La “fede schietta” delle donne

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S_Daniele
00domenica 13 dicembre 2009 11:30
La “fede schietta” delle donne

L’importanza della “fede delle madri” nelle parole di due sacerdoti

ROMA, giovedì, 10 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito due articoli apparsi sul numero di dicembre di Paulus, dedicato alla Seconda lettera a Timoteo e al tema “Paolo l'atleta”.

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Colpisce sempre rileggere il passo in cui Paolo, con un sentimento di tenero e fraterno affetto, si rivolge al suo discepolo Timoteo ricordandone le lacrime e la fede schietta, «quella che fu prima della tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce» (2Tm 1,5). Quest’ultima, ebrea sposata a un greco, è probabilmente una delle prime a convertirsi durante il primo viaggio missionario dell’Apostolo a Listra, verso il 48 d.C. circa, e sembra diventare, insieme alla nonna, la garante di una linea di continuità della fede del figlio Timoteo e, quindi, della sua vocazione. Prendendo spunto da questo passo ci si potrebbe chiedere se, venendo ai nostri giorni, il sacerdote, il seminarista o ancora il giovane in discernimento, riferirebbe in qualche misura la propria risposta vocazionale alla figura materna. Dire “madre” significa dire infatti tout court “amore”. È la madre che, subito dopo il parto, accogliendo nelle braccia il suo piccolo, comincia a insegnare in modo del tutto spontaneo al figlio il lessico dell’amore, fatto di una catena ininterrotta di “sì” incondizionati senza “se” e senza “ma”. Se poi il ministero sacerdotale è, da parte sua, un dono che richiede di essere accolto in pienezza prima di diventare una scelta esplicita di amore incondizionato per il Signore e per i suoi fratelli, si può forse azzardare che proprio l’accettazione di questa proposta dall’alto sia a lungo preparata da quella “grammatica dell’accoglienza” che si è appresa alla scuola materna. Accoglienza che, nella figura della madre, si concretizza non solo nei bisogni materiali del figlio ma anche in quelli spirituali: se la psicologia ci dice che l’attaccamento a Dio da parte del bambino risulta sempre mediata da un’esperienza affettivamente gratificante, questo vorrà ben dire che è proprio in questo humus affettivo che la trasmissione e l’accoglienza del seme della fede, e più tardi della vocazione, ha più probabilità di attecchire.

Nella Bibbia e nella storia
Non mancano nella tradizione giudaico-cristiana esempi di madri alle quali è possibile far risalire la vocazione del figlio. Tracce di questo ci sono testimoniate, ad esempio, in un episodio noto dell’Antico Testamento. Chi non ha avuto un sussulto meditando l’episodio dove la sterile Anna, nel tempio di Silo, promette a Dio il figlio che egli vorrà concederle (1Sam 1,9s): il piccolo Samuele diventerà poi il grande profeta che unse Saul primo re di Israele. Ma esempi anche più significativi possiamo ricavarli rileggendo la storia vocazionale dei santi. Uno di questi, ben presente alla memoria di tutti, è quello di Monica, la madre di sant’Agostino. Nel suo caso si trattò, sostengono non senza una punta d’ironia gli agiografi, di una vera e propria persecuzione d’amore verso il maggiore dei suoi tre figli, quel giovane che nella sua ricerca della verità passava di approdo in approdo senza mai arrivare alla vera fede. La santa seguì Agostino in tutti i suoi trasferimenti, diventandone quasi l’incubo: Madaura, Cartagine, Roma e finalmente Milano. Solo dopo la conversione del figlio e il suo battesimo (387 d.C.) la donna, che già con le sue preghiere aveva portato al fonte battesimale il marito Patrizio, ritenne completata la sua missione e poté addormentarsi in pace per il sonno eterno a Ostia, in procinto di partire per l’Africa. La sua missione era compiuta. L’efficacia delle sue preghiere andarono ben oltre quello che aveva sperato: solo dal cielo vide Agostino diventare vescovo. Chi, poi, non si è commosso per la storia di quello straordinario santo che fu don Giovanni Bosco? Toccò proprio a sua madre, Margherita Occhiena, donna di povere origini e armata solo di quella sapienza che viene dall’alto, di educare il figlio a una fede semplice e solida e, al momento in cui scoccò l’ora di Dio, di responsabilizzare il piccolo Giovannino (all’età di 9 anni!) riguardo alla sua scelta sacerdotale ammonendolo, molto prima di seguirlo nella sua missione, che «Dio viene prima di tutto». Fu anche il caso, per rimanere in Piemonte, del beato Giacomo Alberione, fondatore della Famiglia Paolina: è nel Santuario della Madonna dei Fiori di Bra che sua mamma, Teresa Rosa Allocco, gli insegnò a interpretare i segni della fede cristiana. Gli esempi nella storia anche recente della Chiesa si potrebbero moltiplicare.

Ma è soprattutto riandando con il pensiero e con il cuore alle vicende della Santa Famiglia di Nazareth che possiamo convincerci dell’importanza della madre nella vocazione del figlio.
Se infatti è Dio stesso che decide di incarnarsi nel seno di una donna e da questa attingere, oltre che la vita fisica, anche l’educazione civile e religiosa a “essere uomo” del suo tempo, non resta che ammettere che la figura materna si inscrive nell’ordine delle cose per poter rispondere a quella chiamata che viene dall’alto.

Stefano Stimamiglio

BOX: La fede della nonna
La fede dela nonna è stata fondamentale nel percorso che mi ha portato al sacerdozio. Si trattava di una fede semplice ma rocciosa, nutrita dal robusto patrimonio della sana tradizione popolare e dal senso pratico proprio della vita concreta. Un sentimento religioso comunicato attraverso la vita e la sapienza dei proverbi, che riuscivano a manifestare con semplicità il senso recondito delle cose. Faccio un esempio. Alla domanda – «Nonna, che ora è?» – lei rispondeva invariabilmente: «È ora di amare Dio e di fare il suo volere». Dopo ci diceva anche l’ora “terrena”, l’ora dell’orologio, ma intanto aveva colto l’occasione per richiamarci al nostro destino. Un altro detto che mi piaceva tanto era questo: «Oh Signor, dai masi Seracini, varda so per stì paesi!» (“O Signore, dai casolari montani, guarda giù fino a questi paesi!”). I Masi Saracini sono siti sulle cime delle montagne che sovrastano Gardolo (Tn), dove lei era nata: a me veniva sempre da ridere quando li citava e intanto mi rendeva simpatica la preghiera. Del resto, questo era il modo di pregare della nonna dopo la Messa, il rosario quotidiano e anche, negli ultimi anni, la Liturgia delle Ore, in ossequio alle indicazioni della Chiesa, sul suo piccolo breviario quotidiano zeppo di santini. Un metodo semplice e schietto il suo, impastato di concretezza e umanità, virtù tipiche di quel realismo e abbandono lieto proprio della gente di montagna. E dire che la nonna ne aveva passate di tutti i colori, nella sua vita. Nata in una famiglia povera ma dignitosa, da bambina era rimasta segnata dal traumatico incendio della casa. Suo papà era direttore del coro della parrocchia e musicista amatoriale. In casa, quando si aveva fame, si cantava... e la perfetta impostazione da soprano cristallino della nonna, mi fa presumere che se ne sia patita tanta. Da qui, un ennesimo detto tipico della nonna: «Canta, che te passa!». Ce lo diceva quando facevamo i capricci per un nonnulla. Si sposò a 16 anni perché il nonno stava partendo per la guerra. Si erano trovati a essere fidanzati in un sol giorno, quando il papà di lei l’aveva mandata, insieme alla sorella Genia, a fare un pellegrinaggio a piedi fino a Pietralba con quel signore distinto. Lui era andato in precedenza dal papà della nonna a domandarne la mano, senza che lei lo sapesse, e papà aveva deciso che si conoscessero facendo un pellegrinaggio a piedi... ma con la cautela di una terza persona a seguito. La cosa funzionò. Il fidanzamento durò pochi mesi. A 17 anni era già mamma, sotto i bombardamenti del ’45, costretta a scappare nei bunker con la piccola primogenita. Finita la guerra, andarono ad abitare in una casa poverissima, senza servizi igienici. Il marito venne assunto alle acciaierie di Bolzano e riuscì a ottenere un alloggio delle case popolari. Ma un brutto male, causato proprio dai vapori venefici delle acciaierie, lo portò via in poco tempo. La nonna aveva appena passato i quaranta, ma già era mamma di cinque figli. Li aveva cresciuti tutti da sola, risparmiando, “facendo la formichina”. Oggi, dopo tanti sacrifici e – come direbbe la Bibbia – «sazia di anni», nonna passa le sue giornate in compagnia della badante, intervallando le scadenze naturali della sua giornata (sveglia, colazione, pranzo, cena) con le preghiere di Radio Sacra Famiglia di Bolzano o Radio Maria, e attendendo la visita di qualche figlio o di qualcuno dei numerosissimi nipotini e pronipotini che si sono aggiunti alla carovana nel corso degli anni. Non è facile, per una come lei che ha sempre lavorato sodo, vedersi così, quasi sempre seduta e con le mani in mano. Eppure va avanti ancora forte, con il suo humor e i suoi proverbi. Quando era più giovane e si trovava a sera, stanca per il molto lavoro, invece di lamentarsi a vuoto, amava ripetere questa giaculatoria in dialetto trentino: «O Signor, Signor, quanto si fa e dopo si muor!». Adesso quel proverbio pieno di verità e di sapienza si riflette sul suo volto, accarezzato da mille piccoli solchi, mappa di una storia ricca di fede e di amore.

Emanuele Cuccarollo
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