L'essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento

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Cattolico_Romano
00venerdì 24 luglio 2009 07:13


L'essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento

Ultima cena e sacrificio


di Robert Abeynaike


Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell'ultima cena. Quest'affermazione potrebbe, a prima vista, sorprendere, dato che l'autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento, almeno direttamente, all'ultima cena.

L'autore della Lettera agli Ebrei è l'unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di "sacerdote" - o piuttosto, "sommo sacerdote" - e di "mediatore della Nuova Alleanza". L'autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell'Antico Testamento, rilegge infatti l'azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato:  l'inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell'Espiazione. Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali. Nella prima, Mosè ratificava l'alleanza di Dio con il popolo d'Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole "Ecco il sangue dell'alleanza..." (cfr. Esodo, 24, 8; Lettera agli Ebrei, 9, 18-22).

Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario - il "Santo dei Santi" dove aspergeva il sangue, compiendo così l'espiazione dei peccati del popolo (cfr. Levitico, 16; Lettera agli Ebrei, 9, 6-10). Ma secondo quanto dice il nostro autore:  "è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri" (Lettera agli Ebrei, 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 6-10). 

L'autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di:  un nuovo sacerdote - "Il Signore ha giurato e non si pente:  "Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek"" (Salmi, 110, 4); un nuovo sacrificio - "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto:  "Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà"" (Salmi 40, 7-9 ; una nuova alleanza - "Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d'Israele un'alleanza nuova; non come l'alleanza che feci con i loro padri... Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati" (Geremia, 31, 31-34).

Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza. Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice:  "Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri (...) non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario (del cielo), procurandoci così una redenzione eterna... il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente. Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza..." (Lettera agli Ebrei, 9, 11-15).

A questo punto dobbiamo porre una domanda. Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell'atto di offrire un sacrificio per l'espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell'atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell'ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole:  "Questo, è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati" (Matteo, 26, 28). Dicendo infatti le parole "Questo è il mio sangue dell'alleanza", Cristo, si manifestava come il Mediatore di un'alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi, contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole:  "Ecco il sangue dell'alleanza" (Esodo, 24, 8). Aggiungendo le parole "versato per molti in remissione dei peccati", egli faceva intendere che l'alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata:  "Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati" (31, 34). Inoltre, le parole:  "il mio sangue... versato per molti in remissione dei peccati", dove l'idea di un sacrificio per l'espiazione dei peccati del popolo è chiarissima, non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno d'Espiazione. Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell'invisibilità del cielo - "Entrò una volta per sempre nel santuario", (Lettera agli Ebrei, 9, 12) - il parallelo con l'azione del sommo sacerdote  levitico - il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell'invisibilità del santuario terrestre per compiere l'espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale - si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell'autore.

Potremmo, dunque, affermare che l'ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui il nostro autore avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza. Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo. Le parole, invece, sul pane - "Questo è il mio corpo" - avrebbero dovuto far tornare in mente all'autore la profezia dei Salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell'Antica Alleanza - "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà" (40, 7-9). Il nostro autore infatti commenta al riguardo:  "Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre" (Lettera agli Ebrei, 10, 10). Infine, il pane e il vino dell'ultima cena, gli stessi doni di Melchisedek (cfr. Genesi, 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell'offerta del suo corpo alla cena fosse appunto - in adempimento del vaticinio del Salmo 110, 4 - il sacerdote "al modo di Melchisedek".

In conclusione, possiamo dire che quando il nostro autore in Lettera agli Ebrei, 9, 11-15 - il cuore della sua epistola - parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l'offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell'ultima cena. I versetti immediatamente seguenti lo confermano:  "Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l'eredità eterna che è stata promessa. Dove, infatti, c'è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive. Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue" (Lettera agli Ebrei, 9, 15-18).
 
In questi versetti l'autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca diathéke, che era usata nella Settanta per tradurre la parola ebraica berith - alleanza - mentre nel greco contemporaneo significava testamento. Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d'ogni giorno. Come una diathéke - testamento - diventa valida solo alla morte del testatore,  così pure, la diathéke - alleanza - proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.

Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca - diathéke - un'alleanza e un testamento hanno qualcos'altro in comune:  il concetto di un'eredità. L'eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan. L'eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio. Quindi, noi troviamo Cristo all'ultima cena non solo manifestandosi nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio:  "Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo, 26, 29; cfr. Luca, 22, 29-30). Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione:  "Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di  modo che, quando la sua morte fosse intervenuta... coloro che sono stati chiamati ricevano l'eredità eterna che è stata promessa (Lettera agli Ebrei, 9, 15).

Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l'ultima cena fu:  un sacrificio in cui Cristo "offrì se stesso a Dio" (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 14) per la remissione dei peccati; la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in "eredità eterna" (cfr. Lettera agli Ebrei, 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (cfr. Matteo, 26, 29; Luca, 22, 29-30).

Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce adesso doveva seguire ineluttabilmente. Le parole e le azioni di Cristo all'ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale, non avrebbero avuto nessun senso o valore.

Ma, la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice. Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d'Espiazione era l'ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l'espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione era entrato nel santuario celeste "per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore" (Lettera agli Ebrei, 9, 24); "procurandoci così una redenzione eterna" (Lettera agli Ebrei, 9, 12). Appunto perché Cristo "offrì se stesso con uno Spirito eterno" (Lettera agli Ebrei, 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane "sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek" (Lettera agli Ebrei, 6, 20). Abbiamo dunque, potremmo dire, un "Giorno di Espiazione" che dura per sempre, cui l'autore si riferisce quando dice:  "Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente" (Lettera agli Ebrei, 9, 14). E ancora:  "Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario (celeste) per mezzo del sangue di Gesù... e un sacerdote grande sopra la casa di Dio accostiamoci... (Lettera agli Ebrei, 10, 19-22). In un altra occasione egli parla di cristiani come di un popolo che si è accostato "al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell'aspersione..." (Lettera agli Ebrei, 12, 22-24). Il "sangue di Gesù" è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.

Quel perdurare dell'opera redentrice di Cristo, che l'autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella ben nota preghiera liturgica, dove si afferma che ogni volta che la messa è celebrata "si effettua l'opera della nostra redenzione" (cfr. Presbyterorum ordinis, 13). Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.

Infine, l'eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo, effettivamente:  "Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare" (cfr. Lettera agli Ebrei, 13, 10). San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella Prima Lettera ai Corinzi, 10, 14-22 paragona l'eucaristia sia ai pasti sacrificali dell'Antico Testamento (cfr. Levitico, 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto. Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.

Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo:  "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me" (6, 56-57). Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra. Pare che questo sia lo stesso concetto che l'autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice - nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell'Antico Testamento - che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.

Questa indagine sull'insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende. Giustamente i padri orientali l'avevano chiamato il sacrificium tremendum. È chiaro che la maniera in cui l'eucaristia viene celebrata - l'ars celebrandi - deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti. È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l'anno sacerdotale appena indetto, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano ii:  "(I presbiteri) esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico" (Lumen gentium, 28).



(©L'Osservatore Romano - 24 luglio 2009)
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