Pascendi Dominicis Gregis e Il Giuramento Antimodernista

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Cattolico_Romano
00domenica 27 settembre 2009 07:20
IL GIURAMENTO ANTIMODERNISTA

Acta Apostolicæ Sedis, 1910, pp. 669-672

IO (NOME). fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente.
Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza e può anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da lui compiute (cf Rm 1,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi
effetti.

Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell'origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo.

Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli.

Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli apostoli tramite i padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell'evoluzione dei dogmi da un significato all'altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito.

Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall'oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell'intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, creatore e signore nostro, ha detto, attestato e rivelato.

Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell'enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi.

Riprovo altresì l'errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana.

Disapprovo pure e respingo l'opinione di chi pensa che l'uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati.

Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l'analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema.

Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l'insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull'origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell'aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l'esame di qualsiasi altro documento profano.

Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c'è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l'abilità e l'ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli apostoli.

Mantengo pertanto e fino all'ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell'episcopato agli apostoli (1), non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa (2).

Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell'insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.



Note:

1 Ireneo, Adversus haereses, 4, 26, 2: PG 7, 1053.
2 Tertulliano, De praescriptione haereticorum, 28: PL 2, 40.



san Pio X


Per quanto non si usi più fare questo giuramento, esso NON potrà mai essere "abolito", entrato nella storia del Magistero della Chiesa nè è diventato parte integrante e, come dice san Paolo, parte di quel DEPOSITO DELLA FEDE che accresce la nostra sana Tradizione...


“Pascendi Dominici Gregis”: l’attualità dell’antimodernismo di san Pio X


Storici e teologi a convegno per il centenario dell’enciclica


Di Luca Marcolivio

ROMA, giovedì, 29 novembre 2007 (ZENIT.org).- L’enciclica Pascendi Dominici Gregis compie cent’anni ma rimane attualissima. Se ne è parlato in un convegno tenutosi martedì sera presso la Pontificia Università San Tommaso.

Pascendi Dominici gregis - Lettera Enciclica - 8 settembre 1907
www.totustuus.biz/users/magistero/p10pasce.htm

Gli aspetti eminentemente storici dell’enciclica sono stati esposti da Roberto de Mattei, docente di Storia del cristianesimo all’Università di Cassino e all’Università Europea di Roma. “L’elezione di Papa Pio X nel 1903 – ha esordito il professor de Mattei – fu, in primo luogo, un fatto inaspettato, $risultando favorito, in quel conclave, il cardinal Rampolla”.

De Mattei ha poi illustrato lo sfondo storico-culturale di quegli anni: “L’inizio del secolo XX si caratterizza per una grande accelerazione del progresso tecnologico e sociale. Modernismo e progressismo sono le parole chiave del pensiero dell’epoca che inizia a permeare il mondo cattolico, anche grazie a notevoli mezzi finanziari”.

“In queste circostanze la salita al soglio pontificio del Cardinal Giuseppe Sarto, con il nome di Pio X – ha proseguito lo storico – ruppe certe dinamiche interne alla Chiesa stessa. Egli era un uomo di autentica pietà e assoluta ortodossia, dotato di grandi capacità pastorali, ma poco incline alla diplomazia e al compromesso”.

“Lavorando in stretta simbiosi con il Segretario di Stato vaticano, il Cardinale Merry Del Val – ha spiegato De Mattei – si circondò di pochi e fidati collaboratori in ambito curiale, attirandosi notevoli ostilità da parte di una grossa fetta del mondo cattolico”.

“Sin dai primi anni del pontificato lavorò a quattro importanti obiettivi: il nuovo Catechismo; il nuovo Codice di Diritto Canonico; l’incoraggiamento dei fedeli a una comunione frequente; la lotta al modernismo. Quest’ultimo punto ebbe uno sviluppo significativo con la pubblicazione del decreto Lamentabili, una sorta di nuovo Sillabo nel quale citava 65 errori delle nuove dottrine”.

“Di poco successiva è la Pascendi, pubblicata in un’epoca in cui il cattolicesimo aveva già, oltre ai nemici dichiarati, molti avversari occulti che operavano al suo interno – ha aggiunto – . Costoro, ovviamente erano i più subdoli e pericolosi, avendo una conoscenza diretta della Chiesa. Il loro obiettivo era quello di trasformare la Chiesa da dentro lasciandone intatto l’involucro strutturale”.

“La lotta al modernismo si concretizzò essenzialmente nei seguenti punti:

- un ritorno alla dottrina tomista;
- un maggiore controllo sui seminari con relativa sospensione di quei formatori che risultassero ‘infetti dal modernismo’;
- vagliare le pubblicazioni a stampa, proibendo le letture contro la morale;
- istituzione dei ‘censori ecclesiastici’;
- proibizione dei congressi per sacerdoti non autorizzati dai Vescovi;
- istituzione di ‘consigli di vigilanza’ per il clero;
- obbligo da parte dei Vescovi di riferire ogni quattro anni alla Santa Sede sul rispetto dei punti sopra elencati”.


“Con il decreto del 1° settembre 1907, il Papa impose il ‘giuramento antimodernista’: fu un colpo mortale a questa corrente di pensiero che, caduta nel dimenticatoio per oltre cinquant’anni, riemerse come un fiume carsico soltanto a cavallo del Concilio Vaticano II”, ha continuato.

“Fu in quegli anni che Jacques Maritain affermò: ‘il modernismo storico fu un modesto raffreddore da fieno, se paragonato all’attuale febbre modernista’. Pochi anni dopo, nel 1972, papa Paolo VI, lanciò il celebre allarme sul ‘fumo di satana’ ormai ‘entrato nel tempio di Dio’”.

“A distanza di un secolo – ha poi concluso de Mattei – la Pascendi Dominici Gregis con la sua condanna del modernismo quale ‘sintesi di tutte le eresie’ è ancora attualissima ed è auspicabile che i cattolici la riscoprano per contrastare il modernismo attuale, ben più nocivo di quello del passato, sia per i mezzi intellettuali più perfidi e sopraffini, sia perché ripete un errore che è stato già condannato”.

Di carattere filosofico è stata la relazione di Giovanni Turco, docente di Filosofia e Storia all’Università di Udine. “Con il modernismo – ha affermato – la storia, la religione e la ragione sono depotenziate: la storia diventa fenomeno del divenire e la religione sentimento religioso. Questo percorso impedisce di accogliere la fede autenticamente intesa come adesione alla rivelazione”.

“Le conseguenze più deteriori del modernismo – ha aggiunto il professor Turco – sono l’attribuzione di una medesimo valore a tutte le religioni, la riduzione della carità a filantropia, la riduzione della ragione a doxa (opinione) fino ad arrivare, in ultima analisi all’indifferentismo assiologico e all’agnosticismo. La ragione umana, al contrario, è capace di riconoscere i doveri dell’uomo verso Dio”.

“La strada da seguire è ben diversa e implica un ritorno alla metafisica, ovvero all’incontro libero e liberante tra l’intelligenza e la realtà, sulla scia di san Tommaso”, ha poi concluso.

È poi seguito il contributo di padre Giovanni Cavalcoli, OP, docente alla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna. “Papa Pio X – ha sottolineato – non era un prelato dagli spiccatissimi interessi accademici. Era tuttavia un santo e, con grande spirito sovrannaturale, intuì quanto le dottrine moderniste erano ispirate dalla superbia del demonio”.

“Quanto al modernismo attuale – ha proseguito il religioso – esso compie l’errore di giudicare il tomismo e il magistero della Chiesa con criteri, per l’appunto, modernisti. In questa concezione della fede, l’uomo sente Dio come immanente o interno a sé; Dio si manifesta nel sentimento e nella coscienza, quindi non è trascendente”.

“Oggi il modernismo è ben più pervasivo di cent’anni, avendo contagiato anche una parte della Curia cardinalizia e dell’espiscopato. Il clero dovrebbe, al contrario, regolare il suo agire sulla base dell’umile affidamento a Cristo e al magistero, non certo sulla base del successo facile o del rispetto umano”, ha poi concluso.

La chiusura del convegno è stata affidata a monsignor Luigi Negri, Vescovo di San Marino e Montefeltro. Anche monsignor Negri ha accennato al problema dell’equivoco post-conciliare ricordando la condanna della “ermeneutica della discontinuità” da parte di Papa Benedetto XVI. “Un’ermeneutica che vede il Vaticano II come l’alba di una nuova chiesa”, ha commentato.

“San Pio X – ha affermato Negri – ha dimostrato come tutte quelle correnti vicine al razionalismo e al modernismo portano inevitabilmente all’ateismo. Esse rappresentano un impietoso tentativo di eliminare Dio dalla considerazione della vita e della società. Se si elimina il divino, l’uomo diventa oggetto di manipolazione in tutti i sensi”.

“I totalitarismi non sono stati ‘incidenti di percorso’ ma consapevoli e deliberate costruzioni di società senza Dio”, ha aggiunto il Vescovo.

“A tutto ciò si contrappone la Dottrina Sociale della Chiesa che, da circa un secolo e mezzo, pone al centro la dignità della persona umana, la priorità della famiglia, la libertà scolastica, secondo i principi della sussidiarietà che il modernismo nega, attribuendo allo Stato un ruolo privilegiato: non a caso il totalitarismo rimpiazzò l’Europa delle nazioni con l’Europa degli Stati”, ha ricordato.

“Oggi ci troviamo di fronte a una battaglia epocale tra una concezione autentica e una concezione razionalista e ‘massonica’ della Chiesa – ha proseguito il presule –. Parimenti c’è un ecumenismo giusto, quello che affianca al dialogo la missione e un ecumenismo ‘d’accatto’ che contrappone dialogo e missione”.

“All’inizio del secolo attuale, nell’anno giubilare è stata pubblicata la dichiarazione Dominus Jesus che indica chiaramente nella Chiesa la fonte della verità: auspichiamo che al pari del Sillabo e della Pascendi, la Dominus fra cento anni possa essere ricordato come il documento magisteriale che ha impedito la dissoluzione del cattolicesimo nel mondo”, ha poi concluso.
Cattolico_Romano
00domenica 27 settembre 2009 07:20
“Instaurare omnia in Christo”....

con queste parole san Pio X iniziava il suo Pontificato all'inizio del '900....
quale significato hanno per noi oggi? ce lo dice Giovanni Paolo II quando nel 1993 andò a visitare la Parrocchia a LUI DEDICATA a Roma....e nei tre incontri avuti sia con i bambini, che con i giovani che con il CONSIGLIO PASTORALE......ebbe a portare a tutti quale esempio SAN PIO X sottolineando l'importanza di avere certo una parrocchia ma che fosse anche intitolata a QUALCUNO CHE SIA DI ESEMPIO A NOI OGGI....


Visita alla parrocchia di San Pio X, 31 gennaio 1993

diceva Giovanni Paolo II:

San Pio X ha trovato queste parole: “Instaurare omnia in Christo”. “Instaurare”, innovare, cercare in Lui sempre il recupero, l’instaurazione, la restaurazione di quello che è giusto, che è umano, che è pacifico, che è bello, che è sano e che è santo.

“Instaurare omnia” e “omnia” vuol dire la vita personale, la vita delle famiglie

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INSTAURARE OMNIA IN CHRISTO fu anche il motto tanto caro a don Orione....TANTO DA RICEVERE una indulgenza a chi lo recitasse...

Don Orione chiese una particolare indulgenza legata alle "parole "Instaurare omnia in Christo" dell'apostolo Paolo, si pronuncino esse da una sola o più persone con frase tutta unita, o si pronuncino staccate e da più individui, (come si suole nelle Case della Congregazione, dicendo: Instaurare omnia e rispondendosi: in Christo!), avendole come una aspirazione e un voto delle anime nostre che Cristo risusciti in tutti i cuori, e rinnovi in sé tutto l'uomo e tutti gli uomini".

Già il giorno seguente la domanda di Don Orione, Mons. Bandi rispondeva accordando l'indulgenza all'"invocazione "Instaurare omnia in Christo "; sia che si reciti da una sola o più persone, con frase tutta unita, e separata; e ciò toties quoties nella giornata, purché recitata devotamente".

Quest'uso del motto "Instaurare omnia in Christo" come giaculatoria fu tanto caro e inculcato da Don Orione perché sintesi di identità e di programma della Piccola Opera della Divina Provvidenza. E' bello che continui ancor oggi nella Famiglia orionina, sia nelle preghiere che in incontri comunitari o pubblici, sia da parte di religiosi che di laici: Instaurate omnia in Christo......
Cattolico_Romano
00domenica 27 settembre 2009 07:21
...nel 2007 l'Encilica ha compiuto 100 anni....ricordo che ci fu qualche trafiletto qua e la in qualche rivista Cattolica, ma nulla d più...eppure rileggendola e meditandola, si comprende quanto san Pio X fu profeta...
Ciò che descrive è vero che riguarda la SUA EPOCA, ma ciò che resta impressionante è che i pericoli da lui descritti NOI LI STIAMO  vivendo pienamente realizzati... Imbarazzato

DALL'ENCICLICA “PASCENDI DOMINICI GREGIS”

CONTRO IL MODERNISMO

Ma ad accecare l'animo e trascinarlo nell'errore assai più di forza ha in sé la superbia: la quale, trovandosi nella dottrina del modernismo quasi in un suo domicilio, da essa trae alimento per ogni verso e riveste tutte le forme. Per la superbia infatti costoro presumono audacemente di se stessi e si ritengono e si spacciano come norma di tutti. Per la superbia si gloriano vanissimamente quasi essi soli possiedano la sapienza, e dicono gonfi e pettoruti: "Noi non siamo come il rimanente degli uomini"; e per non essere di fatto posti a paro degli altri, abbracciano e sognano ogni sorta di novità, le più assurde. Per la superbia ricusano ogni soggezione, e pretendono che l'autorità debba comporsi colla libertà. Per la superbia, dimentichi di se stessi, pensano solo a riformare gli altri, né rispettano in ciò qualsivoglia grado fino alla potestà suprema. No, per giungere al modernismo, non vi è sentiero più breve e spedito della superbia.

(...)

Quindi accade che la medicina giunga talora troppo tardi, quando cioè pel troppo attendere il male ha già preso piede. Vogliamo adunque che i Vescovi, deposto ogni timore, messa da parte la prudenza della carne, disprezzando il gridio dei malvagi, soavemente, sì, ma con costanza, adempiano ciascuno le sue parti; memori di quanto prescriveva Leone XIII nella Costituzione Apostolica "Officiorum": "Gli Ordinari, anche come Delegati della Sede Apostolica, si adoperino di proscrivere e di togliere dalle mani dei fedeli i libri o altri scritti nocivi stampati o diffusi nelle proprie diocesi". Con queste parole si concede, è vero, un diritto: ma s'impone in pari tempo un dovere. Né stimi veruno di avere adempiuto cotal dovere, se deferisca a Noi l'uno o l'altro libro mentre altri moltissimi si lasciano divulgare e diffondere. Né in ciò vi deve rattenere il sapere che l'autore di qualche libro abbia altrove ottenuto l'Irnprimatur; sì perché tal concessione può essere simulata, sì perché può essere stata fatta per trascuratezza o per troppa benignità e per troppa fiducia nel l'autore, il quale ultimo caso può talora avverarsi negli Ordini religiosi. [...]

Ciò che loro sia scrive a colpa, essi l'hanno per sacrosanto dovere. Niuno meglio di essi conosce i bisogni delle coscienze perché si trovano con queste a più stretto contatto che non si trovi la potestà ecclesiastica. Incarnano quasi in sé quei bisogni tutti: e quindi il dovere per loro di parlare apertamente e di scrivere. Li biasimi pure l'autorità, la coscienza del dovere li sostiene, e sanno per intima esperienza di non meritare riprensioni ma encomii. Pur troppo essi sanno che i progressi non si hanno senza combattimenti, né combattimenti senza vittime: e bene, saranno essi le vittime, come già i profeti e Cristo. Né perché siano trattati male, odiano l'autorità: concedono che ella adempia il suo dovere. Solo rimpiangono di non essere ascoltati, perché in tal guisa il progredire degli animi si ritarda: ma verrà senza meno il tempo di rompere gl'indugi, giacché le leggi dell'evoluzione si possono raffrenare, ma non possono affatto spezzarsi. E così continuano il lor cammino, continuano benché ripresi e condannati, celando un'incredibile audacia col velo di un'apparente umiltà. Piegano fintamente il capo: ma la mano e la mente proseguono con più ardimento il loro lavoro. E così essi operano scientemente e volentemente; sì perché è loro regola che l'autorità debba essere spinta, non rovesciata; si perché hanno bisogno di non uscire dalla cerchia della Chiesa per poter cangiare a poco a poco la coscienza collettiva; il che quando dicono, non si accorgono di confessare che la coscienza collettiva dissente da loro, e che quindi con nessun diritto essi si dànno interpreti della medesima.

Non si curano poi, nello scrivere, di insistere sulla propria sincerità: sono essi già noti presso i razionalisti, sono già lodati siccome militanti sotto una stessa bandiera; della quale lode, che ad un cattolico dovrebbe fare ribrezzo, essi si compiacciono [...].

[...] quando parlasi di modernismo, non parlasi di vaghe dottrine non unite da alcun nesso, ma di un unico corpo e ben compatto, ove chi una cosa ammetta uopo è che accetti tutto il rimanente. Perciò abbiam voluto altresì far uso di una forma quasi didattica, né abbiamo ricusato il barbaro linguaggio onde i modernisti fanno uso. Ora, se quasi di un solo sguardo abbracciamo l'intero sistema, niuno si stupirà ove Noi lo definiamo, affermando esser esso la sintesi di tutte le eresie. Certo, se taluno si fosse proposto di concentrare quasi il succo ed il sangue di quanti errori circa la fede furono sinora asseriti, non avrebbe mai potuto riuscire a far meglio di quel che han fatto i modernisti. Questi anzi tanto più oltre si spinsero che, come già osservammo, non pure il cattolicesimo ma ogni qualsiasi religione hanno distrutta. Così si spiegano i plausi dei razionalisti: perciò coloro, che fra i razionalisti parlano più franco ed aperto, si rallegrano di non avere alleati più efficaci dei modernisti.

[…] queste intime esperienze quali dai modernisti si spacciano [...] se queste esperienze hanno si grande forza e certezza, non l'avrà uguale quella esperienza che molte migliaia di cattolici affermano di avere, che i modernisti cioè battono un cammino sbagliato?

Per lo che il Nostro Predecessore Gregorio XVI a buon diritto scriveva (Lett. Enc. "Singulari Nos", 25 giugno 1834): "È grandemente da piangere nel vedere fin dove si profondino i deliramenti dell'umana ragione, quando taluno corra dietro alle novità, e, contro l'avviso dell'Apostolo, si adoperi di saper più che saper non convenga, e confidando troppo in se stesso, pensi dover cercare la verità fuori della Chiesa cattolica, in cui, senza imbratto di pur lievissimo errore, essa si trova".

Ma qui già siamo agli artifici con che i modernisti spacciano la loro merce. Che non tentano essi mai per moltiplicare gli adepti? Nei Seminari e nelle Università cercano di ottenere cattedre da mutare insensibilmente in cattedre di pestilenza. Inculcano le loro dottrine, benché forse velatamente, predicando nelle chiese; le annunciano più aperte nei congressi: le introducono e le magnificano nei sociali istituti. Col nome proprio o di altri pubblicano libri, giornali, periodici.

Per dar poi, o Venerabili Fratelli, disposizioni più generali in sì grave materia, se nelle vostre diocesi corrono libri perniciosi, adoperatevi con fortezza a sbandirli, facendo anche uso di solenni condanne.

[…] vigilino i Vescovi che i librai per bramosia di lucro non spaccino merce malsana: il certo è che nei cataloghi di taluni di costoro si annunziano di frequente e con lode non piccola i libri dei modernisti. Se essi ricusano di obbedire, non dubitino i Vescovi di privarli del titolo di librai cattolici; [...].

[…] ordiniamo una osservanza più diligente di quanto si prescrive nell'articolo XLII della citata Costituzione "Officiorum", cioè: "È vietato ai sacerdoti secolari, senza previo permesso dell'Ordinario, prendere la direzione di giornali o di periodici". Del quale permesso, dopo ammonitone, sarà privato chiunque ne facesse mal uso. Circa quei sacerdoti, che hanno titoli di corrispondenti o collaboratori, poiché avviene non raramente che pubblichino, nei giornali o periodici, scritti infetti di modernismo, vedano i Vescovi che ciò non avvenga; e se avvenisse, ammoniscano e diano proibizione di scrivere. Lo stesso con ogni autorità ammoniamo che facciano i Superiori degli Ordini religiosi: i quali se si mostrassero in ciò trascurati, provvedano i Vescovi, con autorità delegata dal Sommo Pontefice.

Ricordammo già sopra i congressi e i pubblici convegni come quelli nei quali i modernisti si adoprano di propalare e propagare le loro opinioni. I Vescovi non permetteranno più in avvenire, se non in casi rarissimi, i congressi di sacerdoti. Se avverrà che li permettano, lo faranno solo a questa condizione: che non vi si trattino cose di pertinenza dei Vescovi o della Sede Apostolica, non vi si facciano proposte o postulati che implichino usurpazione della sacra potestà, non vi si faccia affatto menzione di quanto sa di modernismo, di presbiterianismo, di laicismo.

Scrutino con attenzione gl'indizi di modernismo tanto nei libri che nell'insegnamento; con prudenza, prontezza ed efficacia stabiliscano quanto è d'uopo per la incolumità del clero e della gioventù. Combattano le novità di parole, e rammentino gli ammonimenti di Leone XIII (S. C. AA. EE. SS., 27 gennaio 1901): "Non si potrebbe approvare nelle pubblicazioni cattoliche un linguaggio che ispirandosi a malsana novità sembrasse deridere la pietà dei fedeli ed accennasse a nuovi orientamenti della vita cristiana, a nuove direzioni della Chiesa, a nuove ispirazioni dell'anima moderna, a nuova vocazione del clero, a nuova civiltà cristiana". Tutto questo non si sopporti così nei libri come dalle cattedre.

È parimente officio dei Vescovi impedire che gli scritti infetti di modernismo o ad esso favorevoli si leggano se sono già pubblicati, o, se non sono, proibire che si pubblichino. Qualsivoglia libro o giornale o periodico di tal genere non si dovrà mai permettere o agli alunni dei Seminari o agli uditori delle Università cattoliche: il danno che ne proverrebbe non sarebbe minore di quello delle letture immorali; sarebbe anzi peggiore, perché ne andrebbe viziata la radice stessa del vivere cristiano.

Assecondi Iddio i Nostri disegni e Ci prestino aiuto quanti di vero amore amano la Chiesa di Gesù Cristo. Ma di ciò in altra opportunità. A Voi intanto, o Venerabili Fratelli, nella cui opera e zelo sommamente confidiamo, imploriamo di tutto cuore la pienezza dei lumi Celesti, affinché in tanto periglio delle anime per gli errori che da ogni banda s'infiltrano, scorgiate quel che far vi convenga; e con ogni ardore e fortezza lo eseguiate. Vi assista colla Sua virtù Gesù Cristo autore e consumatore della nostra fede; vi assista coll'intercessione e coll'aiuto la Vergine Immacolata profligatrice di tutte le eresie.

E Noi, come pegno della Nostra carità e delle divine consolazioni fra tante contrarietà, impartiamo con ogni affetto a voi, al vostro clero ed ai vostri fedeli l'Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 settembre 1907, nell'anno V del Nostro Pontificato.
Cattolico_Romano
00domenica 27 settembre 2009 07:21

La sfida al modernismo nell’enciclica Pascendi
 di Emanuele Samek Lodovici


Nell’analisi della Pascendi Dominici Gregis (1907), l’enciclica antimodernistica di San Pio X, Samek Lodovici mette in luce gli aspetti di attualità del documento magisteriale, la sua eccezionale carica teoretica e, di converso, il dogmatismo insito nel modernismo. Perché il giudizio degli storici non può qualificare il valore dell’enciclica.

[Da AA.VV., «Cultura, scuola e società nel cattolicesimo lombardo del primo Novecento», Atti del convegno di studio, Brescia, 24-25 novembre 1979, Ce.Doc., Brescia, 1981, pp. 173-181]

Il mio intervento sarà piuttosto atipico rispetto agli interventi che ml hanno preceduto e, presumibilmente, rispetto a quelli che mi seguiranno. Vale a dire che non sarà tecnicamente storico, a meno che per storia non si intenda quella di cui parla il grande storico dell’età vittoriana, Litton Strachey, il quale dice, se ben ricordo, che l’ignoranza è il requisito dello storico; solo grazie a questa ignoranza egli può parlare, perche seleziona grazie alla sua ignoranza ciò che gli fa comodo fra l’enorme cumulo di materiale prodotto dalla storia.
Dopo questa dichiarazione di voto, passo a spiegare il titolo della mia comunicazione perché ha una dose di ambiguità. «Sfida al modernismo nell’enciclica Pascendi». Di quale modernismo intendo parlare? La mia intenzione ê far vedere come e possibile cogliere, dall’enciclica Pascendi, alcuni criteri di interpretazione di tutti i tipi di modernismo. Si può subito vedere la possibile obiezione al mio discorso: «modernismo» è una categoria troppo vasta, essendo i modernismi, o le posizioni moderniste, estremamente frastagliate. Ma, naturalmente, parlare per categorie ha la sua utilità. In fisica, per esempio, si usano concetti come «vuoto assoluto»; in termologia come «zero assoluto». Hanno, questi concetti, anche se il vuoto assoluto non è mai realizzabile sperimentalmente, il loro valore. Come il suo valore ha per esempio, parlare di ragione, o di idealismo, oppure di scientismo. Naturalmente ha valore proprio per individuare alcuni elementi.

Devo anche indicare un elemento che mi permette di parlare qui tra voi. Il titolo di questo convegno ê «Cultura, scuola e società». Io parto dal presupposto che anche un’enciclica sia cultura, fino a prova contraria. Ora intendo far vedere come l’enciclica Pascendi almeno in due punti (ma ce ne sono altri), sia assolutamente moderna, perché è in grado di parlare e di individuare temi di estrema rilevanza speculativa. Per far questo leggerò due punti dell’enciclica che mi permetteranno di fare alcune brevissime considerazioni, sperando di essere chiaro.
Il primo punto che leggerò, è il punto in cui l’autore dell’enciclica [che sia Pio X o che siano altri che hanno suggerito e che poi Pio X ha assunto per proprio è un problema irrilevante], prende a tema il concetto di dogma nel modernismo che, secondo me, è il concetto di dogma di tutti i tipi di modernismo.

Lo leggo e poi lo commento. Purtroppo non esiste una traduzione sufficientemente adeguata dell’enciclica; la traduzione che ora leggerò è una traduzione d’epoca, ma piuttosto carente. Ecco il passo che m’interessa: «A conoscere però bene la natura del dogma, bisogna ricercare innanzitutto quale relazione passi fra le formule religiose ed il sentimento religioso; nel che non troverà difficoltà chi tenga fermo che il fine di tali formule altro non è se non di dar modo al credente di rendersi ragione della propria fede». Fin qui quindi l’interpretazione che l’enciclica dà del valore delle formule nel modernismo mi sembra sia un’interpretazione quanto mai accettabile dal punto di vista dell’ortodossia. Il dogma è il modo con cui il credente rende ragione a se stesso della propria fede. Però l’enciclica continua: «Per la qual cosa esse formule stanno come di mezzo fra il credente e la fede di lui. Per rapporto alla fede sono espressioni inadeguate del suo oggetto, e sono dai modernisti chiamate ‘simboli’; per rapporto al credente si riducono a meri strumenti».
 
Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che le formule dogmatiche hanno due caratteristiche fondamentali per il modernismo come categoria. La prima caratteristica ê quella di essere «simboli» rispetto a ciò che esse formule vogliono dire. Prendiamo una formula normale: Dio è persona. «Dio è persona» è simbolo rispetto alla verità che indica. Simbolizzare vuol dire indicare qualcosa, «stare per» qualcosa d’altro. Poi, aggiunge ancora l’enciclica, le formule hanno un altro valore: sono strumenti riguardo al credente, strumenti attraverso i quali quello esprime la sua fede. Quanto invece all’oggetto della fede le formule dogmatiche sono puri simboli.

Continua a questo punto l’enciclica: «Non è lecito pertanto in nessun modo sostenere che essi esprimano una verità assoluta. Come simboli sono immagini di verità [cioè a dire: non sono verità], e perciò da doversi attaccare al sentimento religioso... Come strumenti sono veicoli di verità, e perciò da adattarsi a loro volta all’uomo...». Provo a riassumere questo discorso. La formula dogmatica ha, rispetto all’oggetto, una funzione di pura indicazione: non tocca l’oggetto; ha una relazione con l’oggetto ma non lo tocca, è un’immagine dell’oggetto. Per quanto riguarda invece il soggetto, questa formula è uno strumento. Vi è però un inciso estremamente importante in questa dichiarazione dell’enciclica, che me la rende assolutamente attuale. Dove sta questo inciso? Là dove dice che questo simbolo, che rispetto all’oggetto non ha un valore se non indicativo, non «morde» assolutamente nell’oggetto, questo simbolo è sempre in relazione al soggetto, è sempre in funzione del soggetto. Ora, vorrei far vedere come questo aspetto sia estremamente importante per individuare uno di quelli che io ritengo i più gravi errori teoretici della teologia moderna. E qui qualcuno potrà subito vedere che non mi interessa tanto il riferimento ad autori contemporanei dell’enciclica quanto far vedere come la carica teoretica dell’enciclica possa valere adesso; mi interessa, in ultima analisi, il carattere paradossalmente moderno di una enciclica contro il modernismo.

Dove sta il carattere assolutamente moderno di un’enciclica di questo tipo? Sta nel dire: badate che il grande rischio di una posizione che parla delle formule dogmatiche come puri simboli, è quella di sostituire alla relazione all’oggetto che la formula dovrebbe avere — e che qui sembra avere — la mia relazione alla formula. Vediamo di far vedere come questo sia possibile. Se al posto di dire «Dio è persona», come una formula che tocca in qualche modo qualche cosa al di là di essa, e cioè Dio, sotto forma di un tu, un tu avente una consistenza, se al posto di quella formula riferita ad un oggetto io dico la stessa formula ma non più riferita all’oggetto bensì al soggetto, vuol dire che tutte le volte che dico «Dio è persona» non faccio altro che dire che io credo che Dio è persona. Cioè sostituisco alla relazione che la formula ha all’oggetto, la mia relazione di soggetto alla formula.

Proviamo un attimo a vedere questo rovesciamento con qualche esempio, perche è molto importante vederne le applicazioni nel mondo cattolico. Proviamo a prendere una frase qualunque. Quando io dico, per esempio, «nella vita religiosa quello che conta è Dio». Proviamo a vedere come questo termine «Dio» può improvvisamente e progressivamente sparire e sostituirsi ad esso la relazione che il soggetto ha a questo termine. Quando alla frase «nella vita religiosa quello che conta è Dio», sostituisco la frase «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza di Dio» che cosa avviene? Avviene che il termine «Dio» comincia ad avere un senso soltanto se è legato e riferito a un termine antropologico come «esperienza di Dio». Ma poi la progressiva sparizione del termine può continuare. Come quando dico «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza della fede». Oppure quando vado a un livello successivo, e dico «nella vita religiosa quello che conta è l’esperienza di cooperazione».
 
A un certo momento al posto della formula «Dio» in cui vi è un contenuto significativo di possibile confutazione, viene sostituita la mia relazione a questa formula. Badate che cosa avviene. Avviene che il valore di assolutezza della parola Dio, viene contenuto ormai nella formula antropologica, nella «esperienza di cooperazione». Vogliamo avere un esempio di questo, alla portata dell’esperienza pratica di tutti? Credo che a molti possa capitare, o sia capitato, di sentire in chiesa un canto di questo tipo: «Ubi charitas et amor ibi Deus est» - «Laddove c’è carità e amore, lì c’è Dio». Il significato sottile che può essere colto in questo canto è che, in quanto vi è carità e amore, allora c’è Dio. C’è una citazione di Buonaiuti, perfettamente calzante rispetto a questo atteggiamento: che cosa è l’Eucarestia? Il fatto che noi siamo insieme. Ma allora vuol dire che il senso della formula come riferita a un oggetto altro da me è perduto: rimane il fatto che noi crediamo a quella formula, rimane il fatto che noi poi siamo insieme: e quel termine antropologico viene caricato di valori divini.

Questo processo, di cui il modernismo indicato dall’enciclica è soltanto un momento, una stazione, è cominciato con Feuerbach e continua oggi. C’è una citazione, a mio avviso molto .agghiacciante, di Karl Rahner, che rende perfettamente questo tipo di discorso; cioè quando la formula dogmatica [in questo caso la Resurrezione] viene sostituita con una formula antropologica. Mi permetto semplicemente di leggerlo. Si trova nel IX volume degli scritti di Teologia; ripeto ancora una volta che il mio intervento non ê storico, e di questo mi scuso. Ma l’avevo indicato all’inizio.


Nel IX volume degli scritti a p. 551, K. R. si chiede che cosa vuol dire il mistero della risurrezione, il fatto che Cristo è risorto. E dice: «Per spiegarlo potremmo tranquillamente cominciare come la cristologia anteriore a Paolo e a Giovanni: con l’uomo Gesù di Nazareth. Noi dovremmo, in partenza, parlare ad esempio della sua resurrezione in modo tale che essa (anche se miracolo in assoluto) subito fosse intesa come la manifestazione della nostra propria assoluta autoafferrnazione nata dalla grazia. Sicché al limite non possa essere fraintesa [la resurrezione di Gesù di Nazareth, sottinteso] come ritorno miracoloso di un morto nel nostro ambito di esistenza».

Che cosa vuol dire per Rahner che Gesù Cristo è risorto? Vuol dire che noi siamo pieni di grazia; cioè vuol dire che, invece di dire qualcosa riferentesi ad un oggetto, io ho una relazione a questo qualcosa detto. La formula dogmatica non si riferisce più a un oggetto, ma indica soltanto ed esclusivamente la mia relazione, la relazione che io ho con quella formula.
Prendiamo il secondo aspetto di attualità dell’enciclica. Laddove l’enciclica parla del modernista credente e si chiede su che cosa il modernista credente basa la sua affermazione di Dio. Anticipo immediatamente la conclusione del passo dell‘enciclica, perché è un po’ difficoltosa; la traduzione, soprattutto, è un po' un mostro di subordinate. La risposta che dà l’enciclica alla questione su che cosa il modernista basi la propria affermazione di Dio riposa su un concetto di esperienza religiosa originaria e in qualche modo nativa, fontale.

Ecco il testo: «Che se poi cerchiamo qual fondamento abbia tale asserzione [sottinteso, dell’esistenza di Dio, nel credente] i modernisti rispondono: l’esperienza individuale. Ma nel dir ciò, se si differenziano dai razionalisti [che negano in questo caso l’esistenza di Dio], cadono nell’opinione dei protestanti e dei pseudo mistici. Cosi infatti essi discorrono [l’enciclica sta riportando la posizione generale come denominátore comune dei modernisti]. Nel sentimento religioso si deve riconoscere quasi una certa intuizione del cuore, la quale mette l’uomo in contatto immediato con la realtà stessa di Dio e gli infonde una tale persuasione della esistenza di lui e della sua azione, sì dentro, sì fuori dell’uomo, da sorpassare di gran lunga ogni convincimento scientifico. Asseriscono pertanto una vera esperienza e tale da vincere qualsivoglia esperienza razionale... Ora, questa esperienza, quando alcuno l’abbia conseguita, è quella che lo costituisce propriamente e veramente credente».

Dopo aver riportato questa posizione, l’enciclica fa l’obiezione. L’obiezione può essere riassumibile così: se il fondamento dell’esistenza di Dio si basa su una esperienza originaria e fontale, un’esperienza religiosa originaria e fontale, con determinate caratteristiche (adorazione, senso di indegnità, ecc.), allora noi dobbiamo dire che laddove vi sia un’esperienza religiosa di questo tipo vi sarà una religione vera. E quindi se noi fondiamo la verità della religione sulla base della pura esperienza religiosa, se noi fondiamo la verità di una religione storica sulla base di queste caratteristiche di una esperienza religiosa originaria, non sarà più possibile dire quale religione è vera; perché tutte saranno vere. Il che è lo stesso che dire tutte saranno false. Ora leggo l’enciclica e poi traggo le conclusioni da questo punto di vista, che è, dal punto di vista della intelligenza dell’enciclica, una individuazione eccezionale di un criterio che oggi, in sede scientifica, è estremamente attuale e cioè del criterio, perché qualche tesi sia considerata vera, che possa essere sottoposta a falsificazione.

«Qui giova subito notare che, posta questa dottrina dell’esperienza unitamente all’altra del simbolismo [di cui si è parlato precedentemente], ogni religione, sia pur quella degli idolatri, deve ritenersi vera». Se il fondamento della verità è l’esperienza, con le caratteristiche tipiche della individualità, autenticità dell’esperienza, «ogni religione, sia pur quella degli idolatri, sarà vera».

Perché non dovrebbe essere possibile che tali esperienze si incontrino in ogni religione? Quale sarà il criterio di verità o di falsità delle religioni, se essa dipenderà dall’esperienza? Perché negare, per esempio, che l’islamismo o l’induismo o anche una ideologia non possano essere veri, se il loro criterio di verità è che siano esperiti, che siano sentiti? È chiaro che l’enciclica vuole sottolineare in modo sottile una cosa: che non è possibile fare dell’esperienza religiosa il criterio di verità di qualcosa. Poiché non si può prescindere dal fatto che questa esperienza si deve tradurre in una formula dogmatica. Questo vuol dire esattamente che se io non indico come questa mia esperienza religiosa si esprima con una formula, è come se io avessi un orologio che mi ticchetta ma senza lancette: ho questa esperienza, ma non so che cosa mi dice questa esperienza. Togliete le lancette, l’orologio funziona, ma certamente non dice, non è significativo.

Perché questo aspetto individuato dall’enciclica è di enorme importanza? perché ci permette di vedere da che parte stia il dogmatismo. Io credo che tutti i presenti sappiano che fa parte delle cose che si affermano ex communiter dictis parlare della Pascendi negativamente, dicendo: non è altro che un digest, una sorta di condensato di dogmatismo, di repressione. Ora, a mio avviso, la dimostrazione tipica di dove stia il dogmatismo sta riflettendo intorno a ciò che stiamo dicendo. E mi spiego perché. Se io dico che il criterio della verità è l’esperienza, un’esperienza che non deve mai tradursi in una dichiarazione precisa qui e adesso, una dichiarazione per esempio del tipo «Dio è persona» (formula dogmatica), allora che cosa avviene? Che da una parte certamente questa esperienza religiosa non potrà mai essere confutata; ma dall’altra non si potrà assolutamente dire che questa esperienza religiosa sia vera. Perché qualche cosa sia vero, e possa essere quindi oggetto di discussione, bisogna che questo qualche cosa venga posto e sia indicato chiaramente come qualcosa su cui possa vertere la discussione. Ma se io evito sempre di esprimere con una dichiarazione o proposizione chiara quello che dico, è dalla mia parte che sta il dogmatismo, perché non potrà mai essere confutato non accettando mai la possibilità di una verifica.

Faccio un esempio riprendendolo da K. Popper che in questo momento è il suggeritone occulto del mio argomentare: immaginiamo che io dica questa frase «esiste una formula latina in grado di curare tutte le malattie infettive». Se dico questa frase, dico certamente una cosa che non può essere confutata, perché non ê possibile sottoporre a esperienza tutte le possibili formule latine. Ma con questo, la mia frase pur essendo inconfutabile, non sarà per questo vera, non sarà un contenuto su cui sarà possibile un giudizio di verità e falsità. E dunque, allora, solo chi rischia la propria esperienza religiosa in formule dogmatiche, solo questi ê colui che è disponibile alla discussione e alla confutazione; non chi non la rischia in formule dogmatiche, chi afferma che esiste una sorta di esperienza religiosa originaria mai traducibile in proposizioni aventi un significato preciso.

Alla relazione di Emanuele Samek Lodovici seguono alcuni interventi. Per completezza di informazione forniamo una sintesi di quelli più significativi e attinenti al tema trattato da Samek (NdC).

Nel primo intervento, di Massimo Marcocchi dell’Università di Pavia, si osserva che «il giudizio degli storici sulla Pascendi è più articolato (e più profondo) di quanto non emerga dall’intervento di Samek Lodovici. Gli storici dicono che la Pascendi ha fatto del modernismo un sistema, incompatibile con la fede cattolica, mentre il modernismo, come ha rilevato lo stesso Samek Lodovici, è stato un fenomeno molto frastagliato e variegato, e non riducibile a sistema. La Pascendi, insomma, per la preoccupazione pastorale di dare una definizione dottrinale del modernismo, ha presentato il movimento come un blocco monolitico, conferendogli una omogeneità che non aveva mai avuto, ed ha pronunciato una condanna globale, senza distinguere tra le posizioni di coloro che avevano operato per la riforma della chiesa nell’alveo della tradizione e gli atteggiamenti di coloro che erano scivolati in eccessi o nell’eresia. Il fatto è che la Pascendi si muove entro una prospettiva filosofico-teologica, che è diversa dalla prospettiva squisitamente storica» (pp. 181-182).

Samek Lodovici al contrario «ha proposto una lettura in chiave filosofica dell’enciclica, ma sarebbe auspicabile una lettura anche in chiave storica, che individui i redatori della Pascendi e ponga in luce il loro orientamento filosofico e teologico, esamini e confronti le redazioni attraverso le quali è passato il testo, valuti le correzioni e il loro significato» (p. 182).
L’intervento si conclude lamentando che «purtroppo ad una ricerca del genere […] frappone un serio ostacolo la chiusura dell’Archivio Vaticano (consultabile fino al 1903)» (ibidem).

Giorgio Rumi, dell’Università Statale di Milano, trova invece che il modernismo, «nonostante i molti sforzi e i significativi risultati raggiunti» (p. 184), attenda ancora di essere adeguatamente studiato nelle sue implicazioni sociali e politiche. Inoltre, sempre secondo Rumi, «forse, solo il trascorrere del tempo darà serenità alla ricerca ed al giudizio, fuori delle ricorrenti tentazioni dell’una e dell’altra apologetica. La prospettiva processuale non paga in termini di duraturo avanzamento della storiografia. Gli studi sull’età del fascismo sono lì a dimostrare valore e significato di questa lenta opera di decantazione» (ibid.).

Segue infine la replica finale di Samek Lodovici.

Replica del prof. Samek Lodovici

Ringrazio l’amico Rumi per avermi interpretato, anche se penso che la migliore interpretazione sia una autointerpretazione. Ora vorrei rispondere ai due interventi, che ritengo interessanti perché mi costringono ad alcune precisazioni. Li riassumo perché proprio per questo possa diventare chiaro dove eventualmente li distinguo.
Chi è intervenuto ha detto che il modernismo non è un sistema. I modernisti — sempre ammettendo che la categoria valga (ma su questo ml pare che il problema non sussista, perché sul tema della categoria non è stato fatto problema) — i modernisti si distinguono l’uno dall’altro, sono figure storiche, evidentemente, con destini privati irripetibili e di conseguenza difficilmente sovrapponibili l’uno con l’altro. Quindi chi è intervenuto ha poi aggiunto: «non è vero che noi storici diciamo che la Pascendi è una raccolta, una sorta di antologia di dogmatismo».

Io penso che questo sia solo parzialmente esatto. Come modesto lettore di storia del modernismo, mi trovo di fronte ad autori come il Poulat, oppure come il Martina, che non dicono esattamente «la Pascendi è una digest di dogmatismo», ma fanno capire, leggendo fra le righe, che ci troviamo di fronte a una sorta di reazione pavloviana di fronte a un fenomeno culturale complesso e inafferrabile come il modernismo e perciò non eccessivamente meditata. Però ritengo che questo tipo di obiezione non sia ancora quella che mi interessa. Credo che quella interessante che è emersa, sia questa: a noi piacerebbe sapere chi ha collaborato alla stesura della Pascendi; se è stato il cardinale Billot, oppure il padre redentorista di cui si parlava, ecc. Perché, si sottintende, se noi conosciamo la genesi del documento possiamo qualificarne il valore e, eventualmente, sapere qual è la scuola teologica che ne è stata la base. Ora, io ritengo che questo tipo di posizione esprima perfettamente la posizione dello storico, ma non quella del filosofo. E mi spiego per quale ragione.

Dire che per capire il valore di un asserto bisogna percorrerne la genesi storica, significa non tener presente che un fatto può avere una genesi, ma il valore di quel fatto non dipende dalla genesi che ha avuto. Farò un esempio molto banale; tutti sanno che, per esempio, nella posizione freudiana si dice che Dio sorge nella coscienza attraverso l’immagine del padre. (Questo è probabilissimo; è probabilissimo, per esempio, che io sia passato per l’immagine di Dio, attraverso il rapporto che ho con mio padre: la oblatività di mio padre, l’autorità di mio padre, la gratificazione che può dare a me come figlio, ecc. Quindi è possibilissimo che io, bambino, arrivi all’idea di Dio attraverso il rapporto con mio padre. Ma questo non vuoi dire affatto che l’idea di Dio dipenda dal rapporto che io ho con mo padre; vuol dire semplicemente che io non posso arrivare a Dio se non attraverso, umanamente, quel tipo di rapporto. Ma non vuol dire che il valore di Dio dipende dalla mia storia privata. Un altro esempio molto banale fatto da un grande storico delle religioni come Mircea Eliade: gli egizi avevano un problema, quello della irrigazione della valle del Nilo. Per irrigare la valle del Nilo applicarono i teoremi della geometria; ma questo non vuol dire affatto che il valore dei teoremi della geometria dipende dal bisogno degli egizi di irrigare la valle del Nilo. Il valore dei teoremi rimane del tutto indipendente dalla genesi con cui essi sono stati trovati.
 
A proposito del secondo intervento. Io ritengo che sia estremamente interessante, sul piano storico, vedere concretamente come questi singoli autori dell’età del modernismo siano stati eventualmente colpiti sul piano, per esempio, della pratica pastorale dall’autorità di Pio X: questo è un problema storico. Ma, ripeto ancora, il problema storico non è il valore dell’enciclica; si tratta di sapere se l’enciclica dice cose vere e se colpisce errori veri. Faccio un esempio molto molto semplice: chi legge Loisy e legge l’enciclica, può trovare perfettamente che l’enciclica non sta sparando sopra un bersaglio. Ancora sul secondo intervento: certamente il problema della coscienza, dell’autorità, sono tutti problemi che sono di grande interesse per uno storico; si cercherà allora, appunto, di storicizzare certi eventuali errori pastorali. Ma il mio problema di fondo è un altro; e cioè di sapere se l’enciclica sia acuta, se individui — indipendentemente dal fatto che poi non vi fossero persone che esprimevano quegli errori in modo completo — degli errori, e se quelli sono errori. Questa è la risposta, o meglio, questa è la domanda. È molto interessante, secondo me, il riferimento a Gentile. Si dice a proposito di Gentile e del modernismo: «anche da sinistra mi fa piacere che sia detto ‘da sinistra’] il modernismo è stato accusato».

Questo è molto interessante perché in realtà — e qui sarebbe interessante andare a vedere come — Gentile accusa il modernismo non perché, secondo il solito corto circuito che fanno normalmente — questa sia una prova in più della retrodatezza o della inerzia della enciclica, come se si dicesse: «Guardate, perfino Gentile è d’accordo con l’enciclica per dare addosso al modernismo». In realtà Gentile critica il modernismo per una ragione ben diversa: perché vede nei modernisti quelli che usurpano quello che lui vuol fare in filosofia; perché quello che i modernisti fanno in religione è esattamente il suo programma in filosofia. Perché? Lo spiego subito.

Quale è il valore del dogma per un modernista? Nel modernista tipo il valore del dogma è quello di uno strumento dialettico che il sentimento religioso originario pone di fronte a sé per negarlo. È come se io mi mettessi di fronte un ostacolo solo per oltrepassarlo. Come voi sapete, è lo stesso rapporto che la luce ha con gli oggetti: la luce non può illuminare se non ha di fronte degli oggetti; appunto perché la luce possa essere tale bisogna che illumini qualcosa come diverso da sé e lo ponga di fronte a sé. E questa è la posizione esatta che Gentile vuole in filosofia quando vede nei sistemi filosofici delle opposizioni dialettiche di un atto che si fa continuamente. Rispetto alla filosofia della prassi marxista dove l’oggetto è qualcosa che vien fatto, nell’attualismo gentiliano, l’oggetto è posto perché sia il soggetto a farsi; il soggetto si fa attraverso la negazione degli oggetti. Il sentimento religioso — ecco la traduzione in termini modernistici — vive attraverso la successiva opposizione e negazione delle formule dogmatiche.
Questa credo che sia una cosa molto interessante: poter vedere [e in queste considerazioni non sono minimamente originale perché altri le hanno già fatte come Augusto Del Noce o Vittorio Mathieu] l’estrema somiglianza tra il modernismo e il gentilianesimo e quindi l’impossibilità di quegli argomenti anti-Pascendi che suonano: «guardate, persino Gentile ha dato contro al modernismo. Dunque, allora...».

C’è un ultimo punto del secondo intervento che era molto interessante. La mia posizione, si dice, avrebbe questo limite che io suppongo che le definizioni dogmatiche bastino a se stesse. lo credo che non sia questa la posizione dell’enciclica e non è certamente la mia. Quando mai la Chiesa anche la Chiesa di Pio X, ha mai potuto pensare che la finalità della fede sia quella di porre le formule dogmatiche? Una cosa è dire ‘tutto, eccetto Dio, è mezzo e solo Dio è ultimo fine’, e un’altra cosa è dire ‘le formule non servono’.





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