Scoperto nella chiesa di Nostra Signora del Carmine di Genova un ciclo di affreschi di Manfredino da Pistoia

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Cattolico_Romano
00giovedì 16 luglio 2009 14:48
Scoperto nella chiesa di Nostra Signora del Carmine di Genova un ciclo di affreschi di Manfredino da Pistoia

Giotto lo chiamava collega


di Clario Di Fabio
Università di Genova

AGenova, la chiesa di Nostra Signora del Carmine ha riservato di recente una vera, grande sorpresa. In quest'edificio duecentesco, posto al confine tra il centro antico e i quartieri residenziali che dalle colline s'affacciano sul porto, è stato identificato il più significativo documento di pittura medievale venuto in luce in città da un secolo a questa parte. Per la precisione da quando, nel 1910, si ritrovò in cattedrale uno splendido ciclo affrescato nel primo Trecento da un nobile pittore costantinopolitano.

Anche i dipinti del Carmine sottendono relazioni a raggio mediterraneo, ma d'altro tipo:  se Manfredino da Pistoia, il loro autore, non veniva dal mare, ma dalla vicina Toscana o, al massimo, dal centro Italia, l'ordine religioso che lo convocò per decorare l'abside della sua chiesa madre genovese aveva radici in territori lontani, fra Gerusalemme e Antiochia.



Ma andiamo per ordine. Nostra Signora del Carmine, fondata nella primavera del 1262, fu eretta rapidamente nelle forme allora più moderne, quelle gotiche, adattate ai materiali e alle abitudini costruttive locali. Nell'Ottocento, per rimediare a secoli di rimaneggiamenti, volendo restaurarla, la si decorò in forme medievaleggianti. Il secolo appresso, per recuperare quanto d'antico sottostava a quella pervasiva decorazione, scrostò i muri e risarcì le parti carenti.

Il restauro degli affreschi dell'abside maggiore, lacunosi, fu compiuto nel 1935 da un professore d'Accademia, Mario Zambaldi, che era pittore e che come tale operò:  rifece gli intonaci e ridipinse a tempera non solo ciò che mancava, ma anche le parti antiche, che credeva quattrocentesche. Gli organi di tutela, spiazzati, denunciarono l'avvenuto:  scoppiò lo scandalo, ma alla fine tutto restò com'era. Peggio:  fu costruito nel frattempo un grande organo che in parte celava i dipinti.

Così, in una chiesa sempre più buia e degradata, finirono dimenticati. Fino a oggi, quando - per impulso di un abate giovane, don Davide Bernini, dedito tanto all'impegno pastorale quanto a suscitare positive sinergie operative grazie ai fondi raccolti dai parrocchiani  e  al contributo della Compagnia di San Paolo, con la direzione energica dell'architetto Giovanni Battista Varese e l'impegno competente di una équipe di restauratori (Tecnica Mista Snc di Genova) capeggiata da Luca Longhi, sotto la guida della locale Soprintendenza - è stata avviata una campagna, non solo di restauro, ma di risanamento e di riordino generale dell'edificio. Un percorso virtuoso, premiato da un esito eccellente:  da un lato, la basilica ha riconquistato il posto che le spetta nel panorama della Genova medievale; dall'altro, i suoi affreschi, recuperati con tecniche aggiornate e corrette, hanno dichiarato subito la loro qualità, la loro magnifica veste cromatica e un'antichità ben maggiore di quella presunta.

Il lavoro dello storico dell'arte medievale è stato, così, facilitato:  in quelle figure, in quelle scene, nelle finte architetture e nelle bordure decorative ancor ricche di materia e di rutilanti, raffinate sfumature cromatiche, si è avuto buon gioco a ravvisare dei capolavori dell'ultimo Duecento, figli di uno dei frangenti più emozionanti e cruciali della storia dell'arte europea, quello che ebbe per teatri la Toscana, Roma e, specialmente, Assisi e per protagonisti Cimabue, Torriti, Cavallini, Duccio e Giotto.

Il loro autore ha un nome:  si tratta - s'è detto - di Manfredino da Pistoia, un pittore, attivo nella sua città già verso il 1280, che è giudicato un pittore cimabuesco, se non addirittura un allievo di Cimabue. Secondo diversi studiosi sarebbe stato attivo anche nella decorazione pittorica della basilica superiore di Assisi, non tanto nel transetto cimabuesco, quanto nelle parti alte della navata, assieme a pittori romani, botteghe locali e accanto, s'immagina, al giovane Giotto.

La presenza di Manfredino a Genova fra 1292 e 1293 era già nota per un documento d'archivio e per gli affreschi firmati della chiesa di San Michele di Fassolo, di cui restano solo due ampi brani nel Museo di Sant'Agostino. Era  giunto  in città (dalla Toscana? da Assisi?) al più tardi alla fine dell'estate 1291.
Di certo prese allora i contatti necessari per ottenere la commessa; quando eseguì i dipinti del Carmine, invece, è un problema:  o quasi subito, finiti quelli del San Michele - per il cui altare forse approntò anche un dossale, oggi a Firenze nella collezione Acton - oppure dopo qualche tempo. Su questo non v'è certezza.



Chi fosse interessato a un ciclo di questo genere, invece, si capisce meglio. Si tratta forse del più antico e articolato complesso figurativo carmelitano finora noto in Italia:  la parete di fondo dell'abside quadrata è coronata da una grande, frammentaria, Annunciazione, che celebra la caritas della Vergine, patrona e titolare dell'ordine; sotto, due grandiose coppie di figure:  il profeta Elia, ritenutone il fondatore, è sovrastato dal Battista, ultimo dei profeti e frequentatore del Carmelo, come san Bartolomeo, apostolo e protettore dell'Armenia, sormonta, in vesti preziose, una santa Margherita d'Antiochia, abbigliata come una basilissa bizantina.

Poi gli evangelisti, a destra, e, sul lato opposto, i principi degli apostoli, Pietro e Paolo:  tutti a mezza figura ed entro clipei, come un san Lorenzo che, insieme al Battista, richiama le devozioni tipiche della diocesi genovese, mentre il sant'Alberto Avogadro, patriarca di Gerusalemme, che scrisse la prima Regula per gli eremiti del Carmelo, è effigiato in abiti episcopali. Completano il ciclo ben quattro figure di santi carmelitani:  singolari, a questa data, ma indubbie, a causa delle aureole e dell'abito, che è quello entrato in uso dal 1289:  lo stesso che anche Elia indossa.

Gli affreschi celebrano l'ordine del Carmelo (accolto fra i mendicanti dal genovese Papa Innocenzo IV Fieschi), ma alludono altresì alla provenienza di questa specifica comunità, che aveva dovuto lasciare l'Armenia sotto la pressione musulmana, e ne illustrano le devozioni più caratteristiche.
Il loro trapianto a Genova (come quello dei monaci basiliani che nel 1308 vi fondarono un monastero significativamente intitolato a san Bartolomeo degli Armeni) fu voluto da Opizzo Fieschi, parente di Innocenzo IV e Adriano V, già patriarca d'Antiochia e poi diplomatico e regista del reinsediamento in diversi Paesi europei di queste comunità orientali fuggitive.

Fu probabilmente lui a portare a Genova Manfredino, che a Roma, nel 1272, aveva anche conosciuto Cimabue; e proprio lui si deve considerare il vero committente di questo ciclo, concepito giusto negli anni in cui reggeva l'arcidiocesi genovese come amministratore apostolico.
È perciò un documento importante:  ha motivazioni storico-politiche almeno altrettanto significative di quelle religiose e devozionali; se queste erano profonde in termini spirituali e istituzionali, altrettanto lo erano, in chiave biografica e psicologica, quelle di chi lo concepì e lo fece realizzare.

Esigenze "mondane" di autopromozione individuale di un committente ecclesiastico le sottendono, ma anche la nostalgia "epocale" per l'outremer perduto, per i luoghi santi abbandonati per sempre. E il loro linguaggio figurativo è tra i più moderni che allora si parlassero in Europa.
La festa della Madonna del Carmine è  l'occasione più adeguata per segnalare queste magnifiche pitture della chiesa genovese a lei intitolata. Il loro restauro, per essere portato a termine, richiederà altri fondi. E altra buona volontà.


(©L'Osservatore Romano - 16 luglio 2009)
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