Nulla più come prima

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enricorns
00mercoledì 25 febbraio 2009 19:05

Il racconto, in prima persona, di chi ha guidato il fronte della vita


ELUANA, UDINE, IL FRIULI
NULLA E’ PIU’ COME PRIMA

di Gianluigi Gigli*


Seguo le vicende dello stato vegetativo da almeno otto anni. Ero allora presidente della Federazione internazionale delle Associazioni dei medici cattolici e venni sollecitato ad occuparmene dai colleghi americani, allarmati per quanto stava accadendo con la sospensione di idratazione e nutrizione all’interno delle istituzioni sanitarie degli Stati Uniti, comprese quelle cattoliche. Sapevo che Terri Schiavo non era che la punta di un grande iceberg. Tuttavia, non avrei pensato che, grazie a Eluana – lasciata morire di fame e di sete quasi sotto casa mia –, la problematica dello stato vegetativo avrebbe finito per coinvolgermi scientificamente ed emotivamente fino al punto di ritrovarmi impegnato in una tremenda battaglia per la vita.



Ci volle molto tempo per preparare un importante congresso scientifico internazionale, che vide i maggiori esperti di tutto il mondo riunirsi a Roma nel marzo 2004. Apparve evidente che lo stato vegetativo non era più l’entità descritta nel 1994. Solo le Corti di giustizia italiane avrebbero continuato a fare riferimento all’articolo, ormai datato, pubblicato dalla Multi Society Task Force sul New England Journal of Medicine. Al termine dei lavori congressuali, Giovanni Paolo II chiarì in modo autorevole la posizione della Chiesa e diede sostegno e dignità alla resistenza di molti medici e di persone semplici, amanti della vita.
Sull’onda del congresso, il ministro della Salute di allora, on. Storace, aderì alla nostra richiesta di una Commissione tecnico-scientifica ministeriale. La Commissione, presieduta dal sottosegretario Di Virgilio, concluse i suoi lavori nel febbraio 2005, producendo un importante documento che resta di riferimento per tutti, tranne che per chi si è assunto il compito di una sistematica disinformazione.
All’inizio di aprile del 2005 Terri Schiavo moriva, lacerando l’America. In un articolo sull’Osservatore Romano, mi permisi di predire lo tsunami culturale che di lì a poco si sarebbe riversato sull’Italia. Pochi giorni dopo moriva anche Giovanni Paolo II. Da allora, la battaglia in Italia sul caso di Eluana è continuata per me senza soste sui mezzi d‘informazione, in dibattiti pubblici (anche con membri della Consulta di Bioetica e con lo stesso Beppino Englaro) e nelle discussioni all’interno della Società Italiana di Neurologia, dove il dottor De Fanti continuava una tenace opera di penetrazione. Anche la mia conoscenza della letteratura scientifica sull’argomento si è amplificata, con particolare riguardo agli studi sulle presenza di coscienza sommersa dimostrata con le nuove tecnologie.
Ad ottobre 2007 la Corte di Cassazione ha dato il primo importante via libera a Beppino Englaro e nel luglio 2008 la Corte d’Appello di Milano ha emesso il decreto autorizzativo. Insieme a 25 illustri colleghi, abbiamo ottenuto, con un appello pubblico, che il Procuratore Generale di Milano richiedesse alla Cassazione di riaprire il caso.
Mentre il Parlamento incominciava, tardivamente, a prestare attenzione alla vicenda, il sottosegretario Roccella istituiva una nuova Commissione tecnico-scientifica, i cui lavori sono ancora in corso. Nel frattempo, dopo che la Cassazione dichiarava irricevibile il ricorso del Procuratore Generale di Milano, il centro della scena si spostava a Udine, in una città e in una diocesi ancora del tutto fredde e apatiche verso quanto stava accadendo e disinteressate alle conseguenze che si sarebbero determinate.
Grazie alle prime proteste locali e grazie, soprattutto, all’atto di indirizzo del ministro Sacconi, la prima ipotesi di trasferimento veniva a cadere, a seguito della rinuncia della stessa Casa di Cura “Città di Udine”. Tuttavia, dopo l’ultima sentenza del Tar che bocciava le direttive della sanità lombarda, la scelta del luogo dove condurre Eluana a morire tornava definitivamente su Udine.
Più volte in quei giorni mi sono chiesto: perché a Udine, perché sulla soglia di casa mia? Pian piano le ragioni si sono chiarite. Solo in una piccola città come Udine ed in una piccola regione come il Friuli, avrebbe potuto determinarsi una concentrazione di poteri (giudiziari, politici, amministrativi, sanitari, accademici) tanto compatta da essere impermeabile a ricorsi, ispezioni ministeriali, Nas e polizia. A Udine, infine, vi erano anche dei preti sicuri di poter andare contro le direttive del proprio Arcivescovo e laici cristiani, impegnati sia nei consigli pastorali che in quello comunale, pronti a salvare il sindaco, ma non Eluana.
In giornate frenetiche, mentre ogni sforzo per la vita di Eluana si infrangeva contro il muro del potere e sugli scogli del tradimento, mentre la Chiesa sembrava incapace di alzare la sua voce e aveva abdicato al ruolo di guida del suo popolo, a Udine abbiamo però assistito anche a un piccolo miracolo.
Quasi dal nulla e senza alcun ordine, è nato un gruppo di laici che ha dato prova di saper incidere a fondo nella realtà sociale che li circonda. Molte altre persone si sono aggregate. Ne è nata una presenza pubblica, capace di animare una preghiera quotidiana molto partecipata nella Basilica delle Grazie adiacente alla “Quiete”, di ravvivare il dibattito culturale e di penetrare i mezzi di informazione, di presentare esposti con cui la magistratura dovrà confrontarsi ancora per lungo tempo.
Si è assistito gradualmente alla crescita di una consapevolezza in larghi strati della società friulana. Sono stati suscitati interrogativi profondi sul senso della vita, anche nelle sue condizioni estreme, e sulla dignità dell’uomo, che nessuna malattia – per quanto grave – può scalfire. Ne sono nate una più profonda e critica sensibilità culturale.
Personalmente sono state giornate di grande fatica e di profonda frustrazione. Sono stato tentato dallo scetticismo nella tenuta delle istituzioni e nella possibilità di ricerca della giustizia.
Sono state però anche giornate di doni inattesi. Il dono di un popolo capace di ritrovare la sua identità attorno al valore della vita dei disabili. Il dono di sacerdoti senza formale autorità, capaci di supplire all’autorevolezza insufficiente di coloro che l’autorità avrebbero dovuto esercitare. Il dono dell’incontro con gente disposta a rischiare anche il posto e la carriera per opporsi ad un orribile disegno. La soddisfazione di incontrare al supermercato, per strada, in ospedale o al ristorante tanta gente semplice, che ti ringrazia per ciò che hai fatto e per aver dato loro voce. Il dono di incontrare una cassiera che al cinema ti offre il biglietto gratuito e che, quando tu la ringrazi, ti dice che è il minimo che avrebbe potuto fare per te. La certezza di essere stato segno di contraddizione, quando ricevi biglietti o mail contenenti minacce o oscenità.
Il dono, soprattutto, di incontrare famiglie con pazienti in stato vegetativo con la forza di non abbandonarli per un solo giorno, capaci di comprendere che la loro croce è anche testimonianza in grado di aprire il cuore a chi ha ancora occhi limpidi per guardare. Come la famiglia di Pordenone, per la quale la fatica di assistere il figlio non è abbastanza, capace non solo di farlo vivere in mezzo al mondo, ma di aprire uno spazio di solidarietà per chi non ce la fa più.

Michael Schiavo era discendente di emigranti friulani. Beppino Englaro aveva le sue radici in Friuli. Friulano era anche il gruppo socialista erede di Loris Fortuna che ha voluto che Eluana morisse a Udine. Ma il Friuli non è solo questo. E’ anche il popolo che ho cercato di descrivere. Per loro e per me, Eluana non è morta invano. Non siamo gli stessi di prima. Non dimenticheremo Eluana. Ancor più di ieri ci sentiamo in dovere di combattere una cultura di morte che non ha niente a che fare con i valori di questo popolo, mal interpretato dai suoi governanti.

*Neurologo, membro del Consiglio Esecutivo di Scienza & Vita

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