L'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

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S_Daniele
00martedì 3 novembre 2009 19:08


L'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore

L'ethos dei giuristi


Si inaugura martedì 3 novembre a Milano l'anno accademico 2009-2010 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Pubblichiamo un estratto della prolusione.

di Ernst-Wolfgang Böckenförde

L'ethos non può essere messo sullo stesso piano dell'etica; tra le due parole c'è senz'altro una parentela linguistica, eppure, quanto al loro significato, sono distinte. In che cosa sta tuttavia la differenza? Può essere semplicemente ridotta alla contrapposizione tra ciò che è normativamente dovuto - l'etica - e ciò che è fattualmente vissuto - l'ethos? Volgiamoci dunque alle principali forme significative attraverso le quali si manifesta l'ethos dei giuristi.

Ci sono in primo luogo la forma di agire e l'ethos dei giuristi romani. Come si formarono questi giuristi? Quali furono i loro compiti, le forme della loro attività e il loro modo d'agire? In che maniera hanno contribuito allo sviluppo del diritto romano e alla formazione di un ethos giuridico? Affidiamoci alla guida di Franz Wieacker e di Wolfgang Kunkel ricorrendo alle loro ricerche sulla storia del diritto e dei giuristi romani.

I giuristi romani ebbero i propri precursori nei pontefici il cui carattere è principalmente sacrale. I pontefici erano custodi della tradizione culturale e statale accumulatasi nel tempo, dell'archiviazione dei patti politici e delle leggi oltre che dell'applicazione del calendario delle feste. Essi erano perciò detentori di quel particolare sapere che abbraccia tutti i processi giuridicamente rilevanti fatti oggetto di registrazione scritta. In virtù dell'accesso privilegiato a questo sapere, quando non addirittura del monopolio dello stesso, ebbero in aggiunta anche il compito dell'applicazione pratica di questo patrimonio di conoscenze. Il loro ambito originario fu la guida esperta e la consulenza prestata a funzionari e a privati in tutte le questioni che concernevano il rapporto dell'urbs e dei suoi cittadini con le divinità, come, in particolare, le orazioni, la presentazione di doni sacrificali, i rituali di espiazione. Nelle incombenze di natura prevalentemente profana, alle quali non tardò a estendersi la loro attività e che con il passare del tempo si fecero preponderanti, furono loro compiti l'interpretazione delle leggi, la concreta redazione di formule processuali così importanti per gli ordinamenti giuridici arcaici e dei rituali negoziali i quali erano modellati sull'esempio delle formule sacrificali e di preghiera, ma anche la consulenza sugli atti da osservare per scongiurare le sciagure incombenti o l'ingiustizia e i pareri sui turbamenti e sulle incertezze nei rapporti giuridici.

I pontifices e i giuristi da loro dipendenti soltanto in singoli casi occuparono magistrature o furono judices. Essi andarono piuttosto a formare una particolare istituzione, non più privata ma pubblica, radicata nella società politica:  una cerchia principalmente interna alla nobiltà che si dedicava in maniera continuativa e professionale allo specifico sapere sacrale e giuridico cui aveva accesso, e lo metteva a disposizione dei magistrati e del senato in forma di consigli privati (consilium) e di responsi (responsum).

Conformemente a questa funzione pubblica ci si aspettava dai giuristi imparzialità e gratuità. La loro attività era ritenuta un officium fondato su esperienza e autorità e al loro consiglio si ricorreva per l'autorità che ci si poteva attendere dal sapere professionale di cui erano depositari. Così gli interessati potevano suffragare la propria azione attraverso l'altrui auctoritas ed evitare i pericoli di un comportamento sbagliato che incombono in un diritto fortemente formalizzato e (ancora) condizionato dal rito. I giuristi compaiono perciò come juris consulti, come coloro che sono interrogati sul diritto, e di qui traggono il loro nome. Tre sono i loro principali compiti:  agere, l'assistenza prestata alle parti del processo e del negozio nell'azione pubblica affinché le medesime ricorrano alle corrette formule di azioni e pretese; cavere, la consulenza nel corso della formazione e della conclusione di negozi giuridici; respondere, la dichiarazione peritale sulla decisione di un caso giuridico concreto. Quest'ultima attività continuò a svilupparsi ininterrottamente fino alla tarda epoca imperiale. In un continuo rapporto con la prassi si pervenne in questo modo a uno sviluppo armonioso e a una conformazione del diritto in definizioni, regole e figure argomentative con cui i giuristi davano prova della loro perizia. A partire dall'età imperiale si afferma anche la redazione di scritti giuridici che contribuiscono alle acquisizioni del dibattito tra professionisti oppure le riproducono diligentemente.

Qual è l'ethos che sta alla base di questa attività e che in essa prende forma?

Il diritto era nell'antica Roma, come anche in epoca successiva, soltanto uno tra i molti modelli di comportamento che si integravano a vicenda. A causa della sua autonomia e della sua natura formale esso si opponeva all'immediata applicazione o riproduzione di valutazioni stragiuridiche nell'ordinamento delle condotte di sua pertinenza. E tuttavia, se si ebbe un margine di comunicazione tra i due ambiti, lo si deve all'opera dei giuristi. Come illustrato da Franz Wieacker, questi, all'incirca dalla metà del II secolo prima dell'era cristiana, divennero, tramite l'elaborazione e l'applicazione del diritto, i portatori di crescenti aspirazioni etiche, da un canto con la loro influenza nella concezione delle formule scritte e, dall'altro, garantendo la propria consulenza ai magistrati e ai giudici. Concetti come exceptio doli, restitutio in integrum, dolo petit qui petit quod statim redditurus, audiatur et altera pars, le idee di bonus vir e di probo pater familias e anche il ricorso ai mores e al mos maiorum assunsero rilevanza giuridica ed ebbero accesso allo ius civile. A ciò si aggiunsero le valutazioni aequum, bonum et iustum, iustum quali rappresentazioni delle concezioni romane di giustizia e contemporaneamente immagini riflesse della filosofia greca della giustizia, del dikaion e dell'epeikeia. Ne risultò così una serie di pilastri etici a sostegno dello ius civile per lo più rigido e formale. Ciò non avvenne tuttavia come immediata traduzione e qualificazione giuridica di concezioni etiche, sebbene tramite la creazione e la configurazione di principi, concetti e figure argomentative che fanno propri alcuni contenuti etici nella prospettiva giuridica e in base ai problemi posti dal diritto. Questo processo si consolidò al termine della Repubblica con l'influsso della filosofia della Stoa e della sua dottrina del diritto naturale. Non da ultimo l'universalizzazione del diritto naturale della polis con la sua trasposizione, sostenuta dalla Stoa, alla societas humana rese possibili processi di recezione come quello che prese forma nello ius gentium, e ciò nella misura in cui il pensiero romano iniziò, nel corso dell'espansione dell'imperium romanum, a concepire un ordinamento giuridico universale dell'umanità.

L'opera secolare dei giuristi attorno al diritto e per il diritto trovò finalmente efficace espressione negli scritti e nelle massime di celebri giuristi. Esse sono raccolte nei Digesti del Corpus iuris e permettono di riconoscere, sia sotto l'aspetto del metodo che sotto quello del contenuto, ciò che sta alla base della mentalità dei giuristi romani nonché l'ethos che si manifesta nel loro lavoro.

Ulpiano si chiede da dove tragga origine il nome "diritto". La sua risposta è che il diritto viene così chiamato in conformità alla giustizia e che è, come egli afferma richiamandosi a Celso, un'arte ossia l'ars boni et aequi. I giuristi, prosegue Ulpiano, sono al servizio della giustizia e insegnano il sapere di ciò che è buono e giusto, separando il diritto dal torto, dividendo ciò che è consentito da ciò che non lo è, e aspirando a condurre gli uomini al bene non mediante il timore della pena bensì con la promessa della ricompensa. Il contenuto essenziale del diritto e dei suoi comandi è riassunto nelle seguenti espressioni:  honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. La reciprocità connaturata al diritto è così espressa:  chiunque deve osservare come diritto ciò che ha stabilito essere diritto nei confronti di un altro.

La legge non viene strumentalizzata come mezzo per la realizzazione di interessi ma è esaltata in quanto incarnazione del diritto in regole giuridiche generali. A completamento di tutto ciò vi sono le istruzioni per la formazione e l'interpretazione del diritto. I diritti, dice Ulpiano, non sono stabiliti per singole persone ma per la generalità, ed essi debbono essere istituiti, si afferma in Pomponio, in maniera conforme a ciò che accade nella regola e non secondo l'eccezione. Comandare, vietare, autorizzare e punire, queste espressioni fanno la loro apparizione indicando diverse modalità di efficacia delle leggi. Comprendere le leggi, sostiene Celso, non significa conoscerne le parole, bensì il senso e lo scopo; è scorretto, senza conoscere la legge nel suo complesso, giudicare o rilasciare un parere in base a una qualunque parte di essa. E, qualora il senso e lo scopo delle leggi siano applicabili a un nuovo caso, colui che ha la giurisdizione, deve procedere alla formazione di una regola analoga e solo allora pronunciare ciò che è diritto. Massime di questo tipo, nelle quali si manifesta la sostanza etica e metodologica dei Digesti, sono riscontrabili in gran numero. Queste massime mettono in evidenza l'ethos e i metodi dei giuristi romani. La loro influenza eccede di gran lunga la durata dell'impero romano; infatti, dalla riscoperta del Corpus iuris civilis nell'XI secolo, esse e l'ethos che vi si incarna svilupparono forza capace di plasmare nuovi ordinamenti ovunque si giunse a processi di recezione del diritto romano e l'elaborazione e l'uso di questo diritto divenne realtà. Simili processi si dispiegarono anche in lunghi periodi, soprattutto nel passaggio dal medioevo all'età moderna, e proseguono fin nell'ora presente.

Le forme dell'ethos dei giuristi qui illustrate sono, secondo la peculiarità del diritto di volta in volta considerato, senz'altro differenti. E tuttavia esse consentono senza dubbio di interrogarsi sulla essenza di questo ethos:  su ciò che, nonostante le differenti forme di manifestazione, può essere riconosciuto come una sostanza comune. Questa essenza si risolve in uno specifico orientamento all'atto di elaborare e di mettere in pratica un determinato diritto:  nella ricerca cioè di ciò che qui e ora è concretamente diritto. Questo orientamento ha per scopo ciò che esclude la parzialità, il suum cuique tribuere, lo audiatur et altera pars, la chiara comprensione dei problemi e delle circostanze di fatto che di volta in volta si presentano, e il senso per la forza pacificante di procedimenti ordinati. Proprio siffatti approdi contrassegnano lo spirito del giurista, costituiscono il contenuto etico della sua professione che si palesa nelle sue specifiche virtù. Così il giurista indica ai titolari del potere politico, del potere economico e anche di quello privato i confini che il diritto loro assegna, si comporta da "giurista scomodo" e reca disturbo nei settori dell'immediata realizzazione degli interessi. D'altronde è cosciente del fatto che il diritto, ch'egli crea, pratica ed esegue, non instaura, finché tale rimane la conditio humana, alcun ordine costitutivo della perfezione, e si accontenta, invece, di un ordinamento che garantisce la convivenza pacifica e relativamente ordinata degli uomini nella condizione in cui essi realmente sono. Ciò rimanda, per alcuni aspetti, all'usus politicus legis come lo intese Martin Luther il quale distingue il diritto dall'etica e li tiene in qualche misura separati. Questa disposizione e questo contegno non sono già dati dalla natura agli attori di volta in volta interessati, non sono, per così dire, sempre presenti. Debbono essere realizzati e acquisiti con l'abitudine, attraverso un'adeguata educazione e un'applicazione pratica sorretta da una volontà a ciò ordinata. Quando tutto questo non accade, si manifestano allora lacune nel comportamento del giurista e nel suo lavoro quotidiano che portano ultimamente allo snaturamento della professione. Esempi di ciò non sono soltanto riscontrabili durante gli anni del nazionalsocialismo e del fascismo, e non solamente il turbolento secolo XX ne fornisce molteplici prove. 

Naturalmente ci sono anche molti esiti positivi. Il che rende opportuna, in conclusione, una riflessione filosofica sul diritto. Qual è, questa è la domanda, il terreno in cui affonda le radici l'ethos giuridico? Che cosa produce e plasma l'ethos giuridico - pur nelle differenti forme in cui esso si manifesta? Ci sono negli uomini una predisposizione e una facoltà che nutrono questo ethos, che rendono possibile il suo nascere e la sua formazione, che lo ravvivano e lo fanno sorgere a dispetto della brama di potere, del fanatismo e della violenza che vorrebbero negarlo e sopprimerlo?

Nelle differenti forme di emersione dell'ethos giuridico appena descritte si evidenzia continuamente uno sforzo di rendere effettive, in mutevoli circostanze e congiunture differenti, le funzioni fondamentali del diritto - le funzioni di garanzia della pace, della libertà e della distribuzione - e di approssimarsi in tal modo a ciò che è conforme a diritto e giustizia, di far sì che dikaion ed epeikeia prendano pur parzialmente forma.

La misura e le accentuazioni di queste realizzazioni possono essere differenti, e tuttavia è possibile stabilire con certezza l'orientamento dell'operare dei giuristi e un contegno corrispondente. Perché questo risultato?

Sono manifeste nell'uomo una predisposizione e una facoltà che, nel suo conoscere e agire, lo indirizzano, nella misura in cui egli ha a che fare con l'ambito dei rapporti umani, a interrogarsi incessantemente su che cosa sia giusto e adeguato. Questo domandarsi e questo aspirare alla giustizia si palesano con intensità già nei bambini, per esempio quando si tratta di regole del gioco e del rispetto di esse, della divisione e della ripartizione o anche della gerarchia tra fratelli. Molto si è riflettuto nel corso della storia dell'Occidente su questa predisposizione e su questa facoltà. La filosofia della Stoa discorreva del lògos che caratterizza specificamente l'uomo, e vide in esso la capacità della ragione di riconoscere il mondo circostante e l'ordine che lo inabita, la legge razionale della lex naturalis; e comprese ciò come partecipazione, come partecipatio al Lògos divino universale. L'apostolo Paolo fece riferimento - forse appoggiandosi alla Stoa non senza riformarne i significati - alla legge che è scritta nel cuore degli uomini e vincola ognuno. La filosofia cristiana ha apportato un ulteriore approfondimento e anche un'elevazione. La lex naturalis appare ora predisposizione e facoltà che è stata impressa nell'uomo - immagine di Dio - dal Creatore; essa è, come afferma Tommaso d'Aquino, nient'altro che il "segno della luce divina in noi - impressio divini luminis". Questo tuttavia non nel senso che alcunché di definitivamente precostituito sia in qualche modo riconosciuto dalla ragione, bensì in quello di una partecipazione (partecipatio) attiva e produttiva della ragione naturale al piano divino dell'ordine cosmico conforme alla lex aeterna - partecipazione che prende la forma di una forza conoscitiva infusa nella ragione stessa la quale è applicata alla comprensione del bene naturale per l'uomo e costituisce il fondamento dei giudizi pratici per l'azione etico-morale. In una visione successiva, ormai secolarizzata, Immanuel Kant indica nella libertà la natura e nella ragione la virtù dell'uomo; tale visione gli consente di porre - e di trarne le conseguenze per il diritto e la morale - giudizi "a priori" al fine di comprendere la libertà e la moralità dell'uomo le quali sono serbate empiricamente nel fatto della coscienza quale luogo della consapevolezza morale.

Questo fondamento antropologico dal quale si sviluppa l'ethos giuridico opera nel lavoro del giurista come un punto di riferimento etico-morale e, insieme, come un elemento di sviluppo. Naturalmente entrambi questi aspetti debbono essere resi effettivi e sviluppati mediante la formazione e l'educazione, e quindi assimilati con l'abitudine. Di qui il costituirsi di una coscienza del diritto come supporto di un'attività giuridica responsabile. Il fondamento di cui si è detto è in definitiva generalmente riferito alla conoscenza e all'azione etico-morale e non già immediatamente e specificamente al diritto. Quanto al diritto si aggiungono all'aspetto materialmente etico-morale - sia come integrazioni che come limiti - parecchi elementi strutturali risultanti dalla specifica funzione ordinante del diritto; essi fondano la sua autonomia non in quanto ordine costituivo della perfezione bensì in quanto ordine che garantisce la convivenza tra gli uomini.

Questi elementi strutturali si sono sviluppati durante i secoli in un processo non privo di oscillazioni. Essi caratterizzano la tradizione e la cultura giuridica e hanno anche aggiunto al concetto di giustizia nuovi aspetti che si manifestano soprattutto nella iustitia legalis, nella giustizia inerente al bene comune. Tali elementi non sono esterni rispetto alla sostanza etico morale del diritto bensì vi sono inseriti. Spetta all'ethos dei giuristi conservare questi elementi strutturali e svilupparli nel tempo. Alla base di ciò sta una visione sostanziale che è necessario mettere in luce, e cioè che il diritto non può essere compreso soltanto come il lato esteriore dell'etica e della morale relativo all'ambito dei rapporti interpersonali, come invece appare evidente nella prospettiva di un concetto genuinamente etico di diritto quale fu sostenuto dalla tradizionale dottrina cattolica del diritto naturale, né come mero prodotto di politica, potere e funzionalità razionale. Il diritto inteso come diritto vigente di un ordine sociale con il quale il giurista ha a che fare è piuttosto secondo la propria essenza, per dirla con una formula del sociologo e scienziato della politica francese Julien Freund, una mediazione (dialettica) tra etica normativa presente e politica. È ciò che ho espressamente sostenuto all'inizio della mia carriera accademica e che oggi vorrei ribadire con maggior forza. Ma che cosa significa?

Non si tratta qui della mediazione tra l'etica come scienza dell'agire bene e la politica, bensì della mediazione tra un'etica normativa che pretende di essere obbligatoria, e la politica. E non di una qualsiasi etica normativa lasciata alla libera scelta, bensì dell'etica presente, come canone di una società e, in particolare, di una comunità politica. Di quale tipo di etica normativa si tratti, se sia unitaria oppure differenziata e plurale, può stabilirsi soltanto concretamente, con riguardo a una società o a una comunità politica determinata, dipende dalla coscienza e dalle convinzioni dei consociati e, non da ultimo, è mediata all'interno di una cultura individuata. Questa etica normativa può, nella sostanza, corrispondere a canoni giusnaturalistici, essere con essi coerente, ma non è necessario che sia così; può non raggiungerli, addirittura rinnegarli ed essere in tal senso deficitaria.

Che cosa rimane del ruolo e del significato del diritto naturale? Il suo significato non va in alcun modo perduto, e il diritto naturale conserva il ruolo che gli conviene. Ciò appare con evidenza se si riconosce che il diritto naturale non può, come invece un tempo si è sostenuto, essere inteso e assunto nel senso di un dualismo giuridico, come un diritto vigente e applicabile, quasi un secondo tipo di diritto positivo. Una simile comprensione è stata spesso occasione di fraintendimenti e di riprovazioni. Il diritto naturale non possiede infatti il carattere proprio del diritto positivo vigente, mentre rappresenta un'etica giuridica normativa ed esercita in quanto tale la propria funzione. Ed è perciò idoneo e destinato a operare sotto tre aspetti:  in primo luogo nel senso del riconoscimento e della legittimazione del diritto positivo quando quest'ultimo corrisponda nella sostanza ai principi del diritto naturale e li traduca adeguatamente; in secondo luogo come criterio per le riforme e gli interventi migliorativi del diritto positivo dal momento e nella misura in cui sorgano e si manifestino in esso insufficienze rispetto al diritto naturale; in terzo luogo come istanza attraverso la quale il diritto positivo viene messo in discussione ed esaminato nella sua legittimità nel momento in cui quest'ultimo contraddica le pretese elementari del diritto naturale; ciò può spingersi fino al rifiuto della lealtà e persino alla resistenza nei confronti dello Stato.

Il modo in cui il contenuto del diritto positivo è plasmato dal diritto naturale; il modo in cui, per così dire, il diritto positivo abita nel diritto naturale, dipende dalla misura in cui il diritto naturale aderisce all'etica normativa presente in una comunità politica, divenendo questa stessa etica. Naturalmente ciò non si realizza da sé ma ha bisogno dell'attività e dell'opera di persuasione dei cultori e dei difensori del diritto naturale nel discorso pubblico come nel processo politico. Le possibilità sono tanto maggiori quanto più si riesce a tradurre i contenuti e le sollecitazioni del diritto naturale in linguaggio secolare e quindi sottoporli al criterio della generalizzabilità. Qualora questa mediazione nel diritto vigente abbia successo, spetta al giurista soggetto a questo diritto tenerne conto in maniera positiva e produttiva. Non per questo il giurista si fa "parte" e rappresentante di interessi particolari. Rimane invece fedele al proprio compito e al proprio ethos nel momento in cui riconosce quella specifica funzione di mediazione (dialettica) tra politica ed etica normativa del presente che è propria del diritto. Così facendo il giurista difende il diritto stesso e, attraverso questa mediazione, lo attua nel suo lavoro quotidiano.


(©L'Osservatore Romano - 4 novembre 2009)
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