Paraguay / Un'esperienza viva di «cristianesimo felice» La «Reducción» di padre Aldo Trento

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(Zacuff)
00sabato 26 dicembre 2009 14:10
27/10/2005
Paraguay / Un'esperienza viva di «cristianesimo felice»
La «Reducción» di padre Aldo
di Roberto Fontolan
Da sedici anni un prete veneto sta cambiando un quartiere della capitale. Riattualizzando la lezione dei gesuiti del Settecento


A fine agosto, tra la folla del Meeting di Rimini, padre Aldo sembrava un po’ spaesato. Non si aspettava tanta gente, tante richieste, strette di mano, domande, proposte di incontri. Tra un sospiro e l’altro, con la sua voce roca dall’inflessione incancellabilmente veneta, mi dice che vuole tornare presto in Paraguay, «a casa». Una nemesi, questa rivincita del piccolo e sgangherato Paese sudamericano sulle Dolomiti dell’infanzia e della famiglia (e anche di tanti amici). Il caldo batte il freddo, il disordine l’ordine, la vocazione l’origine. Nemesi perché per tanti anni il Paraguay è stato per padre Aldo terra difficile e aspra. Arida come il Chaco, un semideserto che si estende ad ovest di Asunción, abitato da rare tribù e da sparute comunità di mennoniti. E anaffettiva, si potrebbe dire, senza calore, a parte quello del sole implacabile.

Padre Aldo Trento, membro della Fraternità sacerdotale di San Carlo Borromeo, si trova in Paraguay da sedici anni, da quel fatidico 1989 che segna la svolta nazionale: il lugubre dittatore Alfred Stroessner finalmente lascia il potere dopo trentacinque anni. Il Paese è in ginocchio, l’economia tutta da reinventare, la società annichilita pressoché incapace di risvegliarsi dal coma. Un caos non creativo regna dovunque.
Si può certo dire che Aldo «càpita» ad Asunción. Da piccolo (entra in seminario giovanissimo) sognava la missione, ma ormai non pensava più che quel desiderio divenuto ormai vago si sarebbe realizzato. In Italia, prima al Sud e poi al Nord, insegnava religione, seguiva i giovani e la cultura. Il Paraguay spunta da don Giussani: da poco era nata una comunità di Comunione e Liberazione, una delle prime fuori dall’Europa e in più il fondatore del movimento aveva una passione per le Reducción - le Riduzioni - gesuitiche. Indicando il Paraguay, Giussani le propose allo sbalordito Aldo come il tema della sua missione. «Rifare, riformulare quell’esperienza». Aldo pensava sempre a questo durante i primi tormentati anni di missione. Girava per le Riduzioni, per lo più ammassi di rovine; recuperava pezzi d’arte, quei mirabili gioielli lignei; studiava e ristudiava le biografie di quei religiosi capaci di sfidare la natura e la cultura, la foresta più selvaggia e il potere più raffinato. «E perché? Perché affermavano la presenza di Gesù Cristo», ribadisce sempre con veemenza. Il «cristianesimo felice», secondo la bella espressione di Ludovico Muratori, era felice perché consapevole della felicità donata da Cristo, e non per il programma sociale ben riuscito o perché gli indios imparavano la musica o perché l’economia delle Riduzioni marciava a pieno ritmo. Aldo raccomanda insistentemente di non limitarsi alle conseguenze, ma di andare sempre alla radice. Dunque respinge le letture ideologiche e sociali delle Riduzioni: un comunismo cristiano, una rivolta antieuropea…

Del resto, è così anche per lui, per la sua parrocchia paraguayana, San Rafael, in un quartiere di Asuncion né brutto né bello e socialmente misto. La sua Reducción, una Riduzione degli anni Duemila. Immaginata e voluta pensando a quei gesuiti di tre-quattro secoli fa. Una parrocchia il cui segreto è molto semplice: «Il parroco non sono io, ma il Signore stesso. Giorno e notte la gente viene qui, nella cappella dell’adorazione, aperta sempre, sempre! Ed è a Lui che la gente si affida, Lui che la gente prega, è Lui l’autorità». Lo stesso facevano i gesuiti: innanzitutto rendevano presente Cristo tra gli indios guaraní. Per questo nascevano le comunità e i villaggi, le scuole e le attività economiche. Per questo fiorirono gli artisti e i commerci. Per questo i gesuiti difesero strenuamente l’esperienza di quel cristianesimo davanti a tutto il mondo. Le Riduzioni resistettero centocinquanta anni, nel momento di massimo splendore contavano trecentomila abitanti e quando le tre maggiori decisero di collaborare misero insieme un capitale di ottantamila capi di bestiame. Poi venne il diluvio di ferro e di fuoco, e la vergogna dell’Europa cristiana. Com’erano belle Trinidad e San Ignacio Guazu e Santa Maria: non puoi non pensarci se stai ad ascoltare i racconti di Aldo. E Ruiz de Montoya, Antonio Sepp, che tempra, che genialità: la compagnia di Gesù, una compagnia, che è anche più di una amicizia, che si identifica con Gesù, che ne fa la sua ragione d’essere.

Anche San Rafael, una Riduzione dell’anno 2005, è una esplosione di opere e attività: la scuola per bambini poveri, il Centro di aiuto alla vita, l’ambulatorio di primo intervento, gli studi medici convenzionati, la pizzeria, la fattoria, la casa editrice, il Caffè letterario, la redazione del supplemento culturale del quotidiano «La última hora», la clinica per malati terminali, che Aldo considera il culmine, il fiore più splendente di tutti e non senza ragione. Ne parla così: «Arrivano lì mezzo putrefatti, senza niente, respinti da tutti gli altri ospedali e dalle famiglie, che non sanno come fare. L’unica regola di questa clinica è la posizione di adorazione, star davanti al malato in ginocchio, perché è l’unica maniera affinché il malato possa affrontare la morte senza la paura. E si può, è possibile non aver paura della morte. In un anno e mezzo ne abbiamo mandati in Paradiso più di un centinaio, tutti sorridenti». Racconta di Dora, una donna raccolta nella favelas, «rabbiosa come un cane, aggressiva e violenta con le infermiere. Dopo alcune settimane la vedo, le unghie dipinte, la faccia truccata e le dico “Dora, ti sei riconciliata con te stessa?” “Sì padre”, e mi accarezza, e vuole confessarsi e si comunica. Mai nessuno l’aveva amata». E racconta di quell’altro, malato di Aids che gli dice: «Padre, ho avuto un unico amico nella vita, l’Aids, perché grazie all’Aids ho incontrato questa clinica, ho incontrato l’amore, ho incontrato Gesù. La mia salute viene per il dieci per cento dai farmaci anti-retrovirali, per il novanta dall’amore». Sembra pazzesco che si possa parlare così…
San Rafael dà lavoro a una trentina di stipendiati e oltre duecento volontari. Vive di donazioni (dalle più toccanti alle più ovvie) e di una sorta di economia di consumo: ad esempio, la fattoria, dove lavorano ragazzi «difficili», produce pollame e ortofrutta, che poi viene rivenduta in parrocchia. Una comunità piena di vita e di vitalità che in Paraguay tutti conoscono.
Come sia stato possibile passare da quei primi anni a oggi padre Aldo non fatica a spiegarlo. Lui si è solo fidato e affidato. Superando prove dure e momenti tristi. Bernanos ha scritto, in un suo piccolo libro dedicato a san Domenico, che un’opera ha bisogno di affondare, ed è solo in quel momento che veramente nasce.
E per Aldo è stato così: una missione che continuava a ritenere impossibile, una terra che restava lontana. Arrivando in Paraguay padre Aldo si era incamminato sulla scia di altri due sacerdoti italiani, don Lino prima, e don Alberto poi, ma ambedue per motivi di salute erano rientrati in Italia. In quel momento Aldo è solo: la parrocchia diventa affar suo. Ed è allora che scatta qualcosa. Monsignor Massimo Camisasca, superiore della Fraternità, dirà: «Ha cominciato a guardare in modo nuovo alla sua vita, alla sua missione ed alla gente che aveva intorno. Non che prima non avesse dedicato del tempo e delle energie ai suoi parrocchiani, ma adesso, adesso cominciava qualcosa di nuovo». Poi, tempo dopo, la Fraternità invia ad Asunción un secondo sacerdote, padre Paolino, e da meno di un anno c’è anche il giovane padre Ettore. Per Aldo la comunità di San Rafael è prima di tutto l’unità tra loro tre: l’amicizia tra i tre sacerdoti regge tutto. E il riferimento è ancora quello dei gesuiti di allora: «Mi domando sempre come hanno potuto essere accettati dai guaraní, come gli indios hanno potuto fidarsi di loro, dal momento che erano separati da abitudini, valori, pensieri diversissimi. La mia risposta, la mia convinzione è che l’evangelizzazione passava attraverso la loro unità, attraverso l’amore e l’amicizia che vivevano tra loro e che si comunicava, si irraggiava, riuscendo a cambiare la morale e il sociale, creando una umanità nuova».

Il cambiamento per Aldo è stato guardare con un occhio nuovo alle prove della vita. «Ho accolto con letizia la prova - scrive in una lettera - come un dono, attraverso il quale Dio mi chiedeva tutto, ma proprio tutto. Sono rimasto in piedi solo perché ho vissuto quei momenti in ginocchio davanti a Lui».
Ecco che allora, intorno a lui e alla comunità dei sacerdoti, irraggiati dall’Eucaristia («il Signore come parroco») comincia a stringersi un popolo. Ecco dunque come lui riassume i «titoli di coda» del suo film: l’Eucaristia, gli amici, le cose belle, il tempo da far fruttare, il popolo-comunità di San Rafael.

Così il sacerdote diventa editore, storico, costruttore di case, di scuole, di ospedali, ma anche giardiniere, uomo di cucina, e quant’altro. Ma, scrive Aldo in un’altra lettera, «l’unica cosa che mi interessa è vedere la gente che cresce nella passione, nel gusto per Cristo. Noi non abbiamo mosso un dito, ha fatto e fa tutto la Divina Provvidenza».
Cita una frase di santa Bernardetta: «Volete che non sappia che la Madonna mi ha scelto perché ero la più ignorante e se avesse trovato una più ignorante avrebbe preso quella?». Ecco, nella vita di padre Aldo affiora questa paradossale certezza. «Dio sceglie i cretini e gli ignoranti per fare quello che vuole. Sceglie i peccatori. Egli è venuto nel mondo per lavorare e il lavoro di Dio è nel perdonarmi e nell’abbracciarmi. Quando mi chiedono com’è la parrocchia di San Rafael, la descrivo così, con queste parole», dice mentre camminiamo tra i resti della Riduzione di Santa Trinidad. Pietre rossastre, bassorilievi con gli angeli e gli strumenti musicali, un’urbanistica mirante alla perfezione, qualcosa che evoca la «città ideale» del pittore rinascimentale Luciano Laurana. E il cielo del Paraguay, oggi così azzurro e così amico.



(Zacuff)
00sabato 26 dicembre 2009 14:24
Padre Aldo Trento, missionario in Paraguay: la luce nella notte
Redazione lunedì 25 agosto 2008



«Il mio unico progetto è fare quello che Dio mi mostra ogni giorno». In Paraguay la parrocchia di San Rafael guidata da padre Aldo Trento riprende la coscienza medievale e lo spirito delle Riduzioni dei Gesuiti. Si accompagna l’uomo dalla nascita al cimitero, mostrando come il cristianesimo crea una civiltà dell’amore. Padre Aldo (classe 1947, nativo della provincia di Belluno) è in Paraguay dal 1989 dopo una serie di esperienze anche traumatiche (il periodo della contestazione, una crisi affettiva e la depressione). La parrocchia di San Rafael ha circa 10mila abitanti e si trova nella capitale Asunción. Nel 2004 è nato il Centro di eccellenza dedicato a San Riccardo Pampuri che ha fin qui dato assistenza a 14mila malati («Piccole ostie bianche», come le chiama padre Aldo»). Un asilo, una scuola elementare, un’azienda agricola che prima era destinata al recupero dei carcerati e oggi è una succursale per i malati di aids non terminali. Due casette per i bambini orfani o malati di aids. La Casa Gioacchino e Anna per anziani, il Banco dei donatori del sangue, il Banco alimentare. Sono queste le altre attività sviluppate da padre Aldo che a partire dall’incontro con don Giussani ha ritrovato se stesso e ha accompagnato gli ammalati in particolare quelli terminali verso l’incontro con Cristo.



Padre Aldo, è difficile sintetizzare in poche righe la sua missione



Mi occupo anzitutto di malati terminali e depressi. Quello che è strano è che avevo terrore di finire in un manicomio. Ho alle spalle anni e anni di antidepressivi. La notte che porto con me è dolorosa, ma oggi la vivo con la gioia perché Dio per realizzare le sue opere ti vuole sulla sua croce con lui. Può fare anche diversamente, ma con me ha scelto questo metodo. Stare di fronte agli ammalati significa realmente immedesimarmi con loro fino al punto che quella sofferenza diventa mia, diventa preghiera e supplica.



Nei volti dei malati si può rivedere il volto di Cristo, eppure facciamo fatica ad accettare questa condizione



Basta pensare a me. Non avevo neanche per la testa di fare queste cose. Non avevo più voglia di vivere. I morti mi hanno sempre fatto paura così come i malati terminali. Ora tutti i giorni vedo la morte in faccia. Il nostro fine è che i malati terminali possano incontrare Cristo. La morte è come il momento del matrimonio nel quale si apre la porta della chiesa con il fidanzato che aspetta sull’altare la fidanzata. Una notte muore un malato di aids e un’infermiera mi ricorda che quando le donne andavano al sepolcro avevano con sé gli aromi e i profumi. Da allora anche da noi si fa così.


La bellezza di Cristo è capace di liberare il cuore dell’uomo?



Un ragazzo di 22 anni, piegato dall’aids, mi ha detto: «Padre, io non ho mai avuto nessuno come compagno nella vita, l’unico è stato l’aids. Oggi finalmente capisco cosa cercavo». Gli ammalati chiedono continuamente i sacramenti. Una mamma di 32 anni si è ritrovata con due bambine di 7 e 8 anni, affette da malattie congenite, morte in ospedale: è rimasta da sola con un bambino e ha scelto di adottarne altri 12 malati di aids. C’è anche chi, fra gli ammalati, ha scritto un canto per ricordare che la morte libera dalle catene del corpo e fa incontrare Cristo. Crispino, 34 figli sparsi ovunque, prima di morire ha organizzato una cena per festeggiare l’ultimo compleanno con tutti i malati. I racconti sarebbero molti.


Facciamo un passo indietro. Ripercorriamo le tappe della sua vocazione



All’età di 7 anni sento la prima chiamata, ma purtroppo ero troppo piccolo. A 11 anni durante una confessione il sacerdote mi chiese se mi sarebbe piaciuto diventare prete, dissi di sì un po’ anche per il timore della sua reazione. Poi mi accorsi che quel sì aveva cambiato la mia vita: desideravo essere totalmente di Cristo.


Quali sono state le difficoltà principali?



Durante gli anni della contestazione sono entrato in crisi. Ero irrequieto: la voglia di infinito e di totalità; il cristianesimo che avevo accolto non era in sintonia con il ‘68. A Padova da giovane prete incontro Potere Operaio e lì perdo la testa. Divento simpatizzante con tutto quello che ne seguì: i superiori mi mandarono - dopo il divieto da parte del vescovo di predicare in parrocchia - a Salerno a seguire i carcerati.


La prima svolta avvenne durante una manifestazione



Nel maggio del 1975 avevo aderito a uno sciopero contro l’imperialismo americano in Vietnam. Quattro ragazzi (di cui uno mi ha scritto questa settimana) del primo anno del liceo dove insegnavo mi videro con il giornale di «Lotta continua» e mi dissero: «Padre non è così che si cambia il mondo, lei dovrebbe insegnarcelo. Il mondo si cambia, il suo cuore cambia se incontra Cristo». Rimasi sconvolto. Incominciai a seguire l’esperienza di Cl. Da lì è iniziata la mia avventura fino al 1989 quando una crisi affettiva mi ha messo ko: da un lato capivo che questa persona era importante per la mia vita, dall’altra ero prete e la mia vocazione era fuori discussione.


Poi l’incontro e il rapporto con don Giussani



Consegnai la mia situazione a don Giussani, che mi disse: «Finalmente è accaduto il miracolo, adesso diventerai un uomo». Diventare un uomo ha voluto dire fare i conti con la mia umanità che non pensavo così drammatica e così dura. Il 7 settembre 1989 don Giussani mi ha accompagnato all’aeroporto per il Paraguay. Mi sono buttato in un disegno del quale Giussani era il tessitore e Dio la mano.




(Zacuff)
00sabato 26 dicembre 2009 14:35
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