Lavoro e carità nella società dei primi secoli

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Cattolico_Romano
00mercoledì 23 settembre 2009 18:15
Lavoro e carità nella società dei primi secoli

Il cristiano non deve essere pigro


di Fabrizio Bisconti



Proprio mentre si guarda al concetto di carità in tutto il suo spettro semantico, conviene risalire alla genesi del significato più immediato e sorto nell'immaginario delle prime comunità cristiane, che collegarono la carità al lavoro esercitato dai fedeli, considerato come una naturale tendenza dell'uomo alla collaborazione della creazione, tanto che la Didachè precisa che solo esso consente di aiutare gli altri "senza esitare nel dare e senza dare mormorando" (4, 7) ed è per questo che "ogni cristiano deve avere un mestiere" (12, 3-5).

Tutto pare muoversi dalla tradizione giudaica che poneva il lavoro alla base della vita dell'uomo, considerandolo come una sorta di obbligo sociale, una specie di tensione naturale a perfezionare la creazione divina. Un'idea, questa, assunta dai cristiani sin dall'età apostolica, a cominciare da Paolo, che preparerà gli scritti dei Padri apostolici, i quali toccheranno il livello apologetico, quando, sottolineando la pericolosità dell'ozio, giungeranno ad asseverative messe in guardia, come si arguisce dal motto della Didascalia degli apostoli:  "Il pigro non può essere fedele", dove si precisa anche che la pigrizia è una sciagura irreparabile e che il Signore non ama i pigri. La Didachè, a questo proposito, ci illumina con la lapidaria ammonizione che definisce "mercante di Cristo" colui che non vuole lavorare e crede di poter sfruttare la società per vivere. Un concetto, questo, che circola un po' in tutte le comunità antiche. Ne abbiamo riflessi in molti scritti dei Padri apostolici, a cominciare da Clemente di Roma che ci ricorda quanto il lavoro dia dignità all'uomo e come egli possa ricevere il suo salario a fronte alta, guardando in faccia il suo padrone, mentre i parassiti e gli indolenti non osano levare gli occhi verso di lui. Contro gli oziosi si pronunciano più chiaramente le Costituzioni apostoliche, quando esortano al lavoro e a guardarsi dal parassitismo, riprendendo il motto della Didascalia degli apostoli e recuperando la testimonianza di Paolo nel suo discorso d'addio agli anziani di Efeso:  "Non ho desiderato né argento, né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle mie necessità e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che, lavorando così, si devono  soccorrere i deboli, ricordandoci  delle parole del Signore Gesù, che disse:  "Vi è più gioia nel dare che nel ricevere"" (Atti degli apostoli, 20, 33-35).

Per quanto abbiamo sinora potuto apprendere dalla viva voce dei Padri apostolici e dalle sentenze dei documenti più antichi, non c'è dubbio che la religione cristiana dia dimensione di dignità anche alle attività manuali più umili:  il dettato dei Vangeli, l'estrazione sociale degli apostoli ne sono la testimonianza incontrovertibile. Ma non dobbiamo fare di queste voci un coro unanime e univoco, come si è cercato di fare nel passato. Questi ammonimenti, infatti, riguardano un atteggiamento apologetico, che esalta il lavoro manuale, in opposizione a tutte le forme di accidia, di parassitismo e di vagabondaggio  di certi intellettuali pagani.

Questa visione, pur documentata chiaramente dalle fonti, sembra eccessiva ed eccezionale:  non è il caso di evidenziare una netta dicotomia tra l'atteggiamento dei Padri e la mentalità comune greco-romana sino a pensare che questa ultima cultura demandava, in sostanza, le pratiche del lavoro manuale agli schiavi. Già la filosofia stoica, infatti, soprattutto quella latina, esaltava l'autosufficienza per mezzo del lavoro manuale, come provano gli scritti di Musonio, Epitteto e dello stesso Marco Aurelio, che era grato al maestro per avergli insegnato a lavorare con le sue stesse mani. Anche le critiche di Senofonte, Isocrate e Cicerone rivolte al lavoro manuale risentono di un tòpos letterario, se poi gli stessi autori esaltano il lavoro dei campi, ricordando che solo esso fortifica il corpo e lo spirito. L'equivoco a cui certa critica è andata incontro risiede probabilmente in un atteggiamento letterario pagano piuttosto banale che non considera, di per sé, degradante il lavoro, ma che lo condanna nelle sue forme più avvilenti, solo in quanto esse fanno decadere i corpi, assoggettandoli a prove faticose e indebolendo anche gli spiriti.

A questa visione estrema rispondono, in maniera decisa, i Padri della Chiesa, da Ireneo a Clemente Alessandrino, ricordando come l'uomo partecipi all'opera della creazione, imprimendo un sigillo personale alle sue realizzazioni. Ma, al di là di queste risposte di carattere letterario, non dobbiamo cercare una "dottrina sociale", né una legislazione che stabilisca criteri economici, né alcuna notizia relativa ai meccanismi di scambio, produzione e commercio. Anche procedendo nel corso dei secoli, non viene a costituirsi presso i Padri della Chiesa una teologia del lavoro univoca, per cui si viene a stabilire una differenza sostanziale tra la concezione della Chiesa e quella del monachesimo, talché ad esempio, risultano opposte l'idea di Girolamo, che identifica il lavoro con l'attività intellettuale e quella di Ambrogio, che si sofferma maggiormente sulla valenza sociale del lavoro manuale e concreto.

La grande novità della concezione cristiana del lavoro non sta, dunque, nella recuperata dignità delle attività manuali, quanto nel collegamento che esso intrattiene con la questione della carità, come unico strumento per far fronte alla povertà. Come è noto, un segno distintivo delle prime comunità cristiane è proprio quello di una disponibilità senza limiti, di una generosità senza riserve, di una donazione senza indugi. Questo clima di profonda solidarietà, basato sull'egualitarismo, è sintetizzato da Lattanzio, quando con poche ma chiare parole descrive la "società cristiana":  "tra noi non ci sono né servi, né padroni; non esiste altro motivo se ci chiamiamo fratelli se non perché ci consideriamo tutti uguali" (Divinae institutiones, 5, 15 ). Eppure, anche a questo proposito, l'atteggiamento dei Padri della Chiesa non è univoco, se Tertulliano, per difendere il ruolo del cristiano nell'ambito della società contemporanea, individua una perfetta convivenza con il  corrispettivo  pagano, ricordando che  i cristiani frequentano le loro stesse terme, i loro mercati, i loro porti, i loro negozi,  navigano  con  loro  e combattono al loro fianco (Apologeticum, 42, 2-3).

L'atteggiamento dei cristiani nei confronti del sociale, per i Padri della Chiesa, assume caratteri diversi a secondo dell'uso letterario che se ne deve fare, per questo possono ora apparire eguali tra loro nei confronti dei pagani che, invece, basavano i rapporti sul concetto dell'"assoggettazione" e ora perfettamente eguali ai pagani, quando, per difendersi dall'accusa di "diversità", si dicono coerentemente inseriti nella dinamica economico-sociale del tempo. Se, da queste testimonianze, i cristiani appaiono paradossalmente eguali ai pagani ed eguali tra loro, quello che mutò è sicuramente lo spirito con cui il cristiano affronta ogni lavoro. Clemente Alessandrino è esplicito in questo senso:  "Se tu sei un lavoratore, ti raccomandiamo di lavorare, ma riconosci Dio nel tuo lavoro; se ti piace navigare, fai pure il marinaio, ma invoca il nocchiero del cielo; se hai conosciuto Dio mentre militavi nell'esercito, ascolta il condottiero, che ti guida nella giustizia" (Protrettico, 10, 100, 4).

Se, dunque, non cambiano, nella sostanza, i rapporti lavorativi, né le strutture economiche e sociali, muta completamente il valore che il cristiano attribuisce al lavoro, un valore che interessa specialmente il frutto del lavoro stesso, ossia la ricchezza. I Padri della Chiesa propongono, a questo riguardo, un unico modo di comportamento, senza alcuna incertezza. Tutti insistono sul distacco dalla ricchezza, ponendo l'accento sul dovere di aiutare i bisognosi:  dal Pastore di Erma, che ricorda lo splendido paragone dell'olmo, albero sterile, a cui è avvinghiata la vite, che mantiene il suo frutto solo se sostenuta da quello, a Tertulliano, che sottolinea il dovere sociale di aiutare i servi anziani, i naufraghi, i bambini, i prigionieri,  tutti coloro che sono nell'indigenza e chiedono aiuto (Apologeticum, 39, 6).


 
Esaminando a fondo gli scritti più antichi - a iniziare dal trattato attribuito a Clemente Alessandrino Quis dives salvetur? - colpisce, però, una strisciante dicotomia nelle riflessioni più sottili riservate al concetto della ricchezza:  per un verso, essa, infatti, è, come si è detto, fortemente criticata per i pericoli che comporta, per un altro, è considerata mezzo di sussistenza e assistenza. Al di là di queste posizioni, dobbiamo intravedere e riconoscere la nascita della cassa comune e del collocamento dei cristiani all'interno dei collegia, che costituiscono i due poli attorno ai quali si compone la "carta dei valori sociali" della nuova gente cristiana. In questa prospettiva la presenza del ricco nella comunità, se faceva problema, si rivelava, nel contempo, una fonte insostituibile di finanziamento per le attività assistenziali e caritative e per la stessa assistenza di quelle particolari forme di associazione volontaria che si identificano, appunto, con i collegia cultuali, religiosi, funerari e professionali che, per analogia istituzionale, possono essere accostati agli esempi di associazionismo e di collettività organizzate nella realtà socio-politica romana. Senza soffermarsi sul problema, molto dibattuto, relativo ai collegia tenuiorum, che avrebbero motivato giuridicamente e legalmente la riunione di persone aderenti alla nuova religione, dobbiamo constatare che l'aspetto corporativo prosegue e si consolida nel corso della formazione delle prime comunità cristiane.

Il mondo delle testimonianze archeologiche non propone un campionario vasto dei riflessi delle attività lavorative nelle città tardoantiche. Sono sempre le catacombe romane a parlare, seppure sommessamente, degli aspetti professionali della società paleocristiana. A Roma, una decina di affreschi ci parlano dell'attività di fornai, bottai, erbivendoli, barcaioli, agricoltori, pescivendoli, fabbri, ma sono le migliaia di epigrafi, che costellano i cimiteri dell'Urbe, che ricordano i mestieri più diversi, sia per iscritto, sia con ingenue ma espressive incisioni figurate. Il mondo del lavoro appare, così, in tutte le sue sfaccettature e in quelle accezioni guardate con sospetto dai Padri della Chiesa, come quando certe epigrafi ricordano mestieri vietati o sconsigliati, come quelli degli atleti, dei militari, degli attori, dei danzatori, dei pittori e degli scultori.

Percorrendo le gallerie delle catacombe e soffermandosi a osservare le tombe degli artigiani, degli aristocratici, dei potentiores, ma anche dei più umili lavoratori, si avverte l'idea di una comunità composita e tesa verso un completamento della creazione e verso  l'incommensurabile foce della carità.



(©L'Osservatore Romano - 24 settembre 2009)
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