INTRODUZIONE
I. L’autore
La tradizione unanime della Chiesa antica[1] non ha mai messo in discussione l’attribuzione di questo quarto vangelo a Giovanni, figlio di Zebedeo.
Una convalida della tradizione a favore della paternità giovannea del quarto vangelo può essere desunta dallo stesso vangelo. Il vangelo stesso infatti rivendica la dipendenza da un testimone oculare (19,35), un giudeo che conosceva perfettamente la scena palestinese. Luoghi e dati topografici non menzionati nei sinottici vengono specificati con precisione in Gv, come la piscina di Betesda (5,2) e il litostroto (19,13) a proposito dei quali sembra che le ricerche archeologiche abbiano confermato l’esattezza delle descrizioni giovannee.
Al lettore che si accosta per la prima volta al vangelo di Giovanni, questo scritto rivela almeno due edizioni. Nei capitoli 20 e 21 si hanno, infatti, rispettivamente due conclusioni, e cioè: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo …” (Gv 20, 30-31). La seconda conclusione: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21, 25).
Gli studiosi hanno visto, allora, all’interno del testo le tracce di una complessa vicenda “editoriale” che si è svolta in più tappe.
La prima tappa è legata alla tradizione orale legata all’apostolo Giovanni in ambiente palestinese, subito dopo la morte di Cristo e prima del 70, (la data della distruzione di Gerusalemme), e si esprime nella lingua aramaica.
Si ha, poi, una prima stesura del vangelo in greco, destinata a un nuovo pubblico: quello dell’Asia Minore costiera, che aveva come centro principale la città di Efeso. Alla stesura di questo scritto contribuisce un “evangelista” che raccoglie il messaggio dell’apostolo Giovanni e lo adatta al nuovo pubblico (si pensi al mirabile inno al Logos, cioè al verbo divino che è Cristo, destinato a fungere da prologo dell’intero vangelo).
Questa prima stesura, che si concludeva al capitolo 20, si svolgeva lungo due grandi movimenti: il primo (capitoli 1-12), spesso chiamato “Libro dei segni”, cioè dei sette miracoli simbolici, scelti dall’evangelista per illustrare la figura di Gesù, e rivelava il Figlio di Dio davanti al mondo, generando adesione e rifiuto. Il secondo movimento testuale (capitoli 13-20), spesso intitolato “Libro dell’ora”, cioè del momento glorioso e supremo della vita di Cristo offerta sulla croce, comprendeva la rivelazione del mistero profondo di Gesù ai discepoli (si pensi ai “discorsi di addio” dell’ultima Cena, come sono chiamati i capitoli 13-17).
Infine, come è attestato dal capitolo 21, si procedette a una seconda stesura alla fine del I secolo d.C. e forse, in un brano allusivo (“ Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te? Tu seguimi”. Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma : “Se voglio che egli rimanga finché io venga, che importa a te?” Gv 21, 22-23), si fece riferimento anche alla morte dell’apostolo Giovanni, mentre la Chiesa proseguiva il suo cammino attraverso l’autorità pastorale affidata a Pietro dal Signore risorto: “Simone di Giovanni mi ami tu più di costoro?…” (Gv 21, 15-19).
Da quanto detto finora, possiamo concludere affermando che l’ordine nel quale il vangelo si presenta offre un certo numero di difficoltà: di stile[2] e logiche[3]. Può darsi che queste anomalie provengono dal modo in cui il vangelo è stato composto: sarebbe infatti il risultato di una lenta elaborazione, che comporta elementi di epoche successive, ritocchi, aggiunte, redazioni diverse di uno stesso insegnamento; poi il tutto sarebbe stato definitivamente pubblicato non da Giovanni, ma, dopo la sua morte dai suoi discepoli: (“Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera” 21,24). Così, nella trama primitiva del vangelo, essi avrebbero inserito frammenti giovannei che non volevano lasciar perdere, senza preoccuparsi troppo di dare loro un ordine logico e cronologico.
Una cosa, però, rimane certa: il vangelo di Giovanni così com’è, porta l’impronta di uno scrittore, il cui racconto è costruito intorno alla figura di Gesù, presentata nella sua umanità e divinità con grande originalità teologica.
II. Luogo - lingua - data di composizione
Secondo la tradizione (Ireneo e Clemente Alessandrino), Giovanni è vissuto fino all’inizio del regno di Traiano (98-117).
In quanto al luogo di redazione, la maggior parte degli autori ritiene che il vangelo sia stato scritto ad Efeso. In quanto alla data si propende per il 100 e il 110. Il vangelo fu scritto in greco, in una lingua non sempre elegante, ma corretta. Lo studio della lingua mostra numerose assonanze con l’aramaico, come “fare la verità” (Gv 3,1), “credere nel nome di…” (Gv 1,12; 2,23; 3,18). L’insieme rimanda a un modo di pensare e scrivere “aramaico”.
III. Le fonti
Il vangelo di Giovanni è talmente differente dagli altri tre vangeli che gli specialisti hanno moltiplicato le ricerche per identificare gli ambienti che hanno potuto influenzare l’autore. Il Cristo di Giovanni, infatti, si differenzia radicalmente dal Gesù dei sinottici. In Gv non troviamo alcuna parabola, nessuna istruzione morale, nessuna controversia in fatto di legge o casistica come quelle che hanno entusiasmato le folle della Galilea fino ad acclamare Gesù come profeta. Abbiamo invece allegorie, simbolismi, vocaboli difficili, e una serie di asserzioni magistrali: “Io sono il pane…la luce…la porta…il pastore…la risurrezione…la via…la vite”.
E’ abbastanza ovvio che Giovanni presuppone la tradizione sinottica. Per lui è scontato che i suoi lettori conoscano già chi siano i dodici, e quindi tralascia di presentarli (Disse allora ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?” 6,67). Egli non fa alcuna menzione del battesimo di Gesù da parte del Battista, ma suppone che il lettore sia già a conoscenza di tale battesimo quando riporta la testimonianza del Battista (Giovanni rese testimonianza dicendo: “Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo…” Gv 1, 32-34).
In molti casi, sarebbe difficile cogliere il senso di Gv se non avessimo già una conoscenza approfondita dei sinottici.
La maggioranza degli studiosi moderni pensa che Giovanni abbia utilizzato o letto il vangelo di Marco. A volte Gv non solo segue la disposizione di Marco ma usa anche sue espressioni peculiari. A ciò possiamo aggiungere che è cronologicamente possibile che Mc fosse già noto nel mondo cristiano a cui era destinato il vangelo di Giovanni.
Circa l’utilizzazione del vangelo di Matteo da parte di Giovanni, alcuni autori spiegano che le affinità occasionali che si riscontrano tra Gv e Mt potrebbero essere spiegate dal fatto che Giovanni conobbe un Mt aramaico che fu utilizzato come fonte per la composizione del nostro Mt canonico.
Molte sono invece le affinità tra Gv e Luca: ci sono innegabili somiglianze tra i due vangeli quanto al contenuto e alla teologia. Il racconto dell’adultera in Gv 7,35-8,11 benché trovato nella maggior parte dei manoscritti di Gv, è di Luca al cento per cento.
Le divergenze, tuttavia, che esistono tra Gv e i sinottici sono ancor più numerose dei punti in comune. I numerosi miracoli riportati nei sinottici non hanno alcuna eco nei sette miracoli di Gv (due soltanto dei quali appaiono nei sinottici), e in Gv non abbiamo neppure un solo esorcismo. Dei discorsi di Gesù in Gv, neppure uno è registrato nei sinottici. Anche la cronologia del ministero pubblico di Gesù in Gv si differenzia radicalmente dai sinottici.
Una cosa però è certa: Giovanni, nel suo vangelo, non ha voluto correggere la cronologia sinottica relativa alla vita pubblica, o fornire ulteriori informazioni statistiche assenti negli altri, o connettere il racconto sinottico alla sua propria narrazione. Al contrario, egli volle semplicemente aggiungere la sua testimonianza personale senza tener conto della selezione e della disposizione degli eventi che si riscontravano nei sinottici.
Dopo questo doveroso confronto, ci siamo convinti dell’indipendenza di Gv dai sinottici, ma altri ambiente (almeno tre) hanno influenzato il suo vangelo.
a. Influenze gnostiche.
La gnosi[4], diffusa nel bacino del Mediterraneo, è un sistema basato su opzioni dualistiche (il Dio del male contro il Dio del bene), e Giovanni potrebbe avere avuto rapporti con alcune correnti gnostiche: i temi favoriti della gnosi (luce-tenebre, morte-vita) sono ben presenti nel vangelo di Giovanni. Ma a differenza della gnosi, Giovanni mette in scena un Gesù la cui umanità è ben reale: la morte a cui viene assoggettato mostra che Gesù è un uomo autentico.
b. Influenze ellenistiche.
Per molto tempo si sono cercati nelle filosofie greche certi temi giovannei, in particolare le trattazioni intorno al lògos. Oggi, sotto l’influsso della riscoperta del giudaismo palestinese, si è convinti che le vere radici di Giovanni debbano essere ricercate nel mondo giudaico.
c. Il giudaismo palestinese.
Il terreno fertile del vangelo si trova nel giudaismo palestinese del tempo di Gesù. Giovanni cita poco l’Antico Testamento: quattordici volte, tuttavia in lui si trovano le correnti più importanti dell’AT: Gesù è presentato come Servo di Jahwè, come re d’Israele e profeta, è evidente l’influenza della Genesi (Gv 1), ma soprattutto la figura di Mosè e il tema dell’esodo svolgono un ruolo determinante (Mosè: 1,17.45; la manna: 6,31; l’acqua dalla roccia: 7,38; il serpente di bronzo: 3,14; il tabernacolo: 1,14).
IV. La teologia di Giovanni
Ogni evangelista ha un suo punto di vista fondamentale su Gesù e la sua missione: Marco ha privilegiato la croce (il segreto messianico) per rivelare il vero volto di Gesù. Luca ha accentuato di più l’aspetto della mitezza e della misericordia del Signore Gesù (“amico dei pubblicani e dei peccatori”). Matteo ha messo in luce l’aspetto dottrinale (i 5 discorsi) di Cristo. Per Giovanni, invece, Gesù è il Verbo fatto carne, che viene a dare la vita agli uomini (1,14).
Il mistero dell’incarnazione guida tutto il suo pensiero. Questa teologia dell’incarnazione si esprime nel linguaggio della missione e della testimonianza. Gesù è la Parola, il Verbo, mandato da Dio sulla terra e che, una volta compiuta la sua missione, deve far ritorno a Dio (1,1). Tale missione consiste nell’annunziare agli uomini i misteri divini: Gesù è il testimone di ciò che ha visto e udito presso il Padre (3,11). Per rendere credibile la sua missione, Dio gli ha dato di compiere un certo numero di opere, di “segni”, che superano le possibilità umane e provano che egli è realmente mandato da Dio il quale agisce in lui (2,11). Queste opere sono una manifestazione ancora relativa della sua gloria, nell’attesa della piena manifestazione nel giorno della risurrezione (1,14). Infatti, secondo la profezia di Isaia 52,13 il figlio dell’uomo deve essere “elevato” e, mediante la croce, ritornare al Padre (12,32) e ritrovare quella gloria, presente presso il Padre “prima che il mondo fosse” (17,5), e di cui i profeti avevano avuto rivelazione (5,39.46; 12,41; 19,37).
Tale manifestazione oscura le precedenti, quella della creazione (1,1), quelle di cui furono gratificati Abramo (8,56), Giacobbe ( 1,51), Mosé (1,17), i profeti. La gloria del “giorno di Jahwè” (Am 5,18)[5] si compie nel “giorno” di Gesù (8,56) e in modo particolare nella sua “ora” (2,4), l’ora della sua “elevazione” e della sua “glorificazione”. Allora si rivela la grandezza trascendente dell’ “inviato” (8,24; 10,30), venuto nel mondo per dare la vita (3,35) a quelli che ricevono mediante la fede il messaggio di salvezza che egli porta (3,11). Proprio perché tutta la “missione” del Figlio è ordinata a un’opera di salvezza, essa è manifestazione suprema dell’amore del Padre per il mondo (17,6).
V. Caratteristiche letterarie
L’analisi fatta finora deve aver mostrato che il vangelo di Giovanni segue le sue proprie regole e che esso va letto come un’opera indipendente. Esamineremo ora brevemente solo alcune delle caratteristiche del suo genere letterario, che vanno prese in considerazione da chi si accinge a leggere il suo vangelo.
Prima caratteristica è l’aspetto escatologico. Nei vangeli sinottici, la manifestazione della gloria del Cristo è principalmente legata al suo ritorno escatologico (Mt 16,27 ss). Anche in Giovanni si ritrovano i principali elementi dell’escatologia tradizionale: l’attesa dell’ “ultimo giorno” (6,39 ss; 11,24; 12,48), della “venuta” di Gesù (14,3; 21,22 ss), della risurrezione dei morti (5,28; 11,24) e del giudizio finale (5,29.45; 3,36). Tuttavia in Gv si nota facilmente una duplice tendenza: ad attualizzare e a interiorizzare l’escatologia. La “venuta” del figlio dell’uomo è concepita soprattutto come la venuta di Gesù in questo mondo con l’incarnazione, la sua elevazione sulla croce e il suo “ritorno” al Padre, ed è visibile nei discepoli mediante lo Spirito. Il “giudizio” si opera fin da ora nell’intimo dei cuori; la vita eterna (che corrisponde in Giovanni al “regno” dei sinottici) è posseduta già ora nella fede e il ritorno del Cristo nell’ultimo giorno sarà solo un completamento del trionfo di Dio sul male (la lotta si svolge già su questa terra tra i figli della luce e i figli delle tenebre).
Un’altra caratteristica è l’ironia. Il narratore attribuisce talvolta agli avversari di Gesù parole o azioni ingiuriose che a prima vista sembrano rivolte a Gesù. Tuttavia, attraverso un’ironia accessibile ai lettori credenti, questi avversari dicono su Gesù una verità profonda che sfugge loro. Così, per esempio, la regalità sottolineata da Pilato, il cartello sulla croce, dicono la verità su Gesù.
Una terza caratteristica è il doppio significato: Giovanni utilizza spesso parole o espressioni volutamente ambivalenti: Gesù parla di “rinascere” e Nicodemo capisce che bisogna ritornare nel grembo della propria madre. La distruzione del tempio evocata in Gv 2,19 è presa alla lettera dai suoi avversari, ma è spiegata dal narratore come un riferimento al corpo di lui. La parola di Gesù sul pane dal cielo è accolta come un evento puramente materiale: “Dacci sempre questo pane”, chiedono allora i giudei a Gesù (Gv 6,34). Il malinteso permette a Gesù di entrare più in profondità nella rivelazione.
Il simbolismo giovanneo. In Gv si riscontra un più vasto simbolismo che negli altri vangeli. Viene richiamata una maggiore attenzione sul significato spirituale di avvenimenti apparentemente ordinari e sul senso profondo delle parole e degli episodi. Il “discepolo amato”, il cieco nato, Lazzaro, rappresentano, sotto certi aspetti, non soltanto dei personaggi storici, ma anche tutti i cristiani. Maria, la madre di Gesù, è la Chiesa stessa. Tale simbolismo si estende ad altri eventi e persone ed è necessario che leggiamo Gv con una particolare attenzione se vogliamo coglierne tutto il significato.
PROLOGO (1, 1-18)
Il prologo sostituisce le narrazioni dell’infanzia che si trovano in Matteo e in Luca. Per Giovanni, è questo il vero inizio della vita di Gesù. Giovanni concorda con i sinottici nel far cominciare la vita pubblica di Gesù con la predicazione di Giovanni Battista, ma non dice nulla riguardo alla predicazione di quest’ultimo. Giovanni Battista realizza quello che il prologo annunziava di lui: rende testimonianza su Gesù.
Nel prologo, scritto in un linguaggio poetico, ricorrono i principali temi teologici che verranno poi sviluppati in tutto il vangelo di Giovanni. Vi s’incontra un vocabolario che non è presente altrove: alcune parole, come Verbo, grazia, pienezza (plèroma), sono presenti soltanto in questa introduzione.
Fedele all’antica tradizione, Gv inizia questo Inno con una “genealogia” non umana ma divina: canta la preesistenza del Verbo, poi la sua presenza luminosa tra gli uomini, la sua venuta in mezzo al popolo d’Israele, e infine la sua incarnazione nella persona di Gesù.
E’ probabile che quest’Inno esistesse dapprima isolatamente, forse in forma breve senza i versetti riguardanti Giovanni Battista. Nella Chiesa primitiva esistevano inni di questo genere, come per esempio Ef 5,14.
Giovanni, alla ricerca di un’introduzione per il suo vangelo, ha adottato e adattato l’Inno per farne un’introduzione che enuncia i grandi temi del vangelo: Gesù, di cui il vangelo racconterà la storia in mezzo agli uomini è presentato qui nella sua origine e nel suo principio. Egli è il Verbo[6] (Lògos) che preesisteva in principio, la cui intimità con Dio è tale che il poeta afferma che egli “era Dio”. Il suo ruolo rispetto agli uomini oltrepassa il popolo d’Israele poiché egli è creatore, vita e luce per ogni uomo che viene nel mondo. L’Incarnazione segna l’entrata del Verbo nella storia e il suo incontro decisivo con gli uomini: con il popolo giudaico (che lo rifiuta), con la comunità cristiana (che lo accoglie)
Quest’Inno racconta con solennità l’itinerario del Verbo a partire dalla sua dimora in Dio (vv. 1-2), la sua venuta in mezzo agli uomini (3-5), la sua scelta d’Israele (9-11), poi la sua Incarnazione (14), fino al suo ritorno “nel seno del Padre” (18).
Ora vediamo da vicino questo testo del Prologo.
“In principio era il Verbo”: in questa prima espressione si parla dell’origine misteriosa di Gesù (vv. 1-2). Gesù è il Lògos (il Verbo) preesistente alla creazione, rivolto verso Dio, Dio egli stesso. Il Lògos non è dunque stato creato: esisteva già fuori del tempo, nell’eternità, prima ancora che le cose create cominciassero ad esistere (“In principio era[7] il Verbo”).
Giovanni collega la venuta di Gesù con i primi capitoli della Genesi (“In principio”). L’evangelista rilegge Gesù a partire dal principio della rivelazione. Lungo tutto il vangelo, questa identità misteriosa di Gesù e il suo posto centrale nello svolgimento della rivelazione si esprimeranno attraverso la pretesa di Gesù di essere il compimento di tutta la rivelazione, il rivelatore supremo, il dono ultimo di Dio, la sola via possibile di salvezza, il volto di Dio in mezzo agli uomini (“il Padre è in me e io nel Padre” Gv 10,38).
“Il Verbo era presso Dio”: viene qui asserita una distinzione nella divinità: la Parola esisteva assieme a Dio. Qui “Dio” senza l’articolo è un predicato: la Parola (il Verbo) è divina, ma non esaurisce tutta la divinità, perché essa è già stata distinta da un’altra Persona divina (cfr. 7,28 ss; 8,42; 16,28).
A differenza delle cose create, delle quali parlerà fra poco, non ci fu mai un tempo in cui la Parola non esistesse (“ Questi era in principio presso Dio”). Cristo, dunque, è all’origine della realtà e della vita ed è nella pienezza della divinità.
“Tutto è stato fatto per mezzo di lui”: precedendo la creazione Egli ne è il capo costruttore. Il Verbo è qui presentato come il mediatore grazie al quale la creazione e gli esseri creati vengono all’esistenza.
Gv non chiama Cristo il Creatore, un titolo che nel NT è riservato al Padre (cfr. Col 1,15 ss.) ma mediatore della creazione (“per mezzo di lui”). Questa mediazione della Parola nella creazione, però, non implica una subordinazione ma soltanto un ordine logico.
La Parola creatrice di Dio, una concezione eminentemente biblica (Gen 1,3; Is 48,13; Sir 42,15) è identificata dai rabbini con la Torà (Legge).
“Senza di lui nulla è stato fatto di tutto ciò che esiste”: questa espressione esprime la stessa verità in forma negativa; viene sottolineato che la creazione, in quanto distinta dalla Parola, incominciò ad esistere, e che la Parola è la causa di questa sua esistenza.