Se l'Africa entra in Vaticano

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S_Daniele
00mercoledì 7 ottobre 2009 16:37
Se l'Africa entra in Vaticano

di Filippo Di Giacomo

Quasi trecento vescovi africani, tra i quali quattordici cardinali di colore, sono riuniti in Vaticano.
Era già accaduto per un sinodo episcopale nel 1994, un anno entrato nella memoria storica del mondo per due motivi: la fine del regime razzista e separatista nel Sud Africa e il genocidio del Ruanda. Il primo, la fine dell’apartheid, nella glossa mediatica è oramai devoluto alle star del rock e all’umanitarismo indefinito delle Ong.
Visto dal mondo cristiano invece, la lotta di liberazione dei sudafricani di colore ha rappresentato un importante momento dell’efficacia del dialogo ecumenico.
A metà degli anni Settanta è stata appunto l’adesione di tutte le confessioni cristiane ai programmi di lotta pacifica che il Consiglio Ecumenico delle Chiese proponeva per porre l’abbattimento dell’apartheid al centro dell’agenda politica internazionale.
La tragedia del Ruanda, invece, è stata vissuta come il fallimento morale di un modello di presenza socio-culturale che, negli anni intercorsi, ha spinto i fedeli del Papa del Continente Nero a intensificare la riflessione, da condividere con tutte le forze vive di un'Africa che, ecclesialmente parlando, tra venticinque anni supererà per numero di fedeli l’importanza dell’Occidente.
Nel frattempo, Benedetto XVI per il prossimo anno ha annunciato un
sinodo straordinario dei vescovi per il medio Oriente. Ora, immaginando l’orizzonte disegnato da questi anni del pontificato ratzingeriano, il primo ostacolo da superare sarà costituito dagli alti lamenti che i soliti interessati affermano di ascoltare fra le mura leonine, come se la politica papale in preda ad un raptus di masochistica autoflagellazione, fosse fatta di improvvisazioni, errori e blocchi.
Non è così,
tutti i viaggi di Benedetto XVI diplomaticamente parlando, sono stati dei successi.
Ad
Istanbul
, nell’autunno 2006, poco più di trenta giorni dopo Regensburg, una sola giornata, la prima di quel viaggio, è stata sufficiente affinché si voltasse pagina nei rapporti tra Occidente cristiano e Oriente islamico.
In quello di metà maggio di quest’anno
in Giordania, Israele e Palestina
la Santa Sede poi, ha egregiamente svolto il suo ruolo di rappresentante dei Paesi poveri, dei senza voce, dei figuranti dei dialoghi multilaterali, dei Paesi obbligati a partecipare all’organizzazione internazionale subendo i ricatti dei “Paesi donatori” e delle “potenze di riferimento”.
I vescovi africani riuniti a Roma hanno dunque tra le mani un “
Instrumentum laboris” – l’equivalente di ciò che un tempo, quando esistevano i partiti politici, si chiamavano “tesi congressuali” - che ha tutti i numeri necessari per districare, nel bene e nel male, i meccanismi complessi del mondo globalizzato. Certo, non è un documento indirizzato agli afro ottimisti di professione, a coloro che credono di conoscere l’Africa trascorrendo vacanze a Malindi. Ma, se nell’orbe mediatico fosse ancora in vigore la gerarchia delle notizie, bisognerebbe chiedersi perché le analisi dei vescovi sulla finanza internazionale, sulle multinazionali, sugli ogm, sul diritto alla salute, sul ruolo delle donne e molto, molto altro viene ancora tralasciato a vantaggio di poche e scontate domande di folclore chiesastico.
Durante gli ultimi due lustri del pontificato di Giovanni Paolo II e soprattutto in questi ultimi quattro anni, la diplomazia d’Oltretevere ha saputo gestire la disputa europea-statunitense in materia di multilateralismo e diritto internazionale sviluppando dapprima un’impronta sostanzialmente franco-tedesca aggiungendovi però successivamente tratti marcatamente paneuropei e mediterranei. È la stessa partita che il presidente Obama ha iniziato subito dopo il viaggio mediorientale di Benedetto XVI con il premier israeliano Netanyahu (e confermato con la nomina del nuovo ambasciatore Usa presso la santa Sede) perché la società aperta che piace all’attuale presidente Usa non dispiace Oltretevere: lo ha detto all’ambasciatore americano il giorno della presentazione delle lettere credenziali. Ciò che entra in collisione non sono i fini ma i metodi. Gli Usa amano costruire società aperte privilegiando strumenti economici conformi al loro modello di sviluppo, la Chiesa di Roma, crede che lo stesso obiettivo debba essere perseguito con le ragioni della sensibilità morale, e con spirito critico verso un sistema sociale, quello occidentale, i cui eccessi sono ormai palesi.
Ci sarà un’alleanza tra chi, anche per il futuro, dovrà indossare abiti da “missionario per la democrazia” e chi dal passato trae una forte e insopprimibile identità di “missionario per l’uomo”? Sono domande che i vescovi africani stanno prendendo molto sul serio. Perché anche la politica può avere un’anima.

© Copyright L'Unità, 7 ottobre 2009 consultabile online anche
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