Le paure degli italiani

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martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 19:47
PIU’VOCE .NET (CATTOLICI IN RETE)
INDAGA LE PAURE DEGLI ITALIANI

“L’Italia ha paura? Gli italiani hanno paura? L’Italia è un Paese impaurito? Quali sono le paure che fanno correre i brividi sulla schiena degli italiani?”.
Con queste domande, il direttore del sito “Piùvoce.net” (www.piuvoce.net) Domenico Delle Foglie, lancia l’approfondimento di maggio dal titolo “Le paure degli italiani”. Come sempre, si tratta di uno scandaglio a più voci che vede incrociarsi le penne di Salvatore Martinez che si occupa della “paura di perdere il senso del peccato” e di Aldo Morrone che indaga la “paura dello straniero e del diverso”. Due le riflessioni politiche: Rocco Buttiglione valuta la “paura dell’uomo forte” e Vittorio Filippi si interroga sulla “paura della secessione”. Carlo Costalli racconta la “paura della povert à e del declino”, mentre Franca Rita Battaglia analizza la “paura dell’uomo nero”.
Con questa gamma di interventi il sito dei Cattolici in rete, come scrive Delle Foglie nel suo editoriale, si affaccia sulla realtà del nostro Paese e vede che “sono molti i segni della lotta fra il bene e il male nella vita italiana”.
martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 19:48
Dedicato a chi non perde mai la speranza
SPIAZZIAMO LE PAURE
SCEGLIAMO IL BENE
L’Italia ha paura? Gli italiani hanno paura? L’Italia è un Paese impaurito? Quali sono le paure che fanno correre i brividi sulla schiena degli italiani? Di sicuro, non ce la passiamo bene e nemmeno il sistema Paese fa scintille, anzi. L’umore volge al grigio scuro e l’ansia da declino sembra avvolgere anche le classi dirigenti. Fatta questa premessa, è persino difficile stabilire da che parte cominciare, se dall’economia o dalla politica, dai rapporti interpersonali o da quelli sociali. E allora abbiamo voglia di stupirci e cerchiamo di scavare un po’ di più nel nostro mondo fatto di paure, per descriverle e anche circoscriverle. Magari partendo lì da dove nessuno immaginerebbe: dal peccato, anzi dalla paura di perdere il senso del peccato.
Abbiamo letto in questi giorni analisi raffinatissime sul rapporto fra reato e peccato. Pagine ispirate, ma per noi sta proprio lì, in quella paura ben nascosta di non saper più cogliere la differenza tra il bene e il male, la radice di tante altre paure. Una paura che le precede tutte e che in qualche modo le riassume. Un mondo senza la percezione del male, in ogni sua forma, ci spaventa e ci rende ancor più fragili dinanzi alle difficoltà del quotidiano e alle asperità e agli scossoni di sistema.
Non è il nostro un modo facile facile per allentare le tensioni personali e sociali che tutte le altre paure, talvolta anche drammatiche, innescano nelle nostre vite. E’ piuttosto un ritornare all’essenziale, un ricordare a tutti noi che è impossibile rinunciare alla speranza nella possibilità del genere umano di far fronte anche all’ignoto. E’ stato così per intere generazioni ed è ben difficile, per noi, sottrarci alle sfide del nostro di tempo e alle paure che esso alimenta. Ma sarebbe un grave errore prospettico pensare che tutte le difficoltà di struttura e sovrastruttura possano essere colmate con forme di ingegneria sociale e politica. C’è un “prima” che noi dovremmo conoscere bene e che non possiamo nascondere o minimizzare.
Sono molti i segni della lotta fra il bene e il male nella vita italiana. Solo uno sguardo assuefatto, ottuso o disattento, può non scorgere gli scricchiolii che si avvertono nella nostra comunità nazionale. Primo fra tutti, l’incapacità di coniugare il bene in scelte, parole e azioni. Il male, in tante forme, sembra riaffiorare con tutta la sua forza dirompente e con i suoi nomi più conosciuti: corruzione pubblica e privata, infedeltà personale e istituzionale, menzogna strutturale, offesa alla verità, prevaricazione sociale, violenza diffusa e strisciante. Non facciamo nomi, ma troppe biografie sembrano piegate e disegnate su queste inquietanti prassi.
Ecco perché, nell’affrontare le paure degli italiani che andiamo a sminuzzare, e per l’amore che abbiamo per il nostro popolo e per la nostra comunità nazionale, non perdiamo mai di vista la cornice. E per tutte le paure cerchiamo di offrire una speranza, mai a buon mercato. Le paure non si vincono da soli, ma certo non basta un’aspirina.
Domenico Delle Foglie

martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 19:50
La paura di perdere il senso del peccato
E` SPIRITUALE LA MADRE
DI TUTTE LE CRISI
«Il mondo moderno ha perduto il senso del peccato». Lo affermava Papa Pio XII all’indomani della Seconda Guerra mondiale. Lo ribadiamo anche noi, con la medesima convinzione, all’inizio di un nuovo millennio. Affrancando la ragione dallo spirito, distaccando l’intelletto umano dalla sapienza divina, si è progressivamente perduto il concetto del peccato, del male, della morte. S. Agostino scriveva: «Chi è l’uomo felice? Chi ha la misura di se stesso, cioè la saggezza». Il miglior antidoto alla paura è nella saggezza liberante che discende dal conoscere e assecondare il bene, senza ammiccamenti interiori e mentali al male, specie quando le sue conseguenze sono significate.

La rottura del rapporto con Dio, la frantumazione della speranza nelle relazioni sociali, lo svilimento dell’amore nei processi generazionali sono come una triste metafora dell’incoerenza umana: “il male non esiste”, eppure tutto va male e l’uomo soffre; “l’uomo è libero e liberamente deve decidere il suo destino”, eppure è sempre più infelice e prigioniero di mille e mille paure che ottenebrano il suo destino. Ritorna da lontano la voce del nostro progenitore Adamo che, chiamato da Dio, risponde: «Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3, 10). Benché la paura del “passo di Dio” non si sia mai arrestata, l’uomo di ogni tempo continua a procedere incurante, nascondendo il suo segreto bisogno, spesso inconfessabile, di trovare nella sapienza divina la guarigione di tutte le paure che non fanno avanzare la storia.
Chi non crede di dovere dare alla propria vita una “misura alta”, entro cui esperimentare l’esercizio della propria libertà e il rispetto di quella altrui, si ritrova presto drammaticamente solo, cade dinanzi all’impossibilità di procurarsi una felicità senza Dio. Ed ecco la paura di vivere, di soffrire, di morire, del mistero di Dio; in fondo, sono queste le vere malattie spirituali del nostro tempo, dimentico dello spirito cristiano. Non facciamoci illusioni e non tentenniamo dinanzi ai molti benpensanti che invocano una teologia buonista dinanzi al male: da quando «il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (cf Gv 1, 14), è iniziato un combattimento spirituale tremendo, in cui è lo «Spirito di verità che libera dalla schiavitù della paura e regala all’uomo libertà» (cf Rm 8, 15). Ora, è chiesta la nostra cooperazione affinché siano messe a nudo le concupiscenze umane e le falsità che albergano nel cuore dell’uomo, il peccato strutturale che regna nel mondo e il piano antiumano delle nostre società.
La storia dell’incarnazione del Verbo è la storia della vittoria su ogni male, su ogni peccato, sulla morte. Se questa visione non è chiara ne consegue il cambiamento della percezione delle relazioni, la separazione del senso morale dal valore dell’esistere, la perdita della tensione alle virtù, lo smarrimento della passione per la conversione personale e comunitaria, per il senso del dovere, del sacrificio, delle responsabilità.
C’è, talvolta, tra noi, una sorta di complesso d’inferiorità dinanzi al male che si accanisce sulla storia, un’inquietudine che ci assale dinanzi al tentativo corrente di privare il cristianesimo di ogni rilievo pubblico e di anestetizzare le coscienze. Si vorrebbe una sorta di cristianesimo diluito, anonimo, una «chiesuola in cui riparare per trovare protezione», come affermava don Luigi Sturzo. Ebbene, per dirla con Dietrich Bonhoeffer, «noi cristiani dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale con il mondo». La sfida, dunque, è dare cittadinanza a livello culturale, educativo, formativo, sociale, politico ad una nuova dimensione spirituale dell’uomo. La madre di tutte le crisi del nostro tempo è spirituale! Abbiamo trascurato la dimensione interiore dell’uomo - permettendo l’esteriorizzazione, fino alla violenza, dei suoi più intimi sentimenti - perché ritenuta anacronistica. Oggi questo bisogno si fa percepire con nuovi segnali, con fenomeni che vanno considerati attentamente. Urge una cultura dell`interiorità, che sia autentica ricerca della verità interiore, vissuta con lucidità, consapevolezza e senso critico.
Salvatore Martinez

martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 19:55
La paura dello straniero e del diverso
"NOI" OCCIDENTALI IN VIAGGIO
FUORI DAL NOSTRO "IO"
In tutte le lingue indoeuropee, il termine che designa lo straniero racchiude contemporaneamente in sé l`intero repertorio delle accezioni semantiche dell`alterità, e cioè il forestiero, l`estraneo, lo strano, lo spaesato, il nemico e, come tutte le alterità, suscita un’ambivalenza di sentimenti che vanno dall’attrazione alla paura.

Nell’antica Grecia, ad esempio, si applicava una chiara distinzione categoriale tra lo straniero greco, lo xènos, e lo straniero non greco, il barbaros. L’estraneità del primo rispetto alla comunità di appartenenza era politica ma non etnico-culturale; anzi, il termine stesso designava sia lo straniero, sia l’ospite, un membro accolto e protetto dalla comunità, mentre quella del barbaros era un’estraneità totale (a partire dalla lingua, elemento discriminante per eccellenza).
Nella cultura latina, la parola che indicava in origine lo straniero era hostis (da cui anche hospes, il nostro ospite), persona a cui si riservava un rapporto di ospitalità doverosa, segnata da precisi riti di accoglienza; l’evoluzione della lingua ha però lasciato spazio ad un nuovo e diverso significato del termine, nel senso di straniero pericoloso, nemico (da cui il nostro “ostile”) della comunità.

Il concetto di straniero nella sua portata discriminatoria ha quindi da sempre accompagnato le civiltà occidentali, covando sotto la cenere della democrazia, per riaffermarsi con violenza e brutalità nel corso dei regimi totalitari dello scorso secolo. Dal punto di vista formale, è stata la “Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo” del 1948, che, affermando il concetto che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti” portava anche ad eliminare qualsiasi accezione negativa dalla parola.

Tutto bene, dunque? La parola straniero è oggi libera da qualsiasi pregiudizio? Non proprio, e anzi, per quanto sembri paradossale, in una società sempre più globalizzata, la paura e la diffidenza verso chi è straniero riaffiorano immediatamente, insieme alla tentazione di negare i più elementari diritti a chi ha come unica “colpa” quella di aver lasciato il proprio Paese in cerca di un futuro migliore.

Se proviamo infatti per una volta a guardare la questione dal punto di vista di coloro che emigrano, non ci è difficile immaginare quanta fatica essi possano fare a riconoscersi in quella famiglia umana di cui parlano le convenzioni internazionali, anche se la trappola terminologica oggi si è fatta più sofisticata, e ha coniato un’inedita contrapposizione: quella tra “regolare” e “irregolare”. Si tratta di una trappola perché, se è vero che tutto ciò che è irregolare dovrebbe, per definizione, trovare nell’applicazione delle regole il suo antidoto, nel caso dei migranti sembra quasi che le normative attuali piuttosto che ricondurre alla norma, amplifichino, promuovano, incoraggino la condizione di irregolarità, forse perché questa è funzionale al mantenimento di una società diseguale e iniqua, di cui noi siamo la parte forte. Se non ci fosse l`irregolarità, non ci sarebbe – o sarebbe molto meno diffuso – il racket sull`esistenza di tante persone che rischiano, e spesso perdono, la vita sotto i tir, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva; non ci sarebbe quella nuova schiavitù che con un eufemismo ci ostiniamo a chiamare “lavoro nero”, né la facile possibilità di trasformare persone venute alla ricerca di un lavoro onesto in criminali e prostitute.

Tanto più che marchiare, stigmatizzare, criminalizzare, non arresterà questo enorme flusso di persone che, come in una sorta di gigantesco contrappasso, tornano a chiederci conto del saccheggio di un Nord che ancora consuma oltre l’80% delle ricchezze del pianeta, e che sopravvive proprio grazie al fatto che gran parte della popolazione mondiale è privata delle proprie risorse.
Che fare, dunque? Forse è necessario che anche noi occidentali ci mettiamo in viaggio, un viaggio fuori da un io rinchiuso in una visione miope di sé e del mondo, alla scoperta di ciò che non è noto, senza il pregiudizio di sapere già cosa si potrà trovare, ma nella convinzione di dover lasciare le nostre certezze, che spesso confinano con i nostri pregiudizi, e nella consapevolezza che la salvezza non può mai trovarsi “a casa”, ma “altrove”, fuori dal conosciuto e dallo sperimentato, là dove si incontra l’altro.
Ci riuscirà allora più facile, scoprendo che anche noi siamo sempre stranieri rispetto a qualcuno, comprendere che non esiste lo straniero assoluto, che non esiste una terra in cui nascano soltanto stranieri, e lavorare per costruire un luogo nel quale, invece che stranieri, nemici, si diventa ospiti nella reciproca accoglienza.
Aldo Morrone

martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 19:58
La paura della secessione del Nord dal Sud
DA ICONA POLITICA
A DURA REALTA` STATISTICA
C’era una volta la secessione: gridata, minacciata, ripetuta nelle irriverenti liturgie di una politica che aveva individuato un territorio “nuovo” quanto ricco e indistinto come l’Eldorado cinquecentesco: la Padania. Era la secessione mitopoietica, creata proprio per generare identità di territorio, una identità come sempre basata sull’opposizione binaria noi-loro, Padania versus Borbonia (o “Roma ladrona”, è lo stesso…).
Il mito secessionista è oggi appannato, anzi accantonato: il disegno federalista l’ha superato. Tuttavia, come un fiume carsico, la secessione da icona politica si è svelata realtà socioeconomica. Realtà dura, quantificabile statisticamente, innegabile. Per ironia della storia, il ricordo celebrativo del secolo e mezzo dell’Unità del paese precipita in un momento di passioni tristi disunitarie e disunitariste.
La disunità non è solo un sentimento emotivo crescente e palpabile, che arriva sempre più a smontare e contestare lo stesso Risorgimento (e perfino tutto ciò che è “italiano”), ma anche un’evidente frantumazione territoriale. Lo dimostra – con un meticoloso lavoro scientifico – il sociologo Ricolfi nel suo libro dal titolo evidente: “Il sacco del Nord”, edito qualche mese fa.
Cercando di andare al di là di ciò che i dati della contabilità nazionale non vedono, Ricolfi elabora “quattro numeretti” – così li chiama – che costruiscono un set di indici di parassitismo (dato dal rapporto tra spesa pubblica e la ricchezza prodotta dalle imprese), di evasione fiscale e contributiva, di sottoproduzione e spreco (è il problema dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni), del livello dei prezzi (cioè il diverso potere di acquisto in zone diverse del paese).
Tenendo allora conto di questi quattro indicatori, ne esce un’Italia fratturata da faglie territoriali profonde che vanno ben al di là del classico divario tra Nord e Sud, un divario che negli ultimi cinquant’anni si è stabilizzato attorno al 40 per cento.
Circa il parassitismo, tre regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – reggono in pratica i disavanzi di tutte le altre, specie di Sicilia e Campania, che hanno il poco encomiabile record dei disavanzi più elevati.
Sull’evasione il discorso si ripete: Lombardia, Emilia e Veneto sono le regioni più virtuose (cioè con la minore intensità di sommerso), mentre le aree più viziose sono in particolare Calabria, Sicilia e Campania, le tre regioni ad economia mafiosa. Di più: sette regioni, tutte del centro-nord, pagano più tasse del dovuto, mentre tre in particolare (quelle prima citate) hanno i debiti fiscali più alti.
Gli sprechi sono certamente più contenuti al Nord, anche se ciò non vale per tutte le relative regioni; calcola Ricolfi che una politica di riequilibrio della spesa pubblica dovrebbe comunque restituire al Nord tra i 12,1 e i 44,9 miliardi di euro.
Brutalmente parlando, a chi converrebbe “rimanere” in Italia, a credere nella sua unità politica e ideale, alla sua eredità risorgimentale? Secondo i numeri conviene di sicuro a quelle tredici regioni (specie Sardegna, Sicilia e Calabria, ma ce n’è anche qualcuna del nord) che sono debitrici nei confronti del paese. Non converrebbe invece a Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, regioni dove si evade, si spreca e si spende (soldi pubblici) meno della media nazionale.
A questo punto ci si può chiedere se si può andare avanti così, e a quali costi. Quanto può reggere il senso unitario in un paese in cui la povertà oscilla tra il 4,4% della Lombardia ed il 28,8 di Sicilia e Basilicata e la disoccupazione giovanile tra il 10,1 del Trentino ed il 44,7% della Sardegna? Senza evocare scenari estremi (alla jugoslava, per intenderci), ci aspetta – è la pacata tesi di Ricolfi – un declino che in realtà è già in corso da sette anni e che non risparmierà nemmeno i territori virtuosi. Un declino che potrebbe far detonare rancori sociali, soluzioni localistiche, ideologie separatiste. Con pulsioni post- risorgimentali, post-italiane. Una secessione non più mitopoietica, ma terribilmente fattuale: anche per i territori ed i loro umori vale la logica del “si salvi chi può”.
Vittorio Filippi

martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 20:00
La paura della povertà e del declino
RIFORMISTI CERCANSI
PER UN "BLOCCO SOCIALE"
La prolusione del Cardinale Angelo Bagnasco all’apertura dei lavori del Consiglio Episcopale permanente ha riportato nuovamente al centro dell’attenzione il tema del declino dell’Italia. Esiste una profonda connessione tra il mancato slancio nella crescita, la paura per il futuro e un senso di fatalistico declino. Ci sono motivi di seria preoccupazione, dovuti in gran parte alla crisi economica che ha messo in ginocchio piccole e medie imprese e grande industria. La caduta del Pil italiano nel 2009 è stata pari a quella tedesca o britannica e più seria di quella francese, ma quest’anno la nostra ripresa sarà più modesta: i dati statistici evidenziano che la crisi economica ha accentuato il declino italiano.
In particolare desta seria preoccupazione la realtà del lavoro. Il lavoro, come ha ricordato Benedetto XVI nel suo recente discorso agli imprenditori, è un «bene per l’uomo, per la famiglia e per la società, ed è fonte di libertà e responsabilità».
Ed è proprio la precarietà lavorativa ed economica la «grande paura» che assale gli italiani. La paura della “povertà” che nella tempesta della crisi e nelle sue ricadute successive ha portato molte famiglie alle soglie minime di reddito e di consumo: famiglie di pensionati, di giovani gravati dal mutuo per la casa, famiglie in difficoltà per le spese della vita quotidiana e che stentano ad arrivare a fine mese. Povertà che investe soprattutto giovani, donne, immigrati, precari, lavoratori del Mezzogiorno e delle piccole imprese.
Gli italiani sembra stiano progressivamente perdendo la fiducia in se stessi, assumendo stati d`animo che finiscono col gravare sulla società, indotti da un pessimismo favorito anche da alcune lobby di intellettuali.
Ma il declino economico è la spia di un malessere più generale: sociale, culturale, politico e istituzionale. E su questo noi cattolici impegnati al servizio della società dobbiamo interrogarci e agire. Dobbiamo contrastare il dilagare della cultura del relativismo e del pessimismo e far emergere con forza la cultura del bene comune, della responsabilità, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione, della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità, della difesa della dignità della persona, della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, della libertà di educazione e dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche fino alla difesa della scuola cattolica. E, soprattutto, della difesa della vita.
E’ necessario uno scatto morale per affrontare con coraggio i tanti problemi: reagendo ad ogni tentazione di torpore e d’inerzia.
Il cardinal Bagnasco ha ricordato che il Paese “ha bisogno di una speranza più grande delle altre per ritrovare la direzione verso il futuro”. Per realizzare questo obiettivo c’è bisogno di una rivoluzione culturale: la “cura” dell’altro, la gratuità, il dono sono elementi basilari di una civiltà, consolidano i rapporti interpersonali sui quali è poi possibile costruire relazioni più ricche sia dal punto di vista umano sia da quello economico. Eppure tutto questo non compare nel Pil o nelle statistiche della produttività e, nonostante questi valori siano le fondamenta celate del sistema, hanno un modestissimo riconoscimento.
Per uscire da questo vicolo cieco in cui è piombata l’Italia sono necessarie le riforme. La riconciliazione e la modernizzazione del Paese necessitano di riforme urgenti: da quella fiscale al welfare, dal mercato del lavoro autonomo e dipendente, alle liberalizzazioni, a quelle della scuola, dell’università e della formazione professionale. Non c’è sufficiente coraggio riformatore e ci si accontenta del conforto di quegli indicatori ancora positivi per il Paese.
La società italiana ha parti sane che sono poco visibili: parti importanti del mondo industriale, della società civile, del mondo scientifico ed accademico elaborano e vivono sul campo soluzioni al problema, ma le migliori pratiche fanno una grande fatica a diventare cultura condivisa. Senza l’aiuto e la sintesi della politica, senza “un blocco sociale” di riformisti, senza l’ancora dei valori è praticamente impossibile trasformare queste realtà in orizzonti di speranza capaci di trainare tutto il Paese.
Il declino è reversibile, come dimostra la storia di altri grandi Paesi d’Europa, ma è necessaria la volontà di contrastarlo.
Carlo Costalli

martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 20:01
La paura delle donne per l`uomo nero
COME SFUGGIRE
ALLA "CATTIVA SORTE"
Spero voi crediate che la violenza alle donne è la prima causa di morte nella fascia d’età compresa tra i 16 e i 44 anni; moltissime persone con cui mi confronto nell’ambito del mio lavoro, manager, professionisti, operatori, dirigenti, stentano a credere che ciò sia vero, nonostante la quotidiana conferma di tali dati. Luoghi comuni, pregiudizi e stereotipi determinano false credenze che, ancora oggi purtroppo, continuiamo a riscontrare. Il più delle volte l’aggressività maschile viene considerata come una reazione a un comportamento della donna “non sufficientemente femminilizzato”, cioè una donna che è poco passiva, poco docile, poco dipendente. Tale approccio tende addirittura a colpevolizzare la donna facendo risalire a lei la responsabilità del maltrattamento e delle violenze subite; identica cosa accade, anche se al di fuori delle relazioni affettive, quando si affronta il problema della violenza sessuale. L’approccio biologico considera, infatti, la sessualità maschile come un impulso incontrollabile, di tipo reattivo ad una vasta gamma di atteggiamenti e comportamenti femminili definiti provocatori e seduttivi. Le pulsioni sessuali maschili appaiono non solo incontrollabili, ma nell’ottica del condizionamento classico (stimolo-risposta), anzi legittimate.
Il problema è di ordine culturale in quanto la mascolinità e la femminilità sono il risultato di un percorso di costruzione sociale in cui viene affermata un’asimmetria di potere tra i sessi, rafforzata dallo stereotipo che relega la donna quasi esclusivamente ad un ruolo tradizionale di cura e di sostegno per le diverse figure maschili. Definire la violenza come domestica o intrafamiliare finisce con il nascondere o mistificare la direzione sessuata della violenza, e indica quasi un’intercambiabilità dei ruoli, che sicuramente può riferirsi al conflitto e non alla violenza, e che comunque non trova riscontro nella reale quotidianità degli episodi violenti. Si tratta quindi di violenza di genere, agita dal genere maschile su quello femminile, qualunque sia la tipologia o il contesto socioculturale cui si fa riferimento.
Occorre tenere presente, quindi, che solitamente l’uomo nero non lo troviamo per strada o nel parco, nei pressi della stazione, alla fermata del bus; l’uomo nero il più delle volte è bello, aitante, perfettamente integrato nella società, benvoluto, brillante e spesso porta una fede che in un fatidico giorno noi stesse abbiamo infilato all’anulare della mano sinistra. E’ l’uomo nelle cui mani abbiamo “messo” la nostra vita, è l’uomo che avrebbe dovuto amarci, onorarci e rispettarci nella buona e nella cattiva sorte. Ma la “cattiva sorte” prima o dopo arriva per molte donne che hanno “selezionato”il partner con caratteristiche di personalità di tipo complementare sulla base della funzionalità reciproca dei propri bisogni. Di norma l’impegno reciproco sembra essere un marchio di garanzia del rapporto di coppia che si fonda sullo spirito di sacrificio e sull’investimento totale delle energie.
Nel rapporto di coppia la fedeltà è basata sul sentimento del possesso unito alla richiesta della presenza fisica continua dell’altro. Ma nella “cattiva sorte” tutti gli ordini sono sovvertiti; l’uomo esercita un potere mirato a negare la personalità della donna ad affermare il dominio su di essa, attuando un vero e proprio processo di “cosificazione”, privandola in questo modo della sua soggettività. Per la donna dell’uomo nero è un continuo susseguirsi di turbamenti, destabilizzazioni, che aumentano la svalorizzazione di sé, la sfiducia che la situazione possa cambiare e soprattutto la sensazione che sia impossibile sottrarsi al potere dell’altro. Ma vi garantisco che invece è possibile sottrarsi all’uomo nero e interrompere il circuito della violenza. Lasciare l’uomo nero senza una vittima è molto difficile ma cambiando la prospettiva e guardando la “ex” dell’uomo nero, ancora una volta, lasciatevi convincere da chi ha un osservatorio privilegiato, che ciò è realizzabile, ma bisogna fortemente crederci e volerlo.
Franca Rita Battaglia

martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 20:04
martinicm
00mercoledì 5 maggio 2010 23:15
La paura di rifugiarsi nell`uomo forte
DEMOCRAZIA SCREDITATA
I CATTOLICI DOVE SONO?
Il clima politico che si respira in Italia ricorda da vicino quello degli inizi del secolo passato. La democrazia oggi è screditata. Nessuno la attacca direttamente, anzi è ancora d’obbligo proclamarsi democratici. C’è però un fastidio diffuso per il Parlamento e per le sue lungaggini. La classe politica è del tutto priva di prestigio per gli scandali, per la corruzione diffusa, per la incapacità di offrire risposte alle domande dei cittadini. Davanti al marasma, alla corruzione, al cattivo funzionamento delle istituzioni molti saluterebbero volentieri l’avvento di un “uomo forte”, capace di decidere e di risolvere problemi, di spezzare la protervia dei prepotenti. Per di più sta invecchiando ed è ormai uscita dalla politica quella parte della popolazione che ha sperimentato sulla propria pelle nel periodo 1922/1943 gli svantaggi e gli errori del potere di un uomo solo. Cresce allora una deriva plebiscitaria che nasce dalla stanchezza delle procedure democratiche e dalla sfiducia per i partiti.
È indubbio che questa deriva plebiscitaria oggi spinge verso l’alto Silvio Berlusconi. Sarebbe però un errore pensare che egli l’abbia creata. Semplicemente ne ha intuito le potenzialità ed è stato capace di sfruttarle. Sarebbe anche un errore pensare che Berlusconi sia l’unica figura plebiscitaria sulla nostra scena politica. A sinistra il successo a suo tempo di Bassolino in Campania e di Vendola in Puglia ha avuto egualmente un elemento plebiscitario e la politica di Di Pietro cerca di attingere allo stesso bacino di consenso. Non intendo denigrare le personalità sulle quali si è accentrata la deriva plebiscitaria e l’attesa messianica della pubblica opinione. Non solo esse non hanno colpe della situazione che si è determinata ma anche, fino ad ora, sono rimasti “grosso modo” nei limiti della legge e della legalità democratica. Rimane vero tuttavia che questa situazione è pericolosa per la democrazia e se non si corre ai ripari c’è il rischio di superare un punto di non ritorno.
Sono molte le voci che si levano a deprecare questo stato di fatto. Pochi sono coloro che tentano un’analisi per capire le ragioni di questa situazione e poche sono le proposte su ciò che bisogna fare per uscire dalla crisi della nostra democrazia. Io vorrei osservare prima di tutto che non esiste nessuna garanzia sulla permanenza delle forme democratiche di governo. La democrazia classica in Atene durò circa 170 anni, dalla riforma di Clistene alla battaglia di Cheronea. Le crisi della democrazia italiana o di quella tedesca nella prima metà del secolo XX sono note a tutti. Platone ci ha lasciato nella Repubblica una teratologia della democrazia, cioè una descrizione della sua malattia mortale. Questa malattia è il relativismo etico, che al tempo di Platone si chiamava “sofistica”. Quando i dirigenti si convincono che non esiste nessuna differenza fra il bene ed il male e non esiste nessun bene oggettivo e nemmeno un bene comune della comunità politica, allora cambia la natura della politica. La politica diventa strumento per promuovere l’interesse privato di singoli e di consorterie organizzate. La corruzione diventa non più l’eccezione ma la regola. Non ci facciamo illusioni sul fatto che la corruzione sia un fenomeno permanente della vita politica. Non esistono società senza corruzione e senza abuso di potere da parte dei ceti dirigenti. Esistono però società nelle quali la corruzione è piuttosto l’eccezione che la regola. Esistono società in cui anche il criminale è consapevole del fatto che ciò che fa è sbagliato. Non riesce a resistere alla tentazione ma sa che ciò che fa è male.
Se cade la differenza fra bene e male allora la corruzione, la prevaricazione, l’uso del potere pubblico per fini privati non conosce più limiti, avviene pubblicamente e quasi alla luce del sole. Quando questo avviene il popolo si distacca dalle istituzioni e perde fiducia nella democrazia ed è pronta a seguire il primo demagogo che agiti la bandiera della restaurazione dell’ordine e della legge.
Qualcosa del genere avviene anche in un altro ambito. Decisioni necessarie per il bene comune sono continuamente dilazionate perché ogni fazione politica vuole una contropartita particolare in cambio del suo consenso alla misura di interesse generale. Anche diverse corporazioni (giudici, sindacati, diversi organi territoriali…) hanno poteri di veto che usano in modo spregiudicato per promuovere i loro interessi o le loro convinzioni particolari. Il popolo si convince che il potere politico democratico è impotente e si guarda intorno alla ricerca dell’“uomo forte” che sia capace di far prevalere il bene comune sull’interesse dei singoli e delle fazioni.
Che fare? Bisogna rendere di nuovo efficienti le istituzioni democratiche. Serve una riforma dei regolamenti parlamentari. È incredibile quali guadagni di efficienza si possano ottenere anche senza riforme istituzionali. Servono però anche le riforme istituzionali.
Tutto questo certamente va fatto ma non è sufficiente. Abbiamo bisogno di un rinnovamento morale della classe dirigente. Abbiamo bisogno di una classe dirigente che emargini i corrotti prima che di essi si occupi la magistratura. Abbiamo bisogno di partiti che selezionino questa nuova classe dirigente, che abbiano un prestigio sufficiente a garantire per essa, che svolgano un’opera culturale di educazione alla democrazia.
La cosa più importante però deve avvenire fuori dai partiti e fuori dalla politica. Abbiamo bisogno di una nuova cultura della verità e del bene, una cultura che sappia riscoprire un giusto principio di autorità. La cultura dominante identifica libertà con licenza e crede che la filosofia implicita della democrazia sia il relativismo etico. È vero esattamente il contrario: la nostra democrazia non si salverà se non prevarrà una cultura della responsabilità e del bene comune. È difficile che questo possa avvenire in Italia se il popolo cristiano che c’è in questo Paese non sentirà il desiderio di esercitare fino in fondo la propria responsabilità politica, magari attraverso lo strumento di un partito laico di forte ispirazione cristiana, come quello che, nel corso di una crisi non molto diversa dalla nostra, fondò nel 1919 don Luigi Sturzo chiamandolo Partito Popolare Italiano.
Rocco Buttiglione

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