Prefettura degli affari economici della Santa Sede, della Prefettura della Casa Pontificia e dell'Ufficio centrale di statistica della Chiesa (15 agosto 1967); l'istituzione della Giornata mondiale della pace (8 dicembre 1967); l'istituzione dei Chierici della Cappella Pontificia e della Consulta dello Stato della Città del Vaticano (28 marzo 1968); l'istituzione della Commissione teologica internazionale (11 aprile 1969); il nuovo regolamento dell'Ufficio delle Cerimonie Pontificie (1 gennaio 1970); lo scioglimento dei Corpi armati Pontifici ad esclusione della Guardia Svizzera (15 settembre 1970); l'istituzione del Pontificio Consiglio "Cor Unum" (15 luglio 1971); l'istituzione della Pontificia Commissione per la revisione del Codice di Diritto Canonico Orientale (10 giugno 1972).

Tratto dal sito dell'Istituto Paolo VI di Brescia:
http://www.istitutopaolovi-bs.org/
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:18
All'Angelus Benedetto XVI ricorda l'eredità spirituale di Paolo VI e i suoi meriti alla guida del Concilio Vaticano II

Al centro di tutto sempre e solo Cristo


"Il sole e la sua luce, l'aria che respiriamo, l'acqua, la bellezza della terra, l'amore, l'amicizia, la vita stessa non possiamo comprarli, ma ci sono donati. Sono cose che nessuno ci può portare via, che nessuna dittatura, nessuna forza distruttrice ci può rubare". Lo ha sottolineato il Papa all'Angelus recitato domenica 3 agosto sulla piazza del Duomo di Bressanone. Il Pontefice ha dapprima offerto una meditazione in tedesco sulle letture della domenica, quindi in italiano ha ricordato Paolo VI, infine ha concluso di nuovo in tedesco.

Liebe Brüder und Schwestern, ein herzliches "Grüß Gott" Euch allen!
Es drängt mich vor allen Dingen, ein Wort ganz herzlichen Dankes zu sagen, an erster Stelle Ihnen, lieber Bischof Egger:  Sie haben hier dieses Fest des Glaubens möglich gemacht. Sie haben es möglich gemacht, daß ich noch einmal gleichsam in meine Vergangenheit zurückwandern und zugleich in die Zukunft vorauswandern kann; noch einmal im schönen Brixen, diesem Land, wo Kunst und Kultur und die Güte der Menschen sich miteinander verbinden, Urlaub zu verbringen:  Herzlichen Dank für alles! Und natürlich danke ich allen, die mit Ihnen dazu beitragen, daß ich Tage der Ruhe und des Friedens hier verbringen darf:  Dank allen, die dieses Fest mitgestaltet haben. Ich möchte den Autoritäten der Stadt, des Landes, der Region, des Staates von Herzen danken für alles, was sie getan haben für die Organisation; den Freiwilligen, die mithelfen, den Ärzten, so vielen, die da nötig waren, besonders auch den Sicherheitskräften, dem Zusammenwirken aller ... Ich hab' bestimmt viele vergessen! Ein ganz herzliches "Vergelt's Gott" allen:  Sie sind alle in meinem Gebet. Das ist die Weise allein, wie ich Ihnen danken kann und versuchen kann, "Danke" zu sagen. Und natürlich, vor allem danken wir dem gütigen Gott selber, der uns dieses Land geschenkt hat, der uns diesen heutigen strahlenden Sonntag schenkt. Und dabei sind wir eigentlich auch schon bei der Liturgie dieses Tages angelangt. Die erste Lesung erinnert uns daran, daß die größten Dinge dieses unseres Lebens nicht gekauft, nicht bezahlt werden können, sondern daß wir die wichtigsten, elementarsten Dinge des Lebens nur geschenkt bekommen können:  Die Sonne und ihr Licht, die Luft, die wir atmen, das Wasser, die Schönheit der Erde, die Liebe, die Freundschaft, das Leben selber. All diese eigentlichen zentralen Güter können wir nicht kaufen, sondern nur geschenkt bekommen. Und die zweite Lesung fügt dann hinzu, daß das dann auch bedeutet, daß es Dinge gibt, die uns niemand wegnehmen kann, die keine Diktatur, keine zerstörerische Macht uns rauben kann. Das Geliebtsein von Gott, der in Christus jeden von uns kennt und liebt, kann uns niemand nehmen, und solange wir dies haben, sind wir nicht arm, sondern reich. Das Evangelium fügt einen dritten Schritt hinzu. Wenn wir so von Gott Beschenkte sind, müssen wir auch selber Schenkende werden:  im geistigen Bereich, indem wir Güte, Freundschaft, Liebe geben, aber auch im materiellen Bereich - das Evangelium spricht vom Teilen des Brotes. Beides soll uns heute in die Seele dringen:  daß wir schenkende Menschen sein sollen, weil wir empfangende sind; daß wir die Gabe der Güte und der Liebe und der Freundschaft weitergeben, aber daß wir allen, die unserer bedürfen und denen wir helfen können, auch die materiellen Gaben geben und damit versuchen, die Welt menschlicher - das heißt, gottnäher zu machen.

[Cari fratelli e sorelle, un cordiale benvenuto a tutti!
Mi preme innanzitutto dire una parola di profondo ringraziamento, in primo luogo a Lei, caro Vescovo Egger:  Lei ha reso possibile qui questa festa della fede. Lei ha fatto sì che io potessi ancora una volta quasi tornare indietro nel mio passato e allo stesso tempo andare avanti nel mio futuro; una volta ancora trascorrere le mie vacanze nella bella Bressanone, questa terra dove arte e cultura e bontà della gente sono tra loro collegati:  un sentito ringraziamento per tutto questo! E naturalmente ringrazio tutti coloro che, insieme a Lei, hanno contribuito a far sì che io possa trascorrere qui giorni di pace e di serenità:  grazie a tutti coloro che hanno insieme organizzato questa festa! Ringrazio di cuore le Autorità della città, della regione e dello Stato per quello che hanno fatto per l'organizzazione; i volontari che offrono il loro aiuto, i medici, tante persone che sono state necessarie, in particolare anche le Forze dell'ordine; ringrazio per la collaborazione di tutti... Sicuramente ho dimenticato tante persone! Che il Signore ne renda merito a voi tutti:  siete tutti nella mia preghiera. È questo l'unico modo che ho di ringraziarvi. E naturalmente ringraziamo soprattutto il buon Dio, che ci ha donato questa terra e che ci ha donato anche questa domenica inondata di sole. Ed ecco che siamo così arrivati alla Liturgia del giorno. La prima Lettura ci ricorda che le cose più grandi di questa nostra vita non possono essere acquistate né pagate, perché le cose più importanti ed elementari della nostra vita ci possono soltanto essere donate:  il sole e la sua luce, l'aria che respiriamo, l'acqua, la bellezza della terra, l'amore, l'amicizia, la vita stessa. Tutti questi beni essenziali e centrali non possiamo comprarli, ma ci sono donati. La seconda Lettura poi aggiunge che ciò significa che ci sono anche cose che nessuno ci può togliere, che nessuna dittatura, nessuna forza distruttrice ci può rubare. L'essere amati da Dio, che in Cristo conosce e ama ciascuno di noi; nessuno ce lo può portare via e finché abbiamo questo, non siamo poveri, ma ricchi. Il Vangelo aggiunge un terzo passo. Se da Dio riceviamo doni così grandi, a nostra volta dobbiamo donare:  in ambito spirituale dando bontà, amicizia e amore, ma anche in ambito materiale - il Vangelo parla della divisione del pane. Queste due cose devono oggi penetrare nella nostra anima:  dobbiamo essere persone che donano, perché siamo persone che ricevono; dobbiamo trasmettere agli altri il dono della bontà e dell'amore e dell'amicizia, ma al tempo stesso a tutti coloro che hanno bisogno di noi e che possiamo aiutare, dobbiamo dare anche doni materiali e cercare così di rendere la terra più umana, cioè più vicina a Dio.]
Ora, cari amici, vi invito a fare insieme con me memoria devota e filiale del Servo di Dio, il Papa Paolo VI, di cui, fra tre giorni, commemoreremo il 30° anniversario della morte. Era infatti la sera del 6 agosto 1978 quando egli rese lo spirito a Dio; la sera della festa della Trasfigurazione di Gesù, mistero di luce divina che sempre esercitò un fascino singolare sul suo animo. Quale supremo Pastore della Chiesa, Paolo VI guidò il popolo di Dio alla contemplazione del volto di Cristo, Redentore dell'uomo e Signore della storia. E proprio l'amorevole orientamento della mente e del cuore verso Cristo fu uno dei cardini del Concilio Vaticano II, un atteggiamento fondamentale che il venerato mio predecessore Giovanni Paolo ii ereditò e rilanciò nel grande Giubileo del 2000. Al centro di tutto, sempre Cristo:  al centro delle Sacre Scritture e della Tradizione, nel cuore della Chiesa, del mondo e dell'intero universo. La Divina Provvidenza chiamò Giovanni Battista Montini dalla Cattedra di Milano a quella di Roma nel momento più delicato del Concilio - quando l'intuizione del beato Giovanni XXIII rischiava di non prendere forma. Come non ringraziare il Signore per la sua feconda e coraggiosa azione pastorale? Man mano che il nostro sguardo sul passato si fa più largo e consapevole, appare sempre più grande, direi quasi sovrumano, il merito di Paolo VI nel presiedere l'Assise conciliare, nel condurla felicemente a termine e nel governare la movimentata fase del post-Concilio. Potremmo veramente dire, con l'apostolo Paolo, che la grazia di Dio in lui "non è stata vana" (cfr. 1 Cor 15, 10):  ha valorizzato le sue spiccate doti di intelligenza e il suo amore appassionato alla Chiesa ed all'uomo. Mentre rendiamo grazie a Dio per il dono di questo grande Papa, ci impegniamo a far tesoro dei suoi insegnamenti.

In der letzten Konzilsperiode wollte dann Paul VI. der Muttergottes eine besondere Ehre erweisen und hat sie feierlich als "Mutter der Kirche" ausgerufen. Zu ihr, der Mutter Christi, der Mutter Kirche, unserer Mutter, beten wir jetzt im Angelus.
[Nell'ultimo periodo del Concilio, Paolo VI ha voluto rendere un omaggio particolare alla Madre di Dio e l'ha solennemente proclamata "Madre della Chiesa". A lei, alla Madre di Cristo, alla Madre della Chiesa, a nostra Madre, ci rivolgiamo adesso con la preghiera dell'Angelus.]

Dopo la recita dell'Angelus, il Papa ha parlato delle Olimpiadi che si apriranno a Pechino il prossimo 8 agosto, quindi ha salutato nelle varie lingue, tra cui il ladino, i diecimila fedeli presenti alla preghiera mariana.

Cari amici,
Venerdì prossimo, 8 agosto, si apriranno a Pechino i Giochi della XXIX Olimpiade. Sono lieto di indirizzare al Paese ospitante, agli organizzatori e ai partecipanti, in primo luogo agli atleti, il mio cordiale saluto, con l'augurio che ciascuno possa dare il meglio di sé, nel genuino spirito olimpico. Seguo con profonda simpatia questo grande incontro sportivo - il più importante ed atteso a livello mondiale - ed auspico vivamente che esso offra alla comunità internazionale un valido esempio di convivenza tra persone delle più diverse provenienze, nel rispetto della comune dignità. Possa ancora una volta lo sport essere pegno di fraternità e di pace tra i popoli!

Je salue cordialement les personnes de langue française venues pour cette prière mariale. Mercredi prochain, nous commémorerons le trentième anniversaire de la mort du Pape Paul vi qui a mené a bien le Concile Vatican ii, commencé par le bienheureux Jean XXIII. Rendons grâce à Dieu pour le don qu'il nous a fait de ce grand Pape et apprenons de lui son amour passionné de l'Eglise et de l'homme. Que Marie, qu'il a proclamée Mère de l'Eglise, nous obtienne d'être fidèles à ses enseignements et à son témoignage de sainteté. Avec ma Bénédiction apostolique!

I offer a warm welcome to the English-speaking visitors united with us here in Bressanone for this Angelus prayer. Wednesday, the feast of the Lord's Transfiguration, marks the thirtieth anniversary of the death of Pope Paul vi. As we recall this great Pontiff who concluded the Second Vatican Council and guided the first phase of the post-conciliar renewal, let us give thanks for his wise teaching, his passionate love of the Church, and his desire to draw all people to the contemplation of Christ's glory. Dear friends, during these summer holidays, may you grow closer to the Lord in prayer, and may he shed the light of his face upon you and your families!

Queridos amigos, dentro de tres días se conmemorará el trigésimo aniversario del fallecimiento del Papa Pablo vi. Quisiera recordar devotamente con vosotros su quehacer pastoral, desempeñado de modo fecundo y audaz. Con el pasar de los años se aprecia cada vez más la grandeza que demostró presidiendo la segunda parte del Concilio Vaticano II, llevándolo felizmente a término y gobernando la Iglesia en la delicada fase postconciliar. A la vez que damos gracias a Dios por el don de este gran Pontífice, os invito a sacar provecho también hoy de sus enseñanzas. Muchas gracias.

Serdeczne pozdrowienie kieruje do Polaków. Za kilka dni mija trzydziesta rocznica smierci Slugi Bozego Papieza Pawla VI. Jego pontyfikat byl zwiazany z Soborem Watykanskim ii i z posoborowa odnowa Kosciola. Dzis dziekujemy Bogu za to wielkie dzielo. Wszystkim zycze dobrych wakacji. Niech Bóg wam blogoslawi.
[Un cordiale saluto rivolgo ai polacchi. Fra alcuni giorni ricorre il trentesimo anniversario della morte del Servo di Dio Papa Paolo VI. Il suo pontificato è stato legato al Concilio Vaticano II e al postconciliare rinnovamento della Chiesa. Oggi ringraziamo Dio per questa grande opera. A tutti auguro buone vacanze. Dio vi benedica.]

N salüt de cör a la jont ladina. I recordi con ligrëdza che le lën da Nadé por la Plaza de San Pire è gnü dla Val Badia. Che chel Bel Dio benedësces osctes valades. Mantignide - do l'ejempl de Sant Ujöp da Oies - la fede a chel Bel Dio y l'amur por la dlijia.
[Un saluto cordiale alla gente ladina. Ricordo con piacere che l'albero di Natale per la Piazza San Pietro è venuto dalla Val Badia. Che Dio benedica le vostre vallate. Mantenete - secondo l'esempio di San Giuseppe da Oies - la fede in Dio e l'amore per la Chiesa.]

Saluto infine con affetto tutti voi di lingua italiana qui presenti e l'intera comunità di Bressanone; saluto i gruppi giovanili e le famiglie, benedico i bambini e gli anziani. Grazie ancora della vostra squisita accoglienza!

Am Ende auch noch ein herzlicher Gruß an alle Deutschsprachigen die hier sind! Mein Segen und mein Gebet gilt Euch allen und Euren Lieben! Allen wünsche ich einen gesegneten Sonntag und eine schöne Woche und eine schöne Ferienzeit, so Gott will! Vergelt's Gott!
[Al termine, ancora un saluto cordiale a tutti i presenti di lingua tedesca! La mia benedizione e la mia preghiera è per voi tutti e per i vostri cari! A tutti auguro una buona domenica e una buona settimana e buone vacanze - a Dio piacendo! Grazie ancora a tutti!]



(©L'Osservatore Romano - 4-5 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:18
A trent'anni dalla morte di Paolo VI

Testimone di Cristo nell'amore al nostro tempo


Era la sera della Trasfigurazione di trent'anni fa, il 6 agosto 1978, quando nella calura e nella solitudine di Castel Gandolfo quietamente  si  spegneva,  quasi  ottantunenne, Paolo VI. Da tempo Papa Montini era sofferente, ma la morte - alla quale veniva preparandosi ormai da anni - sopraggiunse come desiderava, quasi improvvisa, senza cioè che una lunga malattia impedisse o rallentasse il carico quotidiano e irrinunciabile del suo servizio alla Chiesa e al mondo. Così, per un momento, nella distrazione dell'estate, ci si accorse di quell'uomo fragile e anziano, ma animato da una forza interiore che traspariva dagli occhi grigi e dallo sguardo intenso che colpiva come la sua voce, fattasi con gli anni più roca e talora drammatica.
Si concludeva così un pontificato difficile ma decisivo. Per la vita della Chiesa e per la sua presenza nel mondo di oggi. Come ha voluto ricordare Benedetto XVI, affermando - con parole brevi, ma tanto più impressionanti quanto più Papa Ratzinger rifugge dalle espressioni enfatiche - che "appare sempre più grande, direi quasi sovrumano, il merito di Paolo VI" nel guidare il Vaticano II e la Chiesa nella "movimentata fase" successiva. Grandezza e merito che gli vennero subito riconosciuti dai suoi due immediati successori (anch'essi, come l'attuale, cardinali da lui creati), che ne ripresero il nome insieme a quello del predecessore, a sottolineare una continuità evidente nei fatti, ma messa in dubbio già a metà degli anni Sessanta, e poi ricorrente nell'esercizio strumentale, giornalistico e storiografico, che non si limita a enucleare diversità ovvie ma contrappone i Papi l'uno con l'altro.
Evidenza e strumentalità già avvertite da Montini e annotate in un appunto di quel tempo dove rivendicava "fedeltà sostanziale alla linea" del predecessore e osservava che "è far torto, e torto grave alla memoria di Papa Giovanni attribuendogli idee e atteggiamenti ch'Egli non ebbe". Rispondono invece alla realtà le interpretazioni dei suoi ultimi successori. Nel primo anniversario della morte di Paolo VI, acutamente Giovanni Paolo II gli riconobbe il carisma della trasformazione e quello del suo tempo. Ora Benedetto XVI - secondo il criterio di quella "ermeneutica della riforma" che nel quarantesimo del Vaticano II ha lucidamente descritto come opposta alla "ermeneutica della discontinuità", eversiva nei confronti della tradizione che per sua natura è dinamica e aperta al futuro - ritiene provvidenziale l'elezione del cardinale Montini, avvenuta nel "momento più delicato del Concilio", quando cioè l'intuizione di Giovanni XXIII addirittura "rischiava di non prendere forma".
In un frangente difficilissimo, Giovanni Battista Montini - in coerenza con tutta la sua vita, come mostrano, tra l'altro, i suoi scritti, segnati da una continuità anche stilistica sorprendente - assunse il pontificato romano con una chiara coscienza della propria responsabilità. Guidando e concludendo il concilio, subito riconvocato, con determinazione e secondo una linea di rinnovamento che raccogliesse il maggiore consenso possibile. Linea poi mantenuta con pazienza e fermezza, secondo l'atteggiamento descritto nella prima enciclica, Ecclesiam suam, che è per intero di suo pugno:  "La Chiesa avverte la sbalorditiva novità del tempo moderno; ma con candida fiducia si affaccia sulle vie della storia, e dice agli uomini:  io ho ciò che voi cercate, ciò di cui voi mancate". Come confermarono poi tutti i gesti simbolici e le decisioni di governo, che smentiscono incertezze e ipotetiche svolte di un Papa che, tra l'altro, fu il primo a recarsi in nove viaggi internazionali in tutti i continenti.
Nonostante opposizioni tenaci e gravi dissensi nella Chiesa, nonostante gli attacchi anche personali e critiche impietose (moltiplicatesi soprattutto dopo il Credo del Popolo di Dio e dopo l'ultima enciclica, l'Humanae vitae), Paolo VI non rinunciò mai al proprio magistero, che nell'omelia di bilancio del pontificato dichiarò essere stato "a servizio e a difesa della verità", e per questo rivolto a difendere la vita umana. Per amore di Dio e per amore dell'uomo, perché - come scrisse nell'appunto già citato - "forse la nostra vita non ha altra più chiara nota che la definizione dell'amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo:  ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero".

g. m. v.


(©L'Osservatore Romano - 6 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:19
L'eredità di Paolo VI nel trentesimo anniversario della morte

Il Credo del Popolo di Dio


A quarant'anni dalla solenne professione di fede

Il 30 giugno 1968 - a conclusione dell'"Anno della Fede" e nel XIX centenario del martirio degli Apostoli Pietro e Paolo - davanti alla basilica di San Pietro, Paolo VI pronunciò una solenne professione di fede che pubblichiamo integralmente.

Venerati fratelli e diletti figli, con questa solenne Liturgia Noi concludiamo la celebrazione del XIX centenario del martirio dei santi Apostoli Pietro e Paolo, e diamo così all'"Anno della Fede" il suo coronamento:  l'avevamo dedicato alla commemorazione dei santi Apostoli per attestare il Nostro incrollabile proposito di fedeltà al Deposito della fede (cfr. 1 Timoteo, 6, 20) che essi ci hanno trasmesso, e per rafforzare il Nostro desiderio di farne sostanza di vita nella situazione storica, in cui si trova la Chiesa pellegrina nel mondo.
Noi sentiamo pertanto il dovere di ringraziare pubblicamente tutti coloro, che hanno risposto al Nostro invito, conferendo all'"Anno della Fede" una splendida pienezza, con l'approfondimento della loro personale adesione alla Parola di Dio, con la rinnovazione della professione di fede nelle varie comunità, e con la testimonianza di una vita veramente cristiana. Ai Nostri Fratelli nell'Episcopato, in modo particolare, e a tutti i fedeli della santa Chiesa cattolica, Noi esprimiamo la Nostra riconoscenza e impartiamo la Nostra Benedizione.
Al tempo stesso, Ci sembra che a Noi incomba il dovere di adempiere il mandato, affidato da Cristo a Pietro, di cui siamo il successore, sebbene l'ultimo per merito, di confermare cioè nella fede i nostri fratelli (cfr. Luca, 22, 32). Consapevoli, senza dubbio, della Nostra umana debolezza, ma pure con tutta la forza che un tale mandato imprime nel Nostro spirito, Noi Ci accingiamo pertanto a fare una professione di fede, a pronunciare un Credo che, senza essere una definizione dogmatica propriamente detta, e pur con qualche sviluppo, richiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo, riprende sostanzialmente il Credo di Nicea, il Credo dell'immortale Tradizione della santa Chiesa di Dio.
Nel far questo, Noi siamo coscienti dell'inquietudine, che agita alcuni ambienti moderni in relazione alla fede. Essi non si sottraggono all'influsso di un mondo in profonda trasformazione, nel quale un così gran numero di certezze sono messe in contestazione o in discussione. Vediamo anche dei cattolici che si lasciano prendere da una specie di passione per i cambiamenti e le novità. Senza dubbio la Chiesa ha costantemente il dovere di proseguire nello sforzo di approfondire e presentare, in modo sempre più confacente alle generazioni che si succedono, gli imperscrutabili misteri di Dio, fecondi per tutti di frutti di salvezza. Ma al tempo stesso, pur nell'adempimento dell'indispensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegnamenti della dottrina cristiana. Perché ciò vorrebbe dire - come purtroppo oggi spesso avviene - ingenerare turbamento e perplessità in molte anime fedeli.
A tale proposito occorre ricordare che al di là del dato osservabile, scientificamente verificato, l'intelligenza dataci da Dio raggiunge la realtà (ciò che è), e non soltanto l'espressione soggettiva delle strutture e dell'evoluzione della coscienza; e che d'altra parte, il compito dell'interpretazione - dell'ermeneutica - è di cercare di comprendere e di enucleare, nel rispetto della parola pronunciata, il significato di cui un testo è espressione, e non di ricreare in qualche modo questo stesso significato secondo l'estro di ipotesi arbitrarie.
Ma, soprattutto, Noi mettiamo la nostra incrollabile fiducia nello Spirito Santo, anima della Chiesa, e nella fede teologale su cui si fonda la vita del corpo mistico. Noi sappiamo che le anime attendono la parola del Vicario di Cristo, e Noi veniamo incontro a questa attesa con le istruzioni che normalmente amiamo dare. Ma oggi Ci si offre l'occasione di pronunciare una parola più solenne.
In questo giorno, scelto per la conclusione dell'anno della fede, in questa festa dei beati Apostoli Pietro e Paolo, Noi abbiamo voluto offrire al Dio vivente l'omaggio di una professione di fede. E come una volta a Cesarea di Filippo l'Apostolo Pietro prese la parola a nome dei dodici per confessare veramente, al di là delle umane opinioni, Cristo Figlio di Dio vivente, così oggi il suo umile Successore, Pastore della Chiesa universale, eleva la sua voce per rendere, in nome di tutto il Popolo di Dio, una ferma testimonianza alla Verità divina, affidata alla Chiesa, perché essa ne dia l'annunzio a tutte le genti.
Noi abbiamo voluto che la Nostra professione di fede fosse sufficientemente completa ed esplicita, per rispondere in misura appropriata al bisogno di luce, sentito da così gran numero di anime fedeli, come da tutti coloro che nel mondo, a qualunque famiglia spirituale appartengano, sono in cerca della Verità.
A gloria di Dio beatissimo e di Nostro Signore Gesù Cristo, fiduciosi nell'aiuto della Beata Vergine Maria e dei santi Apostoli Pietro e Paolo, per il bene e l'edificazione della Chiesa, a nome di tutti i Pastori e di tutti i fedeli, Noi ora pronunciamo questa professione di fede, in piena comunione spirituale con tutti voi, Fratelli e Figli carissimi.

Professione di fede

Noi crediamo in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, creatore delle cose visibili, come questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole, delle cose invisibili quali sono i puri spiriti, chiamati altresì angeli (cfr. Conc. Vat. i, Cost. dogm. Dei Filius:  Dz.-Sch. 3002), e Creatore in ciascun uomo dell'anima spirituale e immortale (cfr. Encicl. Humani generis, AAS 42, 1950, p. 575; Conc. Lateran. v, Dz.-Sch. 1440-1441).
Noi crediamo che questo unico Dio è assolutamente uno nella sua essenza infinitamente santa come in tutte le sue perfezioni:  nella sua onnipotenza, nella sua scienza infinita, nella sua provvidenza, nella sua volontà e nel suo amore. Egli è Colui che è, com'egli stesso ha rivelato a Mosè (cfr. Esodo, 3, 14); e egli è Amore, come ci insegna l'Apostolo Giovanni (cfr. 1 Giovanni, 4, 8):  cosicché questi due nomi, Essere e Amore, esprimono ineffabilmente la stessa realtà divina di colui, che ha voluto darsi a conoscere a noi, e che "abitando in una luce inaccessibile" (cfr. 1 Timoteo, 6, 16) è in se stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di se stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo, alla cui eterna vita noi siamo chiamati per grazia di Lui a partecipare, quaggiù nell'oscurità della fede e, oltre la morte, nella luce perpetua, l'eterna vita. I mutui vincoli, che costituiscono eternamente le tre Persone, le quali sono ciascuna l'unico e identico Essere divino, sono la beata vita intima di Dio tre volte santo, infinitamente al di là di tutto ciò che noi possiamo concepire secondo l'umana misura (cfr. Conc. Vat. i, Cost. dogm. Dei Filius:  Dz.-Sch. 3016). Intanto rendiamo grazie alla bontà divina per il fatto che moltissimi credenti possono attestare con noi, davanti agli uomini, l'Unità di Dio, pur non conoscendo il mistero della Santissima Trinità.
Noi dunque crediamo al Padre che genera eternamente il Figlio; al Figlio, Verbo di Dio, che è eternamente generato; allo Spirito Santo, Persona increata che procede dal Padre e dal Figlio come loro eterno Amore. In tal modo, nelle tre Persone divine, coeternae sibi et coaequales (Symbolum Quicumque:  Dz.-Sch. 75), sovrabbondano e si consumano, nella sovreccellenza e nella gloria proprie dell'Essere increato, la vita e la beatitudine di Dio perfettamente uno; e sempre "deve essere venerata l'Unità nella Trinità e la Trinità nell'Unità" (ibid.).
Noi crediamo in Nostro Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio. Egli è il Verbo eterno, nato dal Padre prima di tutti i secoli, e al Padre consustanziale, homoúsios to Patri; e per mezzo di Lui tutto è stato fatto. Egli si è incarnato per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria, e si è fatto uomo:  eguale pertanto al Padre secondo la divinità, e inferiore al Padre secondo l'umanità (ibid., n. 76), ed egli stesso uno, non per una qualche impossibile confusione delle nature, ma per l'unità della persona (ibid.).
Egli ha dimorato in mezzo a noi, pieno di grazia e di verità. Egli ha annunciato e instaurato il Regno di Dio, e in sé ci ha fatto conoscere il Padre. Egli ci ha dato il suo comandamento nuovo, di amarci gli uni gli altri com'egli ci ha amato. Ci ha insegnato la via delle Beatitudini del Vangelo:  povertà in spirito, mitezza, dolore sopportato nella pazienza, sete della giustizia, misericordia, purezza di cuore, volontà di pace, persecuzione sofferta per la giustizia. Egli ha patito sotto Ponzio Pilato, Agnello di Dio che porta sopra di sé i peccati del mondo, ed è morto per noi sulla Croce, salvandoci col suo sangue redentore. Egli è stato sepolto e, per suo proprio potere, è risorto nel terzo giorno, elevandoci con la sua Risurrezione alla partecipazione della vita divina, che è la vita della grazia. Egli è salito al cielo, e verrà nuovamente, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, ciascuno secondo i propri meriti; sicché andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'Amore e alla Misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto.
E il suo Regno non avrà fine.
Noi crediamo nello Spirito Santo, che è Signore e dona la vita; che è adorato e glorificato col Padre e col Figlio. Egli ci ha parlato per mezzo dei Profeti, ci è stato inviato da Cristo dopo la sua resurrezione e la sua ascensione al Padre; egli illumina, vivifica, protegge e guida la Chiesa, ne purifica i membri, purché non si sottraggano alla sua grazia. La sua azione, che penetra nell'intimo dell'anima, rende l'uomo  capace  di  rispondere  all'invito di Gesù:  "Siate perfetti com'è perfetto il Padre vostro celeste" (cfr. Matteo, 5, 48).
Noi crediamo che Maria è la Madre, rimasta sempre Vergine, del Verbo Incarnato, nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo (cfr. Conc. di Efeso:  Dz.-Sch. 251-252), e che, a motivo di questa singolare elezione, essa, in considerazione dei meriti di suo Figlio, è stata redenta in modo più eminente (cfr. Conc. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, n. 53), preservata da ogni macchia del peccato originale (cfr. Pio ix, Bolla Ineffabilis Deus, Acta, parte i, vol. i, 616) e colmata del dono della grazia più che tutte le altre creature (cfr. Lumen gentium, n. 53).
Associata ai misteri della Incarnazione e della Redenzione con un vincolo stretto e indissolubile (cfr. ibid., nn. 53, 58, 61), la Vergine Santissima, l'Immacolata, al termine della sua vita terrena è stata elevata in corpo e anima alla gloria celeste (cfr. Cost. ap. Munificentissimus Deus:  AAS 42, 1950, p. 770) e configurata a suo Figlio risorto, anticipando la sorte futura di tutti i giusti; e noi crediamo che la Madre Santissima di Dio, nuova Eva, Madre della Chiesa (cfr. Lumen gentium, nn. 53, 56, 61, 63; Paolo VI, Discorso per la chiusura del terzo periodo del Concilio Vaticano II:  AAS 56, 1964, p. 1016; Esort. Ap. Signum magnum:  AAS 59, 1967, pp. 465 e 467), continua in cielo il suo ufficio materno riguardo ai membri di Cristo, cooperando alla nascita e allo sviluppo della vita divina nelle anime dei redenti (cfr. Lumen gentium, n. 62; Paolo VI, Esort. Ap. Signum magnum:  AAS 59, 1967, p. 468).
Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato:  il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all'inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l'uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, "non per imitazione, ma per propagazione", e che esso è "proprio a ciascuno" (cfr. Conc. di Trento, Sess. v, Decr. De pecc. orig.:  Dz.-Sch. 1513).
Noi crediamo che Nostro Signor Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che, secondo la parola dell'Apostolo, "là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Romani, 5, 20).
Noi crediamo in un solo battesimo, istituito da Nostro Signor Gesù Cristo per la remissione dei peccati. Il battesimo deve essere amministrato anche ai bambini che non hanno ancor potuto rendersi colpevoli di alcun peccato personale, affinché essi, nati privi della grazia soprannaturale, rinascano "dall'acqua e dallo Spirito Santo" alla vita divina in Gesù Cristo (cfr. Conc. di Trento, ibid.:  Dz.-Sch. 1514).
Noi crediamo nella Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, edificata da Gesù Cristo sopra questa pietra, che è Pietro. Essa è il Corpo mistico di Cristo, insieme società visibile, costituita di organi gerarchici, e comunità spirituale; essa è la Chiesa terrestre, Popolo di Dio pellegrinante quaggiù, e la Chiesa ricolma dei beni celesti; essa è il germe e la primizia del Regno di Dio, per mezzo del quale continuano, nella trama della storia umana, l'opera e i dolori della Redenzione, e che aspira al suo compimento perfetto al di là del tempo, nella gloria (cfr. Lumen gentium, nn. 8 e 5). Nel corso del tempo, il Signore Gesù forma la sua Chiesa mediante i Sacramenti, che emanano dalla sua pienezza (cfr. ibid., nn. 7, 11). È con essi che la Chiesa rende i propri membri partecipi del mistero della Morte e della Risurrezione di Cristo, nella grazia dello Spirito Santo, che le dona vita e azione (cfr. Conc. Vat.II , Cost. Sacrosanctum concilium, nn. 5, 6; Lumen gentium, nn. 7, 12, 50). Essa è dunque santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia:  appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l'irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui ha il potere di guarire i suoi figli con il Sangue di Cristo ed il dono dello Spirito Santo.
Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell'Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i Patriarchi e i Profeti; fondata sugli Apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di Pastori nel Successore di Pietro e nei Vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità, che Dio ha manifestato in una maniera ancora velata per mezzo dei Profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù. Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che la Chiesa propone a credere come divinamente rivelata sia con un giudizio solenne, sia con il magistero ordinario e universale (cfr. Conc. Vat. i, Cost. Dei Filius:  Dz.-Sch. 3011). Noi crediamo nell'infallibilità, di cui fruisce il Successore di Pietro, quando insegna ex cathedra (cfr. ibid., Cost. Pastor aeternus:  Dz.-Sch. 3074) come Pastore e Dottore di tutti i fedeli, e di cui è dotato altresì il Collegio dei Vescovi, quando esercita con lui il magistero supremo (cfr. Lumen gentium, n. 25).
Noi crediamo che la Chiesa, che Gesù ha fondato e per la quale ha pregato, è indefettibilmente una nella fede, nel culto e nel vincolo della comunione gerarchica (cfr. ibid., nn. 8, 18-23; Decr. Unitatis redintegratio, n. 2). Nel seno di questa Chiesa, sia la ricca varietà dei riti liturgici, sia la legittima diversità dei patrimoni teologici e spirituali e delle discipline particolari lungi dal nuocere alla sua unità, la mettono in maggiore evidenza (cfr. Lumen gentium, n. 23; Decr. Orientalium Ecclesiarum, nn. 2, 3, 5, 6).
Riconoscendo poi, al di fuori dell'organismo della Chiesa di Cristo, l'esistenza di numerosi elementi di verità e di santificazione che le appartengono in proprio e tendono all'unità cattolica (cfr. Lumen gentium, n. 8), e credendo all'azione dello Spirito Santo che nel cuore dei discepoli di Cristo suscita l'amore per tale unità (cfr. ibid. n. 15), noi nutriamo speranza che i cristiani, i quali non sono ancora nella piena comunione con l'unica Chiesa, si riuniranno un giorno in un solo gregge con un solo Pastore.
Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo Mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo Corpo, che è la Chiesa (cfr. ibid. n. 14). Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini:  e coloro che, senza propria colpa, ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, ma cercano sinceramente Dio e sotto l'influsso della sua grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch'essi, in un numero che Dio solo conosce, possono conseguire la salvezza (cfr. ibid. n. 16).
Noi crediamo che la messa, celebrata dal sacerdote che rappresenta la persona di Cristo in virtù del potere ricevuto nel sacramento dell'Ordine, e da lui offerta nel nome di Cristo e di membri del suo Corpo mistico, è il sacrificio del Calvario reso sacramentalmente presente sui nostri altari. Noi crediamo che, come il pane e il vino consacrati dal Signore nell'Ultima Cena sono stati convertiti nel suo Corpo e nel suo Sangue che di lì a poco sarebbero stati offerti per noi sulla Croce, allo stesso modo il pane e il vino consacrati dal sacerdote sono convertiti nel Corpo e nel Sangue di Cristo gloriosamente regnante nel cielo; e crediamo che la misteriosa presenza del Signore, sotto quello che continua ad apparire come prima ai nostri sensi, è una presenza vera, reale e sostanziale (cfr. Conc. di Trento, Sess. XIII, Decr. De Eucharistia:  Dz.-Sch. 1651).
Pertanto Cristo non può essere presente in questo Sacramento se non mediante la conversione nel suo Corpo della realtà stessa del pane e mediante la conversione nel suo Sangue della realtà stessa del vino, mentre rimangono immutate soltanto le proprietà del pane e del vino percepite dai nostri sensi. Tale conversione misteriosa è chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, transustanziazione. Ogni spiegazione teologica, che tenti di penetrare in qualche modo questo mistero, per essere in accordo con la fede cattolica deve mantenere fermo che nella realtà obiettiva, indipendentemente dal nostro spirito, il pane e il vino han cessato di esistere dopo la consacrazione, sicché da quel momento sono il Corpo e il Sangue adorabili del Signore Gesù ad esser realmente dinanzi a noi sotto le specie sacramentali del pane e del vino (cfr. ibid.:  Dz.-Sch. 1642, 1651; Paolo VI, Encicl. Mysterium Fidei:  AAS 57, 1965, p. 766), proprio come il Signore ha voluto, per donarsi a noi in nutrimento e per associarci all'unità del suo Corpo Mistico (cfr. Summa Theologiae, III, q. 73, a. 3).
L'unica ed indivisibile esistenza del Signore glorioso nel cielo non è moltiplicata, ma è resa presente dal sacramento nei numerosi luoghi della terra dove si celebra la Messa. Dopo il sacrificio, tale esistenza rimane presente nel Santo Sacramento, che è, nel tabernacolo, il cuore vivente di ciascuna delle nostre chiese. Ed è per noi un dovere dolcissimo onorare e adorare nell'ostia santa, che vedono i nostri occhi, il Verbo incarnato, che essi non possono vedere e che, senza lasciare il cielo, si è reso presente dinanzi a noi.
Noi confessiamo che il Regno di Dio, cominciato quaggiù nella Chiesa di Cristo, non è di questo mondo (cfr. Giovanni, 18, 36), la cui figura passa (cfr. 1 Corinzi, 7, 31); e che la sua vera crescita non può esser confusa con il progresso della civiltà, della scienza e della tecnica umane, ma consiste nel conoscere sempre più profondamente le imperscrutabili ricchezze di Cristo, nello sperare sempre più fortemente i beni eterni, nel rispondere sempre più ardentemente all'amore di Dio, e nel dispensare sempre più abbondantemente la grazia e la santità tra gli uomini. Ma è questo stesso amore che porta la Chiesa a preoccuparsi costantemente del vero bene temporale degli uomini. Mentre non cessa di ricordare ai suoi figli che essi non hanno quaggiù stabile dimora (cfr. Ebrei, 13, 14), essa li spinge anche a contribuire - ciascuno secondo la propria vocazione ed i propri mezzi - al bene della loro città terrena, a promuovere la giustizia, la pace e la fratellanza tra gli uomini, a prodigare il loro aiuto ai propri fratelli, soprattutto ai più poveri e ai più bisognosi. L'intensa sollecitudine della Chiesa, Sposa di Cristo, per le necessità degli uomini, per le loro gioie e le loro speranze, i loro sforzi e i loro travagli, non è quindi altra cosa che il suo grande desiderio di esser loro presente per illuminarli con la luce di Cristo e adunarli tutti in lui, unico loro Salvatore. Tale sollecitudine non può mai significare che la Chiesa conformi se stessa alle cose di questo mondo, o che diminuisca l'ardore dell'attesa del suo Signore e del Regno eterno.
Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in paradiso, come egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell'aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi.
Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite intorno a Gesù ed a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'è e (cfr. 1 Giovanni, 3, 2; Benedetto XII, Cost. Benedictus Deus:  Dz.-Sch. 1000) dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi Angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi ed aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine (cfr. Cost. dogm. Lumen gentium, n. 49).
Noi crediamo alla comunione tra tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sono pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la propria purificazione e dei beati del cielo, i quali tutti insieme formano una sola Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l'amore misericordioso di Dio e dei suoi Santi ascolta costantemente le nostre preghiere, secondo la parola di Gesù:  Chiedete e riceverete (cfr. Luca, 10, 9-10; Giovanni, 16, 24). E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà.
Sia benedetto Dio santo, santo, santo. Amen.


(©L'Osservatore Romano - 6 agosto 2008)
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00mercoledì 10 dicembre 2008 12:19
Papa Montini nel ricordo di Giovanni Paolo II

Il carisma e la fatica
della trasformazione


L'1 agosto 1979 - nell'udienza generale del mercoledì precedente l'anniversario della morte di Paolo VI - Papa Giovanni Paolo II pronunciò un ricordo del suo predecessore alla luce della solennità della Trasfigurazione del Signore. Lo pubblichiamo integralmente.

Si avvicina il primo anniversario della morte di Papa Paolo VI. Iddio lo ha chiamato a sé il 6 agosto dell'anno scorso, giorno in cui, ogni anno, ricorre la solennità della Trasfigurazione del Signore. Questa solennità bella e ricca di contenuti è stata l'ultimo giorno di Papa Paolo VI sulla terra, il giorno della sua morte, il giorno del trapasso dalla vita quaggiù all'eternità. "La vita non è tolta, ma trasformata"; così preghiamo nel Prefazio della Messa per i defunti. Difatti, il giorno stesso della morte di quel grande Papa, giorno della Trasfigurazione, è diventato segno eloquente di questa verità.
Possiamo riflettere sul significato del giorno che Dio ha scelto per concludere una vita così laboriosa, così piena di dedizione e di sacrificio per la causa di Cristo, del Vangelo, della Chiesa. Il pontificato di Paolo VI non è forse stato un tempo di profonda trasformazione, promossa dallo Spirito Santo attraverso tutta l'attività del Concilio, convocato dal suo Predecessore? Paolo VI, che aveva ereditato l'opera del Concilio da Giovanni XXIII subito dopo la prima sessione del 1963, non si è forse trovato al centro stesso di questa trasformazione, prima come Papa del Vaticano II e poi come Papa della realizzazione del Vaticano II, nel periodo più difficile, immediatamente dopo la chiusura del Concilio?
Se ci è lecito riflettere sul significato del giorno che Dio ha scelto come chiusura del suo ministero pontificale, si accumulano nella mente varie interpretazioni. Ricordando la festa della Trasfigurazione che Dio ha voluto come giorno conclusivo della sua fede sulla terra (cfr. 2 Timoteo, 4, 7), si potrebbe dire che quel giorno ha manifestato, in certo modo, il particolare carisma e anche la particolare fatica della sua vita. Carisma della "trasformazione" e fatica della "trasformazione". Si potrebbe dire, sviluppando questo pensiero, che il Signore, avendo chiamato il Papa Paolo a sé, nella solennità della sua Trasfigurazione, ha permesso a lui e a noi di conoscere che in tutta l'opera di "trasformazione", di rinnovamento della Chiesa nello spirito del Vaticano II, egli è presente come lo è stato in quel meraviglioso evento che ebbe luogo sul monte Tabor e che preparò gli Apostoli alla dipartita di Cristo da questa terra, prima attraverso la croce e poi attraverso la risurrezione.
Il Papa del Vaticano II! Il Papa di quella profonda trasformazione che era nient'altro che una rivelazione del volto della Chiesa, attesa dall'uomo e dal mondo di oggi! C'è anche qui un'analogia col mistero della Trasfigurazione del Signore. Infatti quello stesso Cristo che gli Apostoli hanno visto sul monte Tabor, non era se non colui che hanno conosciuto ogni giorno, colui del quale hanno ascoltato le parole e veduto le azioni. Sul monte Tabor si è rivelato a loro lo stesso Signore, ma "trasfigurato". In questa Trasfigurazione si è manifestata e si è realizzata un'immagine del loro Maestro, che in tutte le precedenti circostanze era loro sconosciuta, era davanti a loro velata.
Giovanni XXIII e, dopo di lui, Paolo VI hanno ricevuto dallo Spirito Santo il carisma della trasformazione, grazie al quale la figura della Chiesa, nota a tutti, si è manifestata uguale e insieme diversa. Questa "diversità" non significa distacco dalla propria essenza, ma piuttosto più profonda penetrazione nell'essenza stessa. Essa è rivelazione di quella figura della Chiesa, che era nascosta nella precedente. Era necessario che attraverso i "segni dei tempi", riconosciuti dal Concilio, diventasse manifesta e visibile, che divenisse principio di vita e di azione nei tempi in cui viviamo e in quelli che verranno.
Il Papa, che ci ha lasciato l'anno scorso nella solennità della Trasfigurazione del Signore ha ricevuto dallo Spirito Santo il carisma del suo tempo. Se infatti la trasformazione della Chiesa deve servire al suo rinnovamento, bisogna che colui che la intraprende possegga una coscienza particolarmente forte dell'identità della Chiesa. L'espressione di tale coscienza Paolo VI l'ha manifestata soprattutto nella sua prima enciclica Ecclesiam suam e poi continuamente:  proclamando il "Credo del Popolo di Dio" ed emanando una serie di norme esecutive riguardanti le deliberazioni del Vaticano II, inaugurando l'attività del Sinodo dei Vescovi, facendo passi da pioniere in direzione dell'unione dei cristiani, riformando la Curia Romana, internazionalizzando il Collegio Cardinalizio, eccetera.
In tutto ciò si rivelava sempre la stessa coscienza della Chiesa, che conferma più profondamente la propria identità nella capacità di rinnovamento, di andare incontro alle trasformazioni che scaturiscono dalla sua vitalità e insieme dall'autenticità della Tradizione.
Permettete che in questo contesto rievochi almeno alcune frasi delle così numerose enunciazioni del Papa morto un anno fa. Nella sua prima enciclica, la Ecclesiam suam, che reca proprio la data del 6 agosto 1964, egli così si esprimeva:  "Da un lato la vita cristiana, quale la Chiesa difende e promuove, deve continuamente e strenuamente guardarsi da quanto può illuderla, profanarla, soffocarla, quasi cercasse di immunizzarsi dal contagio dell'errore e del male; dall'altro lato la vita cristiana deve non solo adattarsi alle forme di pensiero e di costume, che l'ambiente temporale le offre e le impone, quando siano compatibili con le esigenze essenziali del suo programma religioso e morale, ma deve cercare di avvicinarle, di purificarle, di nobilitarle, di vivificarle, di santificarle (...) La parola, resa ormai famosa, del nostro venerato Predecessore Giovanni XXIII di felice memoria, la parola "aggiornamento" sarà da noi sempre tenuta presente come indirizzo programmatico; lo abbiamo confermato quale criterio direttivo del Concilio Ecumenico, e lo verremo ricordando quasi uno stimolo alla sempre rinascente vitalità della Chiesa, alla sua sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi, e alla sua sempre giovane agilità di tutto provare e di far proprio ciò ch'è buono (cfr. 1 Tessalonicesi, 5, 21), sempre e dappertutto" (Paolo VI, Ecclesiam suam, 44 e 52).
E alcuni anni dopo, diceva in un discorso:  "Chi ha compreso qualche cosa della vita cristiana non può prescindere da una sua costante aspirazione di rinnovamento. Quelli che attribuiscono alla vita cristiana un carattere di stabilità, di fedeltà, di staticità vedono giusto, ma non vedono tutto. Certamente la vita cristiana è ancorata a fatti e a impegni, che non ammettono mutamenti, come la rigenerazione battesimale, la fede, l'appartenenza alla Chiesa, l'animazione della carità; è di natura sua un'acquisizione permanente e da non compromettere mai, ma è, come diciamo, una vita, e perciò un principio, un seme, che deve svilupparsi, che esige accrescimento, perfezionamento, e, data la nostra naturale caducità e date certe inguaribili conseguenze del peccato originale, esige riparazione, rifacimento, rinnovamento" (Insegnamenti di Paolo VI, ix, 1971, 318).
Il Papa Paolo è stato un seminatore generoso della parola di Dio. Ha insegnato attraverso i solenni documenti del suo pontificato. Ha insegnato attraverso le omelie che teneva in varie circostanze. Ha insegnato infine attraverso la sua catechesi del mercoledì che, dal tempo del suo pontificato, è entrata nel programma abituale di tutto l'anno. Grazie a ciò ha potuto continuamente "proclamare il Vangelo" (cfr. Paolo VI, Evangelii nuntiandi). L'annunzio del Vangelo egli lo considerava, seguendo l'esempio dell'apostolo Paolo, come suo primo dovere e come la sua più grande gioia. Queste catechesi papali son diventate cibo sostanzioso per tutta la Chiesa, in un periodo che ne aveva particolarmente bisogno.
Di fronte alle inquietudini del periodo postconciliare, quel singolare "carisma della Trasfigurazione" si è dimostrato benedizione e dono per la Chiesa. Così Paolo VI è diventato Maestro e Pastore degli intelletti e delle coscienze umane, in questioni che esigevano la decisione della sua suprema autorità. Ha servito Cristo e la Chiesa con quella mirabile fermezza e umiltà che gli hanno permesso di guardare, con occhio di fede e di speranza, l'avvenire dell'opera che stava compiendo.
Avvicinandosi il primo anniversario della sua morte, raccomandiamo nuovamente la sua anima al Cristo del monte della Trasfigurazione, affinché lo accolga nella gloria dell'eterno Tabor.



(©L'Osservatore Romano - 6 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:20
Giuseppe Camadini smentisce alcune interpretazioni diffuse sulla figura e l'opera del Pontefice bresciano

Né incerto né triste,
al contrario fu gentile e forte


di Maurizio Fontana

"All'indomani della morte di Paolo VI un piccolo gruppo di laici e sacerdoti bresciani si ritrovò, con don Enzo Giammancheri, a celebrare una messa di suffragio. Al termine, dopo una breve conversazione, scaturì subito la convinzione che uno dei modi forse meno inadeguati per fare memoria della personalità di Montini - sacerdote, vescovo e Pontefice - potesse essere quello di raccogliere la documentazione relativa al suo pensiero e alle sue opere, al fine di promuovere occasioni di studio. Nasceva così l'Istituto Paolo VI. La presentazione ufficiale si svolse a Brescia, nel Palazzo municipale della Loggia, con l'intervento  di  Jean  Guitton,  accademico di Francia e amico personale di Montini".
Brevi cenni per raccontare le origini di una storia ormai quasi trentennale. A parlare è l'attuale presidente dell'Istituto Paolo VI, Giuseppe Camadini, che si è soffermato in un colloquio a tre con il nostro direttore, Giovanni Maria Vian, e con chi scrive, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Papa Montini.

Ci ha raccontato i primissimi passi dell'Istituto. Dalle intenzioni alle realizzazioni di strada ne è stata fatta molta.

A quei primi colloqui seguirono ulteriori incontri dai quali scaturì - con il supporto dell'Opera per l'Educazione cristiana e l'approvazione del vescovo di Brescia - la creazione dell'Istituto che oggi abbraccia nel suo archivio oltre 50.000 documenti (per lo più inediti) di o su Montini e Paolo VI e una biblioteca di 33.000 volumi (di cui 10.000 già della sua biblioteca personale). Sono stati poi promossi dieci colloqui internazionali e diciannove giornate di studio internazionali.
Il Centro studi bresciano - dalle origini al 1992 ne fu segretario generale Nello Vian, a cui succedette Xenio Toscani - ha inoltre istituito il "Premio Internazionale Paolo VI" che sinora è stato conferito ad Hans Urs von Balthasar per la teologia (1984), a Olivier Messiaen per la musica (1988), a Oscar Cullmann (1993) per l'ecumenismo, a Jean Vanier (1997) per i diritti umani e a Paul Ricoeur (2003) per la filosofia.

Chi "governa" e dove ha sede l'istituto?

La sede è attualmente a Brescia, ma sarà definitivamente stabilita a Concesio, accanto alla casa natale di Montini.
Oggi l'Istituto è retto da un comitato scientifico di dodici membri e opera tramite un comitato esecutivo del quale fece parte sin dall'origine - e fino alla morte nel 2006 - monsignor Pasquale Macchi, che di Montini era stato segretario per venticinque anni.
Centinaia sono gli studiosi coinvolti a diverso titolo nel lavoro di questi trent'anni nei quali si è cercato di affrontare le ricerche con metodo scientifico, nella consapevolezza, peraltro, di poter portare contributi che non ambiscono certo all'esaustività o all'esclusività.

Il  metodo  di  "analitica  scientificità" degli studi non rischia di non riuscire a trasmettere anche la spiritualità di Montini?

Non penso. Questa esigenza è ben presente ai comitati nella impostazione dei singoli momenti di studio e di approfondimento. A titolo di esempio, ricordo come fra i primi incontri organizzati vi fosse quello tenuto presso l'università di Salamanca l'8 novembre 1991 incentrato sullo studio "El sacerdocio en la obra y el pensamiento de Paolo VI" in cui si ritrovano echi della stessa vocazione personale sacerdotale di Montini. Né può ritenersi che uno studio scientifico, e quindi volto alla ricerca della obiettività nella conoscenza, possa di per sé nuocere alla comprensione del vero; anzi non può che facilitarla.

Come valuta l'immagine che i media hanno accreditato della figura di Montini?

Rispetto, e per certi aspetti ammiro, l'opera dei giornalisti, e del mondo delle comunicazioni sociali; e cerco di comprendere le difficoltà di quanti onestamente vi operano.
Certo è che la personalità di Montini - connotata da una intensa, forte, elevata spiritualità da lui gelosamente custodita, sotto il tratto del suo inconfondibile stile di gentilezza - può non prestarsi a facile lettura e coerente rappresentazione.
Ciò non toglie che l'amore della verità esiga comunque, almeno tendenzialmente, rigore conoscitivo e descrittivo.
Forse può non aver giovato a una adeguata conoscenza di Montini il fatto che, storicamente, il pontificato montiniano si collochi fra quello di Papa Roncalli e - dopo la quasi fugace apparizione di Papa Luciani - di quello di Papa Wojtyla. Forse la pubblicistica talora non rammenta che Paolo VI "prese in mano" il Concilio Vaticano II dopo la sua prima sessione, portandolo a positiva conclusione e promulgandone tutti i sedici documenti approvati, alla cui finale formulazione dedicò personale attenzione e precisi interventi.
Forse - sotto l'influsso di una tendenza indotta anche da una certa storiografia corrente negli scorsi decenni - si legge da parte di taluni autori anche la storia di Montini all'insegna dei contrasti "tra destra e sinistra", collocandolo su un versante tendenzialmente conservatore; e, quindi, classificandolo negativamente a priori. Si vorrebbe riscontrare - durante lo svolgimento del pontificato stesso - un mutamento di rotta e un diverso suo orientamento di pensiero fra un primissimo periodo (il periodo in cui guidò l'arcidiocesi di Milano e quello dei primi tempi del Concilio da lui diretti) rispetto alla successiva e conclusiva fase del "tempo conciliare", cioè gli ultimi periodi del Vaticano II.
Il che non corrisponde al vero:  si ignora o si tende a dimenticare che nella seconda metà degli anni Sessanta sopraggiunse la contestazione; non solo fuori ma anche entro la Chiesa. Non fu Montini a mutare il suo pensare, ma la società con talune sue nuove tendenze - contestatrici, talora eversive - comportò un'adeguata valutazione e un'energica presa di posizione.

Ma allora che cosa ci si può auspicare in occasione di questo anniversario?

Il rinnovato interesse su Montini deve stimolare una più completa conoscenza dell'intero arco della sua esistenza:  a partire dalla formazione nel contesto bresciano. Successivamente, non può dimenticarsi quanto significò per Montini il periodo in cui fu assistente della Federazione degli universitari cattolici (Fuci) da cui germinò anche il Movimento dei laureati cattolici italiani. Da lì venne larga parte della classe dirigente italiana. Né può tacersi la rilevanza che ebbe la sua conoscenza e frequentazione - negli anni Venti e Trenta - con Alcide De Gasperi (già collega del papà Giorgio, nel Partito Popolare):  si tratta di rapporti di viva cordialità e di solidarietà, nel periodo della "emarginazione" dell'ex segretario del Partito Popolare.
Ma si ricordi soprattutto come egli fu il primo Papa che volle ritornare in Terra Santa sulle orme di Cristo e che visitò per primo tutti i continenti; il Papa dell'Ecclesiam suam, della Populorum progressio, della Octogesima adveniens e dell'Evangelii nuntiandi per citare solo alcuni dei suoi documenti.

Di  Paolo  vi  si  parla  spesso  come  di una persona incerta e dall'indole triste. È vero?

È vero il contrario.
Quanto alla sua presunta mestizia, basterà dire che Montini è l'unico Papa ad aver promulgato una esortazione apostolica sulla gioia (Gaudete in Domino, 1975).
Circa l'incertezza penso basti considerare qual è stata la sua determinazione nella pubblicazione dell'enciclica Humanae vitae. In realtà, al di là dell'umile sua costante sottomissione alla volontà del Signore, il tracciato dell'esistenza di Montini, costituisce un'ininterrotta testimonianza di fede e di amore alla Chiesa.
Vi è un tracciato luminoso che emerge con tutta evidenza anche attraverso le difficoltà che egli dovette superare. Una linea retta che assume il preciso significato di una volontà superiore che ha visto perfezionarsi, affinarsi, temprarsi questo spirito, delicato e forte a un tempo, sino alla guida della Chiesa universale.

In questi ultimi mesi si sono viste "in vetrina" varie biografie su Montini e Paolo VI. Forse che l'Istituto non debba promuoverne una che valga a superare almeno talune delle lamentate "approssimazioni descrittive"?

Non penso che tale impegno possa essere messo in cantiere a breve. L'Istituto sta compiendo un lavoro di analisi e di approfondimenti critici, che ritiene doverosamente preliminari.
Verrà poi una biografia edita dall'Istituto, ma non necessariamente da affidarsi a un solo autore. È vero che il tempo passa e le incrostazioni erronee possono radicarsi nelle opinioni di molti come dominanti, ma non penso che per ciò possa preferirsi l'apparire all'essere.



(©L'Osservatore Romano - 6 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:20
Un sussidio nel trentesimo anniversario della morte del servo di Dio mentre la Chiesa si prepara a celebrare il Sinodo dei Vescovi

Paolo VI maestro della Parola


"Abbiate il culto e l'amore per l'ascolto, la meditazione e la pratica della Parola di Dio". Prende le mosse da questa consegna di Paolo VI la raccolta curata da padre Leonardo Sapienza, religioso rogazionista Addetto per il protocollo della Casa Pontificia, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Papa Montini.
Mentre la Chiesa si appresta a celebrare la dodicesima assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, che avrà luogo in Vaticano dal 5 al 26 ottobre prossimi proprio sul tema "La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa", vengono riproposte alcune riflessioni del Pontefice "maestro della Parola", morto il 6 agosto 1978.
Un volumetto di trenta pagine, stampato dalla Tipografia Vaticana, destinato agli amici e ai devoti di Paolo VI, in vista di una più ampia pubblicazione. Già dalla scelta della foto di copertina appare evidente la chiave di lettura:  il Papa intronizza il libro dei Vangeli nella solenne apertura della iv sessione del Concilio ecumenico (14 settembre 1965). Nella presentazione è riprodotta l'annotazione autografa del Pontefice alla richiesta di udienza presentata dal presidente dell'Associazione biblica italiana in occasione della xxi settimana nazionale dei professori di Sacra Scrittura. Nell'inedito appunto del 24 luglio 1970, Paolo VI autorizzando l'incontro si premura di contattare uno specialista della materia nella persona del padre gesuita Carlo Maria Martini, all'epoca rettore del Pontificio Istituto Biblico e in seguito cardinale arcivescovo di Milano, proprio come lo stesso Montini. L'udienza si svolse il 25 settembre e il Papa rivolse la sua parola a quelli che definì esperti che aprono l'animo degli studenti "all'intelligenza della Parola rivelata".
Il curatore non segue un itinerario cronologico, quanto piuttosto quello di una ripartizione per argomenti. Una miniera di riflessioni tratte dal magistero montiniano che sono un invito all'ascolto e alla meditazione della Parola, a comprenderne il genuino significato per l'uomo d'oggi. E se da un lato emerge l'esortazione ad approfondire l'incontro con Dio nella Parola scritta, da un altro si rilancia un corretto utilizzo dei mezzi di comunicazione sociale per l'annuncio della stessa.
Paolo VI parla del silenzio della natura come invito alla meditazione, senza mai stancarsi di sottolineare che Cristo è la Parola. Significativo, per i tempi in cui fu formulato, è anche il richiamo alla necessità di un'impronta biblica in ogni forma di culto (esortazione apostolica Marialis Cultus, n. 30, del 2 febbraio 1974).
Padre Sapienza ci restituisce attraverso queste pagine un Papa attento alle difficoltà di chi ha la missione di annunciare la dottrina della fede. "Come tradurre in parole comprensibili - si chiede in un intervento del 4 dicembre 1968 - le verità religiose? Come conservare al dogma cristiano la sua intangibile ortodossia e rivestirlo d'un linguaggio accessibile agli uomini del nostro tempo? come mantenere gelosamente l'autenticità del messaggio della salvezza e come insieme farlo accogliere dalla mentalità odierna?". Problemi definiti "didattici" per il magistero della Chiesa, risolvibili secondo il Pontefice con l'arte pedagogica della gradualità, dell'esemplificazione, del linguaggio parlato, come pure dell'eloquenza o della rappresentazione figurativa, applicata alla comunicazione, alla trasmissione, alla diffusione del Verbo rivelato.
Uno sforzo di adattamento che però nella predicazione, nell'insegnamento e nell'apologetica corre spesso il rischio di sottoporre la Parola "a quel libero esame" che - avverte Papa Montini - le toglie il suo univoco significato e la sua obiettiva autorità. Ecco allora l'invito ad attingere alla ricchezza del patrimonio dottrinale della Chiesa, contro ogni tentazione di "aggiornamento", nell'assoluto rispetto all'integrità del messaggio rivelato.
"La Chiesa maestra - dichiara Paolo VI il 19 gennaio 1972 - non inventa la sua dottrina; ella è teste, è custode, è interprete, è tramite". E nell'interrogativo del 16 settembre 1970 su "come presentare la religione cattolica oggi alla nostra generazione" il Papa individua la "questione capitale del rapporto tra la fede e l'uomo". Una questione ancora aperta, se si considera che Benedetto XVI trentotto anni dopo è tornato sul tema con una Lettera indirizzata all'inizio del 2008 alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente della formazione delle nuove generazioni.
La pubblicazione, che si chiude con il testo della preghiera per la beatificazione di Paolo VI, individua alcune categorie interessate al tema:  i vescovi, i teologi e gli esegeti, i sacerdoti - definiti con una calzante immagine "gli specialisti di Dio" - i consacrati e i laici. A tutti il Pontefice raccomanda di non tralasciare un lato importante ma misterioso della questione:  "l'accettazione salvatrice della Parola di Dio è una grazia, un dono, verso il quale la libertà umana è responsabile, ma non efficiente, coopera ma non opera" (16 settembre 1970). Perché - aggiungeva nell'esortazione apostolica Quinque iam anni del successivo 8 dicembre - "non siamo noi i giudici della Parola di Dio", al punto che "la cosa spesso più necessaria non è tanto una sovrabbondanza di parole, quanto una parola che sia in consonanza con una vita più evangelica". (gianluca biccini)



(©L'Osservatore Romano - 6 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:20
TRENT’ANNI DI GRATITUDINE
 Giovanni Battista Montini Una vita trasfigurata dalla luce del Risorto


 DI MARCO
RONCALLI
 A
Castel Gandolfo, la sera del 6 agosto del 1978, ricevute poche ore prima la Comunione in forma di viatico e l’Unzione degli infermi, Paolo VI scioglieva le vele, lasciava la sua tenda per il cielo. Un epilogo affrontato come atto supremo nella preghiera e nell’abbandono, ultima battuta di un ininterrotto colloquio con Dio al quale da tempo Giovanni Battista Montini si era preparato. «Mi aiuti a morire bene», aveva più volte ripetuto al fedele segretario monsignor Pasquale Macchi al quale – dall’inizio del pontificato – aveva raccomandato che l’Olio santo fosse sempre a portata di mano. Come fu necessario in quel giorno, festa della Trasfigurazione, solennità che «getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra», per dirla con le parole che avrebbe dovuto pronunciare papa Montini nell’Angelus, esattamente trent’anni fa. Paolo VI era stato esaudito: «Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce», aveva scritto nel suo Pensiero alla morte. Se è vero che l’annuncio dell’assenza del Papa al balcone in quella domenica deluse i fedeli raccolti a Castel Gandolfo, passò comunque fra i più il messaggio non allarmistico di un’indisposizione, come altre volte. Del resto, la primavera del 1978 per l’ottantenne Paolo VI era stata particolarmente pesante. Lui stesso nel messaggio pasquale Urbi et orbi, il 26 marzo 1978, confidava di annunciare il Cristo risorto raccogliendo «quanto ancora ci resta di umana energia e quanto ancora ci sovrabbonda di sovrumana certezza». C’era stata anche per cinquantacinque giorni, fra marzo e maggio, la straziante vicenda di Aldo Moro, il rapimento, i cinque componenti della scorta barbaramente trucidati, l’assassinio dello statista nonostante gli accorati appelli «agli uomini delle Brigate Rosse». C’era stata la ferita – recata il 22 maggio 1978 – quando con la legge 194 anche in Italia era diventato possibile abortire legalmente. E il 29 giugno di quello stesso anno, tracciando una specie di bilancio del suo servizio petrino, era stato ancora lo stesso Paolo VI a parlare di «corso naturale della nostra vita» che «volge al tramonto». Tuttavia, tornando al 6 agosto ’78, nessun segnale d’inquietudine era uscito dal Palazzo in quel pomeriggio festivo, né il giorno prima quando il suo respiro si era fatto più affannoso, la febbre era salita e c’era stato un consulto fra i medici. Il Segretario di Stato vaticano Jean-Marie Villot stava nella vicina Villa Barberini; in libertà uomini di curia e di governo; la maggior parte degli italiani in vacanza. E Paolo VI, schiacciato da un incalzare di eventi così rapidi da rendere inutili i presidi medici, se ne andava come aveva sempre desiderato: senza disturbare nessuno, lavorando sino alla fine sulle labbra il Pater noster:

 «Discessus pius, morte pia», «un progresso nella comunione dei Santi».
  Riappropriarci oggi di quel momento lasciando scorrere nella mente i fotogrammi di quel congedo, ad esempio, nella cronaca del fedele segretario don Pasquale Macchi, significa ripensare ad una morte repentina, quasi solitaria, senza veglie di popolo – pensiamo a quella di Giovanni XXIII o di Giovanni Paolo II – ma che, egualmente, fu coronamento di una vita completa, sigillo di un dono:
quello di tanti anni di servizio alla Chiesa e al mondo. Per tante persone le sequenze successive sono quelle di una semplice bara di legno chiaro, senza drappi, a terra e, sopra, pagine di Vangelo sfogliate dal vento, ma anche una foresta di mani che applaudono, con calore e affetto, i funerali di un pontefice. Un Papa entrato nella storia come tormentato, amletico, cupo – così vuole lo stereotipo –, in realtà ben capace di sorridere, di credere nell’uomo, di gustare la verità, la bontà, la bellezza «in quella essenziale unità da cui scaturisce la gioia, che a differenza del piacere o della felicità, sempre illusoria, è soltanto un’esperienza dello spirito», come intuì lucidamente monsignor Enzo Giammancheri, sacerdote bresciano, 'colonna' della Editrice La Scuola, pronto a cogliere nel grande conterraneo una personalità «intrinsecamente» religiosa («Essere religiosi ex officio che giova quando non lo si è ex animo?», così in un appunto, Montini, già nel 1920). Personalità religiosa, sì, e tuttavia non formalistica o ritualistica, ma libera, forte di quella libertà docile all’azione dello Spirito.
  Una personalità che con un solo aggettivo potremmo connotare come «cristocentrica». E aveva ragione Yves Congar a sostenere : «Paolo VI sarà valutato col tempo». Amato e discusso, timoniere del Concilio Vaticano II, sostenitore di quel dialogo vero appreso alla scuola del Vangelo, di Pascal, di padre Giulio Bevilacqua («nessuno è estraneo al cuore della Chiesa; nessuno è indifferente al suo ministero»), Paolo VI, primo pontefice a rinunciare alla tiara e – va da sé dopo Pietro – a visitare la Terra Santa, primo a parlare alla Nazioni Unite e a visitare i cinque continenti, e altro ancora, continua a scuoterci e a interrogarci. Soprattutto però attraverso quel suo amore per la Chiesa manifestato sino all’ultimo respiro come si legge ancora nel

 Pensiero alla morte:
«La Chiesa (...) potrei dire che da sempre l’ho amata e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto».
 
http://edicola.avvenire.it/ee/avvenire/default.php?pSetup=avvenire&curDate=20080806&goTo=A01

Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:21
TRENT’ANNI DI GRATITUDINE
 Il «Credo» di Paolo VI, un dono da riscoprire

 La professione di fede «dimenticata»: una bussola nelle «inquietudini» postconciliari


 DI
INOS BIFFI*
 Il
Credo del Popolo di Dio:
un documento di grande autorevolezza e di prezioso conte­nuto per la fede cattolica, e pure largamen­te rimosso e dimenticato. Paolo VI ne fece la so­lenne professione il 30 giugno 1968, a conclu­sione dell’anno della fede, indetto nella memo­ria del martirio dei santi Pietro e Paolo, «per at­testare – egli affermava – il nostro incrollabile proposito di 'fedeltà al deposito della fede'».
  Oggi si conosce bene la storia di quella profes­sione, che trova la sua origine in Jacques Mari­tain e Charles Journet, ossia un filosofo e un teo­logo tra i maggiori del loro tempo e tra i meno ascoltati.
  Maritain, definendosi «un vecchio laico» che «si interroga sul tempo presente», aveva da poco pubblicato
Le paysan de la Garonne, con l’eser­go: «Non prendete mai troppo sul serio la stu­pidità ». Con estrema lucidità e libertà di giudi­zio, il celebre pensatore, divenuto piccolo fratello di Gesù, lanciava l’allarme nella «generale spen­sieratezza » (cardinale Giacomo Biffi), metten­dovi in luce i drammatici deviamenti del post­concilio, che giungevano a toccare il cuore stes­so delle fede. Quanto a Journet, creato cardinale da Paolo VI, era un grande e silenzioso studioso di teologia, autore, tra l’altro, de L’Église du Verbe incarné,
che i teologi del Concilio avevano trascurato e su­perficialmente liquidato come scarsamente bi­blico, troppo speculativo e troppo scolastico, mentre era quanto di più ampio e profondo la riflessione teologica avesse prodotto in eccle­siologia.
 
Fu proprio Journet a comunicare al Papa la sug­gestione di Maritain di una «professione di fe­de completa e dettagliata» per quel tempo di «crisi tremenda», come la chiama lo stesso Ma­ritain, che la Chiesa stava attraversando e ri­spetto alla quale il modernismo dell’inizio secolo XX diventava un banale raffreddore da fieno.
  Del resto Paolo VI ne era dolorosamente im­pressionato. Il cardinale Giovanni Colombo ri­corda la sua amara costatazione: «Aspettavamo una primavera, è giunta una bufera»; in parti­colare, in una udienza del mercoledì, nel mag­gio 1967, aveva affermato: «Non crediate di avere la fede se voi non aderite al
Credo,
al simbolo del­la fede, cioè alla sintesi schematica delle verità di fede», per cui non sorprende che egli abbia accolto la proposta di Maritain, fruendo larga­mente del testo scritto da lui preparato. Nel 1972 avrebbe parlato di «fumo di Satana» da qualche parte «entrato nel tempio di Dio».
 
Tale preoccupazione è ricordata espressa­mente da Paolo VI proprio a introduzio­ne del Credo. «Noi siamo coscienti – egli dice – dell’inquietudine, che agita alcuni am­bienti moderni in relazione alla fede. Vediamo dei cattolici che si lasciano prendere da una spe­cie di passione per i cambiamenti e le novità». E aggiunge: «Pur nell’adempimento dell’indi­spensabile dovere di indagine, è necessario avere la massima cura di non intaccare gli insegna­menti della dottrina cristiana. Perché ciò vor­rebbe dire – come purtroppo oggi spesso avvie­ne – ingenerare turbamento e perplessità in mol­te anime fedeli»: sono esattamente le «anime fedeli» che Paolo VI ha a cuore. Esse «attendo­no la parola del vicario di Cristo», ed è come vi­cario di Cristo e «pastore della Chiesa universa­le » che, imitando la confessione di Pietro, egli in­tende elevare «la sua voce per rendere, in nome di tutto il Popolo di Dio, una ferma testimo­nianza alla verità divina, affidata alla Chiesa». E
ribadisce che la professione di fede, «sufficien­temente completa ed esplicita» da lui pronun­ziata, mira a «rispondere in maniera appropriata al bisogno di luce, sentito da così gran numero di anime fedeli».
  Il Papa, però, non si limita a constatare una de­riva, ma ne illustra acutamente la causa in un passo lucidissimo del suo discorso, là dove ri­corda che «al di là del dato osservabile, scienti­ficamente verificato, l’intelligenza dataci da Dio raggiunge la
realtà (ciò che è) e non soltanto l’e­spressione soggettiva delle strutture dell’evolu­zione della coscienza», e che il compito dell’er­meneutica è quello di comprendere il significa­to di un testo e non quello di ricrearlo, «secon­do l’estro di ipotesi arbitrarie». Di fatto, incominciava a elaborarsi una «teolo­gia » sulla base di una diffidenza nei confronti dell’intelletto per riconoscere, invece, il prima­to del «desiderio», come viene chiamato, e quin­di di un soggettivismo da cui ogni oggettività
veritativa della Rivelazione e delle definizioni dogmatiche risulta fatalmente compromessa.
 
I
l Credo del Popolo di Dio
si presenta, così, come un preciso atto di magistero del suc­cessore di Pietro, al quale incombe il dovere di confermare, secondo il mandato di Gesù, «i fratelli nella fede». Certo, spiega il Papa, non si tratta di «una definizione dogmatica propria­mente detta», ma, pur «con qualche sviluppo, ri­chiesto dalle condizioni spirituali del nostro tempo», di una sostanziale ripresa del Credo di Nicea, «il Credo dell’immortale tradizione del­la santa Chiesa di Dio». Ma era l’epoca in cui questa splendida affermazione, col suo richia­mo alla «immortale tradizione» e alla «santa» Chiesa di Dio, stava perdendo senso e attratti­va.
 
E di fatto quella professione di fede tanto auto­revole e vigorosa si trovò rimossa e disattesa. «Si trattava – scrive il cardinale Giacomo Biffi nelle sue Memorie
– di un’importante silloge di tutte le verità che un cattolico deve credere», ma «la generalità dei teologi e dei pastoralisti – ai qua­li essa era evidentemente destinata in modo speciale – non le ha poi riservato molta atten­zione e non l’ha degnata della considerazione che meritava».
  Anzi, da taluni venne espressamente contesta­ta come «archeologica», come un «sillabo» vec­chio, intellettualistico e privo di animazione bi­blica e conciliare; mentre, appunto, non pochi teologi coltivati la trascurarono totalmente: con­vinti che la teologia incominciasse con loro – «senza padre, senza madre, e senza genealogia», come Melchisedec –, erano infatti impegnati a ricreare la sacra dottrina, prendendo le distan­ze da quella del passato; quanto agli specialisti della lettura dei «segni dei tempi», erano trop­po occupati, come profeti di «bonaventura», a esaltarli e a proclamarli indici di tempi felici, che in realtà felici non erano.
 
Eppure, se quel Credo del Popolo di Dio
fosse stato oggetto di piani pastorali, di cattedre dei credenti, di studi e di insegnamenti teologici, che ne avessero messo in luce non solo l’orto­dossia, ma la bellezza o la gloria dei suoi ampi articoli, coi loro dogmi, il Popolo di Dio, tanto chiassosamente chiacchierato, ne avrebbe ri­cevuto edificazione e rasserenamento. Non po­ca teologia, invece, proseguì imperterrita su al­tre strade, mentre la pastorale si distrasse per lo più su altri periferici interessi, e il risultato fu, se­condo le parole di Paolo VI, un Popolo di Dio se­gnato dal turbamento e dalla perplessità.
 
Sarebbe del più vivo interesse esaminare in modo particolareggiato i singoli passi di quel Credo: quello sulla Trinità, dove ricor­re il linguaggio rigoroso e luminoso dei primi Concili, che dedicarono e mirabilmente trasfi­gurarono pensiero e linguaggio, a servizio di u­na ortodossa «intelligenza» del mistero fonda­mentale; su Gesù Cristo, Verbo incarnato e re­dentore, vero uomo e vero Dio; su Maria, sem­pre vergine e immacolata; sul peccato origina­le, trasmesso alla natura umana ed ereditato da ogni uomo, secondo la dottrina del Concilio tri­dentino; sul battesimo, compreso quello dei bambini, segnati dalla stessa colpa d’origine e come tutti bisognosi di rinascita alla vita in Cri­sto; sulla Chiesa, «una, santa, cattolica e apo­stolica », Corpo mistico di Cristo, germe e pri­mizia del regno di Dio, «santa pur compren­dendo nel suo seno dei peccatori», e «necessa­ria alla salvezza»; sulla Messa, «sacrificio del Cal­vario reso sacramentalmente presente»; sulla misteriosa conversione eucaristica, «chiamata dalla Chiesa, in maniera assai appropriata, tran­sustanziazione

  », per cui «il pane e il vino han cessato di esistere, dopo la consacrazione», per «essere il corpo e il sangue adorabili del Signo­re
Gesù». Sono solo alcuni punti di quel Credo del Popolo di Dio, che proprio una improvvida teologia, se pure la si può definire tale, venne invece via via contestando, e compiacendosi di parlare di «Chiesa peccatrice» e pluriforme, di peccato o­riginale come imitazione adulta del peccato di Adamo, non senza negare l’Eucaristia come sa­crificio, o gettare ombre sulla perpetua verginità della Madre di Dio, o rifiutare la mutazione eu­caristica come «transustanziazione», ritenuta un concetto filosofico ormai superato. Il colmo fu raggiunto con l’annebbiamento della certez­za su Gesù Cristo, unico e universale salvatore, in favore di vie salvifiche parallele e in apertura al dialogo religioso e a superficiali ecumenismi. Che questa non sia una ricostruzione arbitraria, e che la questione seria sia quella dell’ortodos­sia, lo stanno a indicare sia gli avvertimenti pon­tifici degli anni successivi al Vaticano II, sia i va­ri interventi della Congregazione per la dottri­na della fede, tra cui la Dichiarazione Dominus Iesus,
volta a richiamare il fondamento stesso del cristianesimo, cioè l’unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa.
  Possiamo concludere sull’imperdonabile atteg­giamento tenuto nella Chiesa nei confronti del

 Credo del Popolo di Dio,
rivelatore della prima preoccupazione e cura di Paolo VI, che a Jean Guitton nel 1977 confidava: «C’è un grande tur­bamento in questo momento nel mondo e nel­la Chiesa, e ciò che è in questione è la fede». E­ra vero trent’anni fa, ma non è meno vero oggi: in questione è la fede cattolica, la stessa che pre­meva a Paolo VI, così grande e così incompre­so.
  * ordinario emerito di teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano; incaricato di storia della teologia presso la Facoltà teologica di Lugano


Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:22
Il cardinale Tarcisio Bertone nel trentennale della morte

È viva nella Chiesa
l'eredità spirituale
di Paolo VI


Paolo VI, un uomo profondamente legato alla vita della Chiesa e agli eventi che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, primo fra tutti il Concilio Vaticano II:  la sua eredità spirituale è ancora presente e viva all'interno della Chiesa e dell'umanità. È il profilo di Papa Montini tracciato dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, nel corso della celebrazione eucaristica di mercoledì pomeriggio, 6 agosto, nella parrocchia pontificia di san Tommaso da Villanova a Castel Gandolfo. Ricorre, infatti, in questo giorno, il trentesimo anniversario della morte del servo di Dio, avvenuta nel 1978, la sera della festa della Trasfigurazione del Signore, proprio nella residenza estiva sul lago di Albano.
In continuità con le parole di Benedetto XVI all'Angelus di domenica scorsa - quando il Pontefice ha ricordato l'eredità spirituale del suo predecessore e i suoi meriti alla guida del Concilio Vaticano II - il cardinale Bertone ha sottolineato come Paolo VI fu chiamato a raccogliere la non facile eredità di Giovanni XXIII. "Con coraggiosa prudenza, con illuminata sapienza e saldo discernimento - ha detto il porporato - egli seppe guidare la "Barca di Pietro" e dialogò con il mondo contemporaneo senza lasciarsi condizionare da remore conservatrici e né cedere a pericolose e affrettate fughe in avanti".
La bussola di orientamento nelle scelte e nelle decisioni di Paolo vi fu sempre e unicamente l'amore fedele e appassionato per Gesù Cristo, il cui volto - aveva evidenziato domenica Benedetto XVI - "egli ricercò e contemplò incessantemente".
Tracciare un bilancio dell'opera di Paolo VI è sicuramente più facile per noi a distanza di trenta anni che non allora per i suoi contemporanei, anche se il momento della sua morte consentì all'opinione pubblica di "conoscerlo meglio" e di poter "riconoscere l'opera straordinaria da lui compiuta con paziente saggezza e indomita fedeltà al Vangelo".
Anche alcune delle sue scelte, che all'epoca furono osteggiate e contestate, possono oggi essere rivalutate e lette in un'ottica nuova. Un esempio su tutti:  la pubblicazione, il 25 luglio 1968, dell'enciclica Humanae vitae, che suscitò reazioni contrarie, al punto che Papa Montini si trovò "quasi isolato, non compreso, persino - ha detto il segretario di Stato - ingiustamente osteggiato". A questo proposito, il cardinale ha citato la catechesi pronunciata da Paolo VI mercoledì 31 luglio 1968, durante la quale egli confidò come un padre ai fedeli che su un tema tanto delicato e importante per la vita della società, qual è appunto "la moralità coniugale in ordine alla sua missione d'amore e di fecondità nella visione integrale dell'uomo" Montini, dopo aver consultato molte persone di alto valore morale, scientifico e pastorale, aveva messo la sua coscienza nella piena e libera disponibilità alla voce della verità". Lo fece "cercando d'interpretare la norma divina che scaturisce dall'intrinseca esigenza dell'autentico amore umano".
"Il servo di Dio - ha poi aggiunto il segretario di Stato - volle ribadire ai fedeli presenti a quell'udienza di aver riflettuto sui valori della dottrina tradizionale e vigente della Chiesa e di aver considerato gli insegnamenti del Concilio da poco concluso, nel prendere la decisione di far pubblicare l'enciclica. Paolo VI era quindi consapevole che una vasta porzione della pubblica opinione - ha detto il cardinale - con ripercussioni anche dentro la comunità ecclesiale, gli era contro, ma non esitò nel decidere:  e lo fece illuminato dallo Spirito Santo per il vero bene dell'uomo e della donna".
Ma questa non fu l'unica occasione nella quale il Papa dimostrò quella fermezza e quell'autentica sete di verità e di amore per Dio e per gli uomini, che ne hanno caratterizzato il pontificato. Sempre tenendo nel dovuto conto questi suoi fondamentali principi, infatti, Montini "formulò sempre un chiaro e inequivocabile insegnamento su scottanti temi di dottrina e di morale, allora fortemente in discussione, quali il celibato sacerdotale, il ministero presbiterale, il ruolo della donna nella Chiesa, la morale familiare, la questione sociale".
Il trentesimo anniversario della morte è dunque, nell'auspicio del segretario di Stato, un'occasione per riscoprire l'intero magistero di Paolo VI, a partire dalle sue encicliche, dalle omelie, dalle catechesi, dai discorsi, dalle riflessioni "per cogliere tutta la ricchezza del suo animo di Pastore innamorato di Cristo e della Chiesa, in ascolto e dialogo sincero con la modernità".
Durante la messa nella parrocchia salesiana di Castel Gandolfo il cardinale ha più volte evidenziato la coincidenza del giorno della morte di Paolo VI con la festa della Trasfigurazione del Signore, durante la quale Cristo invita ognuno di noi a prendere la propria croce "a rafforzarci nella via della croce, disponibili ad accettare tutto dalle sue mani, con piena fiducia nelle sue promesse".
Insieme con il cardinale Bertone hanno concelebrato monsignor Marcello Semeraro, vescovo di Albano, don Waldemar Niedziolka, parroco della parrocchia di San Tommaso da Villanova e alcuni sacerdoti di Castel Gandolfo. In serata sul piazzale antistante il Palazzo Pontificio, si è poi tenuto un concerto in memoria di Papa Montini. Musiche di Mendelssohn, Mozart e Ludwig van Beethoven, sono state eseguite dall'orchestra sinfonica dell'Europa unita - Kronstadt Philarmoniker -, diretta dal maestro Gerard Oskamp.



(©L'Osservatore Romano - 7 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:22
Il prefetto della Congregazione per i Vescovi ricorda Paolo VI

Presentò la verità
nella crisi del linguaggio
e del pensiero


Nel pomeriggio di mercoledì 6 agosto viene celebrata una messa all'Altare della Cattedra della basilica di San Pietro in suffragio del servo di Dio Papa Paolo VI, nel trentesimo anniversario della morte. Pubblichiamo il testo dell'omelia.

di Giovanni Battista Re

Nella mistica luce della solennità della Trasfigurazione di Nostro Signore di trenta anni fa, il servo di Dio Paolo VI chiudeva la sua vita terrena ed entrava nell'eternità. Il giorno 6 agosto che, all'inizio del suo Pontificato, egli aveva scelto come data per la sua prima enciclica (Ecclesiam suam, 1964), segnò anche la data della sua morte.
Per il mondo quella morte giunse piuttosto inaspettata, perché il mercoledì precedente (2 agosto)  il Papa aveva tenuto la regolare udienza generale col consueto stile, il giovedì (3 agosto) aveva  ricevuto il presidente Pertini e il venerdì  aveva  lavorato,  scrivendo  anche il discorsetto per l'Angelus della domenica 6 agosto.
Per lui, invece, la morte non giunse inaspettata. Da tempo, in incontri privati, confidava di sentire la morte ormai vicina, poi vicinissima, ma lo diceva con grande serenità, manifestando la consapevolezza di chi sente venire meno  le  proprie forze, ma fino all'ultimo vuole continuare a servire con amore, senza sottrarsi  in  nulla ai propri impegni. La sua morte è stata una testimonianza di amore e di fedeltà.

La scelta del nome Paolo

Eletto Pontefice, aveva assunto il nome di Paolo perché - come spiegò - era l'apostolo "che supremamente amò Cristo, che in sommo grado desiderò e si sforzò di portare il Vangelo di Cristo a tutte le genti, che per amore di Cristo offrì la sua vita" (Omelia per l'incoronazione, 30 giugno 1963).
Da ormai quattro secoli i Papi non portavano quel nome. La scelta richiamava una certa affinità di ideali del nuovo Papa con l'apostolo che si sentì chiamato a portare il vangelo ai confini della terra, con l'apostolo che aveva presentato Cristo come alfa e omega della creazione, senso e traguardo della storia, e che aveva messo Cristo al centro del suo cuore e di tutta la sua vita.
Sull'esempio dell'apostolo delle genti, Paolo VI fu un appassionato di Cristo. Anzi, possiamo dire che il suo animo fu l'animo dell'apostolo Paolo,  che si può sintetizzare in un nome:  Gesù Cristo. "Per me vivere è Cristo!" (Filippesi, 1, 21).
Sulla centralità di Cristo, volto di Dio e nostro unico Maestro, il Papa Paolo VI ha avuto parole mirabili, a cominciare da quelle del discorso con cui aprì la seconda sessione del concilio Vaticano II:  "Cristo nostro principio! Cristo nostra via e nostra guida! Cristo nostra speranza e nostro termine! (...) Nessun altra luce brilli su questa nostra adunanza che non sia Cristo, luce del mondo; nessun altra verità interessi gli animi nostri, che non siano le parole del Signore, unico nostro Maestro; nessun altra aspirazione ci guidi che non sia il desiderio di essere a lui assolutamente fedeli" (29 settembre 1963).
Questa spiritualità cristocentrica segnò profondamente il suo modo di concepire il servizio petrino. Con profonda convinzione indicò che il segreto per attuare l'aggiornamento voluto dal Concilio consisteva innanzitutto nel mettere interiormente il proprio spirito in attitudine di obbedienza a Cristo (Ecclesiam suam, 53).
Il grande amore a Cristo portò Paolo VI anche a una tenera devozione alla Madre di Cristo e Madre nostra, la Vergine Maria:  un amore appreso e coltivato fin da fanciullo, quando frequentava il Santuario della Madonna delle Grazie, a pochi passi da casa sua a Brescia.
All'amore a Cristo e alla Madonna Paolo VI unì sempre l'amore alla Chiesa. Un amore non astratto, ma reale, fatto anche di fatica e di intima sofferenza per quella Chiesa che definiva "madre benigna e ministra di salvezza dell'intera umana società" (Ecclesiam suam, 1); per quella Chiesa che non ha sue parole da dire, ma è fatta per dire la Parola di Dio che è Gesù Cristo, per portare all'uomo l'annuncio del vangelo, annuncio di liberazione, di crescita, di progresso.
Una Chiesa amata fino all'ultimo, come ha testimoniato con la vita e ha espresso in modo commovente nel suo Pensiero alla morte:  "La Chiesa (...) potrei dire che da sempre l'ho amata e che per essa, non per altro, mi pare d'aver vissuto".

Magistero profetico

Come Papa, visse e proclamò la fede con instancabile sollecitudine e con coraggio ne difese l'integrità e la purezza. Approfittò di tutte le opportunità per far conoscere la Parola di Dio e il pensiero della Chiesa. Come l'apostolo Paolo, fu evangelizzatore per le vie del mondo. Volle un Sinodo  dedicato  al tema dell'evangelizzazione e l'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi resta un testo particolarmente felice.
Come è noto, in quegli anni la barca della Chiesa ha dovuto navigare contro vento e in un mare agitato da contrasti.
Furono anni difficili per il magistero e per il governo della Chiesa:  gli anni della contestazione. E Paolo VI dovette reggere con fermezza il timone della barca e con coraggiosa forza si impegnò nel difendere il depositum fidei.
Nel 1967, in occasione del XIX centenario del martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo, indisse l'Anno della Fede, che concluse pronunciando nel 1968 Il Credo del Popolo di Dio, nel quale additò ai teologi e all'intera Chiesa i punti fermi fondamentali dai quali non è lecito allontanarsi e riaffermò solennemente le verità fondamentali del cristianesimo.
Ebbe altissima coscienza del suo compito di custos fidei. Nella crisi che investiva il linguaggio e il pensiero, cercò di presentare agli uomini del suo tempo le verità di Dio nella loro integrità, sforzandosi di renderle intelligibili così che fossero accolte volentieri.
Del magistero di Papa Paolo VI il testo più aspramente criticato e contestato e, in pari tempo, più sofferto, e particolarmente qualificante la grandezza di quel Pontefice, è l'enciclica Humanae vitae, della quale ricorre quest'anno il quarantesimo anniversario della pubblicazione.
Per Paolo VI si trattò di una scelta difficile e sofferta. Era consapevole delle opposizioni che si sarebbero scatenate, ma non sfuggì alle sue responsabilità. Fece studiare e studiò personalmente a fondo, il problema e poi ebbe il coraggio di decidere, ben sapendo di andare contro la cultura dominante e contro l'attesa dell'opinione pubblica. Si trattava di una legge divina, scritta dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura della persona umana e il Papa non poteva cambiarla ma soltanto interpretarla.

Dialogo fra la Chiesa e il mondo moderno

Nella storia della Chiesa Paolo VI rimarrà come il Papa del Concilio Vaticano II, perché se fu Papa Giovanni XXIII a indirlo, fu lui a portarlo  avanti  e a guidarlo con saggezza, prodigandosi poi perché fosse rettamente applicato.
Ma resterà anche come il Papa che ha amato il mondo moderno e ne ha ammirato la ricchezza culturale e scientifica.
Ha apprezzato e amato il mondo di oggi con i suoi progressi, le sue meravigliose scoperte, i vantaggi e le agevolazioni che la scienza e la tecnica offrono, ma anche con i problemi perduranti e sempre irrisolti e con le sue inquietudini e le sue speranze. Al riguardo dirà:  "Non si pensi di giovare al mondo assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo".
La grande ansia di Paolo VI è stata quella di servire l'uomo di oggi, nelle sue miserie e nelle sue grandezze, sostenendolo nel cammino sulla terra e indicandogli al tempo stesso la meta eterna, nella quale soltanto può trovare pienezza di significato e di valore lo sforzo che egli quotidianamente esprime quaggiù.
Egli guardò al nostro mondo moderno con simpatia. Un giorno ebbe a dire:  "Se il mondo si sente straniero al cristianesimo, il cristianesimo non si sente straniero al mondo".
Paolo VI, sensibile alle ansie e alle inquietudini dell'uomo moderno, fu un Papa del dialogo, attento a non chiudere mai le porte all'incontro. Diceva:  "La Chiesa e il Papa, aprendosi al mondo, vedono tante persone che non credono; da qui lo stile che deve essere attuato:  dialogo con tutti, per annunciare a tutti la bontà di Dio e l'amore di Dio per ogni uomo".
Per Paolo VI il dialogo fu l'espressione dello spirito evangelico che cerca di avvicinarsi a tutti, che cerca di capire tutti e di farsi capire da tutti, così da instaurare uno stile di convivenza umana caratterizzato da apertura reciproca e pieno rispetto nella giustizia, nella solidarietà e nell'amore. Dialogo anche con l'errante, al fine di ottenerne il ravvedimento.

Il Papa della civiltà dell'amore

In un mondo povero di amore e solcato da problemi e violenze, egli lavorò per instaurare una civiltà ispirata dall'amore, in cui la solidarietà e l'amore giungessero là dove la giustizia sociale, pur tanto importante, non poteva arrivare.
La civiltà dell'amore da costruire nei cuori e nelle coscienze è stata per Papa Montini più di un'idea e di un progetto; è stata la guida e lo sforzo di tutta la sua vita.
Per questa nuova civiltà Paolo VI si è speso senza misura, pregando e operando, rinnovando le strutture della Chiesa, andando egli stesso incontro a tutti gli uomini di buona volontà e cercando tutte le occasioni per diffondere ovunque una parola di speranza, di pace e di invito a superare gli egoismi e i rancori.
Nell'orizzonte della civiltà dell'amore va compreso il suo alto magistero sociale, nel quale si fece avvocato dei poveri e denunciò le situazioni di ingiustizia che - è un'espressione sua - "gridano verso il cielo".
Fu molto sensibile al problema della fame nel mondo, al grido di angoscia dei poveri, alle gravi disuguaglianze sociali e alle disuguaglianze nell'accesso ai beni della terra.

Alcuni gesti significativi

Il pontificato di Paolo VI fu punteggiato da alcune iniziative e da taluni gesti che meritano ancora oggi apprezzamento.
Alcuni di essi rimangono nella storia e possono essere considerati come una sorta di "primati", perché furono compiuti per la prima volta da un Pontefice. È vero che alcuni furono possibili grazie al progresso di quel suo tempo, ma ciò non annulla il merito di chi li ha compiuti per primo.
Egli fu il primo Papa a tornare in Palestina, da dove san Pietro era venuto. Fu un viaggio di alto valore simbolico, che esprimeva il suo mondo interiore, la sua spiritualità e la sua teologia. Compiendolo appena sei mesi dopo l'elezione al pontificato e mentre era in corso il Concilio, egli volle indicare alla Chiesa la strada per ritrovare pienamente se stessa e orientarsi nella grande transizione in atto nella convivenza umana. La Chiesa, infatti, può essere autentica e compiere la sua missione soltanto se ricalca le orme di Cristo.
Quel viaggio fu il primo di una serie che Papa Giovanni Paolo II ha reso lunga e feconda. Il cardinale Jacques Martin affermò di avere un giorno sentito Paolo VI dire:  "Vedrete quanti viaggi farà il mio Successore", perché era convinto che le visite pastorali nel mondo rientravano nei compiti del Papa.
Fu il primo Papa che, con gesto certamente significativo, volle rinunciare alla tiara, togliendosela pubblicamente dal capo il 13 novembre 1964 e donandola ai poveri. Voleva, con questo gesto, far intendere che l'autorità del Papa non va confusa con un potere di tipo politico-umano.
Poche settimane dopo avrebbe compiuto il viaggio apostolico in India, che tanto influenzerà il suo magistero sociale. La rinuncia alla tiara acquistava il valore di un gesto programmatico di umiltà e di condivisione, simbolo di una Chiesa che mette i poveri al centro della sua attenzione e li accosta con rispetto e amore, vedendo in loro il Cristo. Come sapete, la tiara fu poi venduta a un museo degli Stati Uniti e il ricavato fu portato in India e dato per i poveri.
Fu il primo Papa a recarsi all'Onu, dove si presentò come un pellegrino che da 2000 anni aveva un messaggio da consegnare a tutti i popoli, il vangelo dell'amore e della pace, e finalmente poteva incontrare i rappresentanti di tutte le nazioni consegnando loro questo messaggio.
Fu un discorso di grande eco, con alcune frasi rimaste celebri:  "Mai più la guerra, mai più l'uno contro l'altro, o l'uno sopra l'altro, ma l'uno per l'altro, l'uno con l'altro".
Paolo VI è anche il Papa che ha abolito la corte pontificia e che ha voluto che il Vaticano avesse uno stile di vita più semplice. E il Papa che ha riformato la Curia, rendendola più efficiente, più pastorale e più internazionale. È il Papa, inoltre, che ha istituito la Giornata mondiale della pace, da celebrare l'1 gennaio, come impegno e augurio, affinché sia la pace e non la guerra a guidare i destini dell'umanità.
A trent'anni da quando Paolo VI ha varcato la misteriosa porta dell'eternità, noi - in questa basilica che custodisce la sua tomba, non lontana da quella dell'apostolo Pietro - lo ricordiamo ringraziando Dio per la luminosa testimonianza lasciata da questo Successore di Pietro.
Vogliamo ringraziare anche il servo di Dio Paolo VI per l'appassionato amore a Cristo, alla Chiesa e al mondo; per l'esempio di vita spirituale, per i suoi insegnamenti e per quanto ha fatto per combattere le ingiustizie e le violenze e per instaurare nel mondo la civiltà dell'amore e la pace.
La Madonna, che Paolo VI amò teneramente e proclamò "Madre della Chiesa", interceda affinché la luce degli insegnamenti e della testimonianza di Paolo VI continui a illuminare il cammino della Chiesa e della società.




(©L'Osservatore Romano - 7 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:23
Il cardinale Re a Varese per il trentesimo della morte

La storia sta rendendo giustizia
a Papa Paolo VI


di Alberto Manzoni

Giovanni Battista Montini maturò una personalità, una coscienza e una spiritualità formate anzitutto grazie all'esempio dei suoi genitori. Essi fecero sì che il futuro Papa Paolo VI, assieme ai tanti e vari doni ricevuti da Dio nella propria vita, a sua volta portasse alla Chiesa e alla società quei contributi spirituali, morali e culturali che già tanti - purtroppo non tutti - conoscono e la cui importanza appare sempre più chiara. Su questo aspetto, relativo ai caratteri indelebilmente impressi nel Montini dall'ambiente familiare, si è soffermato il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della Congregazione per i Vescovi, nella messa presieduta ieri, domenica, presso il santuario di Santa Maria del Monte, sopra Varese, a ricordo del Sommo Pontefice, che rese l'anima a Dio il 6 agosto 1978. Un rito con il quale si sono concluse le celebrazioni promosse nella Chiesa ambrosiana per ricordare il trentesimo anniversario della morte del servo di Dio Paolo VI, già arcivescovo di Milano.
Il cardinale Re, originario della stessa terra bresciana da cui proveniva Montini, è stato accolto dal vescovo Luigi Stucchi, ausiliare di Milano e vicario episcopale della zona pastorale di Varese, e dal parroco don Angelo Corno. Entrambi hanno poi concelebrato l'Eucaristia con il porporato e con altri due sacerdoti, il diocesano don Giuseppe Vertemati e il carmelitano scalzo olandese padre Bonifatius Honings, legato da amicizia a monsignor Pasquale Macchi, che fu segretario di Paolo VI.
Erano presenti numerosi fedeli, che hanno unito alla devozione mariana in vista della solennità dell'Assunta, la preghiera a ricordo dell'indimenticato Pastore. La Messa è stata seguita anche dalle monache di clausura Romite Ambrosiane, che conducono la loro vita di preghiera e raccoglimento nel monastero attiguo al santuario, dove il cardinale Re si è poi recato per una breve visita.
Il prefetto della Congregazione per i Vescovi, che si è detto "particolarmente lieto di ricordare Paolo VI in questo santuario", nell'omelia ha passato in rassegna i molti e fondamentali aspetti per i quali è necessario tenere viva la memoria della figura e dell'opera di Montini, al quale "la storia sta rendendo giustizia, perché man mano che il tempo passa più si comprende la grandezza di questo Papa, che la Provvidenza ha chiamato a servire la Chiesa fra due altre grandi figure, Papa Giovanni XXIII e Papa Giovanni Paolo II".
"La grandezza del suo pontificato e l'importanza del suo magistero" si possono racchiudere - come lo stesso cardinale Re aveva fatto nel suo intervento del 6 agosto nella basilica vaticana - in alcuni grandi motivi:  la centralità di Gesù Cristo in tutto il suo vivere e operare; l'essere uomo di dialogo; l'idea della "civiltà dell'amore" da costruire nel mondo; il rimanere nella storia come "Papa del Concilio Vaticano ii" da lui guidato nello svolgimento e nelle fasi di attuazione; il suo grande amore per la Chiesa; la sua attenzione per il mondo odierno, con le conquiste della scienza, ma anche con la consapevolezza "delle ansie e delle inquietudini degli uomini e delle donne di oggi", che egli amò "con il cuore di Cristo". Il porporato ha poi ricordato quei gesti da molti considerati dei "primati" ma che nella sostanza hanno confermato la profondità dello spirito e della mente di Paolo VI:  fu il primo Papa a salire su un aereo, a recarsi in Palestina, a togliersi la tiara e a indossare la mitria, a parlare all'assemblea generale dell'Onu; riformò la curia romana, istituì la giornata mondiale della pace, visitò tutti e cinque i continenti.
Ma alla base di tutto questo ritroviamo un'indole e una formazione che il cardinale Re ha voluto ricordare come primo punto:  "Molti ne ricorderanno la figura esile, fragile pure come salute, anche se superò gli ottant'anni. Ma aveva un'intelligenza acutissima e una forza di volontà straordinaria. Era mite, molto rispettoso degli altri. Come indole assomigliava alla mamma, piuttosto contemplativo e riflessivo, ma nell'azione risultò, a imitazione del padre, un testimone coraggioso. Un giorno a Jean Guitton disse che alla sua mamma doveva il senso di Dio e della preghiera, la contemplazione, la vita interiore, a suo padre invece doveva il coraggio e soprattutto la volontà di non arrendersi al male e di testimoniare il bene". "Come Papa fu anzitutto un uomo di una grande spiritualità - ha proseguito il porporato -. La sua preoccupazione fu sempre quella di scoprire nella preghiera la volontà di Dio e di attuarla. Aveva acutissimo il senso di Dio, di vivere alla sua presenza ed era profondamente convinto che al mondo nessuno esiste per caso o per sbaglio, ma tutti esistiamo perché Dio ci ha amati; e quello che conta, diceva, è realizzare nella propria vita la volontà di Dio. E si comprende questo amore a Dio Padre, se pensiamo che da arcivescovo volle che la Missione, promossa per dare un risveglio religioso alla città di Milano, avesse come tema proprio quello della paternità di Dio".
"Paolo VI - ha concluso il cardinale - fu un grande dono alla Chiesa in quel momento difficile. E fu un grande dono all'umanità perché nonostante critiche e attacchi seppe reggere con forza e con saggezza il timone della Chiesa. Come sapete è in corso anche la sua causa di beatificazione. Sono stati, parecchi anni fa, i vescovi di Argentina e Brasile i primi a chiedere che si iniziasse l'iter, perché erano convinti che la testimonianza data dal servo di Dio Paolo VI nella sua vita poteva essere d'esempio a cui gli altri potevano guardare, un modello a cui ispirarsi. E quindi l'augurio che vorrei esprimere, in questo santuario che fu caro al suo cuore, è questo:  che la testimonianza di Paolo VI continui a illuminare il cammino della Chiesa e dell'umanità".
Il porporato ha toccato ancora brevemente il tema della cura della spiritualità, al termine dell'Eucaristia, lasciando un "incoraggiamento perché questo santuario, posto qui in alto, in questo luogo mariano, dove ci sono anche tanti ricordi del Papa Paolo VI, sia sempre, nella società rumorosa e affaccendata di oggi, un'oasi di pace e di raccoglimento, dove lo spirito può aprirsi a Dio". Infine, la visita al monastero di clausura, dove ha parlato con le Romite anche delle figure dei Papi Paolo VI e Giovanni Paolo II. "Ho detto loro - ha poi confidato al termine della visita - che loro sono nel cuore della Chiesa. Il cuore non si vede in un organismo, ma è quello che fa funzionare l'organismo facendo circolare il sangue. Anche le suore di clausura non si vedono, ma la loro testimonianza è importante. Ed è importante per il bene della Chiesa la loro dedizione alla preghiera".



(©L'Osservatore Romano - 11-12 agosto 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:23
Il cardinale Tarcisio Bertone a Brescia nel trentesimo della morte di Paolo VI

Pastore saldo nella verità
e pronto al dialogo


Il segretario di Stato ha presieduto nel tardo pomeriggio di sabato 6 settembre, nella cattedrale di Brescia, la concelebrazione eucaristica nel trentesimo anniversario della morte del servo di Dio Paolo VI. Pubblichiamo quasi integralmente l'omelia del porporato.

In questo momento, il pensiero va naturalmente a quel 6 agosto di trent'anni fa quando, al tramonto del giorno in cui la liturgia commemora la Trasfigurazione del Signore, Papa Montini lasciava questa terra per la Casa del Padre.
In verità si potrebbero leggere alla luce della Trasfigurazione l'intera vicenda terrena di Paolo VI e soprattutto i quindici anni che lo hanno visto guidare la barca di Pietro tra le onde agitate di quel periodo storico. Alla luce del Signore risorto e trasfigurato, egli si è sforzato di capire l'uomo, la sua solitudine e il suo desiderio di vita, la sua sete di felicità e l'esperienza del proprio limite esistenziale; si è sforzato di comprendere non solo l'uomo in quanto singolo bensì l'umanità nel suo insieme, in un'epoca senz'altro difficile, ma - come amava egli stesso dire - anche affascinante per le mille sfide che interpellavano, e tuttora continuano a interpellare, i credenti e gli uomini di buona volontà. Paolo VI sentiva di amarla profondamente l'umanità, e rese concreto questo suo amore nel costante sforzo di aiutarla a trovare in Cristo la luce della verità e il valore della vita.
Nella prima lettura abbiamo ascoltato le seguenti parole tratte dal libro del profeta Ezechiele:  "O figlio dell'uomo, io ti ho posto come sentinella per la casa d'Israele. Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia". Queste parole potrebbero molto opportunamente descrivere l'attitudine con cui Paolo VI ha guidato il popolo cristiano, tracciando per la Chiesa, Madre e Maestra, nuove vie e nuovi metodi, con l'unico scopo di condurre a Cristo Salvatore gli uomini di ogni nazione, senza distinzione di razza e cultura. Egli avvertiva la responsabilità e il dovere "ancor prima di parlare, di ascoltare la voce, anzi il cuore dell'uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo". Così ebbe a scrivere nella sua prima Enciclica, la Ecclesiam suam, notando ancora che "non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo" (cfr. n. 90).
"Ti ho posto come sentinella per la casa d'Israele". In Papa Montini si avvertiva la preoccupazione costante di essere guida salda per il popolo cristiano, spesso sedotto dalle lusinghe e condizionato dalle minacce dei tanti nemici di Cristo. Pastore generoso e lungimirante, paziente e prudente, saldo nella verità e pronto al dialogo, egli seppe mantenere dritto il timone della Barca di Pietro, che a momenti dava l'impressione quasi di cedere tra i marosi improvvisi di un'umanità sofferente, inquieta e sballottata da ogni più lieve vento di novità. Percepì fino in fondo la sua responsabilità di pastore dell'intero gregge del Signore, e non esitò, come Ezechiele, ad assumere anche posizioni scomode, controcorrente per amore della Verità, per restare fedele alla Parola di Dio. Sì! Possiamo dire che Papa Montini visse il suo servizio pastorale come sentinella di un popolo smarrito, quasi senza città e senza mura, come vedetta che previene il gregge circa i pericoli che incombono sul suo cammino.
"Ascoltate oggi la voce del Signore". Quest'invito, che abbiamo ripetuto come ritornello al salmo responsoriale, ci richiama alla mente le sue accorate esortazioni. Con voce ferma, anche se tremolante sotto il peso degli acciacchi fisici degli ultimi anni, Paolo VI non smise di rivolgerle al popolo di Dio e all'umanità intera. Ebbe a scrivere un giorno:  "Mi sento padre di tutta l'umanità... non mi sento superiore, ma fratello inferiore, perché porto il peso di tutti". L'opinione pubblica, forse anche all'interno della Chiesa, parve talora non capire l'ardore che lo spingeva a spendersi totalmente per il bene dell'uomo, per il vero bene dell'uomo; non colse nei suoi gesti e nei suoi interventi il desiderio costante di capire e di percorrere le esigenti vie dell'amore. Non un amore generico e sentimentale, ma l'amore di cui parla san Paolo nella lettera ai Romani e che abbiamo riascoltato nella seconda lettura:  la carità che non fa alcun male al prossimo, la divina carità che è pienezza della Legge.
Sono rimasto personalmente molto colpito quando, nello scorrere la sua biografia, mi è capitato tra le mani il primo scritto del fanciullo Giovanni Battista in un quaderno di scuola. Vi troviamo la scritta a grandi caratteri:  "Io amo", ripetuta per tutta la pagina. "Io amo" è in effetti il leit motiv che attraversa, potremmo dire, tutta la sua vita e che ritroviamo nel suo testamento:  "O uomini, comprendetemi:  tutti io vi amo... Prego il Signore che mi dia la grazia di fare della mia prossima morte dono d'amore alla Chiesa... Potrei dire che l'ho sempre amata... Ma vorrei che la Chiesa lo sapesse". L'amore, questa profonda attitudine del cuore che sta alla base di ogni più autentico gesto umano e che abbiamo sentito richiamare nella seconda lettura, possiamo dunque considerarlo come la nota caratteristica dell'intero suo pontificato. Anzi, di tutta la sua esistenza, come ebbe a notare egli stesso in un appunto personale:  "Forse la nostra vita - scriveva - non ha altra più chiara nota che la definizione dell'amore al nostro tempo, al nostro mondo, a quante anime abbiamo potuto avvicinare e avvicineremo:  ma nella lealtà e nella convinzione che Cristo è necessario e vero".
Amore per Cristo e amore per i fratelli. Spinto dalla carità, come san Paolo di cui volle prendere il nome, Paolo VI si fece pellegrino e messaggero di pace fino agli estremi confini della terra. Resta memorabile il discorso che tenne a New York, nella sede delle Nazioni Unite, il 4 ottobre del 1965, quando disse:  "Noi siamo come il messaggero che, dopo lungo cammino, arriva a recapitare la lettera che gli è stata affidata; così Noi avvertiamo la fortuna di questo, sia pur breve, momento, in cui si adempie un voto, che Noi portiamo nel cuore da quasi venti secoli... è da molto tempo che siamo in cammino, e portiamo con Noi una lunga storia". A Manila, nelle Filippine, nell'omelia pronunciata il 29 novembre del 1970 commentò:  "...non sarei mai venuto da Roma fino a questo Paese estremamente lontano, se non fossi fermamente convinto di due cose fondamentali:  la prima:  di Cristo, la seconda:  della vostra salvezza. Convinto di Cristo, sì io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo, guai a me se non proclamassi il Vangelo. Per questo io sono mandato da Lui, da Cristo stesso. Io sono un apostolo, io sono un testimone".
Nella pagina evangelica dell'odierna XXIII domenica del tempo ordinario, san Matteo riferisce queste parole del Signore ai suoi discepoli:  "Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo". La consapevolezza di tale responsabilità ecclesiale, che incombe in primo luogo sul Successore di Pietro, fu sempre chiara in Paolo VI e lo rese Pastore fedele a Cristo e alla Chiesa. Ciò appare chiaramente nell'azione da lui svolta durante il Concilio Vaticano ii, eredità che raccolse dal Beato Giovanni XXIII, come pure negli anni non facili del periodo post-conciliare. Non possiamo negarlo:  ci sono stati momenti bui. Nell'omelia del 29 giugno 1972 lo stesso Pontefice accennò al fatto che da qualche fessura sembrava essere entrato "il fumo di Satana nel tempio di Dio... Non ci si fida più della Chiesa - diceva -, ci si fida del primo profano che viene a parlarci da qualche giornale per rincorrerlo e chiedere a lui se ha la formula della vera vita". E a proposito del Concilio aggiungeva:  "Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza. Predichiamo l'ecumenismo e ci distacchiamo sempre più dagli altri. Cerchiamo di scavare abissi invece di colmarli".
Gli anni del post-Concilio furono per lui segnati talvolta da solitudine con la percezione di non essere compreso; furono però anche anni di indefessa fedeltà alla Chiesa e di dedizione per l'umanità. Come non vedere sotto la luce dell'amore e della speranza cristiana, l'enciclica Mysterium fidei con la quale Paolo VI volle riproporre la fede nell'Eucaristia, presenza reale del Signore Gesù; il Credo del popolo di Dio, e ancora l'enciclica sociale Populorum progressio? Come non leggere in questa chiave di fiducia la passione ecumenica che lo spinse a incrementare il dialogo con i governanti dell'Est europeo? Come non cogliere l'afflato profetico nell'enciclica Sacerdotalis caelibatus, con la quale chiese ai sacerdoti di restare fedeli alla promessa di celibato, segno visibile e diffusivo della gioia cristiana? Sotto lo sguardo dell'amore possiamo vedere anche la mano tesa ai seguaci di Lefebvre e la sua paziente ricerca del dialogo con tutti. Fino agli ultimi istanti mantenne vigile la sua coscienza di essere il Pastore della Chiesa universale. Ripeteva al suo fedele segretario particolare, monsignor Pasquale Macchi:  "Sono vecchio, sono debole, ma sono Pietro! Io non voglio tradire Cristo!".
Il 29 giugno 1978, ultimo anniversario della sua elezione a Papa, quasi preavvertendo l'ora del trapasso, tracciò un bilancio del suo pontificato:  "Ecco Fratelli e Figli - disse con commozione -, l'intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. Fidem servavi! Possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito "il santo Vero"". Parole che fanno eco a ciò che un giorno, pensando al suo passaggio all'eternità, aveva scritto:  "Mi piacerebbe, terminando, d'essere nella luce... nella riconoscenza che tutto era dono, tutto era grazia".
Mentre preghiamo perché quest'amato Pontefice possa presto essere venerato come Beato, chiediamo al Signore che conceda anche a noi di vivere fedeli alla nostra vocazione e di comprendere nella fede che tutto è grazia:  la vita, la morte, il presente, il futuro. Ci conceda Iddio di essere, come fu Papa Montini, testimoni della gioia cristiana e di proclamare con la vita che noi siamo di Cristo e Cristo è di Dio.



(©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)
Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:24

Lettera del Papa per il 30° anniversario della morte di Papa Paolo VI

Inviata al Vescovo di Brescia, monsignor Luciano Monari

 

 



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Al Venerato Fratello

LUCIANO MONARI

Vescovo di Brescia

In occasione del trentesimo anniversario della morte del Papa Paolo VI, desidero far giungere un cordiale e beneaugurante saluto a Lei, Venerato Fratello, al Presbiterio e all'intera comunità diocesana di Brescia, dalla quale questo mio Predecessore ha ricevuto il dono della fede ed ha attinto quei grandi valori di pietà, cultura ed umanità, ai quali ha sempre conformato la sua esistenza, di Sacerdote, di Vescovo e di Successore di Pietro. A codesta Chiesa, alla quale fu introdotto da zelanti Sacerdoti, egli fu sempre legato da un amore mai sopito e da sentimenti di profonda e sincera riconoscenza, che non mancò di esprimere in diverse circostanze con gesti colmi di affetto e di venerazione. Al Servo di Dio Paolo VI sono anch'io personalmente grato per la fiducia che ebbe a mostrarmi nominandomi, nel marzo 1977, Arcivescovo di Monaco di Baviera, e, tre mesi dopo, annoverandomi nel Collegio Cardinalizio.

Egli fu chiamato dalla Provvidenza divina a guidare la Chiesa in un periodo storico segnato da non poche sfide e problematiche. Nel ripercorrere col pensiero gli anni del suo pontificato, colpisce l'ardore missionario che lo animò e che lo spinse ad intraprendere impegnativi viaggi apostolici anche in nazioni lontane e a compiere gesti di alta valenza ecclesiale, missionaria ed ecumenica.

Il nome di questo Pontefice resta legato soprattutto al Concilio Ecumenico Vaticano II. Il Signore ha voluto che un figlio della terra bresciana diventasse il timoniere della barca di Pietro proprio durante la celebrazione dell'Assise conciliare e negli anni della sua prima attuazione.

Con il passare degli anni diventa sempre più evidente l'importanza per la Chiesa e per il mondo del suo pontificato, come pure l'inestimabile eredità di magistero e di virtù che egli ha lasciato ai credenti e all'intera umanità.

Sono trascorsi 30 anni da quel 6 agosto del 1978, quando nella residenza estiva di Castel Gandolfo si spegneva Papa Paolo VI. Era la sera del giorno in cui la Chiesa celebra il mistero luminoso della Trasfigurazione di Cristo. Nel testo preparato per l'Angelus del 6 agosto, che non poté pronunciare, volgendo lo sguardo al Cristo trasfigurato aveva scritto: «Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo "partecipi della natura divina"» (Insegnamenti di Paolo VI, XVI (1978), 588).

Nel ricordarne la pia scomparsa, rendo fervide grazie a Dio per aver donato alla Chiesa un Pastore, fedele testimone di Cristo Signore, così sinceramente e profondamente innamorato della Chiesa e così vicino alle attese e alle speranze degli uomini del suo tempo, auspicando vivamente che ogni membro del Popolo di Dio sappia onorare la sua memoria con l'impegno di una sincera e costante ricerca della verità.

Con tali sentimenti, mentre invoco la materna protezione della Vergine Maria, invio di cuore a Lei, venerato Fratello, e a quanti sono affidati alle sue cure pastorali una speciale Benedizione Apostolica.

Da Castel Gandolfo, 26 Luglio 2008

BENEDICTUS PP. XVI





[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]

Cattolico_Romano
00mercoledì 10 dicembre 2008 12:24
Presentato a Milano il libro che raccoglie i testi del cardinale Martini su Papa Montini

Paolo VI
«uomo spirituale»


di Alberto Manzoni

Milano, 3. "È stato probabilmente un atto di audacia e di temerarietà, quello dell'amico professor Marco Vergottini, di chiamare a parlare una persona anziana, che non sa se potrà esprimere bene le cose. È stato anche un atto di fiducia, per cui lo ringrazio vivamente". L'emozione è forte in tutti quando prende la parola il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, a conclusione della presentazione del volume Paolo VI "uomo spirituale", che raccoglie i suoi testi su Papa Montini, edito a cura dell'Istituto "Paolo VI" di Brescia ("Quaderni dell'Istituto", n. 27) e delle Edizioni Studium di Roma. Il libro ed il suo autore sono protagonisti, giovedì 2, presso il centro "San Fedele", nella omonima piazza milanese. Qui ci sono i padri della Compagnia di Gesù, l'ordine a cui Martini appartiene e che gestisce anche la sede di Gallarate (Va), dove il porporato da qualche mese si è trasferito, lasciando l'amata Gerusalemme.
L'emozione "si sente" anche perché l'arcivescovo emerito parla apertamente della propria salute che declina. E poi perché questo momento richiama alla mente altri eventi, come il recente ricordo (6 agosto) del 30º anniversario della morte del servo di Dio Paolo VI - Giovanni Battista Montini, predecessore di Martini sulla cattedra di Ambrogio prima di essere successore di Pietro. L'emozione è confessata dallo stesso cardinale, che arriva puntuale attorno alle 18 nell'auditorium gremito. Qui, accolto da un lungo applauso, scruta i visi dei presenti:  molti sono quelli conosciuti nei ventidue anni e mezzo del suo episcopato (1980-2002); e dice di sentirsi "in una fornace di emozioni, perché ogni persona che vedo ricorda tanti bellissimi momenti e mi riempie il cuore di grandi sentimenti, soprattutto di quello fondamentale del ringraziamento", così presente nella Bibbia. Ringrazia perché "voi, con tanti gesti di bontà, di amore, di obbedienza, di ascolto, mi avete costruito come persona. Quindi io devo moltissimo a voi, arrivando alla fine della mia vita". Fra gli intervenuti, numerose sono le autorità civili e religiose, fra cui i vescovi di Pavia, Giovanni Giudici, e di Lodi, Giuseppe Merisi, - entrambi di origine ambrosiana - e l'ausiliare di Milano Erminio De Scalzi. L'arcivescovo di Milano, cardinale Dionigi Tettamanzi, fa pervenire un cordiale ed affettuoso messaggio augurale.
I ricordi personali ben si inseriscono nel tema della serata. Il libro, frutto dell'accuratissimo lavoro del professor Vergottini - "capolavoro di critica testuale" lo definisce il cardinale -, contiene trenta testi di diversa lunghezza e origine:  discorsi, articoli, relazioni; più un inedito Affidamento totale a Dio. Rileggendo il "Pensiero alla morte" di Paolo VI, scritto a Gerusalemme in febbraio. E proprio con quel Pensiero alla morte, letto dall'attore Ugo Pagliai, si concluderà l'incontro.
Il cardinale Martini parla dopo Giuseppe Camadini, presidente dell'Istituto "Paolo VI" di Brescia, Vergottini - che firma anche l'introduzione al volume - e il vescovo ausiliare Franco Giulio Brambilla, vicario episcopale in diocesi per la Cultura e preside della Facoltà teologica dell'Italia Settentrionale. Camadini ricorda le occasioni nelle quali il cardinale Martini accettò di intervenire ad iniziative dell'istituto bresciano. Il curatore dell'opera, dal canto suo, ne espone in sintesi il piano, cui si riferisce anche il relatore seguente, suddividendo i contributi in due gruppi - quelli relativi alle grandi intuizioni montiniane ed i testi "occasionali" - oltre all'Affidamento sopra citato.
Al vescovo ausiliare, in effetti, è affidato il compito più consistente:  vedere il rapporto tra Montini e Martini nei motivi della diversità e della affinità. Sembrerebbe - esordisce monsignor Brambilla riprendendo il curatore - che la vicinanza fra i due arcivescovi ambrosiani stia nei cognomi così simili:  per il resto, appaiono "troppo diversi i contesti storico-ambientali, troppo differente la tradizione teologico-spirituale, troppo diseguali gli uffici esercitati prima dell'episcopato, distinti gli interessi personali, [...] infine incomparabili le due personalità per doti, sensibilità, esperienza credente e stile del linguaggio".
Dove sta, dunque, l'affinità? "È indicata nel titolo della raccolta - dice il presule -. Martini interpreta proprio la falda più profonda della personalità di Montini come "uomo spirituale", un'umanità resa trasparente dallo sguardo dello Spirito, che mette in contatto vivo la singolarità del Mistero cristiano con l'attesa dell'uomo moderno in struggente ricerca di sé". I testi del cardinal Martini segnalano tre grandi aspetti della figura di Montini-Paolo VI, "uomo di Chiesa, del Concilio, della Luce". E la "parentela spirituale" fra i due non avviene "nonostante" le diversità, ma proprio "attraverso" di esse. Citando qualche "folgorante" frase di un "Martini d'annata", il vescovo trova nel paradosso del "diverso nel comune" il nodo che unisce due personalità capaci di cultura vera, comprensibili sia in ambito dotto sia in riferimento alle vicende quotidiane, "liberati" anche da clichés superati. Nel commentare il Pensiero alla morte di Paolo VI, Martini esprime una sua sensibilità rispetto alla bellezza del mondo, sottolineando l'importanza del fatto che esso "sia stato creato e amato da Dio e sia stato creato in Cristo". Se Montini indicava nell'incontro con Cristo l'evento più grande della vita, Martini concorda ma specifica, e si dice portato "ogni giorno di più a vedere la creazione come immersa nel grande movimento che va verso il Cristo totale". Il vescovo Brambilla conclude con "lo stupore grato che chiede al Signore di non lasciare mancare alla Chiesa e al mondo uomini spirituali così".
Pure il cardinale Martini, dopo aver dato voce alle emozioni di cui s'è detto, parte dal citato motivo "diversità-affinità":  "Certo, io mi sono sentito sempre molto diverso da Montini, non ho mai pensato di imitarlo, ma ne sono stato stimolato molto. Sono stupito delle tante cose che ho detto su Montini. Come dice san Giovanni, molte altre si potrebbero aggiungere". Perciò il porporato sceglie di limitarsi ad alcuni tratti distintivi del servo di Dio, prendendo spunto anche da episodi risalenti agli anni in cui il padre Martini era rettore del Pontificio Istituto Biblico:  "Montini era molto timido e schivo. Dopo un'udienza a dei professori il segretario monsignor Pasquale Macchi raccomandò:  "Non avvicinatevi al Papa, bisogna lasciargli spazio e che lui cominci a parlare con ciascuno"". Questo era il suo stile, "non era tanto l'uomo per le masse, ma l'uomo del dialogo personale. Aveva una capacità di ascolto straordinaria. Io ancora mi stupisco vedendomi vicino a lui, mentre gli parlo, e lui quasi trattiene il respiro per cogliere bene ciò che gli si dice". Si può descriverlo, insomma, come "l'uomo dell'ascolto del singolo, che cercava di cogliere le sfumature della identità personale. La timidezza era un altro aspetto della sua capacità di ascolto". Il cardinale ricorda, ancora, "il suo riserbo ed il rispetto per il lavoro dei competenti". Aggiunge che lo sentì un po' come un padre, quando in circostanze concrete si rese conto di necessità impellenti e quindi provvide in merito. Infine, ricorda "la sua prudenza e delicatezza", che gli faceva ascoltare pareri e consigli per prendere le decisioni più opportune.
Infine il cardinale Martini sottolinea in modo umanissimo e drammatico un'altra "differenza" rispetto a Montini e nello stesso tempo un motivo per trovarselo ancora vicino:  "Il Pensiero alla morte, che ascolteremo fra poco, splendida chiusura di questo momento intenso, ritengo che sia stato scritto vari anni prima della morte, quando egli sentiva la morte come tutti la sentiamo, incombente ma non imminente. Invece io mi trovo a riflettere nel contesto di una morte ormai imminente:  sono più o meno nell'ultima sala di aspetto. E mi accorgo, allora, che se dovessi scrivere, non lo scriverei così".
Si tratta, infatti, di un testo "troppo bello, meraviglioso, lirico". Ma a chi si trova "dentro" situazioni estreme tocca piuttosto di "sentirsi scarnificato nelle parole, nei sentimenti. E si trova di fronte alla difficoltà che non ho ancora risolto - se qualcuno di voi mi dà un aiuto gli sarò grato -, cioè di come esprimere una realtà tutta negativa con parole razionali che sempre hanno bisogno di qualcosa di positivo". L'arcivescovo non nasconde, quasi in modo impietoso, una condizione come la sua:  "Mi trovo di fronte a questa esperienza, che è esperienza definitiva, conclusiva". E qui trova il dato di consolazione e di speranza:  "In questo mi ha aiutato Paolo VI, col suo testo, ma anche negli ultimi mesi della sua vita, quando l'ho visto cedere di fronte alla malattia. E chiedo per sua intercessione - conclude il cardinal Martini - di potere avere anche questo sguardo di verità".



(©L'Osservatore Romano - 4 ottobre 2008)
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