Lavoro e Dottrina Sociale della Chiesa

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Cattolico_Romano
00domenica 6 settembre 2009 09:02

Lavoro e Dottrina Sociale della Chiesa

ROMA, , sabato, 5 settembre 2009 (ZENIT.org).-

Pubblichiamo di seguito l'editoriale di Claudio Gentili, Direttore della Rivista di studi e ricerche sulla dottrina sociale della Chiesa, “La Società”, sul tema "Lavoro e DSC" (n 3-2009,
www.fondazionetoniolo.it/lasocieta).


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Di fronte al tema “lavoro” o meglio alla questione della persona che lavora ci ritroviamo spesso, come comunità cristiana, nell’incapacità di pensare e di dire qualcosa di significativo, che non sia la ripetizione di affermazioni generiche o la proclamazione di luoghi comuni. C’è un asse teorico che nonostante le differenze corre da Locke, uno dei padri della cultura liberale, fino a Marx che ne è stato il critico più radicale, passando per le poderose analisi di Hegel. Questi autori sono le pietre miliari dell’era dell’intronizzazione del lavoro, che assurge a fondamento della definizione dell’umano e del suo destino storico. Ecco, l’assolutizzazione prometeica del lavoro ha mortificato il profilo soggettivo dell’uomo che lavora. Ed è dunque il tema del primato dell’uomo sul lavoro che va adeguatamente approfondito, sviscerato, compreso.

L’ultima settimana sociale dedicata in modo specifico (e non generico) al tema del lavoro risale al 1970. L’ultima Enciclica dedicata a questo tema, la “Laborem exercens”, risale al 1981. Il Documento della CEI “Evangelizzare il sociale” del 1992, ha offerto alla Pastorale del lavoro gli orientamenti e le direttive per allargare lo spettro della visuale ai temi del sociale e del politico, mentre nel 2000 vi è stato un ulteriore allargamento di prospettiva sui temi della giustizia, della pace, della custodia del creato (tutti temi importanti che vanno strettamente collegati con una rinnovata riflessione sul tema specifico del lavoro). Nel lavoro infatti si riassumono le tre questioni cruciali del nostro tempo: la questione sociale, quella ecologica e quella antropologica. Eppure si avverte un deficit di riflessione teologica e antropologica sul lavoro. Sembrano prevalere, nella prassi concreta dei cristiani che danno attenzione al tema del lavoro, istanze di tipo assistenziale o rivendicativo ed è carente il discernimento sociale sulle “res novae” che riguardano il lavoro e i lavori.

Nell’attuale società si rischia di passare dall’etica del lavoro (e dello studio) all’estetica dei consumi. L’identità della persona non sia definita in riferimento al suo contributo fattivo al bene comune, bensì dalla partecipazione al “teatro” dell’apparire. Ciò ha conseguenze notevoli sull’educazione dei giovani: il binomio famiglia permissiva/accesso massiccio al mondo dei consumi porta ad una gioventù “inselvatichita”, centrata sui propri bisogni/capricci, estranea alla realtà effettiva, non in grado di cogliere il valore dei propri talenti e di metterli in gioco in un progetto rivolto a mete positive. Il lavoro così come oggi si sta configurando (personalizzato, cognitivo, relazionale, artistico, fluido, riflessivo) entro organizzazioni (imprese) non più separate ma pienamente parte della comunità sociale, rappresenta una risorsa etica in grado di dare senso all’identità personale, di riconoscere talenti e capacità, di formare persone competenti, di contribuire al bene comune nella prospettiva del servizio.

Lo scenario ottocentesco del conflitto capitale-lavoro è largamente superato dai nuovi conflitti tra flussi e territori. Come ci ha ricordato il Convegno ecclesiale di Verona, i cristiani hanno qualcosa di attuale da dire in merito al lavoro e alla festa, alla dignità del lavoro e al senso del riposo. Qualcosa di unico, di specifico che non si identifica né con la visione prometeica del lavoro tipica della lettura marxista, né con la riduzione economicistica del lavoro a merce. Tutti ricordiamo il libro di M.-D. Chenu “Per una teologia del lavoro”. È auspicabile che la teologia torni a interrogarsi sul lavoro. In uno scenario completamente diverso a quello che aveva di fronte il celebre domenicano. Nella crisi dell’ideologia che presiedeva a una visione forte del lavoro, ha acquisito centralità la questione ecologica, nel suo duplice versante del limite delle risorse e dei processi di inquinamento. Ma non è stata ancora sufficientemente tematizzata la questione dell’ecologia sociale del lavoro. È stata la crisi del concetto di homo faber che ha fatto piazza pulita di una idea di lavoro totalizzante e esclusiva, lasciando spazio a una idea del lavoro a cui non è estranea la festa e che viene integrata con le altre dimensioni della vita (la cura di sé, la crescita culturale, le relazioni, la genitorialità).

Quando si parla di lavoro sappiamo che entrano in gioco una vastità di questioni: soggettività e oggettività del lavoro, disoccupazione, frattura tra scolarizzazione e lavoro, mercato, no profit, cooperazione, equa distribuzione delle ricchezze, immigrazione, questione femminile e giovanile. Il lavoro nella Bibbia è fatica ma prima di tutto cooperazione al disegno creativo di Dio. Come ha efficacemente sintetizzato Hannah Arendt, il lavoro è sia job che work, esso è fatica ripetitiva oppure creazione intelligente. Attraverso la fatica del lavoro si ama la vita. Il sudore della fronte non esaurisce il senso del lavoro, che trova la sua ispirazione più alta nel dominare la terra con amore e nel custodire il creato. Ci sono 4 verbi nel libro della Genesi, riferiti in modo particolare al tema del lavoro: “dominare e soggiogare” (Gen 1,28), “coltivare e custodire” (Gen 2,15). Si domina e si soggioga la terra, coltivandola e custodendone il bene e la verità. Il lavoro si iscrive nell’ordine della libertà della persona: è un diritto ma anche una responsabilità.

Guardiamo con senso di rimprovero le persone che hanno poca voglia di lavorare e che considerano il posto un diritto e il lavoro un optional. Essere pigri è estraniarsi dal corso della storia, lavorare significa (quando il lavoro è esercitato in una cornice di regole che ne salvaguardino la dignità) amare la storia. Lavorare significa sentirsi solidali verso gli altri. Lavorare è spargere i semi con tenerezza, è pigiare l’uva con gioia. Il lavoro è amore visibile. Il lavoro si iscrive nel progetto di Dio creatore e la redenzione operata da Cristo dà al lavoro pienezza di significato e all’uomo che lavora pienezza di dignità.

La Dottrina Sociale della Chiesa ci insegna che il lavoro è vocazione, risposta alla chiamata di Dio a trasformare la terra, a servire la vita. E ci insegna che esso, in virtù del peccato originale, è segnato da un rapporto difficile con il tempo, con il denaro, con l’altro uomo. Può diventare alienante e sostituirsi alla vita e ai suoi ritmi, impedendo ai genitori la presenza fondamentale nella educazione dei figli o impedendo una vita serena. Il lavoro insomma è gioia, ma anche frustrazione, relazione fraterna e cooperativa ma anche sfruttamento.

Una domanda vecchia ma sempre nuova è “perchè lavorare?”. Nella risposta a questa domanda sta la grande responsabilità di coniugare momenti positivi e negativi dei cicli economici. Si può creare libertà interiore rispetto agli andamenti del mercato; si può coniugare l’ora et labora; si può tenere insieme l’ingegno dell’uomo e la Provvidenza di Dio. Il punto centrale sta nel collegare il lavoro con la dimensione trascendente della persona e lavorare sentandosi buoni amministratori del Creato. In ultima istanza cogliere la differenza tra “ego-nomia” e economia. Questo forte rapporto con la dimensione trascendente dell’uomo deideologizza il lavoro e ci fa cogliere i nessi e il complesso rapporto tra impresa, lavoro, mercato.

Il lavoro non lo porta la cicogna ma è legato all’intrapresa economica e allo spirito imprenditoriale, ma anche allo spirito cooperativo e sociale. Per educare al lavoro bisogna aver chiaro il carattere antropologico del mercato e dell’impresa come espressioni della libertà di iniziativa dell’uomo. Contrapporre lavoro e impresa o considerare il mercato e le sue imperfezioni come un limite per lo sviluppo umano non favorisce una efficace educazione al lavoro dei giovani.

Senza sviluppo non c’è lavoro e la qualità del lavoro è intimamente legata alla qualità dello sviluppo. Pronunciamo con diffidenza l’espressione “mercato del lavoro” convinti come siamo che il lavoro non è una merce. Come ci ricordava il grande filosofo e sociologo tedesco, Ralf Darhendorf, morto a 80 anni alle soglie di questa inquieta estate, che il mercato “nasce davanti al municipio” e che quindi ha bisogno di regole. Le recenti vicende della crisi finanziaria ci hanno ricordato ancora questo importante aspetto.

Il mercato è una istituzione civile della libertà. Nelle sue origini medievali è visto come il forum dove si decide il giusto prezzo e si scongiura il furto. Tornano alla memoria le lucide parole di Pio XI nell’Enciclica sociale Quadragesimo anno del 1931 in cui si denunciava la “dispotica padronanza dell’economia da parte di pochi” che distrugge il mercato e la nascita dell’”imperialismo internazionale del denaro” (oggi diremmo la supremazia della finanza sull’economia reale).

Non tutti i beni passano dal mercato. Ci sono bisogni che il mercato non riesce a soddisfare. Ci sono persone che non hanno accesso ai beni e beni che devono essere accessibili a tutti. Non c’è contraddizione tra la valutazione positiva del ruolo del mercato in una società libera e la convinzione che il mercato non è tutto e che funziona quando si incontra con la democrazia. Percepiamo con preoccupazione le difficoltà di chi non riesce a trovare il lavoro e il dramma di chi lo perde specialmente in questa grave situazione di crisi economica. Per la Chiesa e i cristiani la disoccupazione non è mai un fatto fisiologico ma una sfida che ci interpella e ci chiama a ricordare sempre il primato del lavoro sul capitale e al tempo stesso (proprio perché il lavoro non lo porta la cicogna)a costruire una società in cui cresca lo spirito di impresa e questo spirito abbia sempre un saldo ancoraggio etico. La svalutazione del lavoro nel nostro Paese (che pure lo cita nella Costituzione come fondamento della Repubblica) si evidenzia anche nella sua eccessiva tassazione.

Ripensare le politiche del lavoro vuol dire renderle coerenti con gli obiettivi del rispetto della dignità dell’uomo che lavora, della competitività delle imprese e della inclusione sociale. Proprio per questo c’è bisogno di nuove idee e i vecchi armamentari ideologici non ci aiutano più. Da un modello sociale risarcitorio con caratteri assistenziali che ha nelle tutele passive la sua strumentazione, occorre passare a un welfare delle opportunità che ha come obiettivo la dignità e le esigenze delle persone. I tre diritti fondamentali del lavoro (equa remunerazione, salute e sicurezza,apprendimento continuo) possono essere esaltati e meglio perseguiti nell’ottica nuovo dello Statuto dei lavori ipotizzato da Marco Biagi, facilitando la ricomposizione delle carriere e dei diversi percorsi lavorativi.

Occorre abituarsi a considerare il lavoro nella sua dimensione plurale: il lavoro che manca al sud, i lavoratori che mancano al nord (anche se la crisi economica ha aggredito territori dove il lavoro abbondava), il lavoro in famiglia, il lavoro senza luogo (telelavoro), il lavoro domestico (che ancora ci si ostina a non riconoscere), il lavoro nero (che cresce), il lavoro non assicurato, il lavoro artistico e artigianale, il lavoro dell’imprenditore, il lavoro nelle cooperative, il lavoro indipendente del popolo delle partite IVA. Merita maggiore attenzione l’aspetto plurale del lavoro che ormai ha progressivamente archiviato l’archetipo del lavoro svolto da adulti maschi, in posizione di dipendenza, per tutta la vita, tendenzialmente nello stesso posto. Il lavoro oggi si configura come un percorso il cui esito è dato dalle qualità della persona e dalla rete di condizioni e opportunità per valorizzare le persone. Nel contempo il concetto di lavoro registra una dilatazione semantica al fine di ricomprendere attività (il gratuito, il volontario, l’informale) finora non riconosciute e legittimate.

Quali sono le “res novae” del lavoro oggi? In primo luogo viene in mente il fenomeno del precariato che domina i dibattiti sul lavoro. Ma siamo certi che questo è un fenomeno nuovo? O è nuovo il modo con cui leggiamo quel processo difficile e faticoso di conquista di una professionalità matura e la dialettica tra rischio e sicurezza? Esiste certamente ed è grave il fenomeno della reiterazione di contratti a termine che rende insicuro il futuro di molti giovani che non sono in grado di metter su famiglia. Ma ci sono anche altri fenomeni che vanno colti come segnale di novità. Crescono le preferenze per il lavoro autonomo e anche per forme atipiche di lavoro. Laddove il lavoro è dipendente aumentano le esigenze di una più ampia autonomia. Crescono le aspettative per un lavoro più creativo. Crescono le preferenze per un rapporto vita-lavoro più equilibrato. Cresce infine la domanda di un sistema di formazione più aperto alle pratiche lavorative. Si diffondono esperienze di alternanza scuola-lavoro e viene rilanciata l’istruzione tecnica e professionale. Si colgono i sintomi della cultura del lavoro che cambia: da salariato a autonomo, da astratto a concreto, da rigido a flessibile, da strumentale a espressivo, da utile individualmente a socialmente responsabile. Per questo deve cambiare anche il nostro approccio al lavoro e alla sua importanza.

Infatti da una società salariata, proletarizzata e assistita stiamo gradualmente trasformandoci in una società di produttori e consumatori con più elevate esigenze soggettive di autorealizzazione. Dobbiamo imparare a convivere con l’ambivalenza del lavoro, che non è solo un contenuto fondante del messaggio biblico, ma è rintracciabile nelle forme concrete con cui il lavoro si esprime. Una novità importante, una vera svolta è stata impressa nell’ambito della Dottrina sociale da Giovanni Paolo II, che ha spostato l’attenzione dalle problematiche tradizionali (sfruttamento del lavoratore, giusto salario, relazioni sindacali, partecipazione dei lavoratori ai profitti dell’impresa) alla grande questione dell’ecologia del lavoro.

Per Papa Wojtyla è necessario edificare una “cultura del lavoro” capace di portare a sintesi le sue varie dimensioni, da quella personale, a quella economica a quella sociale. Si ricordi l’icastica osservazione di Giovanni Paolo II nella Laborem exercens: “è il lavoro per l’uomo e non l’uomo per il lavoro”, con il conseguente invito a pensare il termini di “ecologia sociale del lavoro”. Questa rivoluzione culturale introdotta dal pensiero del Papa polacco, il primo Papa operaio della storia della Chiesa, è stata sviluppata dal suo successore. La tanto attesa prima Enciclica sociale di Benedetto XVI, “Caritas in veritate”, a cui dedicheremo un approfondimento nel prossimo numero de “La Società”, ci incoraggia a riprendere una grande riflessione sul lavoro, in una chiave antropologicae sociale, alla luce della DSC. E la nostra Rivista intende con questo numero, ricco di contributi autorevoli sul tema del lavoro,diversi per impostazione e per soluzioni proposte, accomunati dal riferimento alla Dottrina Sociale, dare un contributo di analisi e di riflessione per l’elaborazione di una nuova idea di ecologia sociale del lavoro.


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