La figura del sacerdote nel «Diario di un curato di campagna» di Robert Bresson

Versione Completa   Stampa   Cerca   Utenti   Iscriviti     Condividi : FacebookTwitter
S_Daniele
00martedì 6 ottobre 2009 18:20


La figura del sacerdote nel «Diario di un curato di campagna» di Robert Bresson

Dubbi e dolori di un prete solo


di Emilio Ranzato

La strada che porta al piccolo villaggio di Ambicourt è brulla e sconnessa; l'unica accoglienza per chi dovrà occuparsi della parrocchia è l'abbraccio di due amanti che alla vista del nuovo arrivato si ricompongono furtivi, eludendo con vergogna ma anche con sdegno il suo sguardo innocente.

Bastano poche inquadrature per capire tutto lo stato d'animo di un film pervaso da una sofferenza composta ma via via sempre meno tollerabile. Tanto più che il male a cui è sottoposto il giovane curato non arriva solo dall'esterno, ma nasce anche da dentro. Dall'esigenza comprensibile, e tuttavia non richiesta né tanto meno indispensabile all'ufficio cui è preposto, di sentirsi amato dai suoi fedeli. Dal bisogno di portare avanti ogni giorno una parrocchia superando tanti piccoli problemi pratici, il che lo mette presto di fronte al problema morale di dover scendere a compromessi con dei peccatori che però possono rivelarsi utili e influenti.

Probabilmente nessun autore meglio di Robert Bresson poteva portare sullo schermo il romanzo Diario di un curato di campagna (1950) di Georges Bernanos, storia di un prete malato di cancro che alle pene del corpo vede sommarsi anche quelle dell'anima a causa dell'incomprensione ricevuta dalla piccola comunità di cui dovrà prendersi cura. Per il pudore del suo stile, innanzi tutto, essenziale, addirittura severo, fatto di continue sottrazioni - alla lunga quasi dolorose ma indispensabili - per raggiungere quella verità dell'immagine a cui il grande cineasta francese credeva ciecamente.

Più di Ingmar Bergman, di Carl Theodor Dreyer, e di altri autori dal grande rigore formale, Bresson è stato infatti regista in senso stretto, perché come nessun altro ha saputo sottomettere il testo - pure spesso importante e autorevole come in questo caso - ai mezzi espressivi precipui del cinema:  la composizione certosina dell'inquadratura, i movimenti precisi e geometrici della cinepresa, e soprattutto l'uso di un montaggio che procede per piccoli dettagli per arrivare a un significato più alto e profondo, facendo vibrare la dimensione  metafisica  di volti e oggetti.

Ma ugualmente importante si rivela in questo caso un'altra caratteristica a ben vedere analoga di Bresson, ossia il suo modo di scomporre il racconto attraverso rivoli di narrazione che lasciano lo spettatore sempre più disorientato quasi fino alla fine del film, salvo poi in extremis tirarne le fila per arrivare a una ricomposizione che ha il carattere subitaneo e illuminante di un'epifania. Una tecnica quasi da tessitore di arazzi che raggiungerà le vette con storie corali come quella di Au hasard Balthazar (1966), forse il capolavoro assoluto del regista, ma che qui si rivela particolarmente congeniale a mettere in scena la vicenda di un parroco la cui coscienza, già indebolita dal precario stato di salute, sembra frangersi irrimediabilmente contro la superficie dura e impenetrabile di un prisma acuminato, rappresentato dal rapporto con gli altri:  le cattiverie delle piccole catechiste, le maldicenze del paese, un collega che perde la fede, un conoscente che si suicida, tante saranno le delusioni e le incomprensibili crudeltà a cui il protagonista si ritroverà a dover far fronte, e che gradualmente ma inesorabilmente frantumeranno le sue certezze fondendosi invece in un tutt'uno con la malattia del suo corpo.

Una malattia rara, in un uomo giovane come lui, e quindi, in un certo senso, altrettanto inspiegabile. Eppure, alla fine ci sarà ancora tempo per una pacificazione provvidenziale che darà un senso al caos:  "Che importa? Tutto è grazia", pronuncerà il protagonista in punto di morte, intravedendo nei misteri che lo avevano arrovellato gli imperscrutabili disegni divini. Parole che Bresson, coerentemente, affida alla voce fuori campo di un altro personaggio, in uno slancio supremo del suo usuale pudore.
E proprio l'epilogo permette al film di essere il più ottimista di questo  grande autore. Che nel prosieguo  della  sua opera continuerà a interrogarsi  sul  perché  del  male nel mondo senza più trovare la disinteressata generosità di quel conforto.


(©L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009)
Questa è la versione 'lo-fi' del Forum Per visualizzare la versione completa clicca qui
Tutti gli orari sono GMT+01:00. Adesso sono le 14:59.
Copyright © 2000-2024 FFZ srl - www.freeforumzone.com