La peste a Milano dal disastro al delirio

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S_Daniele
00sabato 17 ottobre 2009 19:38



Realtà storica e pregiudizio ideologico secondo Manzoni

La peste a Milano dal disastro al delirio


di Franco Camisasca

A un lettore attento non può non risultare singolare ciò che il Manzoni si accinge a fare nei capitoli trentuno e trentadue dei Promessi sposi, quando, abbandonate le vesti di colui che sta rifacendo la dicitura di un malandato manoscritto, dice di voler cambiar mestiere e diventare, almeno per un po', storico. Egli ci vuole raccontare in dettaglio come la peste sia entrata nel milanese nel 1630 o probabilmente quale sia la responsabilità degli storici che, in quel caso, sono diventati strumenti inconsapevoli delle ideologie dominanti, cioè della menzogna? Io credo che l'intenzione sia quella di cercare la verità, come sempre nelle pagine del Manzoni.

Lo scrittore vuole raccontare gli avvenimenti della peste in Milano - perché i documenti parlano prevalentemente di essa - con uno scopo:  "il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentare lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto".

La storia della peste è solo "famosa", tanti ne hanno parlato, ma pochi l'hanno voluta conoscere veramente; infatti delle relazioni contemporanee nessuna è completa, ci sono omissioni ed errori, confusioni di tempi e di cose; e neppure successivamente qualcuno se ne è occupato. Manzoni vuole distinguere i fatti più importanti da quelli secondari, mettere in sequenza gli avvenimenti, per arrivare a un resoconto "succinto", ma preciso. Gli interessano i "fatti", da cui poi dedurre dei "giudizi".

Di che cosa vuole farci partecipi? Del fatto che la vicenda della peste è diventata un pretesto per sostenere tesi preconcette, per argomentare senza riscontro nella realtà, per costruire discorsi ideologici che hanno nascosto la verità. Un procedimento molto comune nelle forme comunicative del nostro tempo che spesso ingabbiano in schemi ideologici il reale e non permettono la formazione di una mentalità critica.

Così il narratore segue passo passo come è sorta la malattia nel territorio milanese:  nell'autunno del 1629 cominciano a morire intere famiglie nel territorio dove era passato l'esercito lanzichenecco; i segni della malattia che porta alla morte sono sconosciuti ai più, tranne ad alcuni che possono ricordare la peste di cinquant'anni prima, quella di san Carlo. Sarebbe un indizio sufficiente per dare l'allarme, che infatti è lanciato dal medico responsabile della sanità a Milano, ma a una verifica sul posto, i commissari si lasciano convincere da un barbiere che le morti sono dovute a "emanazioni autunnali delle paludi", per cui nessun provvedimento viene preso. Successivamente, di fronte al diffondersi della malattia neppure le autorità politiche, informate, si preoccupano. Addirittura il governatore, incurante di qualsiasi pericolo per la popolazione, ordina pubbliche feste per la nascita del figlio del re di Spagna; ma a lui - nota il Manzoni - il popolo non era stato dato "in cura, piuttosto in balia", cioè abbandonato al suo arbitrio.

Ciò che stupisce di più - osserva il narratore - in questa prima fase di diffusione della peste è il comportamento della popolazione:  di fronte alle notizie che nei paesi intorno a Milano la malattia si sta diffondendo:  "la penuria dell'anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d'animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità:  sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo".

Ecco come nasce una mentalità:  di fronte a qualche dubbioso la maggioranza allontana con disprezzo un barlume di verità. E la peste intanto entra in città, i malati vengono portati al lazzaretto, ma i medici stessi sottovalutano il pericolo perché lo scarso numero di casi allontana il sospetto della verità e conferma sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento.

La malattia si diffonde, per cui il tribunale della sanità ordina ricoveri al lazzaretto, brucia gli oggetti toccati dagli ammalati, sequestra le case; tutto ciò invece di convincere la gente, sortisce un terribile effetto, si pensa che alcuni medici siano addirittura pro patriae hostibus, nemici della patria, vengono quindi odiati da tutti perché ritenuti causa di inutili vessazioni nei confronti della popolazione.

Per meglio dimostrare la situazione paradossale che si andava delineando, il Manzoni riferisce la vicenda di Lodovico Settala, il primo medico che aveva segnalato il pericolo; molto famoso come professore e studioso, mentre un giorno percorre la città per visitare gli ammalati, deve ricoverarsi in una casa perché la gente lo assale con grida e maleparole, è lui che "mette in ispaventio la città, il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste". Ma, dal momento che anche lui "partecipava de' pregiudizi più comuni e più funesti de' suoi contemporanei", quando a causa di un suo parere contribuisce a far torturare e uccidere una donna come strega, la popolazione di Milano lo riabilita e gli mostra "nuovo titolo di benemerito".

Si adombra qui l'epilogo spaventoso di questa storia, il disastro si sta mutando in qualcosa di ben più tragico.

Aumentando sempre più i casi di malattia e morte, i medici, quelli che si erano sempre opposti alla evidenza del contagio, sono costretti a dare un nome alla malattia e trovano quello "di febbri maligne, di febbri pestilenti:  miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché, figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s'attaccava per mezzo del contatto".

La truffa è in atto; per tranquillizzare la gente i medici si inventano nomi falsi, con i quali ancor di più allontanano la possibilità di riconoscere la realtà e nascondono l'altro male, quello del contagio.

Si inserisce così il secondo e, più gravido di conseguenze, fatto:  il contagio non attribuito a cause naturali, ma "ad arti venefiche, operazioni diaboliche". Giravano da tempo teorie di questo genere, ma una sera di maggio nel duomo di Milano ad alcuni "era parso di vedere persone andar ungendo un assito; il materiale contaminato la mattina dopo viene bruciato in piazza, così "un oggetto diventa facilmente un argomento"; un fatto inventato, e avvalorato dalle autorità sanitarie solo per "compiacere all'immaginazione altrui" si trasforma in una prova incontrovertibile. Da qui un crescendo di sogni e pazzia:  in ogni parte della città si vedono porte e muri delle case intrisi di una sostanza gialla, alcuni pensano a una burla, ma nessuno è capace di sufficiente ragionevolezza per non vedere ciò che di fatto non esiste.

La città è sconvolta, tutti alla ricerca degli autori delle unzioni. Il narratore osserva:  "Ho creduto che non fosse fuor di proposito il riferire e il mettere insieme questi particolari (...) d'un celebre delirio; perché, negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l'apparenze, i modi con cui hanno potuto entrare nelle menti, e dominarle". Il disastro si trasforma in delirio, in follia, la gente deve trovare un motivo del contagio e lo attribuisce a fantasie collettive; le concezioni errate, gli errori, si diffondono fino al punto di entrare nelle menti e dominarle, vanno a formare la mentalità di tutti. Una volta accettata l'esistenza della peste, un'altra idea si fa avanti, quella "del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro". Le autorità si muovono con provvedimenti inutili o addirittura dannosi. Nessuno è in grado di guardare la realtà dei fatti perché il "povero senno umano cozzava co' fantasmi creati da sé".

Nella città desolata i monatti diventano i padroni, la malvagità e la perversione sono le regole della convivenza e con esse cresce la pazzia:  nessuno si fida più dell'altro, si vive di sospetti anche nelle mura di casa, "la mensa domestica, il letto nuziale, si temevano come agguati, come nascondigli di venefizio". Qualcuno pensa che le unzioni siano frutto di immaginazione, ma non ha il coraggio di andare contro l'opinione dominante, perché nota amaramente il narratore:  "il buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune".

La grande parentesi storica si conclude con un cenno ai processi agli untori, cosa non nuova nella storia della giurisprudenza di allora, e con l'annuncio di un "nuovo lavoro", non senza un ironico accenno al Verri, uno di quegli storici che ha usato la peste per "un assunto di maggiore, o certo di più immediata importanza". Un indiretto sostegno alla validità della sua puntigliosa ricostruzione, perché è opportuno parlare di cose che si conoscono e non di cose di cui tutti parlano. Non a caso il Manzoni desiderava che la Storia della colonna infame fosse letta come completamento del romanzo e strumento di una sua corretta interpretazione.


(©L'Osservatore Romano - 18 ottobre 2009)
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