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"Caritas in Veritate" - Carità nella Verità: nuova Enciclica Sociale di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 23/06/2010 20:23
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24/07/2009 07:07

Etica non è una parola magica

Ma indica la strada


di Rino Fisichella

Sono diversi i punti da cui poter partire per immettersi nell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Un testo che intende affrontare la questione sociale alla luce del termine "sviluppo" che aveva avuto un posto determinante nell'insegnamento della Populorum progressio di Paolo VI del 1967. Una prima nota che balza evidente in queste pagine è il richiamo alla peculiare condizione storica che stiamo vivendo e che direttamente coinvolge la comprensione dei concetti e la loro interpretazione. A differenza degli anni Settanta in cui lo sviluppo era identificato preferibilmente come "L'obiettivo per far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall'analfabetismo" (n. 21), il termine assume oggi nelle pagine di Benedetto XVI una connotazione più ampia. Esso si pone come l'obiettivo per verificare la totalità della persona nel suo armonioso sviluppo della conoscenza di sé, delle relazioni interpersonali, sociali e del mondo che lo circonda e all'interno del quale è inserito; in una parola, "l'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo" (n. 28). Per usare un'espressione sintomatica dell'enciclica, si potrebbe dire:  "Il libro della natura è uno e indivisibile" (n. 51); ciò significa, che richiede non solo di essere mantenuto integro nella sua totalità, ma soprattutto che nel momento in cui lo si sfoglia, non si saltino le pagine per non correre il rischio di non comprendere lo sviluppo logico impresso nella natura stessa. Ricorda il Papa quanto sia necessario per l'uomo sentirsi profondamente legato al libro della natura senza cadere in una sorta di schizofrenia facilmente verificabile in diverse situazioni del mondo contemporaneo.



A volte, infatti, è difficile seguire il percorso di alcuni movimenti culturali e di atti legislativi tesi a salvaguardare l'ambiente, il creato o le diverse tipologie di animali più o meno in via di estinzione. Ciò che colpisce di più è che questi, mentre da una parte difendono l'ecologia ambientale, dall'altra dimenticano la vita umana e la sua salvaguardia. Per paradossale che possa sembrare, la loro posizione contraddice le tesi che sostengono in quanto a esse sacrificano la vita dell'uomo. Per dirla con le stesse parole dell'enciclica:  "Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e con esso quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle nuove generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le leggi non lo aiutano a rispettare se stesse" (n. 51). La natura, insomma, non è al di sopra dell'uomo né questo avulso dalla sfera naturale; è determinante, pertanto, un equilibrio basilare che non esalti l'uno umiliando l'altro, cadendo in forme di neopaganesimo.

Questa dimensione, a nostro avviso, conduce al cuore dell'argomentazione della Caritas in veritate:  lo sviluppo genuino e coerente che la nostra società è chiamata a perseguire è quello di un umanesimo integrale (cfr. n. 78). Solo nella misura in cui la persona conosce se stessa e si mantiene in quella sfera di tensione costante verso la verità, allora può garantire che nella società e nelle diverse forme in cui essa si articola si possa concretamente realizzare uno sviluppo coerente, non traumatico per la mancanza di regole e soprattutto fondato su principi etici che garantiscono il rispetto verso tutti e l'applicazione della giustizia come "prima via della carità" (n. 6). In questo orizzonte diventa altamente significativo l'incipit dell'enciclica dove, in due termini si sintetizza il suo intero contenuto.

La famosa espressione dell'apostolo Paolo veritas in caritate trova il suo corrispondente nel titolo dato a questa terza enciclica:  Caritas in veritate. Nella mente dell'apostolo l'espressione indica che l'annuncio della verità del vangelo non è solo coniugato con l'amore, ma vive in esso; l'annuncio della verità si compie nella forma dell'amore. Nel pensiero del Papa, l'espressione chiude la circolarità e afferma che l'amore e la carità vivono primariamente di verità; la verità è lo spazio in cui l'amore si realizza. Questa prospettiva, per nulla teorica come potrebbe apparire a prima vista, tende a mostrare la via per uscire dal tunnel dell'emotività generalizzata e dall'arbitrarietà. Assumere la verità come principio universale, infatti, permette alla carità di diventare essa stessa principio universale oltre il sentimentalismo o il fideismo di turno:  "Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità" (n. 3). Questa visione applicata alla dottrina sociale della Chiesa evidenzia da subito la vera sfida che è posta sul tappeto della nostra società nel momento in cui vuole affrontare con coerenza il tema del progresso e dello sviluppo.

Per permettere questo, Benedetto XVI si fa propositivo. Quanti in questi anni ripetono pedissequamente il ritornello diventato ormai un luogo comune che "La Chiesa dice sempre dei no", dovranno ben rileggere le pagine di questa enciclica per verificare la progettualità, anche coraggiosa in alcuni momenti, a cui essa rinvia. Penso, in modo particolare, a come vengono trattate tematiche quali il mercato, l'impresa, la finanza che in un periodo di crisi come l'attuale sono richiamate a esprimere al meglio se stesse facendo ricorso, anzitutto al rispetto delle "esigenze intrinseche alla loro natura" (n. 45), e da qui farsi forti delle forme di "solidarietà" (n. 35), di "retta intenzione e trasparenza" (n. 65), per recuperare quel necessario senso di fiducia senza del quale il mercato, la finanza e la stessa imprenditoria non possono avere futuro. In un contesto di globalizzazione come il nostro, queste tematiche richiedono una lettura del fenomeno in termini rinnovati, capaci ad esempio di verificare in maniera più coerente le dinamiche sottese al mercato e all'impresa, la funzione sociale che svolgono e il valore di genuino apporto al progresso che possiedono nel momento in cui pongono al centro la persona.

Relazionarsi al solo sistema economico, dimenticando che siamo a un crocevia alquanto affollato di situazioni complesse che richiedono l'apporto incondizionato di quanti sono coinvolti nel processo, equivarrebbe a vivere in una miopia che non porta lontano. Riportare alla centralità della persona equivale a evidenziare che oltre alle inevitabili situazioni di rischio che il mercato, l'impresa e la finanza possiedono, esiste anche - per non dire soprattutto - una serie di qualità quali l'abilità, la fantasia, l'intelligenza, la conoscenza scientifica e tecnologica che permettono di produrre reale sviluppo in quanto impegnano costantemente alla curiosità intellettuale che sa produrre nuovi e positivi "stili di vita" con al proprio fondamento una scelta etica e morale che completa il semplice prodotto economico.

Non potrà passare sotto silenzio, in questo frangente, l'impegno prettamente culturale a cui il Papa richiama. L'espressione citata nelle pagine dell'enciclica:  "Il mondo soffre per la mancanza di pensiero" (n. 53), evidenzia lo sforzo che è necessario compiere per la formazione di personalità che a tutti i livelli della società siano in grado di porsi responsabilmente come classe dirigente in modo da condurre lo sviluppo verso le tappe di un vero e continuativo progresso. Lo stato di crisi culturale in cui siamo inseriti non necessariamente conduce a passive condizioni di staticità del pensiero; al contrario, è possibile vedere nella crisi una provocazione a saper discernere il momento presente per farsi carico di nuova progettualità che con realismo, fiducia nella ragione e certezza di riuscita possa pervenire a una nuova sintesi carica della ricchezza umanistica del passato e forte delle conquiste tecnologiche del presente. Da questa prospettiva nessuno può sentirsi esonerato dall'assunzione di una responsabilità per il progresso della società. Un'espressione di Benedetto XVI lo indica in maniera evidente:  "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune" (n. 71).

Pregio dell'enciclica è certamente il richiamo all'istanza etica. È facile verificare come in questi ultimi anni da più parti e in modi svariati si sia fatto sempre più insistente l'appello all'urgenza etica per evitare di precipitare in situazioni irrimediabili. È necessario ricordare, comunque, che l'etica non può essere assunta come la panacea di tutti i mali che la società oggi vive per la crisi generalizzata che non è solo di ordine economico, ma principalmente di carattere antropologico. Etica non è una parola magica e tanto meno può essere assunta come un mero richiamo estemporaneo in particolari momenti di crisi; etica dice molto di più. Indica la strada che l'uomo è chiamato a percorrere con fedeltà e perseveranza se vuole raggiungere realmente la felicità e vivere in un mondo dove il rispetto e la responsabilità sono patrimonio di tutti. Ci si dovrà pur chiedere come mai questi decenni hanno visto spesso l'infrangersi di molte regole con l'imporsi del cinismo e della prepotenza? Di fatto, dove non c'è etica subentra il sopruso del forte sul debole, la legge viene aggirata dal più furbo a scapito del cittadino onesto e un senso di ingiustizia e impotenza diffuso pervade il sentire comune.

Come si legge nell'enciclica:  "Si nota un certo abuso dell'aggettivo "etico" che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie alla giustizia e al vero bene dell'uomo" (n. 45). È necessario, pertanto, poter coniugare "etica della vita ed etica sociale" (n. 15), per fornire alla singola persona e alla società intera un fondamento solido su cui costruire il proprio futuro.

Benedetto XVI non ha timore di affrontare la questione mostrando che un'etica coerente con il suo fondamento e le finalità che si prefigge richiede che si espliciti anche in una duplice dimensione:  accogliendo sia l'orizzonte dell'uomo come "immagine di Dio" sia la "inviolabile dignità della persona umana" (n. 45). Proprio questa prospettiva permette di verificare l'apporto positivo che viene dato a diverse problematiche che sono oggi particolarmente oggetto di dibattito pubblico e politico; si pensi, ad esempio, all'immigrazione, alla disoccupazione, agli investimenti internazionali per ognuna di queste tematiche l'istanza etica che pone a suo fondamento la dignità della persona mostra quanto sia impossibile trattare l'immigrato come "merce o una mera forza di lavoro" (n. 62); come non si possano procrastinare politiche per l'inserimento dei giovani nel mondo del lavoro andando oltre la precarietà; quanto sia importante il giusto salario che è dovuto al lavoratore e la sicurezza che gli deve essere garantita sul posto di lavoro (n. 63); inoltre, mostra come sia urgente educare le persone per non cadere in forme di sottosviluppo, di sfruttamento o nella trappola violenta dell'usura (n. 65); non da ultimo, viene ricordato come determinare la natura degli investimenti anche internazionali per non dimenticare che non sono un semplice atto tecnico, ma inevitabilmente legati a un fattore umano, sociale ed etico (cfr. n. 40).

In una parola, Caritas in veritate ripropone gli elementi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa dinanzi alle nuove provocazioni del mondo contemporaneo; si presenta come una proposta valida e perseguibile anche per noi oggi. Essa avverte che la solidarietà non è sufficiente se manca il riferimento alla sussidiarietà e che questa senza l'altra mancano di qualcosa di essenziale e quindi permangono sterili nella loro azione di creare progresso:  "La sussidiarietà senza solidarietà scade nel particolarismo sociale (...) la solidarietà senza sussidiarietà scade nell'assistenzialismo che umilia" (n. 58).

In fondo anche questa prospettiva non è altro che un richiamo a un dato antropologico:  il valore della libertà che si rende responsabile nei confronti dell'altro riconosciuto come persona perché portatore di dignità inalienabile.

"Senza Dio l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia" (n. 78). Un'espressione come questa posta a conclusione di Caritas in veritate getta molta luce sull'insegnamento che Benedetto XVI ha voluto offrire con questa enciclica. L'orizzonte spirituale della persona non è appendice aggiuntiva per la comprensione di sé e del rapporto con gli altri, ma la sua essenza. Se la persona fosse limitata alla sola sfera della relazionalità interpersonale, senza la capacità di andare oltre l'umano per affidarsi a quel senso di trascendenza che si percepisce dentro di sé, allora sarebbe distrutta la componente di mistero che permane come dimensione determinante per la coerente collocazione di sé all'interno del creato e della società. Per questo motivo non può passare inosservata la riflessione sul valore sociale della religione e sull'apporto peculiare che il cristianesimo ha dato nel passato e continua a offrire per il raggiungimento del bene comune (cfr. nn. 55-56). Ogni persona è un mistero, ma proprio la possibilità di affidarsi a un mistero più grande, quello di un Dio che si fa uomo per condividere in tutto la realtà umana, consente al cristianesimo di raggiungere l'apice dell'evento religioso. Nella costituzione pastorale Gaudium et spes ritroviamo le parole più intense riguardo a questo tema soprattutto là dove si dice che:  Cristo Gesù "ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente di uomo, ha agito con volontà di uomo, amato con cuore di uomo" (n. 22). Questa espressione permette di cogliere ancora di  più  l'originalità  della terza enciclica di Benedetto XVI dedicata alla vita sociale. Pagine da cui emerge con forza non solo la capacità argomentativa del credente, ma soprattutto la possibilità di comunicare le ragioni della propria fede anche a quanti ci guardano con attenzione e desiderano compiere con noi un percorso fatto almeno alla luce della ragione se non ancora della fede.


(©L'Osservatore Romano - 24 luglio 2009)
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Dalla solidarietà alla fraternità, la rivoluzione della “Caritas in veritate”

Intervista al Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani



di Antonio Gaspari
ROMA, venerdì, 24 luglio 2009 (ZENIT.org).-

Uno degli aspetti più originali e caratteristici dell’enciclica “Caritas in veritate” è quello in cui il Pontefice Benedetto XVI supera il concetto della generica solidarietà e indica la fraternità come approccio guida per realizzare la rivoluzione sociale necessaria per promuovere e orientare lo sviluppo dei popoli.
Secondo il Papa il concetto di solidarietà è troppo limitativo e non impegna integralmente la comunità umana e la Chiesa nel prendersi cura dell'altro. La fraternità intesa come pratica della carità nella verità significa amare l'umanità esprimendo un amore gratuito, che impegna ogni individuo a dare prima ancora di ricevere. In questo contesto l'enciclica è esplicita nel richiedere la conversione dei cuori di ognuno.

Per cercare ci comprendere meglio come si possa costruire una pratica economica intorno al principio di fraternità, ZENIT ha intervistato padre Pietro Messa, Preside della Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum di Roma.

Nell’enciclica “Caritas in veritate”, il Papa Benedetto XVI sottolinea l’importanza della “fraternità”. Può illustrarci che cosa intendeva san Francesco per fraternità e che cosa intende il Pontefice oggi?

Padre Messa: Francesco d’Assisi negli  anni precedenti alla sua conversione faceva parte di quelle fraternità giovanili presenti nel suo periodo, spesso animate da desideri di compiere gesta eroiche e imbevute di una vera e propria ideologia cavalleresca. Dopo la sua conversione con altri formò sempre una fraternità, ma ora caratterizzata dal vivere la forma di vita del Vangelo: quindi il passaggio non fu nel costituire una fraternità, ma dalla presenza del Vangelo come motivo unificatore.

Ciò fece sì che all’interno della fraternità ci fossero relazioni nuove, caratterizzate dalla minorità e dal servizio; non più un gruppo chiuso in se stesso e compiaciuto delle proprie gesta, ma una comunità aperta tanto che al termine della vita Francesco denominerà persino il sole, la luna, le stelle, il fuoco, l’acqua e persino la morte con l’appellativo di fratello e sorella.

Benedetto XVI nel capitolo terzo dell’enciclica afferma che il trinomio fraternità, sviluppo economico e società civile devono stare uniti rispetto a ideologie che assolutizzano uno degli aspetti a discapito degli altri con risultati che si sono rivelati nefasti. Naturalmente con fraternità intende tutti gli uomini uniti dall’essere creature dell’unico Dio.

San Francesco operò una rivoluzione sociale che influì molto sull’economia. Oggi quella rivoluzione è malintesa. Può spiegarci in che modo san Francesco sanò l’economia dando testimonianza di fraterna e virtuosa vita cristiana?

Padre Messa: Di per sé frate Francesco volle vivere il Vangelo in fraternità e minorità congiunta alla povertà. Perché quest’ultima diventasse vivibile e non solo una utopia, soprattutto dopo la sua morte, i frati cominciarono a distinguere l’uso delle cose dalla loro proprietà, e successivamente l’uso povero da un uso non evangelico.

Così si giunse a riconoscere che la moralità non stava tanto nel possesso o no di un bene, ma nel suo uso che doveva essere finalizzato al bene comune. Da ciò scaturì la convinzione che anche un mercante capace nel suo mestiere, purché finalizzato al bene comune, poteva essere virtuoso e vivere santamente. Legato a ciò è la nascita dei Monti di Pietà ad opera dei francescani di cui parla l’enciclica al paragrafo 65. 

Quali sono, secondo lei, i punti più rilevanti della nuova enciclica?

Padre Messa: Per una maggiore comprensione sarebbe bene leggere i testi indicati in nota, e non meraviglia che tra questi vi sia alla nota 102 il rimando alla Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione, “Libertatis coscientia”, del 22 marzo 1987 della Congregazione della Dottrina della Fede, che porta la firma proprio dell’allora cardinal Joseph Ratzinger. In tale documento si afferma che il problema non sono le strutture in se stesse, ma il peccato dell’uomo che può strutturarsi in vere e proprie “strutture di peccato”.

In continuità con ciò nell’enciclica si afferma continuamente che la questione essenziale è la purificazione del cuore, della mente e della volontà dell’uomo. Da ciò si vede l’unità del magistero di Benedetto XVI che accanto ad una enciclica come questa sullo sviluppo dà molta importanza alle indulgenze concesse ad esempio per l’anno paolino o l’anno sacerdotale.

Il Papa Benedetto XVI critica aspramente le politiche di riduzione delle nascite, indicandole come una delle cause vere della crisi in corso. Qual è il suo parere in proposito?

Padre Messa: Per Benedetto XVI origine e causa del male è il peccato, inteso come chiusura in se stesso e egoismo. Ciò si manifesta in molti modi, tra cui vi è anche la chiusura egoistica alla vita generata nell’amore.

In merito ai problemi ambientali l’enciclica respinge l’ideologia ecologista radicale che si oppone allo sviluppo umano e respinge la visione in cui la natura è considerata più importante della persona umana. Al n. 48 il documento papale sostiene che questa posizione ideologica “induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo”. Condivide l’analisi della Caritas in veritate?

Padre Messa: Questa enciclica sembra persino una sintesi del magistero di Benedetto XVI che indica una ricomposizione della “verità totale” superando le polarizzazioni che conducono all’assolutizzazione di qualche particolare contro il resto  con risultati grotteschi: la ragione contro la fede e viceversa, la carità contro la verità, l’incarnazione contro la dimensione escatologica della vita. Ciò vale anche per il rispetto per il creato: egli corregge sia un disprezzo della creazione, ma anche l’assolutizzazione idolatra.

Da alcuni decenni il mondo cattolico sembra diviso tra chi si occupa di opere sociali e di chi difende la vita e la famiglia. L’enciclica supera brillantemente la questione sostenendo che “non c’è carità senza verità” e che verità e carità si ritrovano in Cristo e nel Vangelo. Qual è il suo parere in proposito?

Padre Messa: Proprio questo è ciò che va colto di Benedetto XVI: mostrare la bellezza della fede. A questo proposito san Bonaventura da Bagnoregio – le cui opere hanno contribuito alla formazione del pensiero del Papa – diceva che la bellezza è l’armonia di parti ottimamente colorate.

A volte invece sembra che debba esserci armonia ma senza identità oppure identità nel contrasto, anche in aspetti della fede fondamentali quali la carità e la verità. Un altro teologo caro a Benedetto XVI è Hans Urs von Balthasar che soleva dire che “la verità è sinfonica”: è questa armonia sinfonica della bellezza della fede che Benedetto XVI vuole mostrare.
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«Caritas in veritate» e mercato

Lo sviluppo se è solo materiale non salva l'uomo


Il direttore generale di Confindustria ha sintetizzato per "L'Osservatore Romano" il suo intervento al convegno "Oltre l'ideologia della crisi. Lo sviluppo, l'etica e il mercato nell'enciclica Caritas in veritate" organizzato dalla fondazione Magna Carta.

di Giampaolo Galli


La crisi economica che stiamo vivendo ha indotto molti a mettere in discussione il libero mercato e alcuni suoi sviluppi, in primo luogo la globalizzazione. In molti Paesi cresce la tentazione di attribuire proprietà salvifiche allo Stato. L'enciclica Caritas in veritate appare un antidoto molto forte rispetto a queste tentazioni. Anche se ovviamente si chiede, come tutti noi, come sia possibile migliorare la situazione attuale.

Alcuni riferimenti al mercato e al profitto sembrano difficilmente equivocabili. "La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani" (n. 36). Si afferma altresì che il mercato e anche la finanza sono strumenti "di per sé buoni", che tuttavia possono essere male utilizzati. Analogamente, il profitto "è utile se, in quanto mezzo, è orientato a un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo" (n. 21).

Un concetto ancora più forte, che mette in discussione il pilastro logico delle vecchie visioni terzomondiste, è il seguente:  "È tuttavia da ritenersi errata la visione di quanti pensano che l'economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio". Si afferma anzi che è vero il contrario:  "È interesse del mercato promuovere emancipazione, anche se per farlo veramente non può contare solo su se stesso" (n. 35).

Frasi molto più incisive, rispetto a luoghi comuni assai diffusi, sono quelle che riguardano la globalizzazione e gli investimenti all'estero. "La globalizzazione (...) è stata il principale motore per l'uscita dal sottosviluppo di intere regioni e rappresenta di per sé una grande opportunità" (n. 33). E ancora:  "Non c'è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all'estero piuttosto che in patria" (n. 40).

Sembra peraltro naturale che la Chiesa universale guardi alla globalizzazione come "il cammino dell'umanità in via di unificazione" (n. 8) oppure come una sorta di "anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio" (n. 7). Ed è ovvio che la Chiesa si ponga delle domande non solo sui rischi della globalizzazione, ma sui confini delle solidarietà, che non possono rimanere quelli delle comunità locali o degli Stati nazionali, ma devono sempre più estendersi all'intera famiglia umana.

Il sottosviluppo non solo non è una conseguenza, in qualche modo necessaria, del mercato, ma non è neanche imputabile esclusivamente a responsabilità dei Paesi ricchi o all'eredità del colonialismo. Pesano anche corruzione, illegalità e irresponsabilità dei Paesi poveri dove "persistono modelli culturali e norme sociali che rallentano il processo di sviluppo" (n. 22).

È significativo che fra le responsabilità dei Paesi ricchi si citino "gli alti dazi doganali posti dai Paesi economicamente sviluppati che ancora impediscono ai prodotti provenienti dai Paesi poveri di raggiungere i mercati dei Paesi ricchi" (n. 33). Il protezionismo non sembra essere una tentazione in grado di contagiare la Chiesa universale.

Quanto allo Stato, non sembra che l'enciclica possa legittimarne un ruolo accresciuto. C'è piuttosto il riconoscimento che occorrono forme di governance globali e che dunque gli Stati devono trovare un modo di cooperare in maniera più efficace, rinunciando anche formalmente a pezzi della loro sovranità, già peraltro erosa dai processi di globalizzazione. Vi è una grande enfasi sul ruolo del terzo settore, nell'ambito di un ampio ragionamento sull'economia del dono. E vi sono pagine, del tutto condivisibili, sul ruolo delle organizzazioni sindacali.

Già nelle prime righe della lettera, si dice che il bene comune "non è un bene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene" (n. 7). Con questo si liquida ogni idea non solo di collettivismo, ma anche di Stato etico o anche solo di Stato che abbia una sorta di priorità come promotore dell'etica. Al centro c'è la persona umana, non lo Stato. E l'etica deve venire da ciascuno di noi, compresi gli imprenditori e tutti coloro che operano nel mercato, con o senza la finalità del profitto.

Il tema della relazione fra sviluppo economico e sviluppo morale è oggetto di crescente attenzione nell'ambito della scienza economica. È utile al riguardo segnalare un contributo di Benjamin Friedman, dell'università di Harvard, tradotto in italiano con il titolo Il valore etico della crescita. Sviluppo economico e progresso civile (Milano, Università Bocconi, 2008, pagine xiv-610, euro 19). Friedman si ispira non al pensiero cattolico, ma alla tradizione di quei filosofi illuministi le cui idee furono alla base della creazione della democrazia americana e cita Locke e Montesquieu, Adams e Jefferson. Al centro della sua analisi egli pone variabili come la tolleranza (per esempio verso gli immigrati), l'equità (intesa anche come attenzione ai più deboli), l'apertura delle opportunità, la democrazia, la libertà (compresa quella religiosa), la convivenza pacifica, sia all'interno di una nazione sia nei confronti di altre nazioni. La sua conclusione, basata su considerazioni storiche ed economiche, è che mediamente queste virtù sono più diffuse laddove più avanzato è lo sviluppo materiale. Egli aggiunge anche che queste virtù sono quelle maggiormente in grado di incoraggiare l'iniziativa e la creatività e dunque di produrre nuovo sviluppo economico.

Non tutti sono convinti di queste tesi. La scala di valori da prendere in considerazione può essere molto soggettiva e dipende dalle convinzioni filosofiche di ciascuno. Sembra però di poter dire, riprendendo le parole dell'enciclica, che c'è una notevole convergenza fra le conclusioni cui giunge la scienza economica, o almeno una sua parte rilevante, e la valutazione morale (cfr. n. 32).

È peraltro evidente che per la Chiesa lo sviluppo economico è importante, non più solo come strumento per debellare la fame, le malattie endemiche, il sottosviluppo. La Chiesa incoraggia lo sviluppo economico anche in riferimento a Paesi che hanno da tempo debellato le condizioni estreme di povertà (cfr. n. 14). 
In altre parole, lo sviluppo materiale è condizione necessaria, ma non sufficiente per lo sviluppo etico o forse, meglio, è una condizione che agevola lo sviluppo etico. 

È, in ogni caso, responsabilità degli uomini orientare lo sviluppo materiale in una direzione coerente con lo sviluppo etico.
Questo sembra essere il messaggio centrale della lettera papale, un messaggio di cui tutti noi possiamo farci portatori.



(©L'Osservatore Romano - 27-28 luglio 2009)
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«Caritas in veritate»

Un nuovo patto di cittadinanza



di Sergio Chiamparino
Sindaco di Torino

Nella Caritas in veritate si avverte la densità di pensiero e di parola che guarda alle persone e non solo alle cose, ai valori e non solo alle tecniche. Si coglie cioè quell'ambivalenza fondamentale dei processi economici che i grandi classici dei secoli XVIii e xix avevano trattato. Tale per cui, alla fine, è l'azione individuale e collettiva dell'uomo a decidere sull'esito sociale del processo economico.

La crisi non è solo distruzione ma anche opportunità. Non solo, però, per creare nuova ricchezza attraverso un riposizionamento tecnico, organizzativo e territoriale di grandezze economiche, ma soprattutto per ridefinire il rapporto fra le persone e l'economia, come sul "Corriere della Sera" dell'8 luglio sostiene Ettore Gotti Tedeschi.

Da questo punto di vista occorre sottolineare che il lavoro è più che mai la base della produzione di ricchezza. Durante l'intero Novecento è sembrato che si fosse invertito il rapporto fra macchina e lavoro, quest'ultimo divenuto sempre più funzione della prima. Il passaggio, non solo nelle società economicamente più avanzate, alla cosiddetta economia della conoscenza ha svelato le apparenze e messo in risalto la falsificazione che quell'immagine conteneva.

Nulla è più intimamente connesso alla natura dell'uomo del pensare e del conoscere. E, d'altra parte, è questa oggi la risorsa centrale per provare a immaginare una nuova fase di sviluppo sostenibile, muovendo dai punti alti dello sviluppo, là dove le contraddizioni e le potenzialità fondamentali dell'umanità si vedono più nitidamente. Se l'uomo ridiventa centrale nella materialità del processo produttivo bisogna che questi assuma l'irriducibilità della persona alle cose come componente intima del proprio essere e divenire:  nel riconoscere, rispettare e governare i bisogni della persona, sia nelle loro manifestazioni più sofisticate sia in quelle più elementari ed essenziali. Ciò chiama in causa tutti i protagonisti dello sviluppo, le politiche pubbliche ma anche un nuovo modo di essere e concepire l'impresa e nuovi sistemi di relazioni fra le imprese e le rappresentanze sociali.

È vero che "la sfera economica non è mai eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale". Ma a condizione che sia sottoposta dall'esterno e dall'interno a forti tensioni etiche. In caso contrario, tende a essere strumento amorale che soddisfa nel modo più conveniente possibile solo i bisogni rappresentati sul piano economico e che finiscono inesorabilmente per essere gli interessi dei più forti. In altre parole, se le domande all'economia non sono dense di valori umani, essa tende a non considerarli. In effetti, tutta la storia della modernità economica può essere rappresentata come tensione continua fra l'agire tecnico dei processi economici e la loro riconducibilità a finalità umane e sociali attraverso interventi esterni, come le politiche pubbliche, e interni, come le istanze e le lotte sindacali, e i cambiamenti negli assetti dell'impresa.

Ancora Gotti Tedeschi su "L'Osservatore Romano" del 17 luglio sostiene che "l'etica in economia produce risultati migliori". Insomma, conviene. Mi permetto di aggiungere:  a condizione che si creino contesti economici tali da esaltare la convenienza dei comportamenti  etici  e  il  valore del dono.

La crisi e la globalizzazione offrono l'opportunità per ridefinire i bisogni e i beni tesi a soddisfarli, nelle singole aree del pianeta e fra di esse. Nei Paesi più sviluppati ciò che è voluttuario tende a diventare essenziale, mentre nuovi bisogni restano insoddisfatti o solo in parte soddisfatti. Viceversa, nelle aree più povere è l'essenziale a non trovare risposta. Al tempo stesso, sono considerati pubblici, tali cioè da richiedere un contributo pubblico per essere accessibili, beni che nelle aree più sviluppate lo erano un secolo fa, come le forniture energetiche, mentre non lo sono altri beni, come le politiche per gli anziani o per i bambini, che dovrebbero invece esserlo. Questo oggi non avviene al prezzo che il mercato stabilisce senza intervento pubblico, insufficiente però a soddisfare l'intera platea dei bisogni. Al contrario, nei Paesi più poveri non riesce a essere un bene pubblico l'acqua, che è alla base della sopravvivenza di quelle società.

Perché il dono trovi spazio nella normale attività economica occorre un contesto che lo valorizzi, creando le condizioni perché esso possa trovare collocazione utile nella sfera economica. Se in Paesi dove l'agricoltura rappresenta la principale fonte di ricchezza non vi è disponibilità per tutti della risorsa idrica, le politiche di aiuto, per quanto ricche, rischiano e spesso finiscono per accentuare e non ridurre povertà ed emarginazione. Perché accanto alle imprese profit possano partecipare alla sfera economica imprese con finalità mutualistiche occorre che entrino a far parte della sfera economica beni volti a soddisfare bisogni propri della sfera sociale, come per esempio la cura degli anziani. E ciò è possibile solo se essi diventano compiutamente pubblici, cioè sostenuti da tutti per poter essere accessibili nel modo migliore.
 
Occorre, in altre parole, un nuovo patto di cittadinanza sostenuto da un nuovo patto fiscale. Oggi si è frantumato il rapporto virtuoso fra libertà, sicurezza della persona e giustizia sociale che aveva retto il corso della seconda metà del Novecento. La paura che domina il presente nasce da qui. Un nuovo compromesso fra individuo e società può originarsi solo se si avvicina la responsabilità del governante a quella del governato. Qui si apre un campo di pensiero e di azione in cui trova piena cittadinanza il principio di sussidiarietà, inserito in quella che chiamerei la sfida dell'orizzontalità. L'idea cioè che il governo non può più essere dato, a scala globale e locale, dalla sovraordinazione gerarchica delle istituzioni, ma solo dalla loro capacità di misurarsi alla pari, trovando di volta in volta le soluzioni più adatte ai problemi che si fronteggiano.

Una lunga fase di sviluppo ha posizionato e cristallizzato beni, risorse e potere in dati ambiti sociali ed economici. Troppe persone sono escluse parzialmente o totalmente da questi assetti. La sfida della crisi ci obbliga a una potente opera di ricollocazione di risorse e di potere. Le parole dell'enciclica mi sembrano un riferimento e una guida importante per tutti coloro, credenti e non, disponibili a impegnarsi per una nuova civilizzazione dell'economia e della società.


(©L'Osservatore Romano - 31 luglio 2009)
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Sussidiarietà e poliarchia nella «Caritas in veritate»

La garanzia di un potere plurale


di Luca Diotallevi

                                                                       

Se la prendiamo sul serio, per la Caritas in veritate non è ancora venuto il momento del commento generale. Siamo ancora nel momento della lettura, e sarà una lettura impegnativa visto l'invito - come non definirlo radicale? - a sviluppare un "pensiero nuovo" (78), ad intraprendere un "discernimento" caratterizzato da "realismo" (21) e dalla ricerca di "soluzioni nuove" (32). Quanto segue non può dunque che essere un piccolo contributo alla lettura della terza lettera enciclica di Benedetto XVI.
Nel testo molti punti attirano un'attenzione che è quasi difficile tenere a bada. Si pensi allo spessore personale, vocazionale, che è dato alla "verità". Ciascuna persona è invitata a cercare la verità - "la sua verità" - nella propria irripetibile relazione con Dio (1). O si pensi alla risonanza che può avere nelle relazioni con gli altri cristiani e con gli ebrei la sottolineatura del ruolo che l'amore deve avere nella partecipazione alla vita sociale (ad esempio 17 e 19), non escluse politica ed economia.

Per questa via, il magistero sociale della Chiesa esprime profonda simpatia con un punto decisivo del pensiero politico ebraico e con quello di una parte importante della Riforma (a partire dal tema teologico-politico del covenant). Tuttavia, tra i tanti, in questa sede vorrei concentrami su di un solo punto.
Con il numero 57 della Caritas in veritate fa il suo ingresso nel lessico del magistero pontificio il termine "poliarchico"; si tratta di un termine - e più in generale di una prospettiva - comune ad una parte significativa e precisa, ma certo non maggioritaria, del pensiero sociale e politico contemporaneo. Credo che il fatto meriti un po' di attenzione sia per la novità, sia per la scarsa diffusione che il termine ha, sia per il ruolo cruciale che gli viene assegnato. Il numero citato è collocato infatti all'inizio della quarta parte dell'enciclica, quella in cui si avanzano alcune istanze piuttosto precise e tra queste quella di una riforma della governance globale sia in ambito politico che in ambito economico (67); proprio su questa parte, del resto, si è concentrata la maggior parte dei commenti e delle valutazioni "a caldo". L'insieme delle indicazioni è introdotto da una affermazione che non si può trascurare e che vale per tutto ciò che segue:  il sistema di poteri che può aiutare a cogliere la opportunità costituita dalla globalizzazione deve essere strutturato in modo "sussidiario e poliarchico".

Dare un valore positivo ad un assetto sociale poliarchico equivale a sostenere che la vita sociale corre un grave rischio ogni qual volta è posta - più o meno direttamente - sotto un solo potere, come avviene nelle moderne teorie dello Stato.
Sostenere le ragioni della poli-archia equivale a ritenere che la realtà sociale non è compresa adeguatamente se ricondotta ad un solo principio (ad una sola archè), se è concepita come realtà dotata di un solo centro o di un solo vertice. Difendere le ragioni della poliarchia significa contrastare la tendenza del potere politico, o di quello economico, o di quello scientifico a farsi assoluto (superiorem non recognoscens); in breve, significa valorizzare la funzione di reciproca limitazione che ciascun potere sociale svolge rispetto a tutti gli altri. Del resto, il peccato che nell'episodio della torre di Babele (Genesi, 11, 1-9) viene punito è la negazione della varietà e delle differenze fiorite dalla alleanza tra Dio e Noè dopo il diluvio e da Dio stesso benedette.

La comparsa del termine "poliarchico" può funzionare da chiave che ci introduce al significato di alcune delle opzioni strategiche presentate nel testo.
Innanzitutto, come s'è visto, la valorizzazione di un ordine sociale poliarchico (e non mon-archico) è strettamente collegata all'affermazione del principio di sussidiarietà. Immediatamente prima del passaggio appena ricordato si legge "per non dar vita ad un pericoloso potere universale di tipo monocratico, il governo - la governance, come in altre versioni del testo, il sistema dei poteri, potremmo anche dire in italiano - deve essere di tipo sussidiario". Dunque, con il riferimento alla poliarchia che immediatamente segue si indica l'effetto combinato della sussidiarietà orizzontale - per cui la politica non deve fare quello che meglio farebbe l'economia, l'economia ciò che meglio farebbe la scienza, e così via - e della sussidiarietà verticale, per cui un'organizzazione più lontana dalla persona non deve fare ciò che meglio può fare un'organizzazione più vicina alla persona. Insomma, poliarchico è un ordine sociale sempre aperto ed al quale contribuiscono - anche controllandosi e limitandosi reciprocamente - istituzioni, poteri e soggetti i più diversi.

Il riferimento alla poliarchia non ci aiuta a comprendere solo il respiro della sussidiarietà, ma ci aiuta a comprendere anche molti passaggi dell'intera enciclica. Lo stato è spiazzato e marginalizzato dalla globalizzazione (ad esempio 24 e 37):  uno stato planetario - se mai possibile - è da temere, ma la società globale continua ad aver bisogno anche di istituzioni e di poteri politici che sappiano abbandonare pretese di assolutezza e sappiano specializzarsi per operare in un contesto poliarchico. Altrove l'enciclica raccomanda una poliarchia ricca, perché anche il "binomio esclusivo mercato-stato corrode la socialità" (39). Tanto più la società  è  poliarchica,  quanto  più è civile.

Il riferimento alla poliarchia, inoltre, aiuta a cogliere una delle radici che collega la Caritas in Veritate a tutta la recente crescita del più alto magistero sociale della Chiesa. Anche attraverso quel riferimento, il testo di Papa Ratzinger rivela il suo legame con l'incontro tra insegnamento sociale della Chiesa e costituzionalismo come istanza di limitazione dei poteri del quale Pio xii fu pioniere, con il riconoscimento del valore della libertà della persona operato da Giovanni xxiii nella Pacem in terris, con l'insegnamento sociale del Concilio - quello della Gaudium et spes e non di meno quello della Dignitatis humanae - con il Paolo VI citatissimo nel testo ratzingeriano, con il Wojtyla della Centesimus annus che con sistematicità insiste sui limiti da porre all'intervento del potere politico innanzitutto nelle vicende economiche e culturali (48).

In un certo senso il numero 7 di Caritas in veritate sintetizza il cammino di questo ultimo mezzo secolo con la scelta di una immagine che in qualche modo suggella una sorta di riduzione allo stato laicale di ogni potere mondano, politico come economico:  "Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pòlis, di città". In prospettiva poliarchica, la civile convivenza è rappresentata in maniera più adeguata come pòlis che non come Stato.

Infine, l'istanza poliarchica - quella di poteri che limitandosi contrastano l'egemonia di uno solo di essi - bene si integra con le altre due che concorrono a dare il senso dell'ampiezza del bene comune (15):  l'irriducibilità della persona umana a mero elemento delle dinamiche sociali e la destinazione di ogni persona umana alla vita eterna, l'una e l'altra ricordate ancora una volta con testi di Paolo VI. La trascendenza della vita umana e la sua destinazione all'eternità ben si integrano con l'opzione poliarchica. Questa certo non le contiene, ma provvede loro l'idea di una civile convivenza in cui ogni potere deve essere sempre limitato e già per questa ragione non può disporre del futuro e neppure del solo presente. Nella prospettiva della poliarchia nessuna istituzione, a cominciare dallo Stato, può pretendere un potere assoluto, può esigere obbedienza incondizionata dalle coscienze, può circoscrivere l'orizzonte della vicenda umana entro uno spazio ed un tempo.


(©L'Osservatore Romano - 1 agosto 2009)
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«Caritas in veritate»

Come un lampo nel malessere della società


di Xavier Darcos
Membro dell'Institut
Ministro francese del Lavoro, delle relazioni sociali,
della solidarietà e della città

Rivolgendosi a un mondo disorientato, non egualitario e traumatizzato dagli spasmi di una crisi globale, l'enciclica Caritas in veritate arriva al momento opportuno, come un lampo che squarcia nubi nere. Essa permette a Benedetto XVI di precisare di nuovo la dottrina della Chiesa di fronte alle realtà sociali di questo tempo, che si lascia andare alle leggi ciniche del profitto e a un'interdipendenza economica senza regole. Essa viene ad annunciare che altre strade sono possibili e necessarie. Essa attinge, alla fonte del messaggio cristiano, la speranza di orientamenti e di soluzioni innovatrici.

Benedetto XVI celebra la carità, virtù cardinale della fede, slancio dell'anima verso l'altro, "via maestra della dottrina sociale della Chiesa". Egli si colloca dunque nel solco di luce della Rerum novarum di Leone XIII e della Populorum progressio di Paolo VI. Il Papa recupera prima di tutto il fondamento del cristianesimo - l'amore, la condivisione e la giustizia - per trovarvi rimedio alle tattiche egoiste del ciascuno per sé. Ricorda che il Vangelo apre un cammino verso una società di libertà e di eguaglianza. Poiché "un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali".

Giovanni Paolo II aveva colpito l'opinione pubblica per la lotta dello Spirito, che egli incarnò, contro il marxismo sovietico e staliniano. Ma egli criticò anche le derive del capitalismo generalizzato e anomico. Con lo stesso slancio, Benedetto XVI fa un bilancio severo delle derive criminali della mondializzazione, dovute a una finanza fondata sul guadagno immediato di pochi. Le sue analisi sono precise, documentate e di ampio respiro. Esse dimostrano l'alienazione di un'umanità devastata da una diseguaglianza insopportabile tra gli esseri, le società e le nazioni.

Tale bilancio, reso più cupo dalla crisi attuale, esige una ridefinizione dello sviluppo che non si saprebbe ridurre a una semplice crescita economica continua. Il Papa ne stigmatizza, nelle loro diverse forme visibili, gli evidenti fallimenti:  esclusione, marginalizzazione, miseria e disprezzo dei diritti umani fondamentali. Il processo di sviluppo ha bisogno di una guida:  la verità. "L'amore nella verità", è "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera". Altrimenti, "l'agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società".

Apriamo gli occhi:  il progresso vorace, fondato su risorse materiali e speculative, ha fallito. Il mondo sta divorando se stesso, come Chrònos che divora i suoi figli. La Chiesa propone un'altra scelta:  uno "sviluppo integrale", che assicura un'emancipazione umanistica condivisa. Poiché la crescita è un beneficio, la mondializzazione non genera necessariamente una catastrofe, la tecnica non è in sé perversa, ma queste forze brute devono essere subordinate a un'etica. In questo mondo scombussolato, le esperienze più promettenti hanno cominciato a stabilire nuove relazioni tra gli uomini. Benedetto XVI chiede di generalizzare tali tentativi, di esplorare le vie del dono, della gratuità, della ripartizione. Condanna la vacuità di un relativismo cieco che priva gli uomini di un senso alla loro vita collettiva. Egli biasima così i due pericoli che minacciano la cultura:  un eclettismo dove ogni cosa vale l'altra, senza riferimenti né gerarchie, e una uniformizzazione degli stili di vita.

Di fronte al fallimento dell'avere e al caos dell'essere, Benedetto XVI reclama una nuova alleanza tra fede e ragione, tra la luce divina e l'intelligenza umana. Anche se "non ha soluzioni tecniche da offrire", la Chiesa ha "una missione di verità da compiere" in vista di una "società a misura dell'uomo, della sua dignità, della sua vocazione".

Poiché, se si va al di là delle apparenze, le cause del sottosviluppo non sono prima di tutto di ordine fisico. Esse risiedono più che altro nella mancanza di fratellanza tra gli uomini e i popoli:  "La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". Il Papa lancia un appello perché questa crisi ci obblighi a riconsiderare il nostro itinerario, poiché, mentre la ricchezza mondiale cresce, le disparità aumentano. Tale magma, erodendo i valori, porta a disprezzare la vita nelle sue specificità, a scoraggiare la natalità, a opprimere la libertà religiosa, a terrorizzare la spiritualità, a frenare la fiducia e l'espansione. Si tratta semplicemente di far sì che gli uomini prendano coscienza di essere parte di una sola famiglia, il che esige il ritorno a dei valori inusitati:  il dono, il rifiuto del mercato come legame di dominazione, l'abbandono del consumismo edonista, la ridistribuzione, la cooperazione e così via.

Il pensiero del Papa scorge l'incubo di un'umanità inebriata dalla pretesa prometeica di "potersi "ri-creare" avvalendosi dei prodigi della tecnologia", quali la clonazione, la manipolazione genetica, l'eugenismo. La fonte di queste devianze resta la stessa:  la disumanizzazione. Poiché, ovunque noi viviamo e a qualsiasi grado di responsabilità ci collochiamo, ciascuno di noi può riconciliarsi con l'amore e il perdono, la rinuncia al superfluo, l'accoglienza del prossimo, la giustizia e la pace. Tale condotta dipende dall'esigenza morale. Essa è divenuta una condizione di sopravvivenza.

La lettura di questa enciclica, pervasa di un fervore spirituale magnifico, non dà l'impressione di una meditazione astratta o di una preghiera. Raramente un Papa ha toccato da così vicino la realtà per analizzarne a fondo i mali e per proporre, con pragmatismo e lucidità, gli antidoti più utili. Che il suo messaggio possa essere compreso!



(©L'Osservatore Romano - 3-4 agosto 2009)
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04/08/2009 19:58

«Caritas in veritate»

Due Papi e la Trasfigurazione

                                                         


di Robert Imbelli

La Trasfigurazione, una delle feste teologicamente più ricche, rivela il vero volto del Signore, Figlio amato del Padre, e il destino a cui i discepoli e tutti gli uomini siamo chiamati, svelando la verità di Cristo e dell'intera umanità, come racconta san Marco:  "Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro" (9, 2).
Alcuni Padri della Chiesa hanno inteso le parole "sei giorni dopo" come un annuncio del compimento della creazione. La creazione di Adamo ed Eva da parte di Dio si compie cioè nella rivelazione dell'uomo vero, il nuovo Adamo, Gesù Cristo, nel quale la gloria di Dio dimora fisicamente.
Inoltre, la progressiva educazione dell'umanità da parte di Dio, attraverso la paziente pedagogia della Torah e dei Profeti, culmina nel Figlio di Dio. Pertanto, Mosè ed Elia appaiono avvolti nella luce, la cui fonte è Cristo. La loro testimonianza è stata un'anticipazione della gloria pienamente rivelata in Cristo, le loro parole un'eco della Parola del Padre diventata umana in Gesù.
Nella Caritas in veritate il Papa scrive:  "Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale" (n. 78). Questo tema, caro a Paolo VI, ispira la dottrina sociale della Chiesa e spinge a ricercare lo sviluppo umano integrale. Attingendo alla Populorum progressio, l'enciclica di Benedetto XVI sottolinea che "la verità dello sviluppo consiste nella sua integralità:  se non è di tutto l'uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo" (n. 18).
L'umanesimo integrale esalta la dignità di ogni persona dal concepimento alla morte naturale. Riconosce i bisogni materiali e spirituali della famiglia umana. Promuove la giustizia sociale e attribuisce il posto più elevato al bene comune. Sa che il servizio a questo bene esige una solidarietà concreta ed efficace a ogni livello. Riconosce che il destino dell'umanità è collettivo e che il suo fine ultimo è la comunione dei santi, che vivono con Dio per l'eternità. Un umanesimo davvero integrale contempla l'umanità e tutto il creato alla fine trasfigurati in Cristo.
In questa luce, pertanto, si può celebrare la Trasfigurazione come la festa in cui la Chiesa proclama la sua visione dell'umanesimo integrale. Il contemplare la bellezza del Cristo trasfigurato fa sì che i discepoli desiderino che il mondo intero sia avvolto dalla luce trasfigurata e agiscano con audacia secondo questo santo desiderio.
Ma la Trasfigurazione rivela anche "il prezzo del discepolato" (Dietrich Bonhoeffer). Nel racconto di san Luca, Mosè ed Elia parlano con Gesù del "suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme" (9, 31). La piena portata dell'amore di Gesù, la sua caritas in veritate, si manifesta solo nel mistero pasquale. La nuova vita trasfigurata può essere ottenuta solo attraverso la morte del vecchio Adamo in noi, affinché possiamo rinascere alla novità della vita trasfigurata.
Per vivere fedelmente il cammino della fede serve un rinnovato impegno a seguire il Cristo trasfigurato. La visione cristiana di un umanesimo integrale deve essere incarnata in una spiritualità integrale in cui preghiera e azione, verità e amore, responsabilità individuale e giustizia sociale formano un insieme inconsutile.
La Caritas in veritate è permeata dalla convinzione che occorrano disciplina spirituale e conversione costante:  "Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i "cuori di pietra" in "cuori di carne" (Ezechiele, 36, 26), così da rendere "divina" e perciò più degna dell'uomo la vita sulla terra" (n. 79).
Paolo VI ha manifestato questo mistero nella sua vita. L'immagine del Signore trasfigurato ha dato energia al cuore della sua spiritualità e della sua speranza per la Chiesa e l'umanità. È una meravigliosa grazia della Provvidenza che questo Papa sia morto la sera della festa, il 6 agosto 1978.
Tra le ultime parole ascoltate da Paolo VI, nella messa della festa, c'erano probabilmente quelle della seconda lettera di Pietro (1, 17-19), che sono una testimonianza di questo grande Pontefice. Gesù "ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce della maestosa gloria:  "Questi è il Figlio mio, l'amato, nel quale ho posto il mio compiacimento". Questa voce noi l'abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte. E abbiamo anche, solidissima, la parola dei profeti, alla quale fate bene a volgere l'attenzione come lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e non sorga nei nostri cuori la stella del mattino".


(©L'Osservatore Romano - 5 agosto 2009)
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«Caritas in veritate»

Un'enciclica che va oltre Westfalia


di Giandomenico Picco
Già Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite

Lo Stato-nazione moderno, che nacque con il trattato di Westfalia nel 1648 e venne plasmato dalle rivoluzioni americana e francese, ha sempre avuto un'arma segreta:  il concetto di identità al singolare. Lo storico statunitense Arthur Schlesinger diceva che il nostro intelletto non è strutturato per immaginare le molteplici possibilità del futuro. Era difficile in realtà immaginare la globalizzazione come si è sviluppata negli ultimi decenni:  ha cambiato il concetto di vicino, inteso come chi può avere un impatto positivo o negativo sulla vita di ognuno. Oggi, infatti, le azioni di chi vive in altri continenti possono influenzare la nostra quotidianità, mentre da bambino, il mio concetto di vicino erano la Carinzia austriaca, la Slovenia allora jugoslava e il Veneto.

La Caritas in veritate sottolinea che la globalizzazione "ci rende vicini, ma non ci rende fratelli" (19). Nel mio percorso tra popoli in guerra e terrorismo il concetto di comunicazione e dialogo, di convivenza e anche amicizia - non importa quanto diverse fossero le culture - appariva ed era realizzabile; ma devo ammettere che il concetto di fratellanza non figurava negli obbiettivi di nessun negoziato, ufficiale o non ufficiale. Lo spiega subito dopo la stessa enciclica:  la ragione è in grado di stabilire "una convivenza" ma non "la fraternità".

Negli occhi - la sola parte del volto che potevo vedere - del libanese mascherato che mi aveva fatto incappucciare e portare via di notte dalle strade di Beirut, cercavo una comunanza umana. Mi sarebbe stato utile in quella occasione avere in mente altre parole dell'enciclica, che sono molto care a Papa Benedetto:  e cioè che "la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano" (56).

Nella Caritas in veritate ho trovato semi di una visione del futuro assetto internazionale che sono propri anche del mio modo di leggere la realtà e della mia storia personale multiculturale di figlio di zone confinarie e manovale della mediazione tra genti in conflitto. Il riferimento ai limiti dello Stato nel mondo globalizzato (cfr. 24), e più ancora l'affermazione che "non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche" (41), aprono le porte a una visione che oserei chiamare postwestfaliana dello Stato-nazione.

Nel sistema che vedo emergere, ogni attore è più forte e al tempo stesso più debole di una trentina di anni fa, come effetto di interrelazioni e interdipendenze impensabili in passato. La possibilità che ogni progetto nazionale abbia una sua durata di vita diversa da altri e che poi si esaurisca è plausibile:  per alcuni Stati-nazione tale progetto potrebbe essere vicino alla conclusione.

Il Papa accenna a una autorità politica mondiale che non esiste ancora, ma anche al ruolo dei singoli e dei gruppi non governativi, non eletti, come attori della società internazionale che sta emergendo. Sono forse accenni al germinare dei primi elementi di democrazia diretta in una società mondiale dove anche l'individuo ha nelle sue mani più strumenti che mai per comunicare la propria volontà e opinioni al di là dei sistemi di rappresentatività indiretta?

L'enciclica incoraggia il concetto di "responsabilità di proteggere" (67) - i cittadini di ogni Paese da genocidio, crimini di guerra, pulizie etniche e crimini contro l'umanità - anche se i rispettivi Stati non sono in grado di farlo:  è questa la nuova frontiera del diritto internazionale che va molto oltre Westfalia. Ancora più importante negli accenni al futuro assetto del mondo è l'appello a liberarci da quelle ideologie "che semplificano in modo spesso artificioso la realtà" (22). Una speranza che incontra oggi, in varie parti del mondo, una resistenza forte dovuta forse alla paura che la nuova complessità di un mondo globalizzato ha di fatto provocato in molti.

Fondamentalismi di varia estrazione sono purtroppo presenti in diversi Paesi e con essi l'arroganza dell'ignoranza sparge ancora i semi dello scontro e del conflitto. Il numero delle variabili che deve essere tenuto in conto dai gestori del mondo è aumentato negli ultimi vent'anni e la tentazione di rifugiarsi in teorie semplicistiche si nutre di sentimenti ancestrali. A questo l'enciclica risponde:  "La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà" (34). Da qui nasce la necessità di generare speranza.

Benedetto XVI auspica anche una riforma del sistema delle Nazioni Unite e delle strutture internazionali economiche e finanziarie. Spero che ciò non si faccia solo a livello numerico:  un Consiglio di sicurezza molto allargato, per esempio, sarebbe una riforma modesta e potrebbe generare anche una riduzione della sua efficacia. A essere oggetto di riforme dovrebbe piuttosto essere il metodo di lavoro dei vari organi delle Nazioni Unite.

"L'unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l'uno verso l'altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità" (53) afferma la Caritas in veritate, sottointendendo forse un modo di leggere l'identità in maniera diversa. La globalizzazione sta lentamente minando ciò che Amartya Sen chiama "l'illusione della identità obbligata" (choiceless identity), l'arma segreta dello Stato-nazione. L'emergere dell'identità multipla, a mio avviso, non solo cambierà il sistema internazionale, ma anche lo stesso Stato-nazione e renderà più realizzabile il concetto di famiglia umana. Allora, forse, avremo leader che sapranno essere tali anche senza bisogno di un nemico.



(©L'Osservatore Romano - 7 agosto 2009)
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12/08/2009 18:21

In Ecuador un seminario della Conferenza dell'episcopato latinoamericano

La difesa dell'ambiente alla luce della Caritas in veritate




Quito, 12. Il tema dello sviluppo fortemente connesso, oggi, con i doveri che nascono dal rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale, il cui uso rappresenta "una responsabilità verso i poveri, le generazioni future e l'umanità intera", è stato al centro della riflessione sviluppata durante il seminario della Conferenza episcopale dell'America Latina e dei Caraibi (Celam) svoltosi a Quito, in Ecuador. Filo conduttore del dibattito l'encniclica Caritas in veritate di Benedetto XVI in relazione alla grandi sfide ecologiche e alla difesa del creato. Il Papa, infatti, sottolinea che nella natura "il credente riconosce il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni- materiali e immateriali - nel rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso". Ma, al contempo, ammonisce che "se la natura, e per primo l'essere umano, vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza della responsabilità si attenua nelle coscienze".

All'incontro, promosso dal dipartimento "Giustizia e solidarietà" del Celam hanno preso parte diciotto delegati i quali, a conclusione dei lavori, hanno pubblicato un documento per ribadire l'impegno dei cristiani della regione in difesa dell'ambiente minacciato da gravi squilibri e abusi che mettono a repentaglio la vita stessa. Tra le preoccupazioni più urgenti sottolineate l'effetto serra e le emissioni di gas nocivi e al tempo stesso il divario che divide poveri e ricchi, due "situazioni che di per sé denunciano che il modello di vita non è più sostenibile". Nonostante le buone intenzioni - si ricorda - tuttora, il 25 per cento della popolazione mondiale consuma l'80 per cento delle risorse del pianeta. "Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità. Nei Paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante".

Si tratta, osserva il documento, di un "modello falso" perché basato unicamente ed esclusivamente sulla concezione dell'uomo come "un essere-economico", quasi fosse solo una macchina "per produrre o per consumare". La stessa economia, ricordano, spesso è concepita per fare uso dell'uomo come una qualsiasi risorsa dei processi produttivi e non come il centro e il fine ultimo della crescita che, per di più, è proposta soltanto come aumento dei beni materiali. I partecipanti al seminario inoltre riflettono anche su altre sfide non meno pressanti come quella dell'accesso all'acqua e ai servizi sanitari di base così come quella sul cibo, non garantito a oltre un miliardo di persone. Al riguardo il documento si appella agli insegnamenti di Benedetto XVI nella Caritas in veritate che scrive:  "Il diritto all'alimentazione, così come quello all'acqua, rivestono un ruolo importante per il conseguimento di altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal  diritto primario alla vita. È necessario, pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l'alimentazione e l'accesso all'acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né discriminazioni" (27).
I rappresentanti del Celam, nel condividere l'intuizione di uomini politici e responsabili di istituzioni internazionali, evidenziano come "la via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri" possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in atto. Infatti attraverso piani di finanziamento ispirati alla solidarietà i Paesi economicamente poveri, possono essi stessi provvedere a soddisfare le domande di beni di consumo e di sviluppo dei propri cittadini. Con tale prassi di sviluppo autogeno, non soltanto è possibile produrre vera crescita economica, ma si può anche concorrere a sostenere le capacità produttive dei cosiddetti Paesi ricchi che rischiano di essere compromesse dalla crisi.

I partecipanti si congedano ricordando che si tratta di "sfide che interpellano la voci profetiche delle Chiese locali, chiamate allo sviluppo di una nuova spiritualità che possa essere stimolo e fondamento per un cambiamento radicale degli stili di vita" in difesa della vita umana, del Creato e dei beni che Dio ha messo a disposizione di tutti i suoi figli.

"Perciò - si legge a conclusione - l'educazione ai valori del Vangelo in ogni tappa dello sviluppo integrale della persona dovrebbe permettere la trasformazione della mentalità imperante verso atteggiamenti più sensibili e critici nell'uso dei beni naturali e culturali".



(©L'Osservatore Romano - 13 gosto 2009)
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01/09/2009 11:41

Buona accoglienza della "Caritas in Veritate" tra i protestanti evangelici


56 personalità firmano un messaggio di sostegno all'Enciclica


di Inma Álvarez

WASHINGTON, venerdì, 28 agosto 2009 (ZENIT.org).- 56 personalità del mondo protestante evangelico statunitense, tra professori universitari, editori e rappresentanti di varie istituzioni, hanno firmato il 27 luglio un messaggio di sostegno all'ultima Enciclica di Papa Benedetto XVI, "Caritas in Veritate".

Nella dichiarazione, intitolata "Doing the Truth in Love", a cui ZENIT ha potuto avere accesso, i firmatari "lodano" il testo e chiedono "ai cristiani di ogni parte, e soprattutto ai nostri membri evangelici", di leggerlo.

Allo stesso modo, esortano tutti i cristiani a un "serio dialogo" sulle proposte dell'Enciclica.

I firmatari si congratulano soprattutto con "il modo in cui questa Enciclica considera lo sviluppo economico in termini di traiettoria del vero fiorire umano" e chiedono "una nuova visione dello sviluppo che riconosca la dignità della vita umana nella sua pienezza", il che presuppone la "preoccupazione per la vita dal concepimento alla morte naturale, per la libertà religiosa, per l'alleviamento della povertà e per la cura del creato".

In particolare, si dicono d'accordo con il concetto di "sviluppo umano integrale" e con la visione del fenomeno della globalizzazione.

"La globalizzazione deve diventare un processo di integrazione centrato sulla persona e orientato alla comunità", segnala il testo.

I firmatari apprezzano anche che la "Caritas in Veritate" non compia un'analisi semplificatrice della polarizzazione tra il libero mercato e l'eccessivo intervento statale, ma inquadri l'economia nelle relazioni umane, ritenendola quindi soggetta a norme morali.

"La vita economica non è amorale o autonoma - affermano -. Le istituzioni economiche, inclusi gli stessi mercati, devono essere caratterizzate da relazioni interne di solidarietà e fiducia".

Sostengono anche "l'enfasi della 'Caritas in Veritate' sull'impresa sociale, cioè sullo sforzo degli affari guidato da un principio che trascende la dicotomia del beneficio sì/beneficio no".

"In termini più generali, esortiamo gli evangelici a considerare l'invito di Papa Benedetto XVI a riflettere su chi deve essere considerato agente imprenditoriale e sul significato morale dell'investimento".

Ad ogni modo, sostengono che nell'Enciclica manchi "una critica più forte contro l'elevazione del denaro a uno stato di idolatria e il conseguente dominio dei mercati finanziari su altri elementi dell'economia mondiale".

Sostengono infine la preoccupazione dell'Enciclica per la decadenza dei sistemi di sicurezza sociale, per il potere sempre minore dei sindacati e per la pressione di una mobilità lavorativa socialmente distruttiva.

Concordano poi sul timore per la "crescita di un welfare State arrogante, che degrada il pluralismo sociale e civico. Siamo quindi d'accordo sul fatto che la sussidiarietà e la solidarietà devono procedere insieme, come propone la 'Caritas in Veritate'". Non "più Stato", ma "Stato migliore".

"Con la 'Caritas in Veritate', ci impegniamo a non essere vittime della globalizzazione, ma suoi protagonisti, lavorando per la solidarietà globale, la giustizia economica e il bene comune, come norme che trascendono e trasformano le ragioni del beneficio economico e del progresso tecnologico", conclude il messaggio.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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01/09/2009 11:42

Un ex Ministro colombiano analizza la “Caritas in veritate”

Parla l'economista e politico Juan Camilo Restrepo


di Carmen Elena Villa

BOGOTA', lunedì, 31 agosto 2009 (ZENIT.org).-

Una “formidabile fucina di riflessione sociale”: così l'ex Ministro delle Finanze della Colombia Juan Camilo Restrepo definisce il magistero sociale della nuova Enciclica di Benedetto XVI, Caritas in Veritate.

Restrepo, politico ed economista, ha confessato a ZENIT che si tratta di “uno strumento ideale per dare livello alla riflessione politica e sociale” e “per affrontare i grandi temi della società contemporanea”.
L'Enciclica, sottolinea, deve essere letta e applicata “perché la dignità dell'uomo sia sempre al primo posto, e perché non ceda la preminenza a tendenze pericolose”.

A suo avviso, l'apporto principale del testo è il fatto di “essere un documento che gode dell'autorità della voce del Vaticano”. “Se venisse letto dai responsabili della definizione delle politiche pubbliche” dell'America Latina, ha aggiunto, “potrebbe arricchire e innalzare di molto il livello del dibattito politico”.
Per Restrepo, “l'America Latina è il continente in cui c'è una peggiore distribuzione delle entrate”.

“In questo panorama di acuta disuguaglianza e di ingiustizie nella distribuzione dei frutti dello sviluppo, non ho dubbi sul fatto che un'Enciclica come questa possa suscitare un salutare dibattito etico”.
In Sudamerica, lamenta, “l'assistenzialismo è consustanziale al messianismo e al populismo che sta tornando a fiorire in molti Paesi della regione. L'opportuna distinzione dell'Enciclica nel senso che il principio della sussidiarietà non deve identificarsi con l'assistenzialismo risulta di grande attualità e importanza”.
In una società sempre più consumistica, sostiene Restrepo, c'è comunque ancora spazio per il principio della gratuità e la logica del dono che il Papa chiede nella sua Enciclica.

“Iniziamo a vedere un rifiorire della coscienza nella responsabilità sociale imprenditoriale in tutto il continente. Il che, in fondo, è uno dei messaggi forti auspicati dall'Enciclica”, ha concluso.
[Traduzione dallo spagnolo e adattamento di Roberta Sciamplicotti]
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04/09/2009 18:47

Un lettura bioetica dell'Enciclica “Caritas in Veritate”

Intervista al professor Dalton Ramos



di Alexandre Ribeiro

SAN PAOLO, giovedì, 3 settembre 2009 (ZENIT.org).-

La recente Enciclica sociale di Benedetto XVI,
Caritas in Veritate, apporta una serie di riflessioni che coinvolgono il campo della bioetica. Per offrire alcune chiavi di lettura in questo ambito, ZENIT ha parlato con il professor Dalton Ramos.
Professore titolare dell'Università di San Paolo (USP), Ramos insegna Bioetica nei corsi della Facoltà di Odontologia (FOUSP) e offre discipline di bioetica per i programmi post-lauream dell'USP.

E' membro della Pontificia Accademia per la Vita, della Commissione di Bioetica della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB) e dell'équipe del Settore Vita del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM).Di recente ha coordinato la pubblicazione di due libri: “Bioetica, Persona e Vita” (Edizioni Difusão) e “Bioetica & Documento di Aparecida” (Edizioni PUCSP in collaborazione con le Edizioni Difusão”.

Quali indicazioni o punti di partenza sottolineerebbe per le persone che vogliono leggere e studiare l'Enciclica?

Dalton Ramos: Questa Enciclica non può essere letta, come del resto ogni documento del Magistero della Chiesa, solo nei suoi aspetti specifici. Ad esempio, il tema della bioetica, quello della difesa della vita e varie altre tematiche dell'Enciclica, come la questione economica, non possono essere considerati in modo distaccato. Il fulcro dell'Enciclica, qualsiasi lettura desideriamo fare, è il volto di Cristo.

Il punto centrale è proprio nelle prime righe del testo: “La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera”. Questa frase non è solo un'apertura. Esprime tutto il senso in cui si possono leggere le questioni seguenti.

Il Papa segnala che la Dottrina Sociale della Chiesa ha come via maestra la carità. Quando si parla di questa Enciclica, è sempre importante riprendere la Dottrina Sociale della Chiesa, visto che il testo viene a consolidare questa via.Al punto 8 si parla dello sviluppo umano integrale, riprendendo ciò che il Magistero della Chiesa sosteneva già nel 1967, nella Populorum Progressio di Papa Paolo VI. Benedetto XVI riprende questo aspetto. Quando si pensa alle questioni che coinvolgono la dignità umana e la difesa della vita, è necessario considerare questa premessa e ogni sforzo per lo sviluppo umano integrale. In particolare, ritengo che le azioni educative favoriscano il fatto di poter aiutare la persona a vedersi in modo completo.

E il tema della difesa della vita?

Dalton Ramos: Già al punto 15, il Papa tocca in modo più diretto le questioni che coinvolgono la difesa della vita. Riprende le Encicliche Humanae Vitae ed Evangelium Vitae. Il Pontefice viene quindi a sommare a questi riferimenti così importanti il costante lavoro pedagogico della Chiesa di riprendere quello che è il nostro senso, quali ragioni ci portano a comprendere più profondamente cosa sono la dignità e il valore della persona umana.

Approfondendo ulteriormente questi aspetti, il punto 28 afferma esplicitamente: “Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative allo sviluppo dei popoli”.

La base dello sviluppo dei popoli è Cristo, come si è detto all'inizio del testo. Non possiamo tuttavia separare la questione dello sviluppo da quella del rispetto per la vita.

“L'apertura alla vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n.28).

Quando si nega che l'apertura alla vita sia al centro del vero sviluppo, iniziano ad essere evidenti i segnali che questa società si sta degradando. Ciò aiuta a capire se una società prende effettivamente in considerazione lo sviluppo a favore della propria umanità.

Si parla anche della ricerca scientifica e tecnologica.

Dalton Ramos: La questione della ricerca scientifica appare al punto 31. Qui Benedetto XVI riprende alcune categorie che hanno caratterizzato il suo Magistero, richiamando l'attenzione su un aspetto culturale del nostro tempo: “L''allargamento del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa' è indispensabile per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello sviluppo e della soluzione dei problemi socio-economici” (n. 31).

Questo è un aspetto molto forte di questa Enciclica, e qui si entra nella questione della tecnologia, di uno sviluppo che si basa su di essa. E' un insegnamento che ci ricorda che la tecnologia è un bene che l'intelligenza umana può offrire per lo sviluppo dell'umanità come un tutt'uno, chiedendo che ciò si faccia attraverso l'uso della ragione. Ragione che significa considerare la realtà nel suo insieme.

Qui si parla già della questione relativa all'uso adeguato della ragione, che il Papa sottolinea sempre.

Dalton Ramos: Sì. Come si può affrontare in modo adeguato il tema dell'aborto, dell'eutanasia? Facendo un uso adeguato della ragione e dell'esperienza umana. In una società sviluppata, non solo dal punto di vista del reddito pro capite, ma in cui esistono politiche pubbliche effettivamente accessibili a tutti, il tema dell'aborto e quello dell'eutanasia passano ad essere secondari, perché quando ci sono condizioni efficaci per la vita si può affrontare in modo adatto il tema della morte e questa non è al centro del dibattito. Non è proprio della natura umana parlare di morte quando ci sono condizioni di vita. La questione dello sviluppo economico, quella dello sviluppo sociale e quella della difesa della vita sono interconnesse proprio per questo.

Al punto 44 il Papa dice che “l'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica”. Sottolinea anche come questione centrale la famiglia: “Gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, facendosi carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura relazionale”.

Ricordando qui le caratteristiche che promuovono la centralità, richiamerei l'attenzione su un altro punto che l'Enciclica sottolinea, perché è un elemento essenziale della Dottrina Sociale della Chiesa: la questione della sussidiarietà. Nella questione della difesa della vita, ciò significa che quegli organismi sociali che stanno promuovendo la vita, qualunque sia la loro origine, devono ricevere sussidi dagli organismi governativi per svolgere questo compito.

Al punto 51, Benedetto XVI segnala poi che “il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società. Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia umana e, con esso, quello di ecologia ambientale”.

Questa è un'altra diagnosi compiuta dal Papa, che sottolinea anche la necessità che la gente riprenda la questione della solidità morale. In particolare insisterei sulle azioni educative.

Nel corso dell'Enciclica si amplia l'orizzonte della comprensione dei temi di bioetica.

Dalton Ramos: Il VI capitolo, che parla dello sviluppo dei popoli e della tecnica, è impressionante per chi vuole comprendere ciò che il Magistero della Chiesa dice riguardo alla difesa della vita. In poche pagine si riprende la Dottrina Sociale in questo campo, e Benedetto XVI aggiunge la preoccupazione che riferivamo sull'uso della ragione. Al punto 70 si legge: “Lo sviluppo tecnologico può indurre l'idea dell'autosufficienza della tecnica stessa quando l'uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire”.

Quando l'uomo è chiamato nella sua vocazione, creatività e intelligenza allo sviluppo della tecnica, deve interrogarsi non solo sul come, ma anche sui perché, cercare il significato delle azioni umane anche per quanto riguarda il progresso tecnologico. Qui si arriva specificamente alla questione dell'opportunità di una migliore preparazione degli scienziati per ciò che concerne la questione morale.

Al punto 74, poi, il Papa esplicita la questione della bioetica: “Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto da se stesso o se egli dipenda da Dio”.“Di fronte a questi drammatici problemi, ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l'uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l'estraniamento dalla vita concreta delle persone”.

Lo sviluppo integrale è un sogno lontano?

Dalton Ramos: No, anzi. Questo sviluppo integrale non può essere confuso con il sapere scolastico, con i titoli. Quando la gente parla di sviluppo integrale, ed è proprio questo l'equivoco che ha a che vedere con l'uso ridotto della ragione, non si può concepire come se si potesse acquisire solo con il sapere scientifico. In verità stiamo parlando della conoscenza di ciò che è la persona umana.

Non è con la scienza che interpreto ciò che è la persona umana, cioè il suo significato più profondo. Con la scienza studio un determinato aspetto di questa realtà chiamata persona umana, ad esempio come funziona il suo organismo. Se vogliamo conoscere la persona umana, dobbiamo avvalerci di altri metodi oltre a quello scientifico, come quello che ci viene offerto guardando all'esperienza che ciascuno può fare su ciò che è essere una persona, nell'insieme delle sue dimensioni fisica, psicologica, spirituale, sociale o morale.

In questo senso, quindi, lo sviluppo integrale della persona umana è un guardare alla propria persona. Non è un insieme di informazioni come si cerca di fare all'università, nel senso di fare un grande compendio della conoscenza umana. Guardare alla propria esperienza significa guardare alle esperienze che faccio nella mia vita. Non sono semplicemente fatti, è più di questo. E' guardare a questi fatti della mia vita e avere un giudizio su ciò che questo significa.

E' questo il lavoro che la Chiesa ci aiuta a fare. L'esperienza implica sempre un giudizio. E' questo che garantisce lo sviluppo integrale delle persone. Per questo è qualcosa di accessibile a tutti. Entrano in scena le azioni educative e anche una compagnia, che è ciò che la Chiesa ci offre; una compagnia che è l'essenza di questo percorso educativo, e questo percorso consolida le coscienze. E' aiutare a far sì che l'uomo possa guardare alla realtà della vita in tutti i campi – sociale, economico, ambientale – e dire: questo è giusto, questo è costruttivo, oppure questo non è costruttivo.

[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]
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17/09/2009 06:52

Pubblicata la "Caritas in veritate" in latino



CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 16 settembre 2009 (ZENIT.org).- L'ultima Enciclica di Benedetto XVI “Caritas in veritate”, è stata stampata dalla  Libreria Editrice Vaticana in latino ed è  disponibile anche sul sito della Santa Sede (www.vatican.va).

Recentemente il portale vaticano ha aperto una nuova sezione linguistica dedicata ai documenti in latino.

Il documento, al numero 36, analizza così nella lingua di Cicerone la crisi attuale:
"Summa provocatio quae nobis ante oculos versatur, emersa e quaestionibus circa progressionem, hoc globalizationis tempore, et urgentior in dies ob crisim oeconomicam-nummariam, in eo est ut demonstret tam cogitationibus quam moribus, quod non solum tradita principia ethicae socialis, qualia sunt integritas, honestas et responsalitas, neque neglegi neque mitigari possunt, verum etiam quod in relationibus mercatoriis principium gratuitatis et logica doni uti manifestatio fraternitatis possunt et debent locum invenire intra consuetam actionem oeconomicam".
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29/09/2009 12:06

L'analisi

Che cosa dice alla Cina la Caritas in Veritate


di Teresa Enhui Xiao

Le riflessioni di un a laica cattolica dell'Hebei che - su invito di Mondo e Missione - ha promosso un Forum tra studiosi cinesi sull'enciclica di Benedetto XVI

Teresa Enhui Xiao è una cattolica cinese, laica, che ha compiuto studi di letteratura ed è membro dell'associazione degli scrittori della provincia dell’Hebei. Dopo alcuni anni di studi teologici a Roma, è tornata in Cina. Opera a Shanghai a stretto contatto con l’editrice cattolica locale. Su suggerimento di Mondo e Missione, ha promosso un Forum
sull’Enciclica, cui hanno partecipato alcuni studiosi cinesi. Missionline mette a disposizione, a partire da oggi, in lingua italiana, alcuni di questi contributi.

1.La ricezione dell’enciclica in Cina

L’enciclica
Caritas in veritate ha due punti cruciali: il primo è la giustizia e il bene comune nello sviluppo di un mondo in via di globalizzazione; il secondo riguarda il posto di Dio nel mondo. Il secondo è principio e garanzia del primo. Se paragoniamo il primo al corpo, il secondo ne sarebbe l’anima, mentre la Caritas in Veritate è il suo spirito.
Ebbene, l’Enciclica tocca alcuni temi di discussione nel mondo cinese. In Cina, i temi caldi attualmente: sono sviluppo, giustizia, disparità, corruzione, disoccupazione, bene comune, la libertà di parola, e soprattutto la relazione interpersonale, cui si riferisce il progetto di "società armoniosa" avanzato dal Presidente Hu Jintao due anni fa.
In Cina si respira una tensione, un’attesa; ci si chiede quale sia il punto di vista cristiano sulla stessa "società armoniosa", quasi una luce che la illumini. Questo è stato mostrato da molti sia campo ecclesiale sia accademico sia governativo.
Ebbene, sull’Enciclica Caritas in Veritate, tutti media i ecclesiali in Cina hanno parlato, sia giornali sia internet sia riviste; oltre che a Taiwan e Hong Kong, questo è accaduto anche in Cina continentale. Tutti i membri della Chiesa (preti, religiosi e religiose e laici), ne hanno sentito e parlato. Anche alcuni funzionari del governo sugli affari religiosi e alcuni professori universitari hanno avuto cenni di quel documento. Però tutti costoro sono rimasti toccati solo a livello informativo: una notizia, anzi solo alcune parole, su “una nuova enciclica”, “sulla morale sociale”… Forse hanno sentito anche di una “calorosa riflessione in Europa e negli USA”.
Penso che quando la versione cinese dell’Enciclica sarà pubblicata, questo “calore” giungerà lontano con il vento. Nonostante ciò, la riflessione non è mancata, così come alcune voci di lettori entusiasti, perché tocca proprio il cuore dei cinesi.

2.Società armoniosa e sviluppo cristiano

Negli ultimi anni, la "società armoniosa" e il "mondo armonioso" sono ormai diventati i due grandi concetti di valore del pacifico sviluppo della Cina. Il termine "società armoniosa" indica lo sviluppo della Cina con una società democratica e basata sulla legge, su giustizia e parità, sincerità e fraternità, capace di eccezionale dinamica, di stabilità ed ordine, e di coesistenza armoniosa fra uomo e natura.
L’Enciclica Caritas in Veritate, fa riferimento a tutte queste questioni, riguardando la giustizia e il bene comune nello sviluppo di una società in via di globalizzazione. Dello sviluppo l’Enciclica offre una visione articolata, spiegando che significa “far uscire i popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall'analfabetismo. Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace.”(21). Nello stesso tempo l’Enciclica non dimentica di vedere la situazione concreta che noi viviamo attualmente. Le capacità tecniche e lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra, la crescita di ricchezza che aumenta disparità e nuova povertà, la disoccupazione, la corruzione e l'illegalità sono presenti da per tutto, il non rispettare i diritti umani dei lavoratori, eccessi di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi, troppo rigido diritto di proprietà intellettuale, l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale, l’egoismo nella economia e finanza, la necessità delle organizzazioni sindacali, la carenza di alimentazione, il diritto alla libertà religiosa, l’esasperazione dei diritti e la dimenticanza dei doveri, la tutela dell'ambiente e problematiche energetiche, un maggiore accesso all'educazione, questione delle migrazioni, dialogo interculturale, le nuove forme di schiavitù della droga e la disperazione...
L’Enciclica sottolinea i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, ricordando che non è sufficiente progredire solo da un punto di vista economico e tecnologico o istituzionale. Solo l'uomo infatti è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale; la solida base di una società è la dignità della persona, la giustizia e la pace. L’uomo non deve essere ridotto a mezzo per lo sviluppo. Lo sviluppo vero, l’Enciclica afferma, è una vocazione: “Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione”(16). Tale sviluppo vocazionale “nasce da un appello trascendente”. L’uomo “è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo” (16). Lo sviluppo come vocazione comporta la centralità in esso della carità (19), che renderà uno sviluppo vero e integrale, perché comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo ha bisogno di Dio: “senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell'uomo... L'uomo non si sviluppa con le sole proprie forze, né lo sviluppo gli può essere semplicemente dato dall'esterno.”

3.La centralità della carità

L’Enciclica afferma all’inizio: “La carità nella verità è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera”(1).
La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza.(2); la carità è “espressione autentica di umanità e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica”(3).
Caritas in veritate è il principio intorno a cui ruota la dottrina sociale della Chiesa.
L’Enciclica afferma che chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. La giustizia è inseparabile dalla carità, intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità, la misura minima di essa, parte integrante di quell'amore. La carità esige la giustizia. Essa s'adopera per la costruzione della “città dell'uomo” secondo diritto e giustizia (cf 6). Facendo un passo avanti, il Papa indica: ” Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel ‘noi-tutti’, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale” (7). D'altra parte, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. Senza la gratuità non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. La “città dell'uomo” “non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione.”.
Tale dottrina è servizio della carità, ma nella verità, il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione di «veritas in caritate », ma anche di «caritas in veritate ». “La verità va cercata, trovata ed espressa nell'economia della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità” (2).
“Senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori — talora nemmeno i significati — con cui giudicarla e orientarla. La fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà e della possibilità di uno sviluppo umano integrale.” (9)
L’Enciclica approfondisce due grandi verità cristiane: “La prima è che tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo. ...La seconda verità è che l'autentico sviluppo dell'uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione” (11). L’Enciclica sottolinea che la verità dello sviluppo si trova nell’integrità, e il vero sviluppo consiste nello sviluppo di tutto l'uomo e di ogni uomo.
Lo sviluppo in fondo è lo sviluppo delle persone. Non ci sono sviluppo pieno e bene comune universale senza il bene spirituale e morale delle persone. Quindi il Papa osserva: “Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche misura automatiche e impersonali, siano esse quelle del mercato o quelle della politica internazionale. Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune” ( 71).
L'Enciclica esprime molta concretezza: “Non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale”(2).
Ci chiede di dare il nostro contributo alla credibilità della verità, fare di noi stessi testimonianza alla verità, come Cristo, Egli stesso è la Verità (1), perché Egli “s'è fatto testimone con la sua vita terrena e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione” (1) alla verità. Egli è Cristo, Salvatore, che ha innalzato noi a una dignità sublime i (GS 22), svela pienamente l’uomo a se stesso, in quella vocazione ultima e divina, di diventare figli di Dio. Il Papa ci chiede di essere cristiani veri, piccoli cristi noi stessi, piccoli salvatori del mondo.
Gli uomini retti sono coloro che sanno “non vedere nell'altro sempre soltanto l'altro, ma riconoscere in lui l'immagine divina, giungendo così a scoprire veramente l'altro e a maturare un amore che diventa cura dell'altro e per l'altro”(11). Ciò è permesso solo dall'incontro con Dio. Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato.

4. Il futuro è “guardare in alto”

Nel 2007 il premier cinese Wen Jiabao ha scritto una poesia per gli studenti universitari: “Guardare al cielo” nella quale agli studenti che un popolo avrà speranza solo quando avrà persone che sono attente al cielo. Un popolo che guarda solo ai propri piedi, perderà il futuro. Invita gli studenti a guardare spesso al cielo, contemplarlo, cercare il senso dell'essere umano, non solo studiare scienza e tecnologia, ma tenere conto del destino del mondo e del Paese.
L’insegnamento dell’Enciclica va nella medesima direzione: “Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace.”(79)

http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=1604
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01/10/2009 11:04

Come leggere la «Caritas in veritate»

Niente sentimentalismi nella dottrina sociale

Carità globale. Commento alla Caritas in veritate (Città del Vaticano - Roma, Libreria Editrice Vaticana - Ave, 2009, pagine 178, euro 8) è il titolo di un volume che raccoglie alcune letture dell'ultima enciclica di Benedetto XVI. Pubblichiamo ampi stralci del contributo del preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, vescovo ausiliare di Milano.

di Franco Giulio Brambilla

Lungamente attesa, annunciata più volte come imminente, l'enciclica sociale di Benedetto XVI è giunta, tuttavia, come una sorpresa. Non solo per la sua felice pubblicazione in prossimità del vertice di risonanza internazionale dell'Aquila, che ha ritrovato il protagonismo dei Paesi emergenti, non ancora per la ripresa della Populorum progressio di Paolo vi, poco dopo il quarantesimo anniversario della sua pubblicazione (1967), ma soprattutto per la riproposizione del tema dello sviluppo integrale dei popoli nel contesto globalizzato sullo scenario della terribile crisi internazionale del 2008-2009.
Vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie allo scoccare preciso dei duecento anni - nemesi storica! - della Rivoluzione francese (1989), è avvenuta l'implosione dell'economia occidentale globalizzata, che perde il contatto vivo con la radice sociale e umana.
L'enciclica è un forte richiamo che rappresenta quasi un manifesto per il nuovo bisogno di "etica sociale" che tenti di regolare l'avidità e talvolta la truffaldina voracità della finanza internazionale, senza riferimento al legame sociale, al rischio dell'imprendere e alla fatica del lavoro umano. Sullo sfondo sta lo scenario della terribile disparità tra i popoli del globo.
Del manifesto, però, l'enciclica non ha il tono declamatorio, ma quello di un disteso e pacato disegno argomentato, di una riflessione tenace che tesse pazientemente la trama di un arazzo di dimensioni mondiali, attraversato da tutte le armoniche che devono risuonare nell'ora presente. Né altrimenti ci si poteva aspettare dal "Papa teologo", che ci ha abituati allo spessore e al sapore della parola che dischiude al vero e al bene.
La cosa più sorprendente, che appare a un incontro più avvicinato con la scrittura dell'enciclica, è l'esercizio di interpretazione della dottrina sociale della Chiesa che il Pontefice ci propone. Si tratta di un caso di interpretazione "magisteriale" del Magistero sociale che, dalla Rerum novarum fino ai nostri giorni, ha assunto il tratto di un vero e proprio corpus dottrinale. All'analisi dei teologi di morale socio-politica, questo corpus appare come una costellazione dottrinale che non ha, e non pretende di avere, la forma di una trattazione organica e completa, ma piuttosto intende offrire il discernimento delle istanze del tempo a cui i diversi interventi papali fanno riferimento. Tuttavia, proprio l'embricatura degli anniversari, che sovente motivano la "ripresa" della dottrina sociale, suggerisce l'idea di un discorso completo della visione della fede cristiana in re sociali. Fino a farne materia di una trattazione di "Dottrina sociale della Chiesa", la quale assumerebbe la consistenza teologica del trattato di morale sociale. Nello spazio accademico, molte volte avviene che questa regione della morale cristiana sia concepita e proposta come un "commentario" al Magistero sociale, al massimo collocato nello sviluppo storico degli oltre cent'anni dalla "prima" enciclica sociale di Leone xiii.
Ed è qui che cade il tratto sorprendente dell'intervento di Papa Benedetto: esso si presenta come un esercizio emblematico di quell'""ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa", che il Papa aveva proposto in forma inattesa e nella cornice inconsueta del Discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005, appena all'inizio del suo pontificato. Quell'intervento colpì molti perché, celebrando i quarant'anni della chiusura del concilio Vaticano ii, rivendicava la continuità nel rinnovamento della Chiesa prima e dopo il concilio, rispetto a una superficiale "ermeneutica della discontinutà e della rottura" che si fondava sulla separazione tra spirito del concilio e sua traduzione testuale, inevitabilmente contrassegnata dal compromesso tra le diverse anime dei Padri conciliari. Per di più propiziata - non è un caso che il riferimento principale dell'enciclica sia a Paolo vi - dalla volontà del Papa bresciano di raccogliere attorno ai pronunciamenti conciliari il massimo del consenso.
L'encilica fa un esplicito riferimento (al numero 12 e alla nota 19) a questo discorso di metodo: "Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo" E se è "giusto rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale", d'altra parte "coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta" (Caritas in veritate, 12).
Nel Discorso del 2005 l'esemplificazione della "fedeltà dinamica" riguardava con grande piglio il punto più controverso della dottrina conciliare circa la libertà religiosa (si veda, in quell'intervento, la bella pagina con cui a partire dal caso Galileo si approda alla formulazione conciliare). Nell'enciclica l'esercizio dell'ermeneutica conciliare si distende pacatamente a rettificare la cesura tra prima e dopo il concilio per quanto concerne la dottrina sociale: "La Populorum progressio e il concilio Vaticano ii non rappresentano una cesura tra il magistero sociale di Paolo vi e quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità della vita della Chiesa" (n. 12).
L'idea di "fedeltà dinamica", di "rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa" riprende la nozione di Chiesa che è traditio tradens e che trova nel traditum un suo necessario, ma non esaustivo discernimento delle istanze della storia. Essa esige, dunque, un'ermeneutica che non accentui le rotture, ma ritrovi sempre la continuità creativa (di guardiniana memoria) della vita e nella vita della Chiesa per potersi "rinnovare alle origini". L'atto ermeneutico è anzitutto un atto pratico con cui la Chiesa non solo ripensa i suoi principi dottrinali connettendoli all'origine della Parola di Dio, ma insieme discerne il tempo attuale dentro l'alveo della tradizione vivente.
Nel contesto del Discorso programmatico, il Papa ribadiva che "è proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma". Continuità a livello dei principi e delle decisioni strategiche, necessaria flessibilità a livello dei discernimenti pratici riferiti alle "decisioni (riguardanti) cose contingenti". Così il Papa suggeriva allora che "bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l'aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare" (ivi).
L'"ermeneutica della riforma" rimanda dunque a una "pratica del discernimento storico" (la vita della Chiesa nella sua creativa continuità), di cui la dottrina sociale della Chiesa rappresenta, per così dire, la condensazione della voce del magistero papale che rilegge e si riposiziona di fronte al mutamento sociale.
Prima di procedere a svolgere il tema dell'enciclica (lo sviluppo integrale dei popoli), il Papa sente il bisogno di collocarlo nel quadro del suo magistero complessivo, in particolare nel punto focale della sua prima enciclica programmatica Deus caritas est. L'audace introduzione riveste una duplice funzione: collegare la dottrina sociale con il centro del Mistero trinitario, mostrando come la caritas teologale si irradi in re sociali; fornire un'interpretazione forte della caritas come principio istitutivo della dottrina sociale, che la sottragga a una comprensione ridotta e irrilevante. Come se la carità fosse solo un correttivo accanto e parallelo al principio della giustizia, su cui soltanto si reggerebbero i rapporti sociali: "La carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr. 1 Giovanni, 4, 8. 16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, "Dio è carità": dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).
Per evitare un'interpretazione "marginale" e "sentimentale" della carità rispetto ai rapporti sociali in ipotesi regolati dalla (sola) giustizia (e compresi alla luce della "sola" ragione, magari "laica"), Benedetto XVI sente il bisogno di potenziarne la nozione riferendola alla verità della visione dell'uomo, su cui non solo essa si deve misurare, ma che esprime esattamente la forma piena della vita umana, personale e sociale.
Di qui l'importanza strategica dell'introduzione all'enciclica, che forma, per così dire, il quadro di riferimento teorico della successiva ripresa della nozione di sviluppo integrale. Caritas in veritate indica l'asse con cui la carità è coestensiva a una comprensione solidale dei rapporti sociali: essi sono giusti non solo se danno a ciascuno il suo, ma se si radicano e, insieme, alimentano quei legami sociali e culturali con cui l'uomo perviene a se stesso (la coscienza di sé), decidendosi dinanzi al proprio destino (il compimento personale) all'interno dell'alleanza sociale (il bene comune).
Proprio questo ingresso, che a taluni potrà apparire persino ardito, come se ci si trovasse in una baita davanti alla parete altissima che svetta sulla cima maggiore, è l'antidoto a una comprensione terapeutica e medicinale della caritas. Esso, infatti, curerebbe i rapporti nella città dell'uomo e nel concerto delle nazioni, una volta che la giustizia avesse fallito il suo compito, compensando i rapporti "giusti", quando fossero feriti e lacerati, con i rapporti "buoni" che provengono dall'iniziativa libera dei soggetti privati e/o di gruppo. In tal modo la carità teologale (la comunione con Dio e la comunione fraterna) non avrebbe un risvolto pubblico: la "fraternità" che pure l'Illuminismo aveva emblematicamente indicato nella sua triade, nientemeno come erede della tradizione occidentale, non avrebbe alcun rilevo pubblico, se non perché raccoglie le vittime e cura i feriti lasciati sul campo nell'agone sociale.
Il valore "politico" della carità è risolto nella sua funzione terapeutica, ma non presiede e non alimenta il rapporto sociale. Per questo il Papa sente "il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della "veritas in caritate" (Efesini, 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate. La verità va cercata, trovata ed espressa nell'"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale" (n. 2).
La caritas in veritate è, dunque, la sfida per sottrarre la dottrina sociale della Chiesa a una comprensione "sentimentale" dell'aspetto solidale che deve animare i rapporti tra gli uomini e tra i popoli. In un'espressione icastica, il Papa indica con chiarezza questa deriva: "Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali" (n. 4). "Marginali" rispetto alle regole del vivere civile, il quale non si lascerebbe in nessun modo dirigere dalle forme della relazione buona con l'altro, come se le forme buone della relazione libera fossero solo o terapeutiche o compensative dei modi vincolanti della relazione giusta, una volta fallita o ferita.
Occorre, dunque, arrivare a discutere lo schema che separa e accosta giustizia e carità. Afferma il Papa, infatti, che: "La verità preserva ed esprime la forza di liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. E, a un tempo, verità della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi" (n. 5). La verità è ciò che consente di tenere insieme l'eccedenza della carità rispetto alla necessità della giustizia: la carità eccede la giustizia solo se la include e la supera; la giustizia, però, può essere se stessa solo se si alimenta alla forma buona del rapporto sociale che deriva dall'eccedenza del dono e del perdono. Essa ha bisogno dell'alleanza tra gli umani che tende al "bene comune" (e non solo alla salvaguardia parcellizzata dei "beni comuni") come l'atmosfera che fa respirare i rapporti giusti, regolati dal diritto. Nei numeri 6 e 7, giustizia e bene comune sono indicati come le mediazioni operative della caritas in veritate. Essi non possono non riferirsi all'immagine dello sviluppo integrale dell'uomo. All'interno di tale quadro si dispiega il tema dell'enciclica.

(©L'Osservatore Romano - 1 ottobre 2009)
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01/10/2009 11:05

La “Caritas in veritate” suscita l’interesse del mondo

Monsignor Crepaldi spiega gli obiettivi dell’enciclica



di Antonio Gaspari


ROMA, mercoledì, 30 settembre 2009 (ZENIT.org).-

Intervenendo martedì 29 settembre al “Forum delle persone e delle associazioni di ispirazione cattolica nel mondo del lavoro”, monsignor Giampaolo Crepaldi, Arcivescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuan”, ha spiegato come e perchè l’enciclica “Caritas in veritate” sta suscitando l’interesse del mondo.

Sono passati due mesi dalla pubblicazione dell’enciclica “Caritas in veritate” e durante questo periodo si è sviluppato un ampio dibattito di cui lo stesso Benedetto XVI si è detto contento, parlando con i giornalisti sull’aereo per Praga il 25 settembre scorso.

L’Arcivescovo di Trieste ha raccontato che a livello internazionale “i segni di apprezzamento e di riconoscimento delle grandi novità contenute nell’enciclica sono stati veramente tanti e significativi”.

Circa la novità rilevante dell’enciclica, monsignor Crepaldi ha sottolineato “l’influenza che sullo sviluppo hanno il rispetto della libertà religiosa, la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale, l’assolutismo della tecnica, l’atrofizzazione della coscienza”

“Molti passi – ha continuato - riflettono sui nessi profondi tra lo sviluppo e la prospettiva della vita eterna o la consistenza ontologica dell’anima, come per esempio il paragrafo n. 76”.

Secondo il Presidente dell’Osservatorio Van Thuan, “la grandezza di questa enciclica consiste nel chiederci una conversione nel considerare le cose e il loro ordine” ed in particolare nel rapporto tra religione e sviluppo.

In questo contesto monsignor Crepaldi ha denunciato le molte contraddizioni che puntano per esempio a una giustizia sciolta dalla pratica della carità. Come esempio ha ricordato che “ci preoccupiamo perché d’estate vengono abbandonati i cani e non ci curiamo delle vite impedite con  l’aborto; pretendiamo di sviluppare solidarietà nel lavoro ma distruggiamo la famiglia che è vera scuola di solidarietà e la contrapponiamo al lavoro anziché integrarla con esso”. E ancora, “ci affidiamo alla tecnica per risolvere i problemi ambientali quando sappiamo che sono dovuti proprio all’assolutismo della tecnica; gonfiamo costosi apparati per gli aiuti internazionali e il 90% del loro budget è impiegato per le spese correnti di mantenimento della struttura”.

Inoltre, “vogliamo educare i giovani all’assunzione di responsabilità  e mettiamo in mano delle ragazzine di 16 anni la pillola abortiva; [...] diffondiamo nelle scuole la cultura del determinismo  evolutivo  per cui siamo tutti figli della necessità e del caso e poi pretendiamo che i giovani vedano nella natura una vocazione da rispettare”.

“C’è qualcosa che non va. C’è molto che non va - ha sottolineato - . C’è un ordine delle cose da rimettere a posto, una conversione di prospettiva da attuare. L’enciclica è un invito all’uomo affinché 'rientri in se stesso'”.

Monsignor Crepaldi si è detto convinto che “ogni cosa rivela un senso. Ogni cosa deve essere illuminata dalla carità e dalla verità perché riusciamo a comprendere cosa essa sia e cosa dobbiamo fare” e “il senso non è mai prodotto, è sempre trovato”.

L’enciclica propone un cambiamento mentale per non considerare più le persone e il mondo come nostra produzione, ma nell’ottica della loro vocazione. A questo proposito l’Arcivescovo di Trieste ha spiegato che “la deriva nichilistica dello sviluppo è inevitabile se continuiamo a pensare che il senso lo produciamo noi”. Dovremmo, invece, capire che temi come quello “della religione e di Dio, diventano di primo piano per lo sviluppo”. Il Presidente dell’Osservatorio Van Thuan ha quindi messo in guardia dall’assolutismo della tecnica che sembra aver sostituito le ideologie.Ormai, ha denunciato, la tecnica si occupa della vita, della procreazione, della famiglia, della pace, dello sviluppo, delle relazioni internazionali, degli aiuti allo sviluppo, del lavoro. Gli apparati tecnici contano più di quelli politici.

“Ci sono scienziati – ha commentato monsignor Crepaldi - che scientificamente affermano che Dio non esiste; ci sono medici che scientificamente dicono che l’embrione non è cosa umana; ci sono apparati delle Nazioni Unite che impongono in tutto il mondo l’ideologia del gender; ci sono agenzie che pianificano la lotta alla vita; e dopo la crisi economia e le tante proposte di moralizzare la tecnica finanziaria nulla o poco di tutto ciò si vede all’orizzonte”. Per l’Arcivescovo di Trieste, “la tecnica ormai si occupa di molte cose […] ma senza sapere cosa sono”, essendo “indifferente alla loro verità e quindi incapace di suscitare alcuna carità”. 

Per ritrovare il senso delle cose monsignor Crepaldi propone di riscoprire il ruolo di Dio nella storia e nello sviluppo. “Non un Dio qualunque - ha affermato - ma un Dio amico della persona, ossia un Dio che è Verità e Amore”.

“Torna alla fine la pretesa cristiana, che essendo una pretesa di verità e di amore non è una pretesa arrogante, ma di dono e gratuità”, ha concluso monsignor Crepaldi affermando che “il Vangelo è elemento fondamentale per lo sviluppo, perché in esso Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo”.
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01/10/2009 15:47

Il Papa manager e la carità contro la crisi

di Gianfranco Fabi

Nella Caritas in veritate, l'enciclica che il Papa ha dedicato alla dottrina sociale, vi sono significate novità nell'analisi e nei giudizi della Chiesa.
Nel mezzo della maggiore crisi economica dopo il 1929, una crisi che ha peraltro provocato un lungo supplemento di riflessione prima della pubblicazione del testo all'inizio di luglio, non ci si poteva che attendere una parola che non fosse solo di doverosa e scontata riaffermazione della centralità del messaggio cristiano, ma anche di risposta profetica alle esigenze del mondo contemporaneo.
In questa prospettiva l'enciclica si può leggere come una ambizione di fondo: quella di riportare al centro l'identità e il valore della persona, per intraprendere un cammino di riconciliazione di elementi che la storia e i comportamenti hanno diviso. Riconciliazione, per esempio, tra democrazia e mercato per ristabilire un sistema di regole fondato sul primato della politica come espressione di una vera volontà popolare. Riconciliazione tra il profitto e la gratuità perché «sia il mercato che la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco». Riconciliazione tra sviluppo e bene comune perché la crescita non avvenga moltiplicando le disuguaglianze e sacrificando gli equilibri sociali e ambientali.
Non c'è solo un fondamento teologico in questa direzione; c'è anche un percorso di analisi economica in cui si possono chiaramente vedere le radici di quella che è stata chiamata "economia civile" alla cui definizione ha dato un contributo decisivo una scuola italiana che ha unito cattolici e laici, da Antonio Genovesi a Luigi Einaudi.
Frutto di significativa tempestività è allora la pubblicazione curata da Luigino Bruni e Stefano Zamagni di un Dizionario di economia civile, realizzato con la collaborazione di un vasto panel di economisti. Un dizionario che sembra quasi costituire una guida alla lettura e all'interpretazione di un testo complesso come quello dell'enciclica. Da "accountability" a "Gino Zappa" (un maestro nel campo dell'economia aziendale) vengono così passati in rassegna i concetti e i protagonisti, le idee e le parole chiave di una prospettiva in cui l'analisi si affianca al richiamo e alla proposta.
Come scrivono Bruni e Zamagni: «L'economia civile propone un umanesimo a più dimensioni nel quale il mercato non è combattuto o controllato, ma è visto come un luogo al pari degli altri, come un momento della sfera pubblica che se, concepito e vissuto come luogo aperto ai principi di reciprocità e di gratuità, può costruire la città».
Il passo che viene sollecitato è quindi ancora una volta quello di riconciliare le dimensioni della persona ritrovando accanto alla ricerca dell'utilità anche i valori che nascono dalle relazioni con gli altri basate sulla fraternità: amicizia e rapporti di mercato non possono restare divisi. La sfida è quella di non considerare il volontariato, il non profit, il terzo settore, come elementi complementari e separati, ma come realtà capaci di contaminare positivamente, con la forza del dono, tutto l'operare economico.

gianfrancofabi.blog.ilsole24ore.com
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02/10/2009 07:13

VATICANO - LE PAROLE DELLA DOTTRINA a cura di don Nicola Bux e don Salvatore Vitiello

Chiesa e unità del genere umano nell’enciclica Caritas in veritate

Città del Vaticano (Agenzia Fides)

“Paolo VI comprese chiaramente come la questione sociale fosse diventata mondiale e colse il richiamo reciproco tra la spinta all’unificazione dell’umanità e l’ideale cristiano di un’unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità” (Caritas in veritate, n 13).
Il mondo anela, in certo senso, all’unità e fraternità universale, ma percepisce, nel contempo, come questa non sia l’esito di “impegni” personali, ma venga, in certo modo…”data”. La convinzione cristiana, infatti, è che tale unità possa venire solo quando ci si converte a Cristo. Tuttavia gli sforzi che da più parti si operano, quando ripropongono la presunzione della “torre di Babele”, cioè di costruire l’unità del mondo prescindendo da Dio, potrebbero risultare totalmente inefficaci e portatori di un’unità incompiuta che rischierebbe di franare su se stessa. Tali sforzi umani, se sono sinceri, sono, in realtà, segnali di ricerca di quell’unità che la Chiesa annuncia da duemila anni, ben sapendo su quale fondamento debba essere costruita per essere solida.
In merito, il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna alcune verità da tenere in attenta considerazione in modo unitario. La prima è che l’unità del genere umano viene dalla creazione: “A motivo della comune origine il genere umano forma un’unità”, citando il magistero del Papa Pio XII e il Concilio Vaticano II (360).
La seconda riguarda la redenzione: “La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano…ecco il primo fine della Chiesa…la Chiesa è “segno e strumento” della piena realizzazione di questa unità che deve ancora compiersi” (775). Gesù ha fondato la Chiesa per farne il segno e la primizia dell’unità del genere umano che ha redento col suo sangue: è questa la pietra da non scartare perché giunga a compimento l’opera della salvezza. La terza verità viene dall’escatologia: l’unità di cui la Chiesa è segno e germe in mistero è quella del Regno di Dio dove “Coloro che saranno uniti a Cristo formeranno la comunità dei redenti […] Essa non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica […] sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (1045).
Il cristiano sa di essere nel mondo ma non del mondo, di essere il “sale della terra” che, come dicono i Padri, serve a mantenere incorrotto il mondo. Si può dire quindi che senza la Chiesa di Cristo, di cui i cristiani sono membra, il mondo e l’uomo “costitutivamente proteso verso l’essere di più” (CV, n. 14), non possono veder realizzato il proprio anelito all’unità. Perché incapaci di auto-trasformarsi.
Si comprende dunque perché “La realizzazione di un’autentica fraternità” (CV, n. 20) è l’urgenza dettata dalla carità nella verità. Se prescindesse da ciò, nessuna autorità mondiale potrebbe operare autenticamente alla realizzazione del bene comune (cf. n. 67).

© Copyright (Agenzia Fides 1/10/2009)
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«Caritas in veritate»:  prima del profitto e della produzione viene il dono (che è gratuito)

L'uomo rivelato all'uomo


Il 29 settembre si è svolto a Roma, al Forum delle Associazioni di ispirazione cattolica del mondo del lavoro, il convegno "Persona, lavoro e sviluppo", sull'enciclica "Caritas in veritate". Pubblichiamo un ampio estratto della relazione dell'arcivescovo-vescovo  di  Trieste,  presidente dell'Osservatorio internazionale cardinale Van Thuan sulla dottrina sociale della Chiesa.

di Giampaolo Crepaldi

La Caritas in veritate, presenta molti elementi di novità che possono frastornare anche il lettore esperto di dottrina sociale della Chiesa se costui si attiene troppo rigidamente ai temi "classici" - mi si passi l'espressione - del magistero sociale pontificio. La Caritas in veritate va collocata dentro la tradizione come essa espressamente dice, ma sarebbe un peccato se questo comportasse una opacità nel vedere le sue formidabili novità di impostazione. Vorrei farvi qualche esempio in proposito. Da una enciclica sociale sullo sviluppo che si rifà espressamente alla Populorum progressio, ci si potrebbero attendere analisi e riflessioni sui dazi, sulle dinamiche del commercio internazionale, sulle materie prime o sui prezzi dei prodotti agricoli, sulle percentuali di Pil da dirottare negli aiuti allo sviluppo e così via. Si incontra invece un'enciclica che, pur non trascurando questi e altri temi, anche molto concreti, si sofferma a parlare dell'influenza che sullo sviluppo hanno il rispetto della libertà religiosa, la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale, l'assolutismo della tecnica, l'atrofizzazione della coscienza. Molti passi riflettono sui nessi profondi tra lo sviluppo e la prospettiva della vita eterna o la consistenza ontologica dell'anima, come per esempio il numero 76. Molti lettori sono rimasti sconcertati da questo tipo di approccio e qualcuno ha affermato che l'enciclica tocca i problemi specifici dello sviluppo senza approfondirli. Rischia così di venire perduta o almeno ridotta la percezione della novità di prospettiva dell'enciclica.

La mia idea è che la grandezza di questa enciclica consista nel chiederci una conversione nel considerare le cose e il loro ordine. Siamo abituati a collocare i temi secondo un ordinamento che non corrisponde alla realtà e che non può essere vocazione ad alcun vero sviluppo.

Per esempio, oggi un politico e un amministratore non sanno bene valutare l'importanza delle religioni per lo sviluppo del proprio o degli altri Paesi e non sanno più discernere tra una religione e un'altra in ordine alla loro capacità di produrre sviluppo. Non si è in grado di valutare le conseguenze in termini di sottosviluppo di religioni non amiche della persona o dell'irreligiosità indifferente e cinica, indotta da un laicismo radicale, presente in tanti Paesi del mondo sviluppato. Ma è proprio vero che tutto ciò non ha nulla a che fare con lo sviluppo? Siamo veramente sicuri che la concorrenza internazionale di un sistema-Paese non sia anche dovuta alla tenuta del "sistema morale di riferimento" (45)? Che sia solo problema di infrastrutture o di cambio con il dollaro?

In economia siamo spesso ancora fermi a pensare che bisogna prima produrre la ricchezza per poi distribuirla. Una scissione tra economia e società dalle conseguenze tragiche. La pretesa di un'economia a-sociale e di una società a-economica che è fonte di innumerevoli sprechi e disfunzioni. Uno schematismo deleterio che aggiunge l'uomo-solidale dopo l'homo oeconomicus e non ci permette di vedere quanto, nel lavoro stesso, ci sia di gratuito e di volontario:  il lavoro ben fatto e curato, il lavoro creativo, il lavoro artigianale che produce cose belle, il lavoro fatto con passione e dedizione personale a cui educare i giovani, il lavoro fatto con sacrificio, il lavoro vero dell'economia reale, il lavoro onesto e coraggioso, le capacità relazionali di lavorare insieme non solo come lavoratori ma come persone, il lavoro volontario che è presente in tutti i lavori, il lavoro solidale diretto ad altre persone.

Pretendiamo la giustizia, ma non coltiviamo la carità, senza la quale non c'è nemmeno giustizia; ci preoccupiamo perché d'estate vengono abbandonati i cani e non ci curiamo delle vite impedite con l'aborto; pretendiamo di sviluppare solidarietà nel lavoro, ma distruggiamo la famiglia che è vera scuola di solidarietà e la contrapponiamo al lavoro anziché integrarla con esso; ci affidiamo alla tecnica per risolvere i problemi ambientali quando sappiamo che sono dovuti proprio all'assolutismo della tecnica; gonfiamo costosi apparati per gli aiuti internazionali e il 90 per cento del loro budget è impiegato per le spese correnti di mantenimento della struttura; vogliamo educare i giovani all'assunzione di responsabilità e mettiamo in mano delle ragazzine di 16 anni la pillola abortiva; cadiamo ancora di frequente nella trappola del Nord cattivo e del Sud buono; diffondiamo nelle scuole la cultura del determinismo evolutivo per il quale saremmo tutti figli della necessità e del caso e poi pretendiamo che i giovani vedano nella natura una vocazione da rispettare; parliamo di integrazione tra le culture poi, però, non sappiamo fare un passo oltre il già fallito multiculturalismo; critichiamo la tecnica ma poi possediamo un telefonino e mezzo ad abitante; riteniamo che la lotta all'aids si faccia con i preservativi, consideriamo la prostituzione un fatto di ordine pubblico da disciplinare in modo adeguato magari in quartieri appositi. A ogni problema interiore ricorriamo all'esperto quando un tempo bastava il confessore. C'è qualcosa che non va. C'è molto che non va. C'è un ordine delle cose da rimettere a posto, una conversione di prospettiva da attuare. L'enciclica è un invito all'uomo affinché "rientri in se stesso" (68).

Si tratta di grossolani errori relativi alla verità, ma ogni errore relativo alla verità rende difficile anche l'esercizio della carità, perché non si può fare il bene dell'altro senza sapere quale sia il suo bene, proprio perché non sappiamo più che cosa è il bene.
Ora chiediamoci che cosa significhi per noi partire dalla verità e dalla carità. Questa è la proposta fondamentale dell'enciclica, ma cosa significa? Secondo me significa comprendere che niente è solo quanto è. E se si considerano le cose solo in quanto dati non si raggiungono risultati di sviluppo in nessun campo. Ogni cosa rivela un senso. Ogni cosa deve essere illuminata dalla carità e dalla verità affinché riusciamo a comprendere che cosa essa sia e che cosa dobbiamo fare. Il motivo è semplice e profondo nello stesso tempo:  il senso non è mai prodotto; è sempre trovato. Ricordiamo un passaggio delle ultime pagine dell'enciclica:  "In ogni verità c'è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell'amore che riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende" (77). Il senso è sempre dono e gratuità. La verità e la carità sono la sintesi di tutte le forme di dono e di gratuità che possiamo esperire, tutte riconducibili, alla fine, alla verità e alla carità.

Come ho scritto nella mia Introduzione alla Caritas in veritate pubblicata dall'editore Cantagalli (Siena, 2009) il cambiamento mentale che essa propone è di non considerare più le persone e il mondo come nostra produzione, ma di vederli nell'ottica della loro vocazione. "Se i beni sono solo beni, se l'economia è solo economia, se stare insieme significa solo essere vicini, se il lavoro è solo produzione e il progresso solo crescita ... se niente "chiama" tutto ciò a "essere di più" e se tutto ciò non chiama noi a "essere di più", le relazioni sociali implodono su se stesse. Se tutto è dovuto al caso o alla necessità, l'uomo rimane sordo; niente nella sua vita gli parla o gli si rivela. Ma allora anche la società sarà solo una somma di individui, non una vera comunità. I motivi per stare vicini possono essere prodotti da noi, ma i motivi per essere fratelli non possono essere prodotti da noi".

Si comprende così anche la radicalità della Caritas in veritate, ossia la sua volontà di mettere in evidenza i temi ultimi e cruciali dello sviluppo. Se la chiave dello sviluppo è aprirsi alla considerazione di un senso non da noi prodotto; se la deriva nichilistica dello sviluppo è inevitabile se continuiamo a pensare che il senso lo produciamo noi, allora comprendiamo perché temi come quello della bioetica o della tecnica, ma soprattutto quello della religione e di Dio, divengano di primo piano per lo sviluppo. Prima dei problemi dei dazi e delle tariffe. Prima del cambio con il dollaro.

La Caritas in veritate ha una grande intuizione:  le ideologie sono state sostituite dall'assolutismo della tecnica e questo produce un totale "disincanto". Il termine è weberiano e significa la perdita definitiva di un senso non prodotto. La definitiva maturità dell'uomo che non crede più nelle favole. La tecnica si occupa della vita, della procreazione, della famiglia, della pace, dello sviluppo, delle relazioni internazionali, degli aiuti allo sviluppo, del lavoro. Gli apparati tecnici contano più di quelli politici. Ci sono scienziati che scientificamente affermano che Dio non esiste; ci sono medici che scientificamente dicono che l'embrione non è cosa umana; ci sono apparati delle Nazioni Unite che impongono in tutto il mondo l'ideologia del gender; ci sono agenzie che pianificano la lotta alla vita; e dopo la crisi economica e le tante proposte di moralizzare la tecnica finanziaria nulla o poco di tutto ciò si vede all'orizzonte. La tecnica ormai si occupa di molte cose. Se ne occupa, ma senza sapere che cosa sono; indifferente alla loro verità e quindi incapace di suscitare alcuna carità.

Che cosa c'entra la religione cristiana con lo sviluppo di ogni singolo uomo e di tutti gli uomini? Se ogni cosa è solo quello che è non c'è bisogno del cristianesimo e Dio stesso diventa superfluo. L'economia è economia, il profitto è profitto, la finanza è finanza, il lavoro è lavoro. Dio è una scelta individuale e privata. Ininfluente sulla vita della società. Ma se niente è solo quello che è, se il senso non è mai prodotto, ma ci interpella dall'essere delle cose, se all'inizio c'è sempre il dono e la gratuità perché non lo abbiamo prodotto noi, allora Dio prende il proprio posto nella storia e nello sviluppo. Dio garantisce che l'origine del senso è trascendente e getta così una luce sullo sviluppo che ci fa capire che cosa esso sia veramente. Ci invita a considerare la verità dello sviluppo, affinché così facendo rispettiamo la razionalità economica, la quale pure partecipa della verità, e nello stesso tempo amiamo veramente (e c'è altro modo di amare se non amare veramente? Non solo "veramente amare", ma anche "amare veramente").
Non tuttavia un Dio qualunque, ma un Dio amico della persona, ossia un Dio che è Verità e Amore. Torna alla fine la pretesa cristiana, che essendo una pretesa di verità e di amore non è una pretesa arrogante, ma di dono e gratuità. La pretesa che il Papa annuncia in quanto Papa, ma che anche la realtà umana annuncia almeno come attesa. Si tratta della pretesa che "il Vangelo è elemento fondamentale per lo sviluppo, perché in esso Cristo, rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo" (18).


(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2009)
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L'uomo al centro della «Caritas in veritate»

Una boccata d'ossigeno per il mondo


L'Aula Gemelli dell'Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma ospita, nel pomeriggio di giovedì 15, il convegno "Economia o utopia? Oltre la crisi, con la Caritas in veritate". Pubblichiamo quasi integralmente l'intervento del cardinale vicario generale per la diocesi di Roma.

di Agostino Vallini

Con l'enciclica Caritas in veritate, il Papa ha offerto alla Chiesa e a tutti gli uomini di buona volontà una riflessione di grande impegno argomentativo sullo sviluppo umano, un documento organico di analisi e di progetto sul mondo nuovo, un manuale etico per l'economia, una guida per la politica, un testo di ampio respiro e di speranza, con l'intento anche di rendere omaggio al grande Pontefice Paolo VI, a poco più di quarant'anni dalla pubblicazione di un altro importante documento sociale, l'enciclica Populorum progressio (1967).

Per Benedetto XVI nessuna questione che interessa l'uomo - dunque anche quella sociale - può prescindere dal rinvio ai fondamenti. Come dire che non è possibile parlare di "sviluppo" cui non sia sottesa una visione antropologica ed etica. Se infatti cambia il concetto di uomo e il modo con cui si interpreta la relazione che sussiste tra uomo e natura, uomo e libertà, uomo e lavoro, uomo ed economia, cambiano conseguentemente il concetto di società, lo scopo del processo economico, le regole e gli obiettivi dello sviluppo. Ai problemi angosciosi della fame e del sottosviluppo, della pace e della guerra, della genetica e dell'ecologia, dell'aborto e dell'eutanasia, dell'educazione, della democrazia e dei diritti umani si danno risposte diverse se dell'uomo si ha una visione spiritualistica e trascendente, oppure materialistica, evoluzionistica o tecnicistica. Nel trapasso culturale dentro il quale ci troviamo lo spartiacque è dato dalla risposta all'interrogativo fondamentale del nostro tempo:  chi è l'uomo e qual è il suo destino.
In realtà alcuni segni e le cause della mutazione del concetto di uomo sono facilmente individuabili.

Per una certa corrente di pensiero, che fa riferimento all'evoluzionismo cosmico e biologico, l'uomo non è altro che il risultato, seppure il più nobile, dell'evoluzione cosmica. Assume oggi spazio ed interesse il contributo delle neuroscienze che tendono a ridurre l'intelligenza e la libertà a funzioni dell'organo cerebrale, quindi in definitiva a funzioni della materia-energia di cui è composta tutta la natura. Se ci si rivolge invece solo alle scienze empiriche che considerano l'uomo "oggetto" conoscibile e misurabile soltanto attraverso la conoscenza scientifica e l'applicazione dell'indagine sperimentale, si nega all'uomo la dignità di "soggetto". In questo quadro si aggiunga l'apporto non secondario - che diventerà sempre più incisivo - delle tecnoscienze con gli sviluppi delle biotecnologie, che se non rettamente orientate condurranno verso traguardi deterministici.

Su un altro versante gioca un ruolo decisivo il concetto di libertà. Intesa come valore assoluto, sganciato cioè da altri valori, ad esempio la vita, la giustizia, la solidarietà, che la possono misurare, da apparentemente domina vitae, paradossalmente - per il fatto di essere priva di relazione - la libertà finisce per schiacciare lo stesso individuo. Ogni desiderio individuale è preteso come diritto che la società deve garantire. In questa direzione si scivola inevitabilmente verso il nichilismo, la disgregazione dell'uomo e una società sazia e disperata, dove la fa da padrona l'ingiustizia e la violenza.

Naturalmente nessuno nega gli autentici apporti della cultura del nostro tempo, né gli importanti contributi di questi saperi, come la conoscenza scientifica e lo sviluppo tecnologico, quali espressione delle potenzialità dell'intelligenza umana, e neppure si sottovaluta il valore della libertà, ma la domanda è se devono essere lasciati a se stessi o debbano essere orientati all'interno di un sistema di fini che sono oltre gli stessi orizzonti scientifici e, quanto alla libertà, se essa non sia un valore non-assoluto ma uno dei valori, seppure di primaria grandezza, nel concerto di altri altrettanto grandi e decisivi per le sorti del vivere personale e sociale.

La visione antropologica che sottende la dottrina dell'enciclica, per la quale appaiono riduttive e inaccettabili quelle naturalistiche e immanentistiche sopra appena accennate, può essere adombrata già dal tema del documento, che è quello non di un qualunque sviluppo umano, ma dello sviluppo umano "integrale".

Richiamando le linee di fondo della Populorum progressio, in continuità con il magistero sociale dei suoi predecessori, il Papa ribadisce che "la Chiesa in tutto il suo essere e il suo agire, (...) è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo", che è "l'autentico sviluppo", perché "riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione" (Caritas in veritate, 11). E citando Paolo VI, afferma:  "Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo di uomini, fino a comprendere l'umanità tutta intera" (ibidem, 18).

Si intuisce già da queste prime battute quale orizzonte antropologico il Papa abbia dinanzi a sé; quello cioè di uno sviluppo dell'umanità secondo il piano di Dio nel quale la concezione dell'uomo è fondata in Cristo, che "rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo" (Gaudium et spes, 22). Dunque di un uomo considerato non solo nella sua dimensione terrena, ma nella prospettiva eterna, senza la quale - egli scrive - "il progresso umano in questo mondo rimane privo di respiro", perché "chiuso dentro la storia, esso è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell'avere" (Caritas in veritate, 11). L'uomo integrale è la "verità dello sviluppo".

In un momento di crisi che spinge a rinchiudersi nel proprio "particolare" o a trovare soluzioni soltanto di tipo economicistico, il Papa ci invita a pensare in grande o - per usare un'altra immagine suggestiva da lui stesso usata recentemente in altro contesto (adattandola al nostro tema) - a guardare le cose attraverso la "grande finestra che Cristo ci ha aperto sull'intera verità" dell'uomo, e a non lasciarci guidare dalla "piccola finestra" di prospettive parziali e riduttive.

Ma procediamo per gradi. Anzitutto il punto di partenza di un'antropologia cristianamente ispirata muove dalla concezione che l'uomo, pur essendo sotto il profilo biologico simile agli altri animali, si distingue da essi per natura e non solo per grado, per cui dal punto di vista genetico non può essere manipolato - si pensi alle sperimentazioni genetiche e eugenetiche, o al commercio di esseri umani per il prelievo di organi. C'è qualcosa in lui che lo distingue radicalmente da tutti gli altri esseri viventi, con i quali tuttavia ha in comune le essenziali leggi biologiche. Questo qualcosa, su cui ci si è interrogati fin dagli albori della civiltà soprattutto occidentale, è riconducibile a un principio vitale informatore o a una struttura non materiale che permane sempre, per cui l'essere umano è un organismo da essa informato, cioè un sistema strutturato di elementi finalisticamente ordinato alla sua conservazione e al suo sviluppo.

In secondo luogo, l'uomo è persona, "capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso"; a differenza di tutte le altre creature ha coscienza del senso di sé. Per qualificarne l'identità specifica non basta dire che l'uomo è dotato di ragione e di consapevolezza, occorre aggiungere che è capace di relazionarsi con la realtà secondo una modalità specifica e unica attraverso la quale, trasformando la realtà, la assoggetta finalizzandola a se stesso.

In questa prospettiva personalistica, ad esempio, il lavoro umano, come attività prettamente umana, è espressione della "ricerca del senso" e coopera a configurare l'economia come "razionale e benefica  gestione della ricchezza materiale", finalizzata al benessere e allo sviluppo dell'intera comunità umana.
Ma la domanda sull'uomo-persona nella visione cristiana, illuminata dalla rivelazione biblica, va oltre:  si connette intimamente col mistero di Dio, che in Gesù Cristo ne illumina la vita, l'intelligenza, l'amore, la libertà, le relazioni, lo sviluppo umano in tutte le sue dimensioni. "La fede cristiana - scrive il Papa - si occupa dello sviluppo (...) contando (...) solo su Cristo, al Quale va riferita ogni autentica vocazione allo sviluppo umano integrale. "Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo"" (Caritas in veritate, 18).
In questa prospettiva antropologica e cristocentrica c'è un altro aspetto da considerare. La persona umana "porta dentro di sé, iscritto nel più profondo del suo essere, il bisogno di amore, di essere amata e di amare a sua volta".

Nell'impianto argomentativo generale dell'enciclica l'amore-carità non occupa un posto, seppure di rilievo, tra i diversi segmenti di cui tener conto per una ammodernata dottrina sociale della Chiesa, una sorta di correttivo accanto al principio di giustizia. "La carità - afferma il Papa - è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa (...) Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio non solo delle micro-relazioni (...) ma anche delle macro-relazioni:  rapporti sociali, economici, politici (...) la carità è tutto (...) è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini, è sua promessa e nostra speranza" (Caritas in veritate, 2).

Nei rapporti sociali dunque la carità non ha una posizione marginale e compensativa quando i rapporti secondo giustizia sono compromessi, ma una posizione centrale, perché l'uomo si deve misurare con essa e da essa esprime la forma piena. I rapporti sociali sono adeguati alla dignità dell'uomo non solo se garantiscono a ciascuno il suo, ma se a essi si coestende la carità, che è dunque da considerare "la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera" (ibidem, 1).
La carità tuttavia va congiunta alla verità. Dio, oltre che Amore eterno è Verità assoluta. "Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che Dio ha su di lui" in esso "trova la sua verità ed è aderendo (ad essa) che egli diventa libero" (ivi).

D'altra parte, "senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente (...) La verità libera la carità dalle strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un fideismo che la priva di respiro umano universale" (ibidem, 3).
Se da questi principi generali, si passa a considerare più direttamente il tema dello sviluppo, non è difficile trovare nelle argomentazioni dell'enciclica un'affermazione che, a mio parere, può essere un'importante chiave di lettura dell'intero documento.

Riprendendo il messaggio della Populorum progressio, il Papa afferma:  "L'uomo non si sviluppa con le sole proprie forze, né lo sviluppo gli può essere semplicemente dato dall'esterno (...) Lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione" (Caritas in veritate, 11). Che cosa vuol dire ?

In primo luogo, "dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere, da una parte, che esso nasce da un appello trascendente e, dall'altra, che è incapace di darsi da sé il proprio significato ultimo" (ibidem, 16). Sul piano naturale lo sviluppo umano integrale "domanda il proprio inveramento in un umanesimo trascendente, che (...) conferisce [all'uomo] la sua (...) pienezza:  questa è la finalità suprema dello sviluppo personale" (ibidem, 18). Ne consegue che l'orizzonte di uno sviluppo integrale non può eclissare Dio; in caso contrario non vi sarebbe un umanesimo vero.

In secondo luogo, lo sviluppo come vocazione richiede una risposta libera e responsabile della persona e dei popoli (ibidem, 17). La chiamata in gioco della libertà e della responsabilità mette anzitutto in guardia dal grave pericolo di affidare l'intero processo dello sviluppo alla sola tecnica economica, che da sola non può orientarlo in senso umano secondo giustizia e in vista del bene comune, in quanto la sola ragione tecnica è insufficiente, anzi è pericolosa, perché può condurre verso mete deterministiche radicalmente antiumane. L'appello alla libertà inoltre apre orizzonti affascinanti, capaci di coinvolgere le migliori energie verso prospettive di progresso. L'uomo per natura tende a svilupparsi:  è "costitutivamente proteso verso "l'essere di più"" (ibidem, 14). Il concetto di sviluppo dunque è intrinseco all'uomo stesso, che non è solo fruitore di aiuto, è anche autore del proprio sviluppo e dei rapporti fra le persone. L'enciclica, riprendendo la Gaudium est spes, afferma:  "L'uomo è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale". Solo se lo sviluppo è una vocazione dell'uomo e non l'esito di un destino indipendente da lui, è possibile che evolva in senso umano. 

Tuttavia per evitare che le capacità umane percorrano strade che possano produrre distorsioni dello sviluppo (la storia ci insegna di non sottovalutare la fragilità della natura umana che minaccia di continuo il cammino dell'umanità) c'è bisogno di altro:  va difeso il collegamento tra la centralità della persona e l'etica, secondo criteri o principi orientativi dell'azione morale. L'etica non è qualcosa di esteriore allo sviluppo dell'economia, è un principio interiore, perché un'economia in funzione dell'uomo non può non tener conto dei diritti umani e dei più ampi valori umani.

Orbene, l'enciclica ricorda anzitutto due criteri o principi dell'agire morale:  la giustizia e il bene comune, ambedue - beninteso - coniugati o, forse meglio, inglobati nella carità e nella verità. Quanto alla giustizia il Papa afferma che ""la città dell'uomo" non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione" (ibidem, 6). Se la giustizia impone di dare a ciascuno il suo ed è "la prima via della carità" - Paolo VI la definiva la "misura minima della carità" - "la carità eccede la giustizia", perché amare è donare, per cui la carità "supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono" (ivi). Accanto al bene individuale c'è poi il bene comune. "Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale (...). Ogni cristiano è chiamato a questa carità. È questa la via istituzionale (...) della carità, non meno qualificata e incisiva" della carità individuale (ibidem, 7).

Questa carità per il bene comune è tanto più urgente in una società in via di globalizzazione, nella quale all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e tra i popoli non è detto che corrisponda "l'interazione delle coscienze e delle intelligenze", dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. "Solo con la carità, illuminata dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo dotati di una valenza più umana e umanizzante" (ibidem, 9). Un volto umano allo sviluppo, inteso come vocazione, può essere assicurato solo ponendo al centro la carità.

Riferendosi ancora una volta alla Populorum progressio, il Papa afferma che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale", vanno ricercate altrove e ne ricorda tre:  il sottosviluppo è figlio della non osservanza dei doveri di solidarietà, della carenza di pensiero, per cui "servono uomini(...) capaci di riflessione profonda, votati alla ricerca di un umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso", ma soprattutto della "mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli". Il Papa si domanda:  "Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli?". E risponde. "La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli". La fraternità "ha origine da una vocazione trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio che cosa sia la carità fraterna" (ibidem, 19). Dobbiamo "mobilitarci con il "cuore", per far evolvere gli attuali processi economici e sociali verso esiti pienamente umani" (ibidem, 20).

A oltre quarant'anni dalla Populorum progressio lo sviluppo integrale dell'uomo e dei popoli "resta ancora un problema aperto" (ibidem, 33). Il quadro dello sviluppo è "policentrico", molteplici sono i protagonisti e le cause dello sviluppo e del sottosviluppo, come pure vanno differenziati i meriti e le colpe. La questione sociale deve essere ricondotta alla questione antropologica. Così al centro del vero sviluppo c'è anzitutto "l'apertura alla vita". "Quando una società s'avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo" (ibidem, 28). Al contrario, "l'apertura moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica" (ibidem, 44). Va dunque garantito uno stretto rapporto tra etica della vita umana e etica sociale. Giovanni Paolo II, nell'Evangelium vitae, aveva scritto:  "Non può avere solide basi una società che - mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace - si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata".

Lo sviluppo integrale domanda che gli Stati varino politiche che promuovano "la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna" (Caritas in veritate, 44). La questione familiare non è una questione privata ma sociale.
Strettamente collegato con lo sviluppo è l'effettivo esercizio del diritto alla libertà religiosa, negato in molte aree del mondo. "Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto avendolo creato a sua immagine, ne fonda (...) la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad "essere di più"". "Le lotte e i conflitti che nel mondo si combattono per motivazioni religiose (...) frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso un maggiore benessere socio-economico e spirituale" (ibidem, 29).

Se il retto agire economico non può prescindere dalla centralità della persona umana, dalla giustizia, dalla solidarietà e dal bene comune, ne consegue che la sfera dell'economia non può percorrere strade parallele alla sfera del sociale, né gli strumenti economici (tra questi anzitutto il mercato) possono essere usati in regime di totale autonomia da "influenze" di carattere morale, perché così facendo si dà luogo alla "sopraffazione del forte sul debole" (ibidem, 36) e inoltre il processo di sviluppo deve "fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità" (ibidem, 34). Bisogna riportare l'etica e la carità al centro del sistema dei mercati. D'altra parte - si legge nell'enciclica - il mercato "non esiste allo stato puro", né deve essere demonizzato, perché può offrire molti vantaggi. È uno strumento che chiama sempre "in causa l'uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale" (ibidem, 36). Pertanto la logica mercantile non può soggiacere soltanto alla regola del massimo profitto o a criteri di giustizia commutativa rigidamente intesa. Ha bisogno di un concetto espansivo di giustizia e del principio di gratuità, nella logica del dono come espressione della fraternità, che abbia come obiettivo il bene comune (ivi). "L'essere umano è fatto per il dono, che ne attua ed esprime la dimensione della trascendenza". E "il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza" (ibidem, 34).
È certamente una "grande sfida che abbiamo davanti" (ibidem, 36) e che dobbiamo affrontare, divenuta ancora più urgente in questo tempo di globalizzazione e di crisi economico-finanziaria. L'economia di mercato deve essere, per così dire, contaminata da altre forme di economia sociale. Per usare il linguaggio di alcuni economisti:  va recuperata l'idea di "economia civile" perché non basta più quella di "economia politica" di Adam Smith.

Il profitto, come unico obiettivo dell'economia, mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, "rischia di distruggere ricchezza e creare povertà". È utile se, "in quanto mezzo, è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo" (ibidem, 21).
Lo sviluppo economico, che "continua a essere gravato da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall'attuale situazione di crisi" (ivi), deve essere concepito in chiave planetaria, vale a dire che è necessario riconoscere che tutti i popoli sono una sola famiglia e che le economie mondiali sono chiamate a cooperare alla soluzione della grave crisi nel segno della solidarietà (cfr. ibidem, 53).

Questi e molti altri aspetti, trattati dall'enciclica, domandano un profondo rinnovamento culturale e la riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La vocazione insita nell'uomo a essere di più - afferma il Papa - "ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole a trovare nuove forme di impegno (...) La crisi economica, che ha perso di vista la radice sociale e umana dell'economia e dello sviluppo, diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità" (ibidem, 21). Non basta allora inventare nuove strategie economiche e nuovi strumenti tecnologici. È "necessario un complessivo ripensamento dello sviluppo" (ibidem, 23), "una nuova sintesi umanistica", che muova da una convinzione condivisa secondo cui l'obiettivo di fondo è che "il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo, la persona, nella sua integrità" (ibidem, 25).

La Caritas in veritate è una boccata d'ossigeno per ripensare l'umanizzazione del mondo e ci educa a saper valutare, alla luce congiunta della ragione e della fede, i fatti sociali e l'economia, avendo dinanzi le sfide del presente e lo scandalo non più sopportabile di ingiustizie e di disparità dei popoli.


(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009)
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