Lettera di Giacomo

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Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:07

1) L’autore

In primo luogo dobbiamo dire che Giacomo è un cristiano, un servo di Dio e del Signore Gesù Cristo (1,1). Il termine greco "doulos" (= servo, ministro) è sicuramente anche un titolo d’onore; l’autore è ministro di Dio e di Cristo e occupa nella Chiesa un posto di primo piano.

Ma quale Giacomo può essere l’autore di questa lettera? Dei due apostoli di nome Giacomo resta escluso il figlio di Zebedeo che era già morto martire intorno all’anno 44 (At 12,2). Il contenuto di questa lettera presuppone una situazione posteriore. L’altro apostolo è Giacomo di Alfeo. Ma neppure questo sembra l’autore della lettera. Difatti nell’indirizzo di saluto della lettera di Giacomo, come in quella di Giuda, accanto al nome di Giacomo manca il titolo di apostolo.

Chi è dunque l’autore di questa lettera? Con tutta probabilità uno dei quattro fratelli di Gesù che vengono menzionati in Mc 6,3 (Giacomo, Giosè, Giuda, Simone) ed erano parenti stretti di Gesù. Di essi, Giacomo, molto presto, assunse una posizione importante nella primitiva comunità di Gerusalemme (Gal 2,9.12; At 12,7; 15,13; 21,18) e, per distinguerlo dai due apostoli di nome Giacomo, gli fu dato il soprannome di fratello del Signore.

Se dunque Giacomo, fratello del Signore, non è apostolo, è logico che in testa alla lettera, non si dica apostolo. Sarebbe inconcepibile che un uomo, che apparteneva al gruppo dei dodici apostoli, dovendo rivolgere alle dodici tribù della diaspora un’ammonizione, che per il suo tono presuppone la riconosciuta autorità dello scrittore, non si dichiarasse apostolo (Zahn).

Giacomo, fratello del Signore, secondo antiche notizie, fu vescovo di Gerusalemme (Eusebio, Storia della Chiesa 2,2,2).

La tradizione extrabiblica che tratta di lui è in parte contraddittoria e leggendaria. Secondo Giuseppe Flavio (Ant. 20,200) il sommo sacerdote Anania II, nell’anno 62 d.C., per soddisfare la propria crudeltà, fece lapidare il fratello di Gesù, che viene detto il Cristo, di nome Giacomo con alcuni altri. Secondo Egesippo, Giacomo sarebbe stato un rigidissimo asceta (Non prese mai vino o bevanda forte, né mangiò mai carne. Le forbici non toccarono mai il suo capo, né si unse con olio o prese un bagno) e spesso inginocchiato nel tempio avrebbe chiesto perdono a Dio per il popolo. Le sue ginocchia divennero dure come quelle di un cammello.

Non avendo dato le risposte desiderate alle domande dei suoi avversari, sarebbe stato fatto precipitare dal pinnacolo del tempio, lapidato e finalmente colpito col follone di un gualchieraio. Fu sepolto nello stesso luogo vicino al tempio. Ancora adesso la sua tomba è vicino al tempio. Non si può discernere chiaramente quanto vi sia di storico nella relazione di Egesippo (Storia della Chiesa 2,23,4-18; Hypomnemata).

Era soprannominato il giusto a causa della sovrabbondanza della sua giustizia (Eusebio, Storia della Chiesa, 2,37,7).

2) Giacomo, fratello del Signore nella tradizione del N.T.

In Mc 6,3 Giacomo viene nominato per primo tra i quattro fratelli del Signore. Molto probabilmente è da identificare con Giacomo il Minore di Mc 15,40: un soprannome dedotto probabilmente dalla piccolezza della sua statura (gr. o micròs = il piccolo). Secondo Mc 3,21.31-35 egli, come altri fratelli del Signore non è capace di capire Gesù e si mette contro la sua attività pubblica. Secondo Gv 7,3-10 addirittura non crede alla messianicità di Gesù. Molto probabilmente la sua incredulità fu definitivamente superata mediante un’apparizione del Risorto (1 Cor 15,7). Egli, già prima della Pentecoste si trovava con gli altri fratelli di Gesù insieme con gli apostoli (At 1,14). Guadagnò presto nella comunità primitiva di Gerusalemme un grande prestigio e dopo la fuga di Pietro ne divenne vescovo. Il N.T. ce lo presenta come uomo propenso all’accomodamento e alla mediazione. Assieme a Pietro e a Giovanni egli dà la mano della comunione (Gal 2,7-9) a Paolo e Barnaba, missionari dei pagani. Nel concilio di Gerusalemme è d’accordo, in linea di massima, con le dichiarazioni di Pietro e vi aggiunge il sostegno della Scrittura (At 15,16-18). E secondo At 21,18-25, con il consiglio dato a Paolo, Giacomo mirerebbe a questo: che l’apostolo, mediante l’accettazione del voto di nazireato, confuti le accuse di predicatore apostata che gli erano state mosse.

3) I destinatari della lettera

Dall’intestazione risulta che la lettera è scritta alle dodici tribù della dispersione. Pare che per dodici tribù s’intenda l’insieme delle comunità giudeo-cristiane che vivevano nelle diaspora, ossia nei territori all’infuori della Palestina.

Non è possibile stabilire se Giacomo abbia scritto di propria iniziativa o su richiesta dei giudeo-cristiani. Questa lettera può essere considerata una specie di enciclica del vescovo di Gerusalemme a più comunità giudeo-cristiane. Il territorio in cui si trovavano i destinatari si limitava alla Siria e al massimo ai territori immediatamente confinanti a nord e a nord-ovest.

4) Occasione, scopo, tempo e luogo della composizione

Giacomo scrive questa lettera per rivolgere ammonimenti alle dodici tribù della diaspora. Tali esortazioni si riferiscono per la maggior parte a problemi assai concreti e quotidiani. Un richiamo a tradurre in fatti concreti il cristianesimo giustificherebbe già la composizione di questa missiva con le sue autorevoli istruzioni.

Ma rimane un interrogativo. Perché Giacomo scrive a un così vasto raggio di destinatari, i quali, per giunta, sembrano trovarsi al di fuori della sua sfera di giurisdizione? Inoltre Giacomo, specie nella sezione centrale della lettera (2,14-26), entra in aperto conflitto con determinate concezioni della giustificazione. Il contesto lascia supporre che le concezioni che Giacomo combatte avessero a che fare col paolinismo che avrebbe tratto dalla predicazione dell’apostolo false conclusioni sulla giustificazione col pericolo di falsificare il vangelo di Gesù.

Naturalmente Paolo era stato frainteso, come leggiamo anche in 2 Pt 3,15-16: La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le sue lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina. Paolo sviluppa la sua dottrina sulla giustificazione contro dei giudaizzanti, i quali presentano la circoncisione e soprattutto le opere della legge come necessari alla salvezza e in Gal 2,11 pone costoro in stretto rapporto con Giacomo di Gerusalemme. Per dirla in breve, a creare confusione sono le false presentazioni della dottrina di Giacomo e di Paolo da parte di qualche loro discepolo, quegli stessi di cui leggiamo in At 15,24: Abbiamo saputo che alcuni da parte nostra, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con i loro discorsi sconvolgendo i vostri animi.

Sia Paolo che Giacomo insegnano che la giustificazione si ottiene mediante la fede e le opere. In questa lettera Giacomo polemizza contro qualcosa che è connesso a Paolo, ma che non è Paolo stesso. Egli non polemizza contro di lui personalmente, non lo menziona, anzi non fa alcun nome; soltanto accenna a un’opinione, la quale comunque, nella forma in cui gli è pervenuta, gli pare insostenibile (G. Kittel).

Dibelius scrive: Non si può ammettere che l’autore (Giacomo) avrebbe oppugnato in questo modo la lettera ai Romani, se l’avesse letta e compresa a fondo.

La lettera di Giacomo va probabilmente collocata poco dopo la lettera di Paolo ai Romani, verso il 60 d.C. Pare che Giacomo non abbia conosciuto le lettere di Paolo, altrimenti avrebbe confutato gli pseudopaolinisti servendosi del loro stesso presunto maestro. In linea di massima dobbiamo constatare che, dopo la morte di Giacomo, al più tardi dopo il 70, non c’era più alcun giudeo-cristianesimo fuori della Palestina che potesse essere seriamente identificato con le dodici tribù della diaspora a cui Giacomo si indirizza. Con la morte di Giacomo il giudeo-cristianesimo primitivo incomincia a perdere la sua importanza (J. Blinzer). Il giudeo-cristianesimo primitivo cessò di esistere con la distruzione di Gerusalemme (J. Munck). Come la distruzione di Gerusalemme costituisce la grande svolta fatale per il giudaismo, così lo è anche per il giudeo-cristianesimo (Schoeps).

Già poco dopo la morte di Giacomo emersero grandi difficoltà nella chiesa di Gerusalemme, quando un certo Thebutis non approvò l’elezione di Simeone, fratello del Signore, a successore di Giacomo. Thebutis, poiché non era diventato vescovo, incominciò a contaminare la Chiesa fondando una setta giudeo-cristiana e distruggendo l’unità della comunità (Eusebio, Storia della Chiesa 4,22,5: citato da Egesippo).

All’inizio della guerra giudaica, i giudeo-cristiani di Gerusalemme fuggirono a Pella nella Transgiordania e la comunità cristiana scomparve nella solitudine del deserto transgiordanico. Dopo la distruzione di Gerusalemme una parte della primitiva comunità ritornò nei resti della città e cadde sotto l’influenza di sette giudaiche e si unì ad esse.

Ammesso che Giacomo, fratello del Signore, sia effettivamente l’autore della lettera, il luogo di composizione non può essere che Gerusalemme.

5) Classificazione della lettera

Non è un trattato teologico. Per quanto riguarda il suo carattere epistolare, esso risulta solo dall’indirizzo (1,1), ma manca la chiusura. Anche nelle altre parti la lettera non manifesta più alcuna vera caratteristica epistolare. In 1,2 viene immediatamente introdotta la parenesi (= esortazione) che continuerà per tutta la lettera. Questa lettera è una catena di singole esortazioni più o meno lunghe, di gruppi di sentenze e di vertenze più brevi...che vengono accostate l’una all’altra più o meno forzatamente (Kummel). Tale materiale deriva in gran parte dalla tradizione dell’Antico Testamento e da quella evangelica.

Nella lettera di Giacomo si trova una concezione ben precisa dell’esistenza cristiana, per es. nel giudicare l’esagerata curiosità culturale, la ricchezza, il culto della personalità nella comunità, l’amicizia del mondo, l’orgogliosa progettazione della vita, l’esigenza della mutua responsabilità, e traspare in genere un cristianesimo di impegno fattivo.

Proprio questa esigenza di un cristianesimo deciso e impegnato, già proposto da Gesù nel discorso della montagna, costituisce il motivo conduttore dei singoli brani parenetici. Dal punto di vista storico-letterario, questo scritto può essere definito una Didachè parenetica (Windish).

6) Lingua e stile

Il greco della lettera di Giacomo è da tutti considerato buono. La sua avversione per i ricchi e la sua critica alla sapienza terrena non gli impediscono di presentare la sua lettera in un greco molto buono, di efficacia quasi letteraria.

Accanto ai molti grecismi, Giacomo ci offre un numero ancora maggiore di semitismi; ciò significa che sotto la veste greca sta un autore che pensa in semitico. Giacomo costituisce una sintesi meravigliosa del mondo linguistico greco e di quello semitico in una mutua acclimatazione (E. Pax).

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:11
Commento

1.1
L’indirizzo
(1,1)

1Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute.

v. 1 Seguendo l’antico stile epistolare, l’autore riporta il proprio nome e offre una designazione dei suoi destinatari. L’autore si chiama Giacomo che significa egli si afferrerà al calcagno. Egli si designa come servo di Dio. Ciò corrisponde all’uso orientale antico e veterotestamentario. Soprattutto i grandi dell’Antico Testamento vengono chiamati servi di Dio, come Mosè, Davide, Giosuè, Abramo, ecc.

Nel Nuovo Testamento, Paolo e i suoi accompagnatori vengono chiamati servi di Dio altissimo (At 16,17). Paolo stesso si denomina servo di Gesù Cristo (Rm 1,1; Gal 1,10; Fil 1,1). L’espressione assume perciò il carattere di una designazione onorifica, di una qualifica d’ufficio, di una vocazione a compiere un incarico importante da parte di Dio. Con il termine servo viene professato uno speciale rapporto di servizio rispetto a Dio e a Gesù: è una designazione di umiltà davanti a Dio e di nobiltà di fronte ai destinatari, ai quali Giacomo si presenta come rappresentante incaricato e scelto, ministro di Dio e di Gesù.

La lettera è indirizzata alle dodici tribù della diaspora. Egli scrive in greco, il che significa che si rivolge a comunità cristiane viventi fuori della Palestina, e la terra fuori della Palestina, per gli Ebrei, è diaspora. Giacomo designa i suoi lettori come le dodici tribù. Il giudaismo, come confederazione delle dodici tribù aveva già cessato di esistere dal 722 a.C. Quindi la restaurazione di Israele in confederazioni di dodici tribù sarà compito escatologico del Messia (Os 9,9; Ger 3,18; Ez 37,19.24; ecc.). Questa speranza Giacomo la vede già compiuta nella comunità cristiana: essa è per lui il popolo delle dodici tribù, l’Israele definitivo. Nella comunità del Messia Gesù, Giacomo vede adempiersi la promessa profetica riguardante il risollevamento della tenda di Davide che era caduta (At 15,16; Am 9,11). Giacomo scorge nei destinatari cristiani della sua lettera il vero Israele nella sua restaurazione escatologica.


(2)
L'esistenza combattuta

In questo brano si parla della prova della fede dei lettori che deve servire al loro perfezionamento e che avviene soprattutto nelle molteplici tentazioni dalle quali sono colpiti i fedeli. Dall’accenno fatto alle tentazioni salutifere, il lettore potrebbe trarre la falsa conclusione che esse vengono da Dio. Questa deduzione viene decisamente respinta da Giacomo (vv. 13-14). Dio è solo datore di doni buoni (v. 17).

L’uomo è un ricevente (vv. 7-12) e un essere indigente per natura (vv. 4-5). Questa indigenza può essere eliminata soltanto da Dio, il quale concede sicuramente il suo aiuto, se l’uomo lo prega (v. 5) con una fiducia da credente, che non ammette dubbi (vv. 6-8). Così la fede si prova non solo con le tentazioni, ma anche nella preghiera piena di fiducia. E il fedele deve chiedere la sapienza, non la ricchezza terrena che svanisce (vv. 9-12).

Quindi ciò che lega strettamente i vv. 2-18 è il tema dell’esistenza combattuta del credente, la quale, proprio perché avversata in questo mondo, deve essere intesa e improntata in modo radicalmente escatologico.

2.1
Dalla prova della fede alla perfezione
(1,2-4)

2Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, 3sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. 4E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla.

v. 2-3. Nel saluto precedente Giacomo aveva mandato un augurio di gioia (chairein). Qui accentua tale gioia con l’attributo totale, perfetta, genuina (pasan).

E questa gioia completa è motivata dal ripetersi delle prove o tentazioni. La gioia dei tentati non è la gioia per le tentazioni in se stesse, ma perché le hanno sempre superate.

Giacomo offre una visione tutta positiva e motivata riguardo alle prove della vita. Affiora fin da queste prime righe uno dei motivi fondamentali di questa lettera: non basta un’esistenza di sola fede; la fede deve sostenere molte prove ripetutamente. Giacomo respinge espressamente al v. 13 il pensiero di una tentazione derivante da Dio. Ma poiché queste tentazioni sono un mezzo per sperimentare la fede, Giacomo le concepisce come permesse da Dio. Dio non libera il credente dalle situazioni pericolose in cui si trova nel mondo; il credente vive in uno stato di lotta tra Dio e satana, tra bene e male, e deve fare la sua scelta. La gioia del credente è giustificata dal fatto che le tentazioni superate producono la perseveranza, ossia la salvezza della fede, che diviene sempre più capace di affrontare ogni difficoltà. La perseveranza non è un atteggiamento passivo o rassegnato, ma una resistenza attiva e vittoriosa fino alla fine, come quella dei martiri.

v. 4. Il fine della perseveranza dei cristiani è di diventare perfetti e completi in ogni virtù. Questo versetto è un appello ai lettori perché, attraverso la perseveranza nelle prove, procurino di diventare opera perfetta. Nei vv. 2-4 Giacomo mira all’attuazione non di un ideale etico, ma della fede. L’opera perfetta è raggiunta quando fede e opere formano una unità vitale. La finale del v. 4 in nessun punto mancanti è un aggancio per la continuità col v. 5.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:11

2.2
La preghiera fiduciosa per la sapienza
(1,5-8)

5Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. 6La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; 7e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore 8un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni.

v. 5. Non si può acquistare la sapienza da soli; essa è un dono divino da chiedere nella preghiera. Giacomo assicura la certezza dell’esaudimento della preghiera: Dio dà volentieri e senza vantarsi. Mentre lo stolto dà con sette occhi (Sir 20,14), cioè con tutti i secondi fini possibili, il dare di Dio è senza riserve, senza mire, senza calcoli.

v. 6. Qui viene data una maggiore chiarificazione sulla qualità della preghiera. La semplice richiesta non basta, ma deve essere congiunta alla fede, altrimenti Dio non esaudisce la preghiera per ottenere la sapienza. La fede di cui si parla qui è la fede fiduciale, quella priva di dubbi che è giustificata dalla natura stessa di Dio. Colui che dubita vive in intimo conflitto tra confidenza e sfiducia davanti a Dio, gettato qua e là da ogni sorta di pensieri, invece di gettarsi nelle braccia di Dio con fiducia infantile. Il dubbioso non è colui che ha difficoltà intellettuali, ma chi vive in conflitto con se stesso, chi non ha ancora fatto una scelta decisa per Dio.

v. 7. Il dubbioso non ha alcuna fede reale nell’assoluta disposizione di Dio all’esaudimento della preghiera. Il v. 7 spiega perché la preghiera del dubbioso non è esaudita: il pensare (òisthai) non ha niente a che vedere con la fede fiduciale (pìstis). La fede è incontro reale con Dio e non conoscenza teorica di verità religiose.

v. 8. L’uomo che ha il cuore diviso è il contrario dell’uomo ideale dell’Antico Testamento: Tu devi appartenere tutto, senza divisione, di tutto cuore, a Jahvè tuo Dio (Dt 18,13). L’anima del dubbioso è sdoppiata perché oscilla continuamente tra fiducia e sfiducia.

Il dubbioso non segue la via diritta della fiducia, ma cambia continuamente strada ed è simile ad un’onda marina buttata qua e là dalla tempesta. La risolutezza del cristianesimo rappresentato e postulato da Giacomo appare già nettamente in questa prima esortazione.

2.3
La gloria del povero e del ricco
(1,9-11)

9Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione 10e il ricco della sua umiliazione, perché passerà come fiore d’erba. 11Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese.

Nei due salmi della povertà, il 49 e il 73, i ricchi vanno di colpo in distruzione e muoiono di spavento, mentre il povero viene strappato dal regno dei morti e rapito in Dio e la sua eredità rimane per sempre presso di Lui (49,16; 73,23-26). Così l’afflizione del povero si trasforma in gioia. Nel v. 9 Giacomo riprende l’invito alla gioia del v. 2 . Là aveva esortato tutti i fratelli alla gioia, qui esorta alla gioia il fratello che è povero.

v. 9. Gloriarsi è di per sé il comportamento normale dei ricchi, ma Giacomo esorta il povero (tapèinos) a gloriarsi. Questo verbo non vuole avere alcun connotato di presunzione, come il desiderio smodato dei ricchi che posseggono soprattutto per apparire e gloriarsi, ma esprime la grande gioia che deve riempire il povero. Il ricco è colui che dispone di potenza e di considerazione davanti a tutti, mentre il povero rappresenta l’uomo da poco, insignificante, che spesso viene oppresso dai ricchi (Gc 2,6). Quando Giacomo esorta il cristiano povero a gloriarsi della sua altezza, intende parlare in senso del tutto religioso. Qui Giacomo riprende, a modo suo, la prima beatitudine del discorso della montagna (Mt 5,3).

v. 10. L’energico imperativo rivolto al ricco perché si glori della sua condizione di umiliazione, non va inteso in senso ironico; è una esortazione seria rivolta ai ricchi della comunità. La successiva considerazione sulla morte del ricco fa pensare all’abbassamento futuro, di cui i ricchi devono gloriarsi già adesso. Questo è certamente uno strano gloriarsi, ma è la conseguenza logica della valutazione escatologica dell’esistenza, che considera con l’occhio della fede le cose ultime. Solo così l’esortazione ai membri ricchi della comunità può accompagnarsi ai duri giudizi che la lettera pronuncerà sui ricchi (2,6-7; 5,1 ss).

La vita del ricco è un rapido fiorire e un rapido disseccarsi e morire.

v. 11. Con i verbi sorse, seccò, cadde, venne meno il narratore riporta qualcosa che ha già osservato più volte nella sua vita. Qui non si parla solo del ricco cristiano, ma del ricco in genere, che è perennemente in viaggio per curare i suoi affari e mira solo al proprio utile. Immancabilmente, un giorno, lo raggiungerà la morte; egli appassirà come un fiore d’erba.

2.4
La beatitudine della perseveranza
(1,12-18)

12Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.
13Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. 14Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; 15poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte.
16Non andate fuori strada, fratelli miei carissimi; 17ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento. 18Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature.

Dopo aver iniziato la sua lettera con un’esortazione alla gioia (v. 2 ) rivolta ai fratelli travagliati da ogni sorta di prove, e dopo aver incitato a un vanto glorioso anche il povero e il ricco (v. 9), ora Gc conclude con una beatitudine in cui riprende ancora una volta il tema delle tentazioni, ma modellato in forma fortemente escatologica. Il tema delle tentazioni fa però sorgere anche il pensiero della loro provenienza, e ciò induce l’autore a offrire una piccola teodicea (in greco Theòs dìke = giustizia di Dio) nei vv. 13-18.

v. 12. Il grido di salvezza Beato, assieme alla promessa della corona di vita, costituisce un ben riuscito contrasto con l’appassirà immediatamente precedente: caducità-vita eterna! In questo verso Giacomo non pensa a una precisa tentazione, ma a tutte, specialmente a quelle morali, come indicano i versi seguenti. La beatitudine viene motivata in senso escatologico: chi resiste alla tentazione riceverà la corona della vita eterna, che Dio ha promesso a quelli che lo amano. In ultima analisi Giacomo esorta i fratelli cristiani a perseverare perché ne vale la pena.

v. 13. La storia di Abramo e di Giobbe, a cui nella lettera si rimanda esplicitamente (2,21; 5,11) potrebbe far pensare che è Dio stesso la causa delle tentazioni in cui l’uomo incorre. E avendo ognuno sperimentato che l’inclinazione cattiva appare inscindibilmente con la natura dell’uomo, viene spontaneo pensare che il Dio della creazione sia responsabile dei conflitti etici dell’uomo, e che quindi l’uomo è sgravato da ogni responsabilità. Per distogliere da opinioni tanto pericolose Giacomo svolge una breve teodicea che respinge decisamente l’idea di un Dio causa delle tentazioni: Nessuno che venga tentato deve dire: da Dio vengo tentato. Il rifiuto di un’opinione così blasfema è fondato da Giacomo in primo luogo teologicamente, partendo dal concetto di Dio: Dio non è tentato dal male. E di conseguenza neppure tenta alcuno al male. Qui si parla di male come di azioni moralmente cattive, non di prove della fede come quelle superate da Abramo e Giobbe.

v. 14. Giacomo parla della vera provenienza delle tentazioni: ciascuno, senza eccezione, è tentato dalla propria concupiscenza. Le cupidigie scaturiscono dall’intimo di ciascuno (Mt 15,18-20; Mc 7,20-23).

La concupiscenza appare qui quasi come un essere personale al quale l’uomo è strettamente legato, ma non consegnato come impotente. La sua attività nell’uomo si manifesta nella forma di trascinare, attrarre, allettare, adescare. Giacomo presenta la concupiscenza come una specie di meretrice che con il suo fascino adesca l’uomo.

v. 15. Ci viene presentata la genealogia della morte: la concupiscenza genera il peccato, il peccato genera la morte. È una fosca antitesi alla promessa della corona di vita: chi resiste alle tentazioni otterrà la corona della vita eterna, chi accondiscende alla concupiscenza incorrerà nella morte eterna.

Poiché nel v. 14 la concupiscenza appare come una meretrice che alletta e seduce l’uomo, il v. 15 rimane probabilmente nello stesso ordine di idee: la meretrice-concupiscenza concepisce quando l’uomo tentato cede a lei, cioè aderisce a ciò a cui la concupiscenza vuole adescarlo. Dopo aver concepito, la concupiscenza genera il peccato. Donde propriamente derivi la concupiscenza dell’uomo, la lettera non lo dice. Però i vv. 14 e 15 fanno pensare al racconto del peccato originale che si legge in Gen 3.

Il peccato genera la morte solo quando è giunto al compimento, alla maturazione.

Il peccato (gr. = hamartìa) è in un certo senso il feto della concupiscenza. E solo quando il peccato è diventato maturo ed è cresciuto fino alla pienezza della sua natura, genera la morte. I vv. 14 e 15 nella loro inesorabile sequenza, il cui termine ultimo è la morte, certamente mirano anzitutto a scopi parenetici: Resisti alle tentazioni e deciditi per la vita! Forse Giacomo si ispira a Sir 15,17 dove l’uomo è invitato a prendere una decisione: Davanti all’uomo sta la vita e la morte; ciò che egli vuole, gli sarà dato.

v. 16. Il versetto unisce le affermazioni negative su Dio del v. 13 alle seguenti positive. L’esortazione non lasciatevi traviare mette in guardia da un pericoloso accecamento che consiste nel supporre che Dio sia la vera causa delle tentazioni e quindi delle cattive azioni dell’uomo. Chi vive in tale errore e lo difende cerca di sottrarsi alla sua responsabilità davanti a Dio, riversando su di lui la colpa dei propri peccati; dietro una simile opinione ci sarebbe inoltre un falso concetto di Dio. Per questo Giacomo spiega subito che Dio è datore solo di doni buoni.

v. 17. Ogni donazione buona e ogni dono perfetto discende dall’alto; quindi ciò che alla fine reca la morte, come la tentazione, la concupiscenza e il peccato, non può venire da Dio. Dio viene designato come Padre delle luci, evidentemente in riferimento alla creazione delle stelle, come indica la continuazione del versetto.

Giacomo quindi dall’opera del creatore, che è buona (Gen 1,18) deduce la natura del creatore, il quale, come padre della luce, può dare solo doni buoni. Egli respinge quella pericolosa opinione che considera Dio come causa del male.

Dio non può cambiare; infatti in lui non c’è mutazione, né oscuramento per alterazione. Forse con i tre termini: mutazione, oscuramento, alterazione si intende descrivere il corso giornaliero del sole. Mentre il sole nel suo corso causa un mutamento quotidiano tra luce e tenebra, presso il Padre delle luci non è così. Egli rimane inalterato nella sua proprietà di concedere solo doni buoni.

v. 18. Qui Giacomo parla della creazione escatologica, di cui i cristiani sono la primizia. In questo versetto si fa riferimento al battesimo che è una rinascita e una nuova creazione; esso è visto in stretta connessione con la docile accettazione della Parola presentata nella predicazione missionaria. Pertanto la parola della verità significa il vangelo che gli uditori hanno accolto nell’istruzione battesimale e che per essi è diventato forza vivificante e salvifica (cf 1,21).

La nascita divina dell’uomo ha come scopo che i battezzati siano, in certo modo, primizia delle creature del Padre. I cristiani per Giacomo sono l’inizio della nuova creatura e forse egli pensa qui soprattutto ai giudeo-cristiani, che furono proprio i primi membri della nuova comunità del Messia Gesù. Dio ci ha generati nel battesimo, affinché noi fossimo la primizia delle sue creature e non figli della concupiscenza e del peccato che genera alla morte. Così appare anche il collegamento del tema delle tentazioni con l’idea della nascita divina dei battezzati. Le tentazioni, appena si accondiscende alla concupiscenza, conducono l’uomo alla morte; il vincerle conduce invece a quella vita che Dio dona ai battezzati, i quali sono la primizia della nuova creazione. L’elezione ad essere primizia si basa esclusivamente sulla libera chiamata mediante la libera grazia di Dio.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:13
L'attuazione della Parola
1,19-27

La nuova serie di sentenze è rivolta con energia verso l’esigenza fondamentale della lettera: un cristianesimo fattivo. Questa sezione contiene una serie di proposizioni di coerenza etica per l’agire del cristiano. La nascita da Dio e la Parola piantata in noi obbligano!

3.1
Le predisposizioni giuste dell’uditore
(1,19-21)

19Lo sapete, fratelli miei carissimi: sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. 20Perché l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio. 21Perciò, deposta ogni impurità e ogni resto di malizia, accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime.

v. 19. Ogni uomo deve avere tre caratteristiche: veloce ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. L’ascoltare non è necessariamente l’ascolto della parola di Dio, ma innanzitutto un paziente ascolto degli altri. A questo viene collegata l’esortazione ad essere lenti a parlare, aspettando e riflettendo. Solo così viene evitato l’improvviso e adirato brontolare contro gli altri, l’essere lenti all’ira. Giacomo espone innanzitutto importanti norme per la vita in comune, che sono nello stesso tempo delle premesse importanti per il giusto ascolto della Parola come indica il nesso con il v. 21. E già si fa visibile a questo punto uno degli scopi che si propone la lettera: il fattivo amore del prossimo che evita anche i problemi di lingua (v. 26).

v. 20. Questo versetto giustifica l’ammonimento ad essere lenti all’ira. L’ira provoca un precipitoso ingiusto giudizio sul proprio simile, e così non opera la giustizia di Dio. Compie la giustizia di Dio chi vive secondo la sua volontà. Chi si adira, invece, viola il comandamento dell’amore del prossimo: in questo modo non attua la giustizia di Dio, ma distrugge l’ordinamento comunitario voluto da Dio. Probabilmente il pensiero di Giacomo è già rivolto alle guerre e battaglie di cui parlerà in 4,1 ss. Ora è importante per lui ammonire la comunità ad un paziente ascolto degli altri e alla mansuetudine.

v. 21. Ogni immondizia ed abbondanza di malizia che devono essere deposte, nel contesto di una parenesi battesimale, si riferivano alla precedente vita pagana. Giacomo si rifà all’ammonizione battesimale perché essa pone delle esigenze che devono essere permanentemente attuate. Anche il secondo ammonimento ad accogliere con mansuetudine la parola piantata in voi sembra essere attinto alla tradizionale parenesi battesimale. Questo imperativo accogliete, così spesso ripetuto nella lettera, acquista un carattere di particolare intensità: accogliete davvero la Parola piantata in voi nel battesimo, in ogni sua conseguenza e soprattutto in mansuetudine, senza irose obiezioni, senza opposizioni arroganti. La mansuetudine è chiaramente posta in antitesi con la precedente ira. La Parola piantata è quella dell’istruzione battesimale: le verità cristiane fondamentali, ascoltate nel catecumenato battesimale, non hanno solo contenuto cristologico-soteriologico, ma anche etico. La Parola piantata ci rende nota la volontà di Dio e deve portare frutto, cosa che dipende anche dall’atteggiamento di coloro nei quali essa è piantata. Giacomo attribuisce una forza salvifica alla parola di Dio. La salvezza dell’anima (gr. Psukè, ebr. Nefesh) significa la salvezza dell’uomo intero, la salvezza della vita. Per un giudizio d’insieme sulla teologia di Giacomo è di grande importanza notare qui che egli attribuisce una forza salvifica non solo alle opere, ma anche alla Parola. Ma perché la Parola possa esercitare la sua potenza salvifica, dev’essere trasformata dall’uomo in buone azioni. Dunque l’efficacia salvifica della Parola non ha un carattere magico o meccanico.

3.2
Siate esecutori della Parola
(1,22-25)

22Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi. 23Perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia a un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: 24appena s’è osservato, se ne va, e subito dimentica com’era. 25Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.

Accettazione della Parola significa attuazione della Parola nell’esperienza di ogni giorno. Un semplice ascolto della Parola equivarrebbe a un’illusione.

v. 22. L’accettazione della Parola ha tre momenti: udire la Parola, accettarla nella fede, tradurla in atto. I primi due sono in funzione del terzo: Siate esecutori della Parola!. La volontà di Dio viene annunciata per essere fatta. Importante non è lo studiare, ma il fare (Abot, 1,17). Non quelli che ascoltano la legge sono giusti presso Dio, ma quelli che la mettono in pratica verranno dichiarati giusti (Rm 2,13). Per Giacomo l’attuazione della volontà di Dio non si concretizza in un inasprimento dell’osservanza della Torà, ma nelle opere dell’amore del prossimo, come vedremo di seguito.

vv. 23-25. Giacomo, mediante un paragone, smaschera chi è solo uditore. Chi ascolta soltanto, senza essere esecutore, è simile a un uomo che guarda un momento nello specchio il proprio volto, quello che ha dalla nascita, ma poi ritorna alle sue occupazioni e intanto dimentica come era fatto. Con questa frase Giacomo parla della superficialità e della leggerezza di coloro che si specchiano nella Bibbia, ma non ne traggono le conseguenze pratiche per il proprio contegno pratico. Nel v. 25 invece si sottolinea la costante fatica che l’uomo deve fare per scrutare con attenzione la legge perfetta della libertà. Probabilmente con Parakùpsas (= chi ha attentamente considerato) si intende l’atteggiamento di chi legge con attenzione e zelo, mentre si china sul rotolo della Torà (Schlatter). La legge perfetta della libertà è l’Antico e il Nuovo Testamento.

L’agire dell’esecutore attento e zelante della Parola, sono le opere dell’amore del prossimo, specialmente l’aiuto ai poveri e agli oppressi. Il contenuto essenziale della legge perfetta della libertà Giacomo lo vede certamente espresso nella legge regale secondo la Scrittura: Amerai il prossimo tuo come te stesso (2,8) che anche Gesù ha equiparato al comandamento dell’amore di Dio (Mt 22,39). Per Legge perfetta della libertà si intende la volontà di Dio, il quale esige che si faccia il bene del prossimo. Per Giacomo la libertà consiste nella liberazione da ogni egoismo, che si realizza in una amorosa premura verso il prossimo. Per libertà perfetta si intende la legge antica, completata da Gesù (Mt 5,17).

Al frettoloso andarsene del paragone, corrisponde antiteticamente nella realtà il fermarsi e perseverare. In che cosa bisogna perseverare? Nel continuare a guardare nella legge perfetta senza andarsene più. Così l’uomo può incessantemente vedere come lo stimoli all’azione, lo spinga a un comportamento risoluto e non sopporti un puro ascolto superficiale in cui venga dimenticata la volontà di Dio. Dio aveva detto a Giosuè: Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte e cerca di agire secondo quanto vi è scritto (Gs 1,8). La Torà spinge all’azione e, perciò, secondo Abot 1,15 (Shammai), bisogna stabilire delle ore fisse per il suo studio. All’udire deve seguire l’azione altrimenti il cristianesimo è illusione.

3.3
Falsa e vera religiosità
(1,26-27)

26Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. 27Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo.

La vera religiosità per Giacomo sta in un cristianesimo vissuto. Nell’intenzione di Giacomo la pietà non si esaurisce solo in quanto dice in queste righe, come appunto indicano le esortazioni nel seguito della lettera. Ma quello che dice qui deve stargli particolarmente a cuore.

v. 26. Se uno crede di essere religioso (e intanto) non frena la sua lingua, ma soltanto inganna se stesso, la sua religiosità è nulla. Per Giacomo non c’è alcuna vera religiosità, là dove la lingua non viene dominata. Di questa illusione si è già parlato anche nel v. 22.

Perché Giacomo pone in relazione la pietà apparente con il dominio della lingua?

In seguito egli metterà espressamente in guardia dalla smania dell’insegnamento, riferendosi nuovamente ai terribili pericoli che emanano proprio dalla lingua (3,1 ss; 13ss.). Egli scorge le comunità piene di lotte e dissidi (4,1 ss) e in questi le contese religiose hanno una parte importante. Quindi già in 1,26 potrebbe trovarsi un’allusione a contese religiose che dimostrano apparentemente zelo e vera religiosità, ma sorgono invece da un autoinganno. Una simile religiosità è nulla, inutile e morta (2,20.26). La primitiva missione cristiana era accompagnata da violenti dissidi, come attestano le lettere di Paolo e gli Atti. Il conflitto partiva spesso dalla parte giudeo-cristiana, ed è del tutto possibile pensare che Giacomo voglia richiamare alla ragione i giudeo-cristiani proprio nella sua veste di loro capo riconosciuto. Il N.T. presenta il fratello del Signore come un uomo che mira all’accomodamento e alla pace (Gal 2,9; At 15,13-21; 21,17-25). La sua lettera lo conferma.

v. 27. Alla religiosità nulla viene opposta quella vera agli occhi di colui che è Dio e Padre. La religiosità vera e incontaminata, che vale davanti a Dio, è la traduzione quotidiana della Parola nell’azione. Si tratta di un’esigenza energicamente sollevata già nell’Antico Testamento. Vedove e orfani non avevano difensori nei loro diritti ed erano abbandonati all’arbitrio dei loro avversari ricchi e potenti. Naturalmente non si tratta solo di vedove e di orfani in senso stretto; queste due categorie rappresentano ogni uomo indifeso e impotente. Ciò che Giacomo esige è l’aiuto a coloro che soffrono per miseria e ingiusta oppressione.

La seconda esigenza della religiosità pura e incontaminata consiste nel prendere una continua distanza dal mondo: non si allude alla creazione, ma al mondo caduto in balia dei piaceri terreni e della ricchezza. Simile ideale di religiosità è sobrio e pratico, lontano da ogni forma di cristianesimo teoricizzante e letterario; esso è attinto alla migliore tradizione del giudaismo e allo spirito del discorso della montagna (Mt 5-7).

 

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:14

(4)
Culto della personalità e giudizio imminente

1Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria. 2Supponiamo che entri in una vostra adunanza qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito splendidamente, ed entri anche un povero con un vestito logoro. 3Se voi guardate a colui che è vestito splendidamente e gli dite: «Tu siediti qui comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti in piedi lì», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sgabello», 4non fate in voi stessi preferenze e non siete giudici dai giudizi perversi?
5Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? 6Voi invece avete disprezzato il povero! Non sono forse i ricchi che vi tiranneggiano e vi trascinano davanti ai tribunali? 7Non sono essi che bestemmiano il bel nome che è stato invocato sopra di voi? 8Certo, se adempite il più importante dei comandamenti secondo la Scrittura: amerai il prossimo tuo come te stesso, fate bene; 9ma se fate distinzione di persone, commettete un peccato e siete accusati dalla legge come trasgressori. 10Poiché chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto; 11infatti colui che ha detto: Non commettere adulterio, ha detto anche: Non uccidere.
Ora se tu non commetti adulterio, ma uccidi, ti rendi trasgressore della legge. 12Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché 13il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio.

Giacomo passa improvvisamente a parlare di un tema nuovo, che però si ricollega a ciò che egli intende per vera religiosità (= cura dei poveri). Tuttavia lo si può considerare uno sviluppo più dettagliato dell’esigenza manifestata in 1,27b (= far visita agli orfani e alle vedove nella loro afflizione). Infatti egli tratta un caso che smaschera nella comunità il falso culto della personalità; in questo modo vuol far valere l’onore conferito al povero da Dio stesso. Questa volta Giacomo non si accontenta di una breve parenesi, ma tratta il caso diffusamente e in tono molto vivace.

v. 1. L’ormai familiare allocuzione fratelli miei con cui viene introdotta anche questa parenesi, comporta sempre un cordiale e pressante appello ai destinatari.

Segue, in forma imperativa, un’ammonizione a non collegare la fede cristiana al culto della personalità. Simili casi di culto della personalità sono per Giacomo inconciliabili con la fede del nostro Signore Gesù Cristo della gloria. L’accenno a Gesù Cristo, il Kyrios glorioso della comunità cristiana, sta in efficace contrasto con qualsiasi culto della personalità. Colui che pratica un tale culto, agisce come se il Signore della gloria per la comunità cristiana non fosse più Gesù, ma un altro o altri: quei ricchi il cui ingresso nell’assemblea cultuale della comunità viene festeggiato come una epifania del Kyrios Gesù. Il culto della persona pone così la gloria mondana dei ricchi al posto della gloria di Gesù, la sola valida, ed è pertanto inconciliabile con la fede cristiana.

vv. 2-3. Questo esempio altamente efficace illumina tale inconciliabilità. Si tratta di un accorgimento stilistico da non prendere alla lettera. Con ciò non si esclude che vi fossero nella comunità motivi concreti per trattare l’argomento in questo modo, diversamente non si capirebbe perché Giacomo ne scriva. Difatti presenta il fatto come se avvenisse nella vostra assemblea. La distinzione tra il povero e il ricco per Giacomo qui forse ha un’importanza relativa: a lui interessa unicamente la reazione della comunità. Lo sguardo dei presenti si dirige automaticamente verso il ricco, mentre degnano il povero appena di un’occhiata. La descrizione diventa particolarmente viva con l’impiego del discorso diretto. Il ricco viene subito invitato dalla comunità ad accettare un buon posto a sedere, mentre al povero si assegna soltanto un posto in piedi o, al più, un posto sul pavimento, più in basso di uno sgabello o di un poggiapiedi. Il disonorante trattamento del povero raggiunge il culmine con l’uso del pronome personale mou dopo upopòdion, il poggiapiedi di me. Chi parla impone al povero di prendere posto in basso, più giù del proprio sgabello, e così innalza se stesso al di sopra di lui.

v. 4. Giacomo in forma molto efficace rivolge ai destinatari una prima domanda: essi vengono così coinvolti nel caso in modo ancor più personale. Non avete fatto, in questo caso, distinzioni nel vostro intimo? Il v. 4 parla di sentimenti perversi: hanno trattato il ricco e il povero in modo così difforme perché sono giudici dai sentimenti perversi, ossia totalmente diversi rispetto a quelli di Dio.

v. 5. L’esortazione Ascoltate fratelli miei diletti ha valore di implorazione: Considerate cosa significhi un simile comportamento perché è proprio l’opposto dei sentimenti e del comportamento di Dio. Dio ha scelto i poveri è un’importante verità, frequentemente ripetuta nella Bibbia.

I poveri non sono interessanti per il mondo, non contano nulla. Dio invece ha interesse per loro e ha scelto proprio loro. La scelta di Dio impone dei capovolgimenti dei valori che contano davanti al mondo: ora non è più ricco chi porta anelli d’oro o vestiti lussuosi, ma chi è eletto da Dio. La fede in Dio accorda già ora ricchezze spirituali, vere e durature.

L’espressione eredi del regno richiama il discorso delle beatitudini: Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio (Lc 6,20). Giacomo ha visto il pericolo, tutt’altro che teorico, che anche nella comunità cristiana si infiltrassero le differenziazioni classistiche particolarmente forti nella antichità e così si oscurasse l’intenzione salvifica di Dio, il quale aveva eletto proprio i poveri. Egli si accorge che nella comunità viene accordata un’eccessiva reputazione ai ricchi, a svantaggio dei poveri.

E tutto questo contraddice la parola di Dio: Non si deve disprezzare un povero saggio, né onorare alcun uomo potente (Sir 10,27); beati voi poveri ... ahimè per voi ricchi (Lc 6,20-24).

vv. 6-7. Le invettive della lettera contro i ricchi ricordano espressioni simili dei profeti (Ger 5,26-27; Mi 6,11-12; ecc.). Gli enunciati di Giacomo contro i ricchi sono del tutto generalizzanti, e l’espressione essi vi trascinano davanti ai tribunali mostra che egli identifica i ricchi con i potenti senza Dio. Probabilmente accenna alle esperienze delle persecuzioni, cui erano esposte le comunità cristiane, specialmente da parte dei giudei.

L’invocazione del nome di Gesù sui cristiani avveniva nel battesimo; con ciò si diventava sua proprietà, come Israele diventò il popolo dell’Alleanza perché su di esso fu invocato il nome di Jahvè (Ger 14,9; Dt 28,10; Sal 9,9). Il bel nome di Gesù è oltraggiato dai persecutori della comunità cristiana, così come Gesù sulla croce fu oltraggiato dai suoi avversari.

vv. 8-9. I cristiani non solo disonorano il povero mediante la preferenza fatta al ricco nella loro assemblea comunitaria, ma trasgrediscono l’espresso comando di Dio, che ha ordinato: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18). Chi invece esercita il culto della persona nei riguardi dei ricchi, compie peccato. Amore del povero e culto dei ricchi si escludono a vicenda. La legge che convince come trasgressori coloro che hanno preferenze per i ricchi a scapito dei poveri è la Bibbia.

v. 10. Chi manca a un solo comandamento, si rende colpevole di tutti perché la legge è un tutto indivisibile.

Questa tesi singolare e quasi sorprendente viene esposta più dettagliatamente nei versi seguenti.

v. 11. La motivazione viene addotta sulla base dell’unico legislatore, che ha emanato tutti i comandamenti. Appunto perché la trasgressione di un qualsiasi comandamento è rivolta sempre contro la volontà del medesimo legislatore, essa è una violazione dell’intera legislazione. La santa volontà di Dio è unica e non si può dividere: non ammette quindi eccezioni. Pertanto, chi viene meno a un solo comandamento manca contro tutta la legge. Ciò sembra a prima vista di un rigore straordinario, ma a una più approfondita considerazione appare fondato sulla santità stessa di Dio. L’indivisibile volontà di Dio viene espressa nel decalogo. Fare eccezione su uno solo dei suoi comandamenti sarebbe intaccare l’unità della sua santa volontà. Soprattutto chi trasgredisce il regale comandamento dell’amore del prossimo, è diventato in linea di principio trasgressore della legge, perché non ha trasgredito un singolo comandamento, ma ha distrutto tutto l’ordinamento etico promanante da Dio, fondato sulla santità di Dio. I singoli comandamenti sono soltanto emanazioni dell’unica e indivisibile volontà di Dio. Il medesimo che ha detto: Non commettere adulterio, ha anche detto: Non uccidere. Perché ora Giacomo, richiamandosi al comandamento regale dell’amore parla proprio di adulterio e di omicidio ? Lo fa perché il rifiuto di amare il prossimo era ritenuto, già nella tradizione precedente, una specie di assassinio. E se si suppone che agli occhi di Giacomo l’amoreggiare coi ricchi sia una specie di adulterio spirituale, si comprende come egli abbia potuto scegliere dal decalogo gli esempi (commettere adulterio e uccidere) in cosciente riferimento al suo caso.

v. 12. Il retto parlare e il retto agire stanno grandemente a cuore a Giacomo. Infatti saremo giudicati mediante la legge della libertà. Per legge della libertà si intende la rivelazione etica di Dio e di Gesù, la quale vuole e può condurre gli uomini alla libertà, e la cui esigenza principale consiste nel comandamento dell’amore.

Con ciò è già detto chiaramente che il compimento del comandamento dell’amore fornirà la misura decisiva per il giudizio, come leggiamo nell’insegnamento di Gesù (Mt 7,19; 25,31-46) e come Giacomo spiegherà a fondo con passione nella grande sezione seguente.

v. 13. La misericordia viene qui interpretata nel senso del comandamento dell’amore: ama il prossimo, cioè sii misericordioso con il povero!

Ne risulta così anche un passaggio organico al testo seguente, in cui si tratta proprio della misericordia verso i fratelli e le sorelle bisognosi, che può salvare l’uomo nel giorno del giudizio.

Questo versetto viene introdotto con una motivazione (infatti). La precedente minaccia del giudizio viene motivata con un pensiero sottinteso: bisogna temere il giudizio, infatti, non ci sarà misericordia verso coloro che non sono misericordiosi. C’è una chiara corrispondenza con la dottrina di Gesù (Mt 5,7; 18,29-34; 25,45-46). Il detto conclusivo la misericordia trionfa sul giudizio ha il tono di una sentenza. Il detto vuol essere un’ultima giustificazione e, insieme, un ammonimento ai lettori.

Questi enunciati conclusivi sul tema legge e giudizio non costituiscono un semplice codicillo alla precedente condanna del culto della persona, ma un efficace motivo congiunto a un pensiero escatologico: pensate al giudizio, che verrà condotto secondo il metro del vostro amore e della vostra misericordia.


Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:15

(5)
L'importanza della fede e delle opere per la giustificazione dell'uomo
2,14-26

Giacomo insiste irremovibilmente su un cristianesimo dell’azione, che però non è soltanto azione, ma anche fede. Il cristianesimo si fonda sulla fede. Giacomo in questa lettera ha già parlato della fede (1,3; 2,1). Ma nella seconda parte del cap. 1 si è già anche energicamente espresso nei riguardi di chi ascolta solamente e non mette in pratica (2,25) e ha caratterizzato con ciò la sua visione del cristianesimo. Ora parla della inutilità della fede infruttuosa ed esige una fede che si manifesta nelle opere e in esse si dimostra vivente e perfetta. I vv. 2,14-26 possono essere considerati come la parte centrale della lettera.

5.1
L’inutilità di una fede senza opere
(2,14-20)

14Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? 15Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? 17Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. 18Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. 19Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! 20Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore?

v. 14. Che utilità ha la sola fede di fronte al giudizio (v. 13) e per la definitiva salvezza (v. 14)? Che utilità c’è, in senso escatologico, se qualcuno dice: Io ho la fede, ma non ha le opere? Giacomo si pone di fronte a qualcuno. Costui è un rappresentante immaginario dello pseudopaolinismo combattuto da Giacomo, ma non si tratta in nessun modo di Paolo. Il fatto che Giacomo discuta in modo così minuzioso e appassionato il rapporto tra fede e opere e la loro importanza per la giustificazione dell’uomo, ci fa supporre che le concezioni dello pseudopaolinismo erano note ai destinatari della lettera.

Il termine salvarlo stabilisce il collegamento concettuale con l’ultimo versetto della sezione precedente (v. 13) dove si parlava di giudizio, che raggiunge chi non ha esercitato la misericordia verso i poveri.

Nel giudizio senza misericordia verso chi non usa misericordia si trova il vero e immediato motivo che ora porta Giacomo a parlare delle opere; infatti il fare misericordia si attua nelle opere. L’avversario si giustifica dicendo: A che mi servono le opere, dato che ho la fede?. Giacomo polemizza contro questa obiezione. Già le due domande del v. 14 lasciano intendere chiaramente la sua opinione sul rapporto tra fede e opere: la fede, se non è dimostrata viva mediante le opere, non può salvare l’uomo dal giudizio di Dio. Per illuminare meglio il suo pensiero, porta un paragone con il quale dimostra che è assurdo il parere dell’avversario sulla sola fede come mezzo di salvezza dal giudizio. Il v. 14, come il 2,1, serve a presentare il tema per tutta la sezione che segue.

vv. 15-16. Il caso presentato non deve servire come esempio della fede priva di opere, ma come paragone con cui si mostra l’inutilità di una fede senza opere: come i bisognosi non ricavano alcun vantaggio da frasi pietose, così una fede senza opere non serve a nulla per la salvezza nel giudizio divino.

v. 17. Questo verso trae la conclusione dal paragone offerto dal caso: così anche la fede. La fede è morta per se stessa significa: è infruttuosa. Per Giacomo dunque è fede viva e vera solo quella che ha le opere, cioè che si esercita praticamente nella vita, soprattutto mediante l’aiuto concreto al prossimo bisognoso; è la stessa fede che Paolo intende in Gal 5,6 quando parla della fede che opera per mezzo della carità. Intanto si vede già, con tutta chiarezza, ciò che Giacomo intende per opere: non le opere della legge, alle quali Paolo non riconosce alcuna forza giustificante, ma le opere dell’amore del prossimo.

v. 18. Questo verso è particolarmente difficile da interpretare, specialmente nella prima parte, e le opinioni degli esperti sul suo significato differiscono notevolmente. Il significato sembra essere questo: Fammi dunque vedere la tua fede! Come potrai fare senza rinviare alle opere, nelle quali si rivela proprio la vera fede?! È davvero impossibile! Io invece posso farlo più facilmente: ti faccio vedere la fede nelle opere. Le mie opere dimostrano la fede viva!.

v. 19. La discussione con l’avversario viene ora condotta con tono molto vivace. Egli viene apostrofato direttamente (Tu credi) e viene detto in qual modo egli cerchi di dimostrare la sua fede, cioè mediante il suo contenuto: Tu credi che esiste un solo Dio. Fai bene. È giusto credere che esista un solo Dio, ma non basta per essere salvati. Una fede simile ce l’hanno anche i démòni, ma non giova alla loro salvezza.

v. 20. Con il rimando alla fede dei démòni Giacomo vuol far capire che una fede senza opere è inutile davanti a Dio. L’inutilità della fede senza le opere viene confermata nel brano seguente con due esempi biblici: Abramo (vv. 21-23) e la meretrice Raab (v. 25).

5.2
Fondamenti biblici
(2,21-26)

21Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? 22Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta 23e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. 24Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. 25Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? 26Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.

v. 21. Il libro della Genesi fornisce il primo esempio, mediante la storia di Abramo. L’ebreo parlava con orgoglio del suo capostipite: Abramo, nostro padre. Paolo insegna che sono figli di Abramo quelli che sono dalla fede (Rm 4,11.12.16).

Dio ha giustificato Abramo quando questi portò il figlio Isacco sull’altare. Proprio nella prontezza ad offrire a Dio il suo unico amato figlio, Giacomo riconosce il motivo della giustificazione del Patriarca, cioè dalle opere. Certo, secondo Gen 15,6 è la fede che viene computata come giustizia ad Abramo; ma non per questo l’interpretazione di Giacomo circa il racconto del sacrificio di Isacco è falsa. Giacomo infatti ha ragione di vedere nella prontezza di Abramo a sacrificare il figlio il fondamento della sua giustificazione dalle opere.

Difatti in Gen 22,16-18 la rinnovata promessa di Dio ad Abramo che egli avrebbe avuto una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare, nella quale saranno benedetti tutti i popoli della terra, non è collegata alla fede del Patriarca, ma alla sua azione e alla sua obbedienza: poiché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, l’unico che hai, io ti benedirò con ogni benedizione e moltiplicherò assai la tua discendenza ... in premio del fatto che tu hai obbedito alla mia voce. Nel fare e obbedire di Abramo, Giacomo ha scorto evidentemente le opere e, nella promessa rinnovata a motivo di tali opere, la sua giustificazione.

v. 22. Il verso accenna di nuovo all’avversario e fa appello alla sua intelligenza: vedi dal mio esempio biblico che, nel caso del nostro padre Abramo, la fede cooperava con le sue opere. Il verbo sunerghèin (cooperare), se ben considerato, consente di comprendere meglio il concetto di fede che ha Giacomo. Esso dimostra che Giacomo non intende far valere le opere contro la fede, ma sottolineare la loro unità inscindibile in una sintesi vivente e convincente. Giacomo non dice nemmeno che le opere collaborano con la fede, ma, viceversa, che la fede collabora con le opere: la fede è per lui il valore primario. È inconcepibile per Giacomo l’alternativa: fede oppure opere: La fede di Abramo fu completata dalle opere (v. 22).

E questo significa che senza le opere la fede è un abbozzo, qualcosa di incompiuto. Solo con le opere la fede acquista la sua integrità, la sua completezza. Per Giacomo la fede è qualcosa di dinamico: le opere realizzano la natura della fede e producono la sua maturazione.

v. 23. Il nesso di questa citazione (Ma Abramo credette a Dio) con la precedente argomentazione suggerisce dove stia in concreto per Giacomo il compimento di Gen 15,6: nella operante prontezza ad offrire suo figlio. In questa opera si adempie una affermazione della Scrittura; quindi il v. 23 ha questo senso: allora si dimostrò giusto il detto di Gen 15,6 sulla fede di Abramo.

Egli con la sua condotta posteriore non annullò, ma compì la sua fede: nella prontezza ad offrire Isacco, la fede di Abramo giunse alla sua piena validità e completezza. Il suo comportamento fu espressione ed emanazione della sua fede e la sua fede conduceva a una simile condotta.

Ad Abramo la fede fu imputata a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Come appellativo onorifico amico di Dio supera certamente quello di uomo giusto: esso esprime l’intima amicizia tra Dio e Abramo. Per quanto riguarda che cosa fu propriamente computato ad Abramo come giustizia, Giacomo risponde: la sua fede, ma proprio in quanto essa si è dimostrata vera nelle opere.

v. 24. Il verso enuncia il principio teologico, la regola generale derivante dal caso di Abramo. L’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede soltanto. Questo soltanto va particolarmente sottolineato se si vuol comprendere chiaramente il pensiero di Giacomo circa il rapporto fede-opere. Esso ha un duplice significato:

• Giacomo non afferma affatto che la fede non abbia alcun valore giustificante, ma che la giustificazione non proviene dalla fede soltanto, bensì anche dalle opere; meglio ancora: da una fede che si dimostra tale nelle opere;

• d’altra parte, non dalla fede soltanto significa anche che neppure le sole opere hanno valore giustificante. Fede ed opere stanno dunque per Giacomo in rapporto sinergetico (sunerghèin: v. 22): le opere risultano necessariamente da una fede viva.

v. 25. Qui non si dice nulla della fede di Raab, ma ne parlano altrove le Scritture. In Gs 2,9 ss ella dice agli esploratori ebrei: Io so che Jahvè vi dà il paese ... Infatti Jahvè vostro Dio, è Dio in alto nel cielo e in basso sulla terra...

È certo per questa professione di fede che Raab, anche in Eb 11,31, viene inserita tra gli eroi dell’Antico Testamento: Per la fede Raab, la meretrice, non perì con gli increduli, avendo accolto pacificamente gli esploratori; anche qui la sua fede viene collegata al suo modo di comportarsi con gli esploratori.

Tale opera viene considerata come derivante dalla sua fede nel Dio d’Israele. Le opere, per le quali questa pagana fu giustificata, consisterebbero nella pacifica accoglienza degli esploratori in casa sua, senza tradirli, e nell’avere resa possibile la fuga segreta da Gerico.

La giustificazione della meretrice consistette nella salvezza sua e di tutta la sua famiglia dalla distruzione di Gerico (Gs 6,22-25).

Secondo la tradizione rabbinica, che forse Giacomo ha presente, Raab fu benedetta con una discendenza da cui uscirono otto sacerdoti e otto profeti, tra cui il profeta Geremia.

v. 26. È la sentenza conclusiva. Giacomo forma il suo ultimo giudizio mediante un paragone che deve servire a dare fondamento alla sua tesi.

Le opere dell’amore fanno sì che la fede sia una fede viva, che salva.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:15

(5)
L'importanza della fede e delle opere per la giustificazione dell'uomo
2,14-26

Giacomo insiste irremovibilmente su un cristianesimo dell’azione, che però non è soltanto azione, ma anche fede. Il cristianesimo si fonda sulla fede. Giacomo in questa lettera ha già parlato della fede (1,3; 2,1). Ma nella seconda parte del cap. 1 si è già anche energicamente espresso nei riguardi di chi ascolta solamente e non mette in pratica (2,25) e ha caratterizzato con ciò la sua visione del cristianesimo. Ora parla della inutilità della fede infruttuosa ed esige una fede che si manifesta nelle opere e in esse si dimostra vivente e perfetta. I vv. 2,14-26 possono essere considerati come la parte centrale della lettera.

5.1
L’inutilità di una fede senza opere
(2,14-20)

14Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? 15Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano 16e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? 17Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. 18Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede. 19Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! 20Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede senza le opere è senza valore?

v. 14. Che utilità ha la sola fede di fronte al giudizio (v. 13) e per la definitiva salvezza (v. 14)? Che utilità c’è, in senso escatologico, se qualcuno dice: Io ho la fede, ma non ha le opere? Giacomo si pone di fronte a qualcuno. Costui è un rappresentante immaginario dello pseudopaolinismo combattuto da Giacomo, ma non si tratta in nessun modo di Paolo. Il fatto che Giacomo discuta in modo così minuzioso e appassionato il rapporto tra fede e opere e la loro importanza per la giustificazione dell’uomo, ci fa supporre che le concezioni dello pseudopaolinismo erano note ai destinatari della lettera.

Il termine salvarlo stabilisce il collegamento concettuale con l’ultimo versetto della sezione precedente (v. 13) dove si parlava di giudizio, che raggiunge chi non ha esercitato la misericordia verso i poveri.

Nel giudizio senza misericordia verso chi non usa misericordia si trova il vero e immediato motivo che ora porta Giacomo a parlare delle opere; infatti il fare misericordia si attua nelle opere. L’avversario si giustifica dicendo: A che mi servono le opere, dato che ho la fede?. Giacomo polemizza contro questa obiezione. Già le due domande del v. 14 lasciano intendere chiaramente la sua opinione sul rapporto tra fede e opere: la fede, se non è dimostrata viva mediante le opere, non può salvare l’uomo dal giudizio di Dio. Per illuminare meglio il suo pensiero, porta un paragone con il quale dimostra che è assurdo il parere dell’avversario sulla sola fede come mezzo di salvezza dal giudizio. Il v. 14, come il 2,1, serve a presentare il tema per tutta la sezione che segue.

vv. 15-16. Il caso presentato non deve servire come esempio della fede priva di opere, ma come paragone con cui si mostra l’inutilità di una fede senza opere: come i bisognosi non ricavano alcun vantaggio da frasi pietose, così una fede senza opere non serve a nulla per la salvezza nel giudizio divino.

v. 17. Questo verso trae la conclusione dal paragone offerto dal caso: così anche la fede. La fede è morta per se stessa significa: è infruttuosa. Per Giacomo dunque è fede viva e vera solo quella che ha le opere, cioè che si esercita praticamente nella vita, soprattutto mediante l’aiuto concreto al prossimo bisognoso; è la stessa fede che Paolo intende in Gal 5,6 quando parla della fede che opera per mezzo della carità. Intanto si vede già, con tutta chiarezza, ciò che Giacomo intende per opere: non le opere della legge, alle quali Paolo non riconosce alcuna forza giustificante, ma le opere dell’amore del prossimo.

v. 18. Questo verso è particolarmente difficile da interpretare, specialmente nella prima parte, e le opinioni degli esperti sul suo significato differiscono notevolmente. Il significato sembra essere questo: Fammi dunque vedere la tua fede! Come potrai fare senza rinviare alle opere, nelle quali si rivela proprio la vera fede?! È davvero impossibile! Io invece posso farlo più facilmente: ti faccio vedere la fede nelle opere. Le mie opere dimostrano la fede viva!.

v. 19. La discussione con l’avversario viene ora condotta con tono molto vivace. Egli viene apostrofato direttamente (Tu credi) e viene detto in qual modo egli cerchi di dimostrare la sua fede, cioè mediante il suo contenuto: Tu credi che esiste un solo Dio. Fai bene. È giusto credere che esista un solo Dio, ma non basta per essere salvati. Una fede simile ce l’hanno anche i démòni, ma non giova alla loro salvezza.

v. 20. Con il rimando alla fede dei démòni Giacomo vuol far capire che una fede senza opere è inutile davanti a Dio. L’inutilità della fede senza le opere viene confermata nel brano seguente con due esempi biblici: Abramo (vv. 21-23) e la meretrice Raab (v. 25).

5.2
Fondamenti biblici
(2,21-26)

21Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare? 22Vedi che la fede cooperava con le opere di lui, e che per le opere quella fede divenne perfetta 23e si compì la Scrittura che dice: E Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato a giustizia, e fu chiamato amico di Dio. 24Vedete che l’uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede. 25Così anche Raab, la meretrice, non venne forse giustificata in base alle opere per aver dato ospitalità agli esploratori e averli rimandati per altra via? 26Infatti come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta.

v. 21. Il libro della Genesi fornisce il primo esempio, mediante la storia di Abramo. L’ebreo parlava con orgoglio del suo capostipite: Abramo, nostro padre. Paolo insegna che sono figli di Abramo quelli che sono dalla fede (Rm 4,11.12.16).

Dio ha giustificato Abramo quando questi portò il figlio Isacco sull’altare. Proprio nella prontezza ad offrire a Dio il suo unico amato figlio, Giacomo riconosce il motivo della giustificazione del Patriarca, cioè dalle opere. Certo, secondo Gen 15,6 è la fede che viene computata come giustizia ad Abramo; ma non per questo l’interpretazione di Giacomo circa il racconto del sacrificio di Isacco è falsa. Giacomo infatti ha ragione di vedere nella prontezza di Abramo a sacrificare il figlio il fondamento della sua giustificazione dalle opere.

Difatti in Gen 22,16-18 la rinnovata promessa di Dio ad Abramo che egli avrebbe avuto una discendenza numerosa come le stelle del cielo e la sabbia del mare, nella quale saranno benedetti tutti i popoli della terra, non è collegata alla fede del Patriarca, ma alla sua azione e alla sua obbedienza: poiché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, l’unico che hai, io ti benedirò con ogni benedizione e moltiplicherò assai la tua discendenza ... in premio del fatto che tu hai obbedito alla mia voce. Nel fare e obbedire di Abramo, Giacomo ha scorto evidentemente le opere e, nella promessa rinnovata a motivo di tali opere, la sua giustificazione.

v. 22. Il verso accenna di nuovo all’avversario e fa appello alla sua intelligenza: vedi dal mio esempio biblico che, nel caso del nostro padre Abramo, la fede cooperava con le sue opere. Il verbo sunerghèin (cooperare), se ben considerato, consente di comprendere meglio il concetto di fede che ha Giacomo. Esso dimostra che Giacomo non intende far valere le opere contro la fede, ma sottolineare la loro unità inscindibile in una sintesi vivente e convincente. Giacomo non dice nemmeno che le opere collaborano con la fede, ma, viceversa, che la fede collabora con le opere: la fede è per lui il valore primario. È inconcepibile per Giacomo l’alternativa: fede oppure opere: La fede di Abramo fu completata dalle opere (v. 22).

E questo significa che senza le opere la fede è un abbozzo, qualcosa di incompiuto. Solo con le opere la fede acquista la sua integrità, la sua completezza. Per Giacomo la fede è qualcosa di dinamico: le opere realizzano la natura della fede e producono la sua maturazione.

v. 23. Il nesso di questa citazione (Ma Abramo credette a Dio) con la precedente argomentazione suggerisce dove stia in concreto per Giacomo il compimento di Gen 15,6: nella operante prontezza ad offrire suo figlio. In questa opera si adempie una affermazione della Scrittura; quindi il v. 23 ha questo senso: allora si dimostrò giusto il detto di Gen 15,6 sulla fede di Abramo.

Egli con la sua condotta posteriore non annullò, ma compì la sua fede: nella prontezza ad offrire Isacco, la fede di Abramo giunse alla sua piena validità e completezza. Il suo comportamento fu espressione ed emanazione della sua fede e la sua fede conduceva a una simile condotta.

Ad Abramo la fede fu imputata a giustizia e fu chiamato amico di Dio. Come appellativo onorifico amico di Dio supera certamente quello di uomo giusto: esso esprime l’intima amicizia tra Dio e Abramo. Per quanto riguarda che cosa fu propriamente computato ad Abramo come giustizia, Giacomo risponde: la sua fede, ma proprio in quanto essa si è dimostrata vera nelle opere.

v. 24. Il verso enuncia il principio teologico, la regola generale derivante dal caso di Abramo. L’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede soltanto. Questo soltanto va particolarmente sottolineato se si vuol comprendere chiaramente il pensiero di Giacomo circa il rapporto fede-opere. Esso ha un duplice significato:

• Giacomo non afferma affatto che la fede non abbia alcun valore giustificante, ma che la giustificazione non proviene dalla fede soltanto, bensì anche dalle opere; meglio ancora: da una fede che si dimostra tale nelle opere;

• d’altra parte, non dalla fede soltanto significa anche che neppure le sole opere hanno valore giustificante. Fede ed opere stanno dunque per Giacomo in rapporto sinergetico (sunerghèin: v. 22): le opere risultano necessariamente da una fede viva.

v. 25. Qui non si dice nulla della fede di Raab, ma ne parlano altrove le Scritture. In Gs 2,9 ss ella dice agli esploratori ebrei: Io so che Jahvè vi dà il paese ... Infatti Jahvè vostro Dio, è Dio in alto nel cielo e in basso sulla terra...

È certo per questa professione di fede che Raab, anche in Eb 11,31, viene inserita tra gli eroi dell’Antico Testamento: Per la fede Raab, la meretrice, non perì con gli increduli, avendo accolto pacificamente gli esploratori; anche qui la sua fede viene collegata al suo modo di comportarsi con gli esploratori.

Tale opera viene considerata come derivante dalla sua fede nel Dio d’Israele. Le opere, per le quali questa pagana fu giustificata, consisterebbero nella pacifica accoglienza degli esploratori in casa sua, senza tradirli, e nell’avere resa possibile la fuga segreta da Gerico.

La giustificazione della meretrice consistette nella salvezza sua e di tutta la sua famiglia dalla distruzione di Gerico (Gs 6,22-25).

Secondo la tradizione rabbinica, che forse Giacomo ha presente, Raab fu benedetta con una discendenza da cui uscirono otto sacerdoti e otto profeti, tra cui il profeta Geremia.

v. 26. È la sentenza conclusiva. Giacomo forma il suo ultimo giudizio mediante un paragone che deve servire a dare fondamento alla sua tesi.

Le opere dell’amore fanno sì che la fede sia una fede viva, che salva.

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:17

(6)
Necessità di guardarsi dalla
3,1-12

1Fratelli miei, non vi fate maestri in molti, sapendo che noi riceveremo un giudizio più severo, 2poiché tutti quanti manchiamo in molte cose. Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo. 3Quando mettiamo il morso in bocca ai cavalli perché ci obbediscano, possiamo dirigere anche tutto il loro corpo. 4Ecco, anche le navi, benché siano così grandi e vengano spinte da venti gagliardi, sono guidate da un piccolissimo timone dovunque vuole chi le manovra. 5Così anche la lingua: è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! 6Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell’iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. 7Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, 8ma la lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale. 9Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. 10È dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei! 11Forse la sorgente può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce e amara? 12Può forse, miei fratelli, un fico produrre olive o una vite produrre fichi? Neppure una sorgente salata può produrre acqua dolce.

Una nuova parenesi riprende ora da un nuovo punto di vista e svolge più ampiamente un tema già accennato in 1,26. Il nuovo angolo visuale, sotto il quale viene trattato così ampiamente il tema della lingua, è l’ammonimento contro la smania di insegnare. Ma poiché il tema udire-parlare trova probabilmente la sua collocazione nelle assemblee liturgiche della comunità, parlare significa: predicare, istruire. Giacomo riprende la seconda parte dell’ammonimento di 1,19 (ogni uomo sia lento a parlare) e la svolge.

v. 1. Come capo riconosciuto dei giudeo-cristiani, Giacomo è chiaramente preoccupato che nelle comunità si polemizzi proprio per iniziativa dei giudeo-cristiani. Dietro questi fatti egli scorge la pericolosa inclinazione dell’uomo a erigersi come presuntuoso maestro degli altri. Qui si rivolge ai maestri riconosciuti e autorizzati perché non continuino come tali a intervenire ad ogni momento ricordando che noi avremo un giudizio più duro.

v. 2. L’ammonimento sul giudizio viene motivato più a fondo. Noi tutti in molte cose sbagliamo. Poi aggiunge il criterio della perfezione, che è il pieno dominio della lingua: Se uno non cade nella parola, è un uomo perfetto. Giacomo quasi ripete la massima sapienziale dell’Antico Testamento: Tra molte parole non manca qualche fallo; chi però domina la lingua è savio (Pr 10,19). E il pensiero sottinteso è questo: per chi voglia presentarsi come maestro nelle comunità cristiane, è indispensabile che non erri nel parlare; e qui per errore non si intende una falsa dottrina, ma la pretesa di avere sempre ragione e la saccenteria.

Chi non cade nel parlare è uomo perfetto e quindi in grado di dominare tutto il suo corpo, cioè la sua intera attività.

vv. 3-4. Seguono due paragoni che devono illustrare l’affermazione del v. 2. Il significato è questo: chi domina ciò che è piccolo, domina anche ciò che è grande. Chi mediante il freno domina la bocca del cavallo, domina anche tutto il cavallo. Chi ha saldamente in mano il timone, con questo piccolo mezzo può condurre la più grande nave anche attraverso le tempeste spaventose.

v. 5. Così la lingua è un piccolo membro con cui dovrebbe essere possibile padroneggiare l’intera attività del corpo. Tale sarebbe la conclusione da dedurre dai due paragoni, se applicata alla lingua. Ma già al v. 2, quasi con tono di rassegnazione, si diceva che solo l’uomo perfetto ha la capacità di non mancare nel parlare, cioè con la lingua, e tenere a freno tutto il corpo. L’esperienza quotidiana però insegna che, sebbene la lingua sia un piccolo membro, con cui si dovrebbe tenere a freno tutto il corpo, di fatto essa presume molto di sé. Questa presunzione è negativa, come dimostra il seguito del testo. Il male della lingua viene dimostrato innanzitutto attraverso un’immagine: un fuoco per quanto piccolo può incendiare il bosco più grande. Giacomo l’applica alle sciagure che può provocare la lingua, prendendo spunto da Sir 28,13-26.

v. 6. Anche la lingua è effettivamente come il fuoco, come il mondo ingiusto. La lingua, per Giacomo è senz’altro il mondo cattivo, in quanto con le sue menzogne e calunnie rende impossibile una vera vita di comunità. La lingua sta tra le nostre membra come un fuoco, anzi come il mondo cattivo. Perché la lingua è come un fuoco cattivo o come il mondo cattivo?

• Perché essa, sebbene sia un membro così piccolo tra le nostre membra, può tuttavia contaminare con le menzogne tutto il corpo. Invece di compiere la sua funzione, che è quella di tenere a freno tutto il corpo, la lingua fa il contrario: essa contamina il corpo intero. Giacomo scrive con immediatezza e nell’illustrazione del male della lingua fluiscono dalla sua penna varie espressioni e il nesso delle immagini può sembrare a prima vista illogico, ma non lo è affatto. Certo che l’affermazione che la lingua contamina tutto il corpo suona un po’ strana; ci si aspetterebbe: tutta l’anima. Ma i precedenti accenni a tutto il corpo inducono Giacomo a ripetere tale espressione.

• Ma perché la lingua è come un fuoco che, pur così piccolo, può incendiare un grande bosco? Giacomo risponde: perché essa come un fuoco incendia la ruota del divenire. Ma cosa intende Giacomo con l’espressione ruota del divenire? Forse Giacomo pensa all’intero ambito della vita: la lingua calunniosa non si arresta di fronte a nessuno, di fronte a nulla; essa può incendiare tutto. Contro la sua forza deleteria si è impotenti, il suo è il fuoco eterno e inestinguibile dell’inferno. La lingua è così nociva che infiamma tutta la vita umana e gli avvenimenti che la compongono. La vita è paragonata a una ruota che gira dal giorno della nascita al giorno della morte. La lingua, appena viene infiammata dal fuoco infernale (cioè viene risvegliata e alimentata dallo spirito della menzogna, dall’ira e dalla malvagità dei demoni) comunica il suo fuoco a ciò che la circonda e corrompe tutta la vita dell’uomo dall’inizio alla fine.

vv. 7-8. Ma come è possibile che la lingua sia così funesta? Giacomo dichiara: perché nessuno può domarla. Il genere umano è riuscito a dominare ogni genere di animali, ma non è riuscito a domare la lingua, piccolo membro del proprio corpo. La lingua è un male che nessuno può quietare, un male eternamente irrequieto, ed è piena di veleno mortale. Questi due enunciati confermano la qualifica attribuita alla lingua nel v. 6: essa è un fuoco distruttore; è il mondo cattivo puro e semplice.

vv. 9-10. Giacomo parla di nuovo in prima persona (lo diciamo, malediciamo) perché esprime un’esperienza generale, che ciascuno acquisisce dalla propria vita: con la stessa lingua benediciamo Dio e malediciamo il prossimo che è stato creato a sua immagine. Giacomo deduce da tale innegabile esperienza della lingua il breve ma necessario ammonimento per i destinatari: Questo, fratelli miei, non deve avvenire.

vv. 11-12. Il breve ammonimento è convalidato da esempi tratti dal mondo della natura.

L’esempio della fonte rimanda al v. 10: dalla stessa bocca, dalla stessa apertura (v. 11). Il secondo esempio del fico e della vite, che non producono rispettivamente olive e fichi, ricorda il detto di Gesù in Mt 7,16.


Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:18

(7)
Caratteristiche della vera sapienza nell'insegnamento
3.13-18

13Chi è saggio e accorto tra voi? Mostri con la buona condotta le sue opere ispirate a saggia mitezza. 14Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non mentite contro la verità. 15Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrena, carnale, diabolica; 16poiché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. 17La sapienza che viene dall’alto invece è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia. 18Un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace.

Giacomo torna ora a parlare della sapienza. Nel tardo giudaismo il maestro e il sapiente si equivalgono. Così appare chiaro il nesso logico con la sezione precedente, che ha messo in guardia dalla bramosia di insegnare nella comunità. Chi vuole essere veramente maestro della comunità, ha bisogno della sapienza celeste. Tra i destinatari della lettera ci sono alcuni che si ergono a maestri e con la loro saccenteria e presunzione gettano la comunità nell’inquietudine e nella divisione. La loro sapienza è terrena, non celeste. Il vero sapiente invece si preoccupa per la pace della comunità (vv. 17-18). Giacomo è amante della pace.

v. 13. Chi si fa avanti con la pretesa di essere saggio ed esperto ne dia prova con una buona condotta. L’accenno alle opere e alla condotta indica in che consista, per Giacomo, la sapienza di chi insegna: nel buon esempio dato alla comunità, in cui si rivela l’accordo tra insegnamento e vita. Questo manifestarsi della vera sapienza deve avvenire in modo particolare: in sapiente dolcezza. Chi è saggio solo con la lingua, troppo facilmente semina gelosie e litigi; la saggezza delle opere, invece, è discreta e dolce. Il buon esempio di un comportamento retto è una dolce dottrina per il prossimo, mentre la presunzione nell’insegnamento ingenera nelle comunità solo polemiche e gelosie.

v. 14. Il termine erithèia (= litigiosità) designa la sleale, egoistica, esasperata partigianeria, l’atteggiamento dell’intrigante politico, l’aspirazione faziosa, che in comunità conduce alla discordia.

Secondo Giacomo l’aspra gelosia e la litigiosità partigiana conduce all’inquietudine e al disordine della comunità.

v. 15. È impossibile che una simile sapienza unita a una faziosa e ambiziosa brama di insegnare, provenga dall’alto: essa è terrestre, psichica, demoniaca. L’aggettivo psichico non rinvia al mondo psicologico e naturale, ma è il contrario di pneumaticòs (= spirituale, dello Spirito Santo) ossia di divino. I concetti di terrena, psichica, e demoniaca hanno un significato chiaro nel contesto: terrena si oppone alla sapienza che viene dal cielo; psichica (= umana) si oppone alla sapienza divina; demoniaca perché il mentire è una caratteristica del demonio. Questo ultimo concetto viene spiegato a fondo nel verso seguente.

v. 16. Giacomo pensa certamente all’irrequietezza che è introdotta nella comunità con la presuntuosa pseudo-sapienza degli ambiziosi e che disturba la pacifica vita in comune; perciò questa pseudo-sapienza è anche diabolica perché mette tutto sottosopra e crea divisioni.

v. 17. La sapienza dall’alto ha caratteristiche diverse da quella terrena; essa innanzitutto è schietta. È una formulazione posta coscientemente in opposizione alla sapienza polemica e faziosa del v. 14, che è legata a motivi di insincerità. Inoltre la vera sapienza è pacifica, piena di misericordia e di buoni frutti. Essa non fa differenze, non conosce nessun culto della personalità, non è parziale. E, infine, è senza finzione; le sue manifestazioni corrispondono alla reale convinzione dell’insegnante; essa non dissimula i propri scopi.

v. 18. Il frutto della giustizia va posto in connessione col verso precedente, tra le manifestazioni della sapienza dall’alto. Questo frutto non si manifesta nella ricerca di polemica che divide la comunità, ma nel suo contrario: nei sentimenti di pace, la quale viene seminata da coloro che la promuovono nella comunità. Questo versetto non chiude soltanto gli elenchi immediatamente precedenti sulla sapienza terrena e quella celeste, ma tutto il cap. 3 con le sue dichiarazioni sulla lingua, la cui straordinaria azione divide la comunità e ne distrugge la pace. Alla potenza diabolica della lingua Giacomo contrappone il dolce esempio delle opere di una vita buona.


Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:19

(8)
Le comunità tra pace e discordia, tra mondo e Dio
4,1-12

1Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? 2Bramate e non riuscite a possedere e uccidete; invidiate e non riuscite ad ottenere, combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; 3chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri. 4Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio?
Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio. 5O forse pensate che la Scrittura dichiari invano: fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi? 6Ci dà anzi una grazia più grande; per questo dice: Dio resiste ai superbi; agli umili invece dà la sua grazia. 7Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. 8Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi. Purificate le vostre mani, o peccatori, e santificate i vostri cuori, o irresoluti. 9Gemete sulla vostra miseria, fate lutto e piangete; il vostro riso si muti in lutto e la vostra allegria in tristezza. 10Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà.
11Non sparlate gli uni degli altri, fratelli. Chi sparla del fratello o giudica il fratello, parla contro la legge e giudica la legge. E se tu giudichi la legge non sei più uno che osserva la legge, ma uno che la giudica. 12Ora, uno solo è legislatore e giudice, Colui che può salvare e rovinare; ma chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?

Nei capitoli precedenti Giacomo non ha ancora chiarito da dove, in definitiva, provenga nelle comunità l’inclinazione alla divisione e alla discordia. Ciò che fa in questa prima sezione del cap. 4. La sezione è ben concatenata con quella precedente (tema comune: polemiche e conflitti nelle comunità).

v. 1. Giacomo cerca le cause ultime, le profonde radici delle guerre e delle battaglie che ci sono nelle comunità: gli uomini in lite sono amici del mondo e nemici di Dio (v.4). Lo scrittore sacro ha davanti a sé le lotte e le contese dei maestri gelosi e faziosi, ma l’insegnamento vale per tutti. Giacomo allude a lotte e a contese molto concrete nelle comunità dei lettori, e scopre le radici nei piaceri degli uomini, nelle loro membra. Queste passioni egoistiche lottano contro le buone intenzioni, la ragione, l’amore, la coscienza, ecc.

vv. 2-3. Questi versi costituiscono un evidente sviluppo di ciò che si dice nel v. 1 con i termini guerre e battaglie. Il verbo bramate indica il desiderio terreno, nato dai piaceri delle membra. Per esso vale questa norma di esperienza: dal desiderio al godimento e dal godimento al desiderio, però mai a un possesso permanente e felice. Uccidete e rivaleggiate: in 2,1 Giacomo ha accennato al comandamento : Non ucciderai. E là dicevamo che non si trattava di un omicidio fisico. Anche Sir 28,17.21 presenta la perversa azione della lingua come omicidio e assassinio. Ricordiamo anche il nostro proverbio: Ne uccide più la lingua che la spada. Giacomo pensa a quel sentimento di gelosia che molto volentieri vorrebbe liquidare il proprio avversario e non riesce a ottenere lo scopo desiderato: il dominio incontrastato nelle comunità. Battagliate e guerreggiate: è un’ulteriore marcata annotazione a uccidete e rivaleggiate, messa in stretta connessione con la domanda iniziale del v. 1: Donde le guerre e le battaglie tra di voi? Giacomo aggiunge il motivo per cui i lettori, nonostante la brama, le battaglie e le meschine gelosie, non ottengono: perché non pregano. Nel v. 3 Giacomo aggiunge subito: Voi pregate, ma non ottenete, perché pregate male, cioè con l’intenzione di sperperare nei vostri piaceri.

Giacomo spiega perché essi pregano male: essi chiedono cose che servono solo al soddisfacimento dei loro piaceri. A quali piaceri egli pensi, non sappiamo. Probabilmente vuol colpire i sentimenti completamente terreni dei lettori, il loro: amore per il mondo, come mostra la sezione seguente.

v. 4. La dura apostrofe: adulteri!, dopo la frase precedente, non deve sorprendere molto. Nell’atteggiamento che cerca di soddisfare i piaceri, Giacomo vede una forma di illecito amore col mondo. Egli perciò esorta i suoi lettori a discostarsene e a sottomettersi interamente a Dio. Moikalìdes (= adultere) è un femminile e secondo Hauck sembra essere stato scelto perché Dio viene considerato come marito; l’appellativo è ovviamente inteso in senso metaforico e allude all’adulterio spirituale rappresentato dal disordinato amore per il mondo. L’immagine dell’adulterio deriva dalla tradizione biblica, secondo la quale Jahvè a motivo dell’Alleanza, è lo sposo di Israele e la defezione da Lui viene chiamata adulterio (Os 1,3; 9,1; Is 1,21; 50,1; ecc.). Gesù definisce i suoi avversari una generazione adultera e Paolo vede nella Chiesa la sposa di Cristo (2 Cor 11,2; Ef 5,22-24) così come anche Ap 19,7; 21,9. Chi preferisce essere amico del mondo, diventa perciò stesso nemico di Dio. Giacomo conosce solo la scelta univoca tra Dio e il mondo, senza alcun compromesso; esattamente come Gesù: Nessuno può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro: non potete servire a Dio e a mammona (Mt 6,24). Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde (Mt 12,30).

v. 5. Questo verso è costituito da una domanda ai destinatari; essa ha un tono quasi di sfida: non siete del tutto convinti? La Scrittura infatti non parla invano, cioè: quello che la Scrittura dice ha valore assoluto. E la Scrittura dice: Dio desidera gelosamente lo spirito che ha fatto abitare in voi. Dio vigila gelosamente sullo spirito che egli ha donato all’uomo al momento della sua creazione. Questa traduzione si inserisce ottimamente nel contesto: poiché Dio è geloso dello spirito dell’uomo, non sopporta alcuna tresca col mondo (v. 4); egli rivendica lo spirito dell’uomo per sé solo. Ma dove la Scrittura parla così? Forse è una parafrasi midrashica di Gen 49,19. Di un desiderio di Dio per l’opera delle sue mani ci parla espressamente Gb 14,15: Mi chiameresti e io risponderei, l’opera delle tue mani brameresti.

v. 6. Dio dà una grazia maggiore fa supporre un’altra grazia già conferita, che però non era così grande. Il v. 5 induce a concludere che questa grazia già donata all’uomo è il dono a prestito del soffio vitale. Dio però ha in animo di donare agli uomini una grazia ancora maggiore di quella della creazione, solo alla condizione, già menzionata dalla Scrittura (Pr 3,34), di un senso di umiltà da parte del ricevente. Con questa grazia maggiore si allude forse alla partecipazione all’eredità del regno di Dio (2,5) o -cosa più probabile- all’esaltazione escatologica (4,10).

vv. 7-8. Poiché Dio dà la grazia agli umili ne deriva l’esigenza parenetica: Sottomettetevi dunque a Dio, cioè diventate poveri e umili davanti a lui, perché possa donarvi la grazia più grande. I due imperativi resistete al diavolo e avvicinatevi a Dio manifestano in forma negativa e positiva la natura della sottomissione a Dio. L’antitesi mondo-Dio (v. 4) viene approfondita nell’antitesi diavolo-Dio.

Purificate le vostre mani è un’esortazione da intendere ovviamente in senso etico. A questa prima esortazione negativa è parallela la seconda, positiva santificate i vostri cuori. La correlazione mani-cuore in senso etico si trova già in Sal 24,4: Colui che ha mani innocenti e cuore puro e nel Sir 38,10: Fuggi l’iniquo, e rendi oneste le mani, e purifica il cuore da ogni peccato. Gli incerti (gr.= dìpsukoi) sono coloro che vivacchiano nella superficialità e indecisione religioso-morale, oscillanti tra Dio e il mondo. Leggiamo nel Sir 2,12: Guai al cuore pauroso e alle mani snervate e al peccatore che cammina su due strade.

v. 9. Seguono tre imperativi: Sentitevi miseri, affliggetevi e piangete. In essi risuona la voce del predicatore penitenziale che esorta alla conversione. Il riso (gr.= ghèlos) di cui parla qui è quello smodato. Nel Sir 21,20; e 27,12 questo riso è la caratteristica degli stolti. Il proverbio sentenzia: Il riso abbonda sulle labbra degli stolti. Secondo l’opinione dei rabbini in questo riso (ebr.= shahaq) si verifica il rifiuto di Dio come realtà che tutto ordina, e compare in esso l’affermazione dell’uomo come essere autonomo. Nel ridere dei peccatori si esprime la soddisfazione e la vanità mondana. Giacomo scrive che questa vanità mondana deve tramutarsi in tristezza e la gioia in abbattimento. Con ciò Giacomo non condanna la gioia vera e spirituale del cristiano (cfr. soltanto 2,1!), ma il contegno pagano e mondano.

v. 10. È un detto sapienziale che riassume e conclude la precedente serie di imperativi. Esso è formato da un ammonimento e da una promessa che rimandano chiaramente al v. 6. Dalla conversione deriva ai peccatori la salvezza.

vv. 11-12. L’occasione per la messa in guardia dalla calunnia possono essere le guerre e le battaglie scoppiate tra i destinatari e sempre collegate alle calunnie. Al calunniare, molto facilmente si accompagna il giudicare. Con la calunnia si esprime un atteggiamento odioso e subdolo, con il giudicare la spietatezza e l’autosicurezza (Hauck). Chi si comporta così denigra e giudica la legge, che ordina: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,16). Nel v. 12 appare espressamente il termine prossimo. Per Giacomo la violazione di un comandamento è molto di più che una semplice trasgressione: si mette la legge dalla parte del torto e ci si erge a suo giudice. Giudicare la legge significa emettere sentenze su di essa, cercando di correggerla e di fare eccezioni alla sua validità universale. La condotta del calunniatore, secondo Giacomo, conduce, in definitiva, alla negazione di Dio e quindi a peccare contro Dio e alla presuntuosa usurpazione di un ufficio di Dio: colui che giudica la legge divina, invece di adempierla, si erge a giudice. Uno solo è il legislatore e giudice significa che non si possono separare legislatore e giudice, e questo uno è Dio, il quale può salvare e perdere. Chi calunnia il prossimo e lo giudica, in un certo senso sottrae al legislatore divino il suo ufficio di giudice e lo pretende per sé, dimenticando che egli è in realtà un povero uomo, il quale verrà a sua volta giudicato.

Tutte le invettive e le parenesi da 4,1 in poi sono probabilmente motivate dalla mania legalistica di certi giudeo-cristiani nei confronti dei cristiani provenienti dal paganesimo. Questi giudeo-cristiani accusano appunto gli etnico-cristiani di essere dei trasgressori della legge.

Essi alimentano contese e litigi nelle comunità e calunniano e giudicano i loro fratelli che Dio ha chiamato alla salvezza. La loro critica fredda e presuntuosa in nome della legge è una violazione dell’amore verso i fratelli; così il loro comportamento pratico si identifica con una critica alla legge stessa, perché presumono di innalzarsi sul comandamento dell’amore del prossimo. In fondo, perciò, i vv. 11-12 racchiudono una condanna di quella farisaica sicurezza di sé e mania di criticare, che presumerebbe addirittura di anticipare il giudizio di Dio. Giacomo non ammette in seno alla comunità i conflitti in nome della legge. I giudaizzanti non possono appellarsi a lui, così come gli pseudo-paolinisti non possono appellarsi a Paolo.


(9)
Contro i progetti baldanzosi
4,13-17

13E ora a voi, che dite: «Oggi o domani andremo nella tal città e vi passeremo un anno e faremo affari e guadagni», 14mentre non sapete cosa sarà domani!
Ma che è mai la vostra vita? Siete come vapore che appare per un istante e poi scompare. 15Dovreste dire invece: Se il Signore vorrà, vivremo e faremo questo o quello. 16Ora invece vi vantate nella vostra arroganza; ogni vanto di questo genere è iniquo. 17Chi dunque sa fare il bene e non lo compie, commette peccato.

Non risulta un nesso immediato con le precedenti considerazioni della lettera. Si può tuttavia intravedere una certa associazione di idee se si pensa al tema già accennato dell’amore del mondo e il fare mercato e guadagnare del v. 13. Anche il progetto della costruzione autonoma della vita (vv. 13-14) è un modo di pensare mondano. Giacomo deve aver scorto nelle comunità a cui scrive certe tendenze a guardare al futuro dimenticando che il futuro è nelle mani di Dio.

vv. 13-14. Quelli che qui vengono apostrofati dispongono con sicurezza non solo dell’oggi e del domani, ma di un anno intero. La mèta del viaggio è già fissata, e l’intenzione è far guadagni. Giacomo vuole scuotere una così indiscussa sicurezza. L’esistenza futura è del tutto incerta e di essa non si può disporre.

Egli richiama gli autosufficienti a riconoscere tutta la profonda insicurezza dell’esistenza umana. Essi stessi, e non solo la loro vita, sono fumo, vapore, che passa rapidamente. In realtà la nostra vita e il nostro futuro non sono nelle nostre mani, ma in quelle del Signore.

v. 15. Anche il cristiano può fare piani per il futuro, ma sottoponendoli alla condizione: se il Signore vuole.

v. 16. I destinatari della lettera invece di dire se il Signore vuole fanno il contrario e si gloriano delle loro vanterie. Viene così designato e bollato ogni tentativo di progettazione come boriosa millanteria. Non si tratta dunque soltanto di una progettazione incurante e spensierata, ma anche della superbia connessa a tale attività, che crede di poter autonomamente disporre della vita e del tempo. Ogni progetto, che lascia Dio al di fuori di ogni considerazione, è cattivo.

v. 17. Qual è il nesso logico di questo versetto con il precedente? Nel v. 16 la millanteria era stata designata come cattiva. Se teniamo presente questo giudizio, traspare il nesso: ciò che è moralmente cattivo è, per sua natura, peccato.

Perciò l’agire di questi millantatori, cioè la loro autonoma progettazione della vita, è peccato. Ciò che in questi versetti Giacomo scrive alle comunità della diaspora vale per i cristiani di tutti i tempi.


Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:21

(10)
La minaccia del giudizio grava sui ricchi privi di senso sociale
5,1-6

1E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano! 2Le vostre ricchezze sono imputridite, 3le vostre vesti sono state divorate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! 4Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. 5Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. 6Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza.

L’accenno alla smania di guadagnare di 4,13 fa pensare che Giacomo si rivolgesse a dei ricchi. Ora egli si pone direttamente contro di essi, come richiede lo stile profetico.

v. 1. I ricchi devono piangere e lamentarsi. Non si tratta di una esortazione alla penitenza, ma di un annuncio profetico dell’inevitabile catastrofe che fra poco cadrà sui ricchi.

vv. 2-3. Il versetto 2 non va interpretato sulla base del verso precedente (v.1), ma di quello seguente. Nel v. 3, a proposito della ruggine dell’oro e dell’argento, si dice: Essa diventerà una testimonianza contro di voi quando Dio giudicherà. La ruggine in certo senso testimonierà l’atroce ingiustizia sociale, perpetrata dai ricchi sebbene avessero l’occasione di agire secondo la giustizia sociale (vv. 5-6): invece di impiegare la loro ricchezza per soccorrere i poveri, hanno preferito ammucchiarla e lasciarla marcire. E invece di donare ai poveri e ai bisognosi parte delle loro vesti, hanno preferito lasciarle corrodere dalle tarme. E invece di usare il loro oro e argento per il giusto e tempestivo pagamento del salario, l’hanno lasciato arrugginire nelle casseforti, trattenendo ingiustamente la mercede dei mietitori. Che in realtà l’oro e l’argento non possano arrugginirsi, non interessa a Giacomo; egli usa locuzioni tradizionali: Sir 29,10: Sacrifica il tuo denaro per un fratello e per un amico; non arrugginisca infruttuoso sotto una pietra e Mt 6,19-20: Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano.

La ruggine dei loro tesori testimonierà contro i ricchi nel giudizio imminente di Dio e li accuserà del loro comportamento asociale. In un certo senso la ruggine si attaccherà agli stessi ricchi divorando la loro carne come la lebbra. Con una tagliente ironia il v. 3 termina così: Tesori avete ammassato negli ultimi giorni. L’accento cade sulla seconda parte della frase. I ricchi hanno ammucchiato tesori, senza però accorgersi che gli ultimi tempi sono già spuntati e il giudizio è alle porte. Così si tocca un tema che sarà poi esplicitamente trattato nei vv. 7 ss.

v. 4. Giacomo ora dice perché il giudizio si rivolgerà contro i ricchi latifondisti: essi hanno trattenuto la giusta mercede ai poveri lavoratori dei loro campi.

Il salario che grida al cielo è il pianto stesso dei mietitori che invocano la vendetta di Dio. Il contenuto del verso deriva dalla tradizione dell’Antico Testamento: Pane scarso è il sostentamento dei poveri; chi glielo toglie è un sanguinario. Uccide il prossimo chi gli toglie il vitto, e sparge il sangue chi priva l’operaio della sua mercede (Sir 34,25-26 LXX). Un povero e un bracciante bisognoso...tu non puoi opprimere. Nello stesso giorno gli darai il suo compenso, e il sole non deve tramontare su di esso...Altrimenti potrebbe gridare a Jahvè contro di te e ti sarà imputato come colpa (Dt 24,14-15).

v. 5. Continua l’accusa contro i ricchi. Non solo essi hanno ammucchiato tesori e non hanno pagato il salario dovuto, ma addirittura sono vissuti in un consumismo scandaloso per tutto il tempo della loro vita. Essi hanno nutrito i loro cuori per il giorno del macello. Si tratta del giorno del giudizio finale. Geremia grida a Dio contro i malvagi: Toglili di mezzo come pecore per il macello, destinali per il giorno dell’uccisione (Ger 12,3). Il Sal 37 parla con ferma fiducia del povero contro il malvagio: Il Signore si fa beffe di lui, egli vede già il suo giorno avvicinarsi (v.13). Di fronte a questi testi, ed altri ancora, non sussiste più alcun dubbio che con il giorno del macello Giacomo 5,5 intende il grande giorno del giudizio. L’accenno immediatamente seguente, circa la parusia del Signore (v. 7), conferma la giustezza di questa interpretazione. Ai ricchi manca la vigilanza escatologica; nella loro vita di piacere non riconoscono i segni dei tempi (Lc 12,13-21). Essi nutrono i loro cuori con le gioie e i desideri terreni (4,1) come il ricco epulone, invece di far penitenza (Lc 16,19-31).

v. 6. L’accusa contro i ricchi tocca qui la sua punta massima. Giacomo continua a pensare a esperienze concrete vissute dalla comunità cristiana a causa dei suoi potenti e influenti avversari. Non esclude certamente Gesù, specie se si ricorda che o Dìkaios (= il giusto) nella predicazione apostolica primitiva era un titolo del Messia Gesù. Ma qui si parla di ogni cristiano perseguitato. Per quanto concerne il motivo dell’inerme mitezza del giusto perseguitato si può vedere Sap 2,19 e Is 53,7, ma soprattutto il discorso della montagna: Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio... (Mt 5,39-40).


(11)
Ammonimento alla paziente attesa della parusia e alla
5,7-11

7Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d’autunno e le piogge di primavera. 8Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. 9Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. 10Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore. 11Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione.

Il nesso tra questa breve ma importante sezione e quella precedente è molto stretto. Il brano precedente ha parlato del giorno del giudizio e questo parla della parusia del Signore che comporterà anche il grande giorno del giudizio. I cristiani perseguitati dai ricchi ripongono la loro speranza nella parusia del Signore che li libererà dalle loro persecuzioni.

La pericope si articola su tre imperativi: siate pazienti (v. 7), non lamentatevi (v. 9), prendete come esempio (v. 10).

v. 7. I poveri, perseguitati dai ricchi, corrono il rischio di perdere la pazienza nell’attesa del giudice divino. Giacomo li ammonisce alla perseveranza. I cristiani guardano al giorno della parusia con grande impazienza, perché li libererà dai loro persecutori. La caratteristica dei cristiani è che essi aspettano (Schlatter). L’esempio del contadino che attende la maturazione della messe è efficace.

v. 8. Dall’esempio del contadino i lettori devono imparare l’attesa paziente di qualcosa che avverrà certamente.

L’imperativo rafforzate i vostri cuori è un incoraggiamento alla pazienza e alla tenacia. Mentre i ricchi nutrono i loro cuori (v. 5) i poveri cristiani devono rafforzare i propri cuori con la fede.

v. 9. Questo verso pare turbare il senso logico della pericope. L’accenno ai modelli biblici (i Profeti e Giobbe) dei vv. 10-11 si connetterebbe organicamente all’esempio del contadino paziente (v. 7). Forse il tema del giudizio imminente ha spinto Giacomo a parlare ora del lagnarsi reciproco. Evidentemente, egli scorgeva in ciò una vicendevole critica, che quasi vorrebbe anticipare e riservare a sé l’imminente giudizio di Dio.

vv. 10-11. Dopo l’interruzione del v. 9 vengono ora ricordati alcuni esempi biblici che possono aiutare i lettori all’imitazione nella sofferenza e nella perseveranza: i Profeti e Giobbe.


(12)
Esortazione all'assoluta veracità
5,12

12Soprattutto, fratelli miei, non giurate, né per il cielo, né per la terra, né per qualsiasi altra cosa; ma il vostro «sì» sia sì, e il vostro «no» no, per non incorrere nella condanna.

Questa parenesi si conclude con un deciso rimando al giudizio. È un versetto che si connette agli ammonimenti precedenti, che a partire da 4,12 sono appunto dominati dal pensiero del giudizio.

v. 12. Il giuramento di cui si intende parlare qui è soltanto quello del commercio e delle affermazioni della vita quotidiana; quindi non si dà una direttiva che regoli il comportamento del cristiano nei processi pubblici. Si tratta di un’etica per la vita di ogni giorno, come ci insegna anche il discorso della montagna: Avete anche inteso che fu detto agli antichi: non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti; ma io vi dico: non giurate affatto: né per il cielo perché è il trono di Dio; né per la terra, perché è uno sgabello dei suoi piedi; né per Gerusalemme, perché è la città del gran re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare, sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno. È l’esigenza dell’assoluta veracità nel parlare, che rende superfluo ogni giuramento. Anche questa parenesi è connessa a un minaccioso accenno all’imminente giudizio di Dio. Questa messa in guardia va spiegata, forse, col fatto che il giuramento rappresenta già in se stesso un giudizio di Dio, una sentenza di Jahvè (R. de Vaux) che non può essere anticipata o provocata. Il frequente giuramento infatti comporta gravi pericoli, che sono enumerati in Sir 23,11 (sconsideratezza, superficialità, spergiuro, infrazione del giuramento) e che provocano il giudizio di Dio.


Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:22

(13)
Istruzioni per diverse circostanze della vita
5,13-15

13Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi. 14Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. 15E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati.

Le varie istruzioni religiose date da Giacomo ai membri delle comunità riguardano circostanze dolorose e gioiose (v. 13) e il caso di malattia (vv. 14-15). L’istruzione è data in forma di imperativo singolare. Solo il terzo imperativo è connesso a più precise istruzioni e promesse.

v. 13. L’imperativo preghi ha qui il senso di una preghiera particolarmente fervida ed è suggerito dalla convinzione che Dio esaudisce certamente la supplica elargendo all’infelice forza e ristoro. Ciò del resto corrisponde già alla mentalità veterotestamentaria dei Salmi. L’imperativo canti di buon umore non ha bisogno di commento: naturalmente si tratta di canti rivolti a Dio, non di canzonette.

v. 14. Gli anziani della comunità non sono dei carismatici provvisti del dono delle guarigioni (1 Cor 1,9.28.30), ma persone che ricoprono un ufficio o una funzione. La loro abilitazione all’azione salvifica sacramentale sul malato deve essere connessa al loro carattere di ministri.

Gli anziani devono pregare sul malato e ungerlo con olio. L’olio nel giudaismo era molto usato come farmaco (Is 1,6; Mc 6,13; Lc 10,34). L’unzione del malato si fa nel nome del Signore. En onòmati (= nel nome) non significa soltanto per incarico ma anche nella forza. Secondo Lc 10,17 i discepoli riferiscono a Gesù: Anche i demoni si sono sottomessi a noi nel tuo nome. Anche Pietro guarisce uno storpio nel nome di Gesù (At 3,6). Il nome sta quindi per la persona o almeno per la sua forza. Forza e nome sono concetti paralleli. Negli Atti degli Apostoli alla domanda: quale forza o in quale nome fate questo? (4,7) segue la risposta: nel nome di Gesù (4,10).Con l’invocazione nel nome di Gesù è il Signore stesso che si rende presente, o almeno la sua forza. Alla guarigione di Enea in Lidda, Pietro dice: Enea, ti sana Gesù Cristo, alzati e fa’ il tuo letto (At 9,34).

Considerando questi passi, molto probabilmente nel nome del Signore (5,14) va inteso non tanto per incarico del Signore, quanto piuttosto con l’invocazione del suo nome, mediante la forza del suo nome. Gli anziani della comunità compiono la loro opera sul malato non in nome proprio, ma con la forza del Signore da loro invocato, come è chiaramente confermato dal v.15: Il Signore lo solleverà.

v. 15. La preghiera della fede che salverà il malato è quella che proviene da una profonda convinzione di fede. Con questo accenno alla preghiera viene esclusa ogni azione magica dell’olio. La preghiera e l’unzione non vanno isolate l’una dall’altra. Che cosa significano i verbi salverà, lo rialzerà? Nell’Antico Testamento il termine salvare viene usato nel senso di una preservazione dalla morte fisica e dallo Sheol e, positivamente, nel senso di una nuova elargizione di vita da parte di Dio all’uomo. Anche nel Nuovo Testamento salvare viene messo in connessione con il trasferimento dalla sfera della morte a quella della vita, nel senso sia terreno-fisico sia escatologico. Tuttavia nel salvare di questo verso non va esclusa una salvezza naturale. Gli anziani non sono stati chiamati presso un moribondo, ma presso un malato. Alle preghiere dei presbiteri è promessa l’efficacia di ridare la salute al corpo del malato. Il sollievo allude direttamente a qualcosa che va al di là della salute fisica, cioè al sollievo dell’anima. Il Signore dona al malato forza e vigore per il superamento psicologico del suo dolore.

All’azione sacra degli anziani viene collegata un’altra promessa: E se avesse commesso dei peccati, gli sarà perdonato. L’efficacia soprannaturale dell’unzione produce il perdono dei peccati. Le tre promesse menzionano tre fatti diversi riguardanti il corpo, l’anima e la salvezza eterna. La fiducia che Giacomo pone nella preghiera degli anziani non può sorprendere, data la sua dottrina sulla preghiera stessa. È sua ferma convinzione (1,5-7; 4,3) che Dio certamente esaudisce una preghiera fatta nella fede.

L’unzione degli infermi è un incarico che Gesù ha dato agli apostoli mandati in missione: E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,12-13).

Il fatto che gli apostoli compiano un’unzione sul malato indica che essi la intendono compresa nella missione ricevuta da Gesù. Con questo intervento sul malato essi riproducono l’attività di Gesù. Ora, se l’unzione degli infermi da parte dei discepoli di Gesù, com’è riportata da Mc, non è ancora il sacramento dell’unzione degli infermi, ne è però il fondamento.


(14)
Confessione dei peccati e preghiera d'intercessione
5,16-18

16Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. 17Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò intensamente che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. 18Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto.

La nuova parenesi è strettamente collegata a quella precedente. Dai vv. 14-15 viene tratta una conseguenza importante: Poiché la preghiera è così potente da ottenere per un altro il perdono dei peccati, rendetevi l’un l’altro questo servizio. Ciò che vale per la preghiera d’intercessione degli anziani in favore dei malati, vale altrettanto per quella di ciascuno in favore di tutti.

v. 16. Queste parole Confessate dunque gli uni agli altri i peccati sono comprensibili soltanto se nei vv. 14-15, per Giacomo, sia compresa, nel caso dell’unzione, una confessione del malato davanti agli anziani, anche se essa non viene esplicitamente menzionata. Altrimenti il rapporto logico indicato sul dunque non può essere capito con chiarezza.

La confessione dei peccati (pubblica o privata) era una cosa del tutto ovvia nel giudaismo. Nel Nuovo Testamento la conversione è legata alla confessione dei peccati (Mc 1,5; Mt 3,6; At 19,18; ecc.). Anche qui si allude a una confessione pubblica l’uno di fronte all’altro. Se essa sia fatta (o deve essere fatta) davanti agli anziani, dal testo non risulta. In ogni modo in questo verso non si attribuisce agli anziani nessuna funzione, in analogia con quella menzionata per l’unzione degli infermi; anzi non si fa più menzione di loro. Non è possibile dire che qui si parla della confessione sacramentale.

Brevemente Giacomo accenna allo scopo della sua istruzione: affinché veniate guariti. Cosa si intende per guarigione? È il perdono dei peccati. L’intercessione vicendevole ha come scopo il perdono dei peccati conferito l’uno all’altro.

Molto può l’efficace preghiera del giusto.

Il giusto è colui che compie la volontà di Dio. È sempre stata viva nel giudaismo la convinzione dell’efficacia dell’intercessione del giusto. Quando gli uomini peccano e accendono la collera di Dio egli cerca innanzitutto un intercessore che sia in grado di difenderli, e gli spiana la via. Così fu nei giorni di Geremia (Ger 5,1); anche quando i sodomiti avevano peccato, Dio comunicò il fatto ad Abramo perché li difendesse (Gen 18,16-33). Dio esaudisce i desideri dei giusti. Perciò Ester parlò davanti al re in nome di Mardocheo (Est 2,22); infatti pensava: Io so che Mardocheo è un giusto e che Dio farà ciò che gli chiede.

vv. 17-18. Come di consueto, Giacomo conferma la sua tesi con un modello biblico, che questa volta è Elia. Giacomo non pone la forza della preghiera di Elia nella sua grandezza sovrumana, ma proprio nella sua umanità, nell’essere un uomo come noi.

La sua preghiera tuttavia chiuse il cielo per tre anni e mezzo. Tanto potente è la preghiera di un giusto nella comunità!


(15)
Aiuto spirituale per il fratello traviato
5,19-20

19Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, 20costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati.

L’aiuto spirituale del cristiano non si estende soltanto ai malati e ai peccatori (ordinari) all’interno della comunità, ma anche a quelli che hanno del tutto smarrito la strada e si abbandonano a una vita di peccato. Questi devono essere ricondotti sulla retta via e salvati. A ciò è dedicata la parenesi conclusiva della lettera.

vv. 19-20. Mentre prima si è parlato di quei membri della comunità, i quali riconoscono sempre e confessano i loro peccati per ottenere il perdono, ora si allude a chi si trova su una pericolosa strada sbagliata, lontano dalla verità, e ha bisogno di un urgente ammonimento, anzi di una formale conversione, se non vuole andare completamente perduto. L’errante dalla verità è colui che trasgredisce la volontà rivelata da Dio e devia dalla retta condotta. Chi si prende cura del fratello errante lo salva dalla morte eterna. Dio fa una doppia promessa: vita per chi viene ricondotto sulla via della verità e salvezza dell’anima per chi lo ha ricondotto; tutti e due ricevono il perdono dei loro peccati. Vale ciò che Giacomo ha già scritto in 2,13: La misericordia trionfa sul giudizio.

Così termina la lettera. La conclusione è un po’ brusca, ma positiva, perché racchiude una promessa piena di speranza. La finale improvvisa si spiega nel migliore dei modi con il carattere di enciclica di questa lettera. I saluti e gli auguri erano scritti, presumibilmente nella missiva che accompagnava la lettera.

 

Cattolico_Romano
00mercoledì 26 novembre 2008 11:23

Appendici

1
Il valore religioso della povertà nella lettera di Giacomo.

Non c’è elemento della religione dei poveri dell’Antico Testamento che non s’incontri anche nella lettera di Giacomo, dove povero è sinonimo di umile e giusto, dove s’inveisce minacciosamente contro l’empietà dei ricchi e si applica lo schema umiliazione-esaltazione caratterizzandolo escatologicamente: umiliazione del povero per mano dei ricchi potenti ed empi, esaltazione del povero per opera di Dio e giudizio di annientamento per i ricchi. I poveri sono gli eletti di Dio.

La povertà come atteggiamento davanti a Dio è intesa non nel senso proletario, ma in senso strettamente religioso. A Giacomo sta a cuore la chiara affermazione di un ideale per il quale l’essere povero e l’essere cristiano coincidono (Dibelius). E questo ideale ha un’importanza e un valore perenne, perché da esso deriva il giusto comportamento davanti a Dio. La ricchezza non significa una speciale elezione da parte di Dio, ma, al contrario, il più grande pericolo per la salvezza dell’anima. Che devono fare i ricchi con le loro sostanze? Giacomo lo dice in modo inequivocabile: aiutare i poveri, le vedove e gli orfani! Così possono salvare le loro anime. Perciò anche la trattazione riguardante la giustificazione (2,14-26) sotto un certo aspetto è posta in funzione del suo ideale religioso di povertà, perché l’opera che giustifica è l’aiuto concreto ai poveri. Altrimenti la fede è vana.

La lettera di Giacomo è in stretta corrispondenza con l’insegnamento di Gesù tramandatoci dai vangeli. Gesù era di famiglia povera (Lc 1,52-53; 2,7.24) e ha chiamato beati coloro che sono poveri nel senso vero e proprio del termine (Lc 6,20). A loro viene annunciato il vangelo (Lc 4,18). Gesù non ha condannato radicalmente il possesso dei beni di questo mondo, tuttavia egli grida all’indirizzo dei ricchi la sua lamentazione: ahimè per voi...! (Lc 6,24) e dice che è difficile che un ricco entri nel regno di Dio (Mc 10,23 ss). Non è possibile servire, nello stesso tempo, Dio e mammona (Mt 6,24). Troppe volte la ricchezza soffoca la parola di Dio (Mc 4,19) e pregiudica l’esistenza escatologica (Mt 6,19-29; Lc 12,15021). Il regno di Dio, secondo Gesù, è quella perla preziosa e quel tesoro nel campo, che rendono inutile il possesso terreno (Mt 13,44 ss). Una eccessiva proccupazione per i beni della terra è caratteristica nei pagani, poiché Dio Padre dà in più a colui che cerca il suo regno (Mc 6,13-14). Specialmente il discepolo che Gesù chiama a seguirlo più da vicino e integralmente, deve rinunciare a tutto (Lc 14,23; Mt 10,9-10). Gesù inoltre esige che si aiuti il prossimo bisognoso (Lc 16,9; 19-21). E chi dà un banchetto deve invitare i poveri, gli storpi, gli zoppi e i ciechi (Lc 14,13).

Per Giacomo come per Gesù, i poveri sono gli eredi del regno di Dio. Ambedue scagliano invettive contro i ricchi e mettono in guardia contro la loro ingorda cupidigia. Ambedue esigono un aiuto concreto per il prossimo indigente, togliendo ogni confine al concetto di prossimo.

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La giustificazione nella lettera di Giacomo.

Il problema della giustificazione riguarda la salvezza dell’uomo e i mezzi di salvezza. Che l’uomo non possa salvarsi da sé, ma che deva essere salvato da Dio, è per Giacomo cosa ovvia.

Il salvatore dell’uomo è Dio, il Padre delle luci, dal quale deriva ogni dono perfetto (1,17). Si sottolinea così il punto di partenza di ogni dono buono: esso si trova in Dio. Dio è l’autore personale della nuova creazione escatologica dell’uomo: Per sua volontà ci generò con la parola di verità, perché fossimo una primizia delle sue creature (1,18). Va particolarmente notato che nella lettera di Giacomo la forza ricreante e salvifica di Dio viene collegata alla sua parola. Il che ha una chiara risonanza paolina e giovannea.

Giacomo non contrappone le opere dell’amore alla fede. Per lui la fede è solo la fede viva, che si manifesta nelle opere della misericordia (2,16-25) e dell’ubbidienza a Dio (2,21). Obbedienza a Dio e misericordia verso il prossimo sono quelle opere per mezzo delle quali la fede viene completata (2,22) e la promessa della scrittura sulla forza giustificante della fede viene adempiuta (2,23). Poiché la fede viva deve necessariamente esprimersi in opere, Giacomo formula brevemente così il v. 2,24: Vedete che dalle opere l’uomo viene giustificato, e non dalla fede soltanto. Bisogna sempre considerare che per Giacomo non esistono né opere soltanto né fede soltanto. Entrambe queste concezioni sono per lui inaccettabili.

S. Agostino si pone la domanda: secondo Paolo e Giacomo, che portata hanno fede e opere nella giustificazione dell’uomo? La sua risposta, divenuta classica, suona così: Paolo parla delle opere che precedono la fede, Giacomo delle opere che seguono la fede (PL XL, 89). È evidente che in questa lettera Giacomo parla dell’uomo già credente. Bisogna distinguere bene la fede morta, che secondo Giacomo hanno anche i demòni (2,19) e la fede viva che opera mediante l’amore (Gal 5,6).

Scrive sant’Agostino: Gli uomini che non hanno capito quello che dice Paolo: "Noi riteniamo che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge" (Rm 3,28) hanno pensato che egli dicesse che all’uomo basta la fede, anche se vive male e non compie le buone opere. Questo è totalmente contrario alle convinzioni di Paolo il quale ha detto: "In Cristo non è la circoncisione che conta o la non circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità" (Gal 5,6). Questa è la fede che distingue i fedeli di Dio dai demòni immondi: infatti anch’essi, come dice Giacomo "credono e tremano" (2,19), ma non fanno il bene. Colui che ha la fede "soltanto" quindi non ha questa fede per la quale il giusto vive (Rm 1,17), cioè la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6). Questa fede è indispensabile perché Dio possa concedere all’uomo la vita eterna secondo le sue opere (Grazia e libero arbitrio 7,18; PL XLIV 892).

Secondo Giacomo, giustifica solo una fede che si dimostri vera nelle opere dell’amore. Poiché la dottrina di Paolo della fede soltanto è pur sempre esposta al malinteso teologico e pratico, l’insegnamento di Giacomo sulla giustificazione resta il suo insostituibile contrappeso: ad esso la Chiesa non può rinunciare, se si vuole che il cristianesimo rimanga autentico.

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L’escatologia della lettera.

La convinzione che gli ultimi tempi della storia sono già spuntati viene programmaticamente espressa nelle due proposizioni di 5,8-9 La parusia del Signore si è avvicinata e il giudice è alle porte. Mentre la prima accentua la prossimità cronologica della parusia del Signore, la seconda guarda di più alla figura del giudice che è già alle porte, cioè ad ogni momento può apparire sul palcoscenico della storia. Così il tempo presente è determinato dalla fine imminente. Esso è perciò l’ultimo tempo. I ricchi, nel loro accecamento, non possono riconoscere che vivono nell’ultimo tempo e stoltamente ammucchiano tesori negli ultimi giorni (5,4) e per il giorno del macello (5,5), il giorno del giudizio imminente, che rivelerà l’insensatezza e la vacuità del loro febbrile acquisto di beni, di cui non resterà nulla (1,10-11; 5,1-3). Per la comunità credente, il presente così inteso è un tempo di tentazioni, nelle quali si deve dare buona prova con la perseveranza (1,2-4.12; 5,7-11). Secondo la tradizione apocalittica infatti l’ultimo tempo è un momento di aggravate persecuzioni e quindi una speciale occasione, per la comunità cristiana, per acquistare e dimostrare la perseveranza. La vera struttura dell’esistenza umana in questo tempo viene particolarmente espressa nelle due invettive contro i ricchi. Il ricco passa come il fiore del campo (1,10) e scompare assieme alle sue imprese (1,11; 4,14: fumo voi siete, che per un po’ appare e poi scompare). Le dichiarazioni si inaspriscono in considerazione del valore escatologico del tempo presente, che vieta a chiunque l’autonoma progettazione della vita e ogni presuntuosa ideazione dei propri piani (4,13-16). Il domani è nascosto a tutti e Giacomo dirige decisamente lo sguardo dei suoi lettori al futuro reso positivo da Dio (1,12.18.21.25; 2,5; 4,12; 5,7-8.20) e soprattutto dall’imminente giudizio.

Il giudizio spetta a Dio solo unico giudice (4,12). Per chi in vita non ha esercitato la misericordia, anche il giudizio di Dio sarà senza misericordia (2,13); la fede senza le opere non può salvare davanti al tribunale di Dio (2,14). Chi invece sarà stato misericordioso e avrà adempiuto il regale comandamento dell’amore del prossimo, potrà entrare nella misericordia di Dio nel giudizio; in tal caso la misericordia trionfa sul giudizio (2,13).

Da un punto di vista positivo, la lettera proclama la salvezza della comunità, le promette da parte di Dio la corona della vita (1,12), riserva ai poveri l’eredità del regno (2,5) e assicura ai malati il perdono dei peccati (5,15). La comunità cristiana è già la primizia della nuova creazione escatologica di Dio (1,18).

La lettera dunque orienta radicalmente tutta la vita del cristiano verso la mèta escatologica: o salvezza o giudizio di condanna. Tra escatologia ed etica c’è uno stretto legame. In modo particolare è l’imminente giudizio a giocare qui una parte importante. Così in 3,1 si mette in guardia della mania dell’ammaestramento, perché un grande giudizio attende il maestro della comunità. In 4,11 e 5,9 si ammonisce di guardarsi dalla spietata critica del prossimo, mediante il rimando al giudizio di Dio. La comunità nel suo parlare deve essere assolutamente veritiera perché non incorriate nel giudizio (5,12). All’asociale comportamento dei ricchi viene minacciato un giudizio terribile che annienta tutta la ricchezza ammassata negli ultimi giorni e i suoi possessori (5,1-5).

Ma non mancano motivazioni escatologiche positive: Beato l’uomo che sostiene la tentazione poiché riceverà la corona della vita che Dio ha promesso a quelli che lo amano (1,12). Chi persevera nella legge perfetta della libertà, sarà beato per il suo agire (1,25).

Infine la sollecitudine per la salvezza del fratello errante viene motivata in 5,20 con la salvezza della propria anima dalla morte eterna. L’etica di Giacomo trova dunque in suoi motivi profondi nell’escatologia e non in qualche dottrina naturale della perfezione.

La tesi di Dibelius secondo cui la lettera di Giacomo non conterrebbe alcuna teologia, va riveduta. Se per teologia s’intende soltanto cristologia, la lettera di Giacomo ha poca teologia. Ma se la teologia è anche essenzialmente escatologia, questa lettera allora va posta tra i migliori testi teologici del Nuovo Testamento. Anzi, l’escatologia e l’etica della lettera di Giacomo è molto vicina a quella di Gesù. Anche Gesù infatti annuncia l’èra finale; anche nella sua predicazione escatologica il pensiero del giudizio gioca una parte importante, anch’egli parla del suo ritorno, senza fissarne il momento; il tempo rimasto a disposizione è un tempo di prova per i discepoli. Anche l’etica di Gesù è fondata su una motivazione escatologica. Tale è dunque l’escatologia della lettera di Giacomo che da essa ne riceve una chiara e immutabile fisionomia e nel suo insieme è molto più di un puro agglomerato di tradizionali e parenetici detti sapienziali.

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Il cristianesimo secondo Giacomo.

Per riconoscere un cristianesimo secondo Giacomo bisogna anzitutto aver presente la caratteristica negativa di un certo cristianesimo da lui prospettato e stimato vuoto. Si tratta di un cristianesimo indeciso, doppio, dubbioso, che durante le persecuzioni non può avere un atteggiamento deciso, fiducioso e tutto orientato a Dio. Esso è continuamente oscillante, presto entusiasta, ma privo di perseveranza nel bene. In tale cristianesimo la fede decade facilmente nell’increscioso culto della personalità che adotta misure diverse da quelle di Dio. Esso diventa pertanto facilmente ingiusto e asociale. È un cristianesimo che brilla per la sua sapienza terrena, ricco di cavillose discussioni, legato alla polemica e al settarismo. È irrispettoso e presuntuoso, sempre intento a dare insegnamento agli altri, invece di lasciarsi esso stesso ammaestrare. Perduto dietro il mondo è quindi pieno di gioia sfrenata e mancante della sobrietà cristiana occorrente negli ultimi giorni. I progetti sulla vita sono fatti senza Dio e servono soprattutto all’arricchimento personale, all’insaziabile avidità di denaro e di guadagno. È perciò una vera brama di gloria, che si rivela specialmente nell’ingiusto e asociale comportamento verso i poveri. Un simile apparente cristianesimo, secondo Giacomo, non ha nulla a che fare con il cristianesimo vero.

Il cristianesimo vero, secondo Giacomo, si dimostra attraverso la pazienza e la perseveranza nelle tentazioni sopportate gioiosamente, perché si riconosce in esse un mezzo di prova della fede. La preghiera di questo cristianesimo è fiduciosa, libera da ogni dubbio. I veri cristiani sono umili, pronti ad ascoltare e a lasciarsi ammaestrare. E se essi stessi esercitano un insegnamento, le loro parole sono piene di dolcezza e di sapienza dall’alto. Ciò che contraddistingue il vero cristiano è soprattutto il suo amore per la pace e la sua prontezza nell’aiutare le vedove e gli orfani. Egli non conosce alcun culto della personalità. Suoi amici sono i disprezzati dal mondo, i ritardati, i poveri, poiché Dio stesso ha eletto questi uomini per l’eredità del suo regno. Di conseguenza la fede agisce assieme alle opere dell’amore; anzi, una fede senza le opere è del tutto impensabile per lui. I seguaci di un tale cristianesimo non smaniano di intervenire come maestri tra i loro fratelli; più volentieri ascoltano, perché conoscono i pericoli della lingua. Essi ascoltano la Parola e gli esempi della Scrittura per imitarli. Sempre e in tutto ciò che progettano e fanno, essi dicono: Solo se il Signore lo vuole!. In ogni circostanza della vita sono uniti a Dio, pongono tutto in connessione con Lui e riferiscono tutto a Lui, sia la gioia sia il dolore. Amano la veracità e sono nemici di ogni menzogna e calunnia verso il prossimo. Essi confessano onestamente e lealmente i loro peccati l’uno all’altro, pregano gli uni per gli altri e sono pieni di premura per la salvezza eterna dei fratelli. Essi sanno della corona della vita che Dio ha promesso a coloro che lo amano. Pensano sempre al giudizio imminente. Sanno che sono già arrivati gli ultimi tempi e ciò li rende vigilanti e liberi dalle ubriacature del mondo. Essi attendono pazientemente il Cristo che ritorna.

Gesù firmerebbe ogni frase della lettera di Giacomo. Essa insegna Cristo. Giacomo era fratello del Signore non soltanto secondo la carne, ma anche secondo lo spirito. La lettera di Giacomo non presenta il cristianesimo. Al cristianesimo appartiene essenzialmente anche la lettera di Paolo ai Romani. Ma né Paolo né Giacomo rappresentano da soli tutto il cristianesimo, né allora né oggi. La Chiesa li ha posti l’uno accanto all’altro nel canone delle Scritture e ha con ciò sottolineato che non si può ascoltare l’uno senza l’altro; essi devono essere ascoltati entrambi, perché possa apparire e diventare operante la pienezza del cristianesimo.

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