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"Caritas in Veritate" - Carità nella Verità: nuova Enciclica Sociale di Benedetto XVI

Ultimo Aggiornamento: 23/06/2010 20:23
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15/10/2009 18:28

Riflessioni sulla «Caritas in veritate» dell'arcivescovo Menamparampil

Un destino comune alla radice della globalizzazione


Roma, 15. La globalizzazione. È solo una formula per lo sfruttamento dei Paesi più deboli? Una semplice crudele pianificazione per derubare le nazioni in via di sviluppo delle loro risorse naturali e frenarne così la crescita? "Se anche in apparenza sembra esserlo, non è detto che le cose stiano realmente così". Ad affermarlo è Thomas Menamparampil, salesiano e arcivescovo di Guwahati, nel nord-est dell'India, in una riflessione sulla Caritas in veritate affidata al prossimo numero di novembre di "Mondo e missione", la rivista del Pontificio istituto missioni estere (Pime). Non abbiamo bisogno - afferma il presule - di "profeti di sventura", ma di "speranza" e "incoraggiamento", che "sappiano leggere le finalità profonde che si celano dietro i processi storici di oggi".
L'arcivescovo indiano, che la primavera scorsa è stato chiamato a redigere le meditazioni della Via Crucis al Colosseo, organizza il suo ragionamento a partire da un passo dell'enciclica in cui Benedetto XVI sottolinea proprio come l'opporsi "ciecamente" alla globalizzazione sarebbe un modo "sbagliato" e "preconcetto" di affrontare la realtà che finirebbe "per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti positivi". E arriva a chiedere una "teologia della globalizzazione", poiché - questo è il titolo dell'articolo - "tutti abbiamo un destino comune".
Menamparampil non nasconde certamente le difficoltà del momento, ma afferma altrettanto chiaramente che "nessuno deve fatalisticamente rassegnarsi al ruolo di vittima all'interno dell'attuale sistema globale ingiusto". Perché "se l'attuale sistema globale è diventato un sistema di sfruttamento", esso può anche "essere riplasmato a nostro vantaggio". Del resto, dalla scoperta del fuoco all'utilizzo dell'energia nucleare - si sottolinea - "l'umanità non è mai riuscita a perseguire un obiettivo utile senza aver ottenuto prima ripetuti fallimenti". Così - continuando negli esempi - anche la Lega delle Nazioni, le Nazioni Unite o i tribunali internazionali "hanno spesso deluso le nostre aspettative", ma hanno "anche contribuito a trovare soluzioni per alcuni pressanti problemi dell'umanità". Insomma, "ciò che è imperfetto può essere perfezionato".
Sullo sfondo della riflessione sembrano riaffiorare anche gli echi dei conflitti etnici e religiosi che negli ultimi tempi hanno segnato la comunità indiana. L'arcivescovo di Guwahati invita a guardare a un'"origine" e a un "destino" comuni. "Il nostro dna", come anche "gli archetipi dell'inconscio collettivo delle singole comunità", hanno "similitudini multiculturali". Così anche "i nostri spiriti razziali ed etnici sono legati tra loro, i nostri doni naturali sono correlati". Di qui anche l'appello alle varie tradizioni religiose. "In un'era di rapida secolarizzazione - afferma il presule - tutte le religioni trarrebbero beneficio se provassero a riflettere insieme sul futuro della famiglia umana. Perché una società totalmente secolarizzata, costruita sull'esasperata affermazione del "libero e razionale" arriva al punto di diventare irrazionale, dogmatica e sfruttatrice". Con la conseguente comparsa di "nuove forme di povertà, ineguaglianza, oppressione e squilibrio", così come il "diffondersi dell'aborto e dell'eutanasia".
Le tensioni, dunque, "possono essere ridotte". Anche perché la recente crisi internazionale ha dimostrato che "le nazioni sviluppate riusciranno a mantenere il loro ritmo di crescita soltanto se le risorse che essi generano verranno condivise con il resto della società".
La necessità di una base morale per un reale e duraturo sviluppo economico è anche la convinzione emersa in un forum - di cui si dà conto sempre sul prossimo numero di "Mondo e missione" - promosso tra alcuni intellettuali cinesi chiamati a commentare l'ultima enciclica di Benedetto XVI. "Se per uscire dalla crisi finanziaria c'è bisogno dell'aiuto della morale - sostiene You Xilin, direttore dell'istituto di cultura cristiana della Shaanxi Normal University - la fede sarà la via d'uscita della società contemporanea per superare nichilismo e crisi spirituale". E Teresa Enhui Xiao, della Guanqi Press di Shangai, sottolinea le particolari affinità tra alcuni argomenti dell'enciclica - sviluppo, giustizia, disoccupazione, bene comune, relazione interpersonale - e i temi caldi di discussione del mondo cinese. Come per esempio il progetto di "società armoniosa", basato su giustizia e fraternità, capace di stabilità e ordine e di coesistenza armoniosa tra uomo e natura. In Cina - afferma - "ci si chiede quale sia il punto di vista cristiano sulla "società armoniosa", quasi una luce che la illumini".


(©L'Osservatore Romano - 16 ottobre 2009)
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24/10/2009 11:08

«Caritas in veritate»

Oltre la dottrina sociale

di Brian Griffiths of Fforestfach
Vicepresidente di Goldman Sachs International

I sostenitori del liberismo economico hanno accolto tiepidamente l'enciclica
Caritas in veritate. Essi riconoscono il suo positivo sostegno al profitto, all'economia di mercato, alla globalizzazione, alla tecnologia e al commercio internazionale.
Alcuni la considerano tuttavia un miscuglio di cose buone e cattive, perché esorta a maggiori aiuti internazionali, al rafforzamento del potere dei sindacati e alla gestione della globalizzazione da parte di istituzioni internazionali. Altri ritengono che sia un passo indietro rispetto alla Centesimus annus, perché non incensa gli imprenditori e la cultura imprenditoriale. Altri argomentano che, essendo le questioni sociali ed economiche divenute così complesse, il tempo delle encicliche papali che propugnano la dottrina sociale della Chiesa è ormai finito.
Dissento con forza.
Questa enciclica è un documento straordinariamente incisivo.
Ha posto con fermezza nell'agenda internazionale la fede cristiana quale visione del mondo. Affronta tutte le questioni chiave del nostro tempo - la crisi finanziaria, la povertà globale, l'ambiente, la globalizzazione, la tecnologia - e dimostra che la fede cristiana può offrire una prospettiva unica su ognuna di esse. Non mi viene in mente nessun altro scritto di un singolo cristiano né un testo di un'altra Chiesa che possa avere il suo impatto.
La grande forza dell'enciclica è la sua teologia. Attinge alle profonde riflessioni sull'insegnamento cristiano che Benedetto XVI ha elaborato in oltre sei decenni e dimostra l'importanza della fede cristiana oggi. Per esempio, riconosce che l'ambiente è un dono di Dio all'umanità e che noi ne siamo amministratori, ma, nello stesso tempo, rifiuta il panteismo e l'idea che la natura sia un intoccabile tabù.
Afferma che il lavoro ha una dignità innata, derivante dal nostro essere creature di Dio, ma che è violata dalla crescente disoccupazione prodotta dalla crisi. L'economia di mercato crea prosperità, ma quando viene meno la fiducia, come ora a causa della crisi, la coesione sociale è minata.
La teologia dell'enciclica è soprattutto cristocentrica. La vita di Gesù è, infatti, l'esempio supremo di "amore pieno di verità". Riecheggiando Paolo VI, Benedetto XVI afferma che la vita "in Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo" e che la fede cristiana, occupandosi dello sviluppo, non conta "su privilegi o posizioni di potere e neppure sui meriti dei cristiani, ma solo su Cristo... il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo". Mentre leggevo l'enciclica per la terza volta ho cominciato a capire che le sue intuizioni teologiche sono così profonde da dover essere letta non solo sul piano intellettuale, come formulazione di dottrina sociale, ma anche in maniera meditativa, perché offre una visione profonda della persona umana.
La Caritas in veritate porta la sua più grande sfida a una visione dominante del mondo, ispirata al liberismo economico e al libertarismo filosofico, che hanno elevato ad assoluto la libertà personale. L'enciclica respinge categoricamente la visione che la vita economica sia autonoma e che possa essere indipendente dalla morale. L'attuale crisi finanziaria è in parte il crollo di un sistema visto meccanicamente, ma è anche la continua rappresentazione di un dramma morale. La vita economica è composta da individui con una coscienza morale e responsabilità personali che hanno bisogno di una bussola morale che li guidi.
Di conseguenza essa non può essere concepita come qualcosa di impersonale e amorale, come un ordine spontaneo che lasciato a se stesso produrrà il bene comune. Per questo, la difesa del libero mercato da parte di economisti laici quali Friedrich Hayek e Milton Friedman è viziata dalla loro visione imperfetta della persona umana e dalla loro limitata comprensione del fondamento morale dei mercati.
L'enciclica è un argomento a favore dell'umanesimo cristiano. La persona umana che ha dignità, merita giustizia e porta l'immagine divina deve stare sempre al centro della vita economica. Il banco di prova di qualsiasi riforma è dunque il suo impatto sulle persone, sui loro rapporti e sulle loro comunità. Per questo l'enciclica non suggerisce un sistema economico alternativo al capitalismo. Sostiene, infatti, qualcosa di infinitamente più radicale: un'economia di mercato globale, pervasa di carità e di giustizia, rispettosa della verità del mondo creato da Dio e delle persone che ne portano l'immagine. "Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune".
L'enciclica considera questo un progetto realistico e non un ideale impossibile. La crisi finanziaria ha creato un bivio per tutti noi, per le istituzioni finanziarie in cui lavoriamo e le società in cui viviamo. La Caritas in veritate è un'esortazione rivolta ai cristiani a rinnovare la propria visione di ciò che è possibile, a viverla con l'aiuto di Dio e, così facendo, a servire il mondo con amore.

(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)
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31/10/2009 18:33

"Caritas in veritate"

L'enciclica della fraternità universale


di Rosino Gibellini


La Caritas in veritate si potrebbe definire l'enciclica della fraternità universale perché questa è la categoria teologica centrale nel discorso complesso di Benedetto XVI sulla realtà sociale del nostro mondo in via di globalizzazione. Il Papa si inserisce nella dottrina sociale della Chiesa con una modalità particolare, espressa, appunto, dalla categoria della fraternità universale. È stato osservato che Giovanni Paolo II parlava spesso di socialità, un tema che Benedetto XVI riconduce alla sua fonte teologica, e cioè la fraternità. Il terzo capitolo dell'enciclica (n. 34-42) s'intitola Fraternità, sviluppo economico e società civile e si può considerare il centro teologico del testo papale.

Il concetto di fraternità è caro alla teologia di Joseph Ratzinger, che vi aveva dedicato il corso viennese del 1958, quando il giovane teologo era agli inizi della sua docenza nel seminario filosofico-teologico di Frisinga. Il corso sarà poi pubblicato nel 1960 (quando Ratzinger era già arrivato all'università di Bonn), con il titolo Die christliche Brüderlichkeit (München, 1960; nuova edizione, München, Kösel-Verlag, 2006; traduzione italiana, Roma, 1962; nuova traduzione, Brescia, Queriniana, 2005). La fraternità cristiana - si spiega in quel testo - è quella interna alla Chiesa:  è "la reciproca fraternità dei cristiani" che invocano Dio, confidenzialmente, come Abba ("Padre nostro"), come Gesù ci ha insegnato. Ed è una fraternità aperta, perché la Chiesa è sempre - citando von Balthasar - "uno spazio aperto e un concetto dinamico"; essa "è infatti il movimento di penetrazione del regno di Dio nel mondo,  nel  senso  di  una  totalità escatologica" (La fraternità cristiana, p. 100).

La fraternità cristiana traccia anche dei confini, pone una dualità tra Chiesa e non chiesa. Ma "la comunità cristiana fraterna non è contro, bensì a favore del tutto" ed "è chiaro che l'opera di Gesù non mira propriamente alla parte, bensì al tutto, all'unità dell'umanità" (ivi, p. 94). La fraternità cristiana non è riducibile a filantropia, non è assimilabile al cosmopolitismo stoico o illuminista, ma è espressione di "vero universalismo", perché è  posta  "al  servizio  del  tutto",  tramite agàpe ("amore") e diakonìa ("servizio").

Nel testo richiamato è bene evidenziata la differenza tra fraternità universale nell'illuminismo e nel cristianesimo. È vero che l'illuminismo ha ampliato il concetto di fratello, parlando di fraternità universale sulla base della comune natura umana. Ma una fraternità così estesa può diventare irrealistica e vaga espressione di umanitarismo, come evidenziano le parole del pur grande inno alla gioia di Schiller:  "Abbracciatevi, moltitudini". La fraternità cristiana, invece, si apre all'altro, e si fa fraternità universale appunto nell'agàpe e nella diakonìa, abbattendo così, nella concretezza della vita, ogni barriera. È il tema ripreso nell'enciclica.

Nella Caritas in veritate si afferma infatti che la vera fraternità, operante oltre ogni barriera e confine, nasce dal dono, la cui logica è introdotta nel tessuto economico, sociale e politico:  "La comunità degli uomini può essere costituita da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente universale:  l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione, nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-amore. Nell'affrontare questa decisiva questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone a essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio gratuità come espressione di fraternità" (n. 34).

Secondo il Papa, nel tempo della globalizzazione in cui ormai l'umanità è entrata, e in cui essa diventa "sempre più interconnessa" (n. 42), gli esseri umani hanno bisogno come singoli e come comunità di un criterio etico fondamentale. Questo criterio è una categoria teologica, quella della fraternità universale, che ci fa considerare membri della stessa "famiglia umana". Se si volesse citare una sola affermazione dell'enciclica, per andare al centro della visione che essa propone, si potrebbe scegliere questa:  "La globalizzazione è fenomeno multidimensionale o polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di tutte le sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere e orientare la globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione" (n. 42).

È questa la parte più strettamente teologica, sul cui registro sono da leggere le indicazioni concrete di etica sociale ed economica contenute nell'enciclica, che insieme propone come chiave di lettura la visione della "fraternità universale" e la logica conseguente della "relazionalità" e della "condivisione" come criterio fondamentale e come orientamento "teologico". Per essere "capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie al servizio di un vero umanesimo integrale" (n. 78).


(©L'Osservatore Romano - 1 novembre 2009)
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La «Caritas in veritate»
e l'«homo oeconomicus» del XXI secolo

La solitudine dei numeri uno


Pubblichiamo "L'enciclica di Benedetto XVI provoca la teoria sociale", un contributo tratto dal numero in uscita della rivista "Vita e pensiero". L'autrice insegna Filosofia e teoria sociale presso l'università di Warwick ed è membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

di Margaret Archer

Le reazioni alla nuova lettera enciclica di Benedetto XVI sono state piuttosto caute. Quasi ogni commentatore sembra essersi soffermato sulle parole del titolo. Qual è per me la più importante? Quale delle due viene maggiormente sostenuta dalla mia organizzazione?

È questo il tema che viene analizzato e commentato, con il risultato di dare alla fine una sorta di patchwork, come un insieme di riquadri a maglia lavorati in fretta, che però non hanno ancora la forma della coperta. Perché? Sostanzialmente perché la Caritas in veritate non è un'enciclica destinata al teologo, ma rappresenta un dialogo con gli scienziati sociali.

Negli ultimi vent'anni gli scambi tra il Vaticano e gli scienziati sociali, avviati da Giovanni Paolo II, fondatore nel 1994 della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, sono aumentati vertiginosamente. 

Né il suo successore si è tirato indietro:  nel faccia-a-faccia con Jürgen Habermas, decano dei teorici sociali, ha messo in luce l'impegno ad aprirsi "alla verità, da qualunque parte essa provenga" (n. 9).
In tal senso, un valido contributo viene da alcuni realisti critici dell'università di Bologna, il cui pensiero è responsabile del condimento, della sostanza e del sapore della Caritas in veritate, e il cui "paradigma relazionale" funziona in continuità creativa con i quattro pilastri della dottrina sociale cattolica:  dignità umana, sussidiarietà, solidarietà e bene comune. Vale la pena di affrontare lo sforzo di una tale impostazione, perché nella Caritas in veritate c'è qualcosa di davvero grande.

Lo "sviluppo umano integrale" è il concetto fondamentale di tutta l'enciclica, usato ben ventidue volte per amplificare il tradizionale concetto di "dignità umana". A causa della nostra filiazione divina, la dignità di ognuno e di tutti resta necessariamente inamovibile. È il significato di essere "umani" che è cambiato.
Al centro di questa nuova interpretazione c'è la "relazionalità", il riconoscimento della nostra socialità intrinsecamente umana e delle sue conseguenze. Questo sgombra il campo da una grave ambiguità relativa alla "dignità umana", ovvero che essa sarebbe applicabile all'"individuo solitario", qualcuno le cui relazioni sociali non servono a renderlo spiccatamente umano.

Piuttosto, la Caritas in veritate cerca di definire quali siano le condizioni per lo "sviluppo dell'uomo nella sua interezza e di tutti gli uomini" (n. 79), ritenendo che ciò debba basarsi su "una valutazione più profondamente critica della categoria di relazione" (n. 53).

Questa enfasi sulle relazioni umane - cardine dell'unità globale - è sancita dal paragone diretto con la Trinità, che è "unità assoluta fino al punto in cui le tre persone divine sono pura relazionalità" (n. 54).
Per sottolineare ancor più il concetto, si può dire che "relazionalità" significa prendere le distanze dall'individualismo dell'Illuminismo, ancora influente in due forme nell'ambito delle scienze sociali.

Da una parte l'homo oeconomicus, caro agli economisti neo-liberali, è un solitario sottosocializzato, una monade la cui unica preoccupazione è conseguire nella misura più ampia possibile le priorità che si è prefissato per diventare sempre più ricco.

L'"uomo economico" è - se mi si permette l'immagine - come John Wayne, che arriva in città da non si sa dove e fa ciò che pensa un uomo debba fare prima di allontanarsi galoppando nel tramonto, niente affatto influenzato dai nuovi rapporti e del tutto indifferente al modo in cui ha influenzato la città. A livello macro, le azioni di questi individui, proprio perché prive di qualunque relazionalità, non sono altro che aggregati.
D'altro canto l'homo sociologicus (più noto come l'"uomo dell'organizzazione") è sovrasocializzato; tutto ciò che ha gli viene dalla società. Che questo lo renda una creatura delle norme sociali o un giocoso post-modernista, egli è "flessibile" nei confronti delle circostanze.

Quale creatura delle circostanze è un relativista nato, che non condivide alcunché con l'universale famiglia del genere umano, ed è dunque incapace di solidarizzare con essa.
Poiché l'homo oeconomicus è antropocentrico e l'homo sociologicus sociocentrico, in entrambi non vi è spazio per la trascendenza. In nessun caso l'homo relatus mostra alcuna rassomiglianza con questi due modelli.

La relazionalità è per noi qualcosa di fin troppo noto:  cosicché, invece di prenderla sul serio, la diamo per scontata. Provate a fare questo esperimento con il pensiero. Siete al parco, state camminando dietro una coppia abbracciata, in tutta probabilità profondamente innamorata.

Non vi sentite attratti da quel particolare uomo o donna, ma ciò che riconoscete o addirittura desiderate è la loro relazione sentimentale, qualcosa che si è generato tra loro, insopprimibile per i due individui coinvolti. È questo ciò che la Caritas in veritate intende quando afferma che "una delle più gravi forme di povertà che l'individuo possa sperimentare è l'isolamento" (n. 53). E anche ciò che sant'Agostino intendeva quando diceva che i nostri cuori sono irrequieti finché non realizziamo le relazioni che la Rivelazione ci offre, quelle con il padre, la madre, il fratello e l'amico.

Quello che la Caritas in veritate ci invita a fare è rendere sacro ogni incontro umano mediante la "fraternità" ed estenderlo all'umanità intera, costruendo una famiglia globale mediante l'"inclusione relazionale" (n. 54). Comunque, la "fraternità" - il rivoluzionario slogan scaturito dall'agenda sociale - è promossa da alcune forme di organizzazione sociale e scoraggiata da altre. La relazionalità produce "beni relazionali"; essi sono indivisibili, nel senso che qualsiasi tentativo di dividerli distruggerebbe le stesse relazioni sociali che li genera.

Nessuno può eliminare la propria parte dall'orchestra o la propria quota dalla squadra di calcio; una coppia che divorzia non può portarsi via la propria parte di matrimonio. Al massimo potrà dividere le proprietà, ivi inclusi i figli. Il matrimonio viene sciolto o annullato, e non genera più nulla, poiché la relazione ha smesso di esistere. In breve, il bene comune non può essere parcellizzato tra chi lo produce.

Ogni "bene relazionale" continua a esistere solamente perché coloro che sono coinvolti vi attribuiscono importanza e operano per sostenere le relazioni che lo generano. Le loro azioni sono orientate verso il bene comune e il loro atteggiamento verso i co-produttori è completamente opposto alle relazioni contrattuali di mercato. Piuttosto, ognuno è motivato dalla reciprocità, perché ciò che c'è in gioco è troppo importante per essere messo in pericolo dalla persistenza di un rigido scambio di equivalenti.

La reciprocità è alimentata dalla generosità e dal "libero dare", e non governata dal quid pro quo. È utile constatare con quale velocità sia possibile bloccare questo motore:  quando negli Stati Uniti i donatori di sangue vennero retribuiti, si ebbe come risultato un numero minore di donatori e una più bassa qualità del sangue. Sviluppare invece una nuova relazione positiva vuol dire acquisire una nuova fonte di motivazione, servire il gruppo in solidarietà con esso.

Questo atteggiamento è ciò che Giovanni Paolo II ha definito "amore sociale" (Redemptor hominis, n. 16) e che, se sufficientemente esteso (ed esso è per propria natura espansivo), contribuisce a costruire quella "civiltà dell'amore" verso cui si indirizza la Caritas in veritate. Sarebbe questa una società giusta, in un senso assai più ampio rispetto all'autorevole teoria di John Rawls. Sotto il "velo di ignoranza", i soggetti (ipotetici) non agiscono in modo fraterno gli uni verso gli altri, ma solo in modo cauto, per evitare che un tiro mancino della cattiva sorte li possa far finire nella posizione più negativa.

Proprio come vi sono "beni relazionali" vi sono "mali relazionali":  malvagità, peccati strutturali, elementi nocivi, ossia disutilità economiche. In tal senso l'enciclica dà filo da torcere al capitalismo multinazionale e alla finanza deregolata.

Quello che la Caritas in veritate promuove per la sfera economica è un modo "tangenziale", non una terza via, o via media. Il capitalismo non è altro che una forma di economia di mercato, governato dalla ricerca del profitto e dal "bene totale" degli shareholders, gli azionisti, piuttosto che dal bene comune di tutti gli stakeholders:  impiegati, fornitori e dipendenti, a partire dai pensionati fino ad arrivare all'ambiente naturale (n. 40).

Al contrario, un'economia civile sarebbe al servizio di tutti coloro sopra menzionati, senza tralasciare i più poveri (il che fa aumentare il "bene totale"!) né mettere il loro benessere nelle mani dello Stato. Un ulteriore modo di "civilizzare l'economia" nasce non già dalle imprese private piuttosto che pubbliche, ma da iniziative spontanee basate sul principio di reciprocità e aventi fini sociali, iniziative (più diffuse nel continente europeo che in Gran Bretagna) che, senza rifiutare l'idea di profitto, puntano a un obiettivo più alto della mera logica dello scambio di equivalenti, del profitto fine a sé stesso.

Forse la dichiarazione più rivoluzionaria contenuta nella Caritas in veritate è che "il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità" (n. 39). Gli esseri umani hanno bisogno di ben altro che soltanto intessere relazioni e imporre relazioni; hanno bisogno di relazioni umane che siano alimentate in seno alla società civile. Nella società civile solo la sussidiarietà permette l'espressione della pluralità dei doni delle persone e la realizzazione della diversità delle loro necessità.

La società civile dovrebbe essere la zona cuscinetto che compensa (e civilizza) i due attuali Leviatani. Eppure, al di là di poche illustrazioni - di cui la più importante è la "sussidiarietà fiscale", che dà ai cittadini il diritto di decidere su come debba essere spesa una determinata quota di tasse - la Caritas in veritate (a ragion veduta) insiste sul fatto che non è compito della Chiesa fungere da pensatoio delle effettive politiche sociali.

Ciò che la Caritas in veritate ha fatto è stato lanciare una sfida fondamentale nell'ambito delle scienze sociali - attualmente preoccupate di soddisfare gli "indicatori di performance" del mondo accademico - per porre il benessere di tutta l'umanità in cima alla lista delle priorità.
Questa enciclica dimostra che i teorici sociali sono ascoltati; potremmo allora raccogliere la sfida dicendo più cose che valgono la pena di essere ascoltate.


(©L'Osservatore Romano - 6 novembre 2009)
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08/11/2009 08:20

«Caritas in veritate»

Paolo VI, Benedetto XVI e la matrice della dottrina sociale


di Robert P. Imbelli

La Caritas in veritate ha suscitato grande attenzione per le sue conseguenze sulle questioni finanziarie in un momento di crisi economica. Senza negare l'importanza di queste considerazioni, è essenziale non ignorare le sfide strettamente teologiche poste dall'enciclica. Secondo il Papa, infatti, gli interessi economici non possono essere separati da ciò che in definitiva è più importante per l'umanità:  l'economia divina della salvezza.
La prima caratteristica dell'enciclica è il richiamo al fondamento della dottrina sociale della Chiesa, ovvero l'annuncio di Gesù Cristo. Una conseguenza dell'orientamento cristologico del testo è che questa dottrina è radicata nel Vangelo e non nella legge naturale. Non si vuole certo escludere l'appello alla legge naturale, tipico della riflessione cattolica sul sociale. Esistono infatti alcuni contesti specifici dove esso è opportuno e perfino necessario, ma il desiderio di trovare un terreno comune per tutte le persone di buona volontà può involontariamente sradicare la legge naturale dal fertile suolo che solo può nutrirla e sostenerla.
In altre parole, la legge naturale è una "astrazione" ottenuta partendo da un linguaggio cattolico di gran lunga più esaustivo e profondo, che esprime una visione dell'umanità e del mondo:  quell'umanesimo integrale, tanto caro a Paolo VI e ora confermato da Benedetto XVI. Infatti, a meno che non venga invocato e utilizzato questo più ricco linguaggio cattolico, come fa il Papa in tutta la Caritas in veritate, si rischia di ridurre la religione all'etica, al rapporto personale, alla fraternità e alla promozione di una causa (per quanto giusta e desiderabile possa essere).
Una seconda caratteristica dell'enciclica è la necessità di fare ricorso a una visione integrale dell'uomo, come già nella Populorum progressio. Questo "vero umanesimo integrale" (n. 78) è una veste senza cuciture che intesse l'individuale e il sociale, il corpo e l'anima, l'interesse per la città terrena e la speranza nella città celeste. È degno di nota che Benedetto XVI riunisca in una visione globale testi magisteriali di Paolo VI troppo spesso trascurati dai cattolici:  cioè la Populorum progressio, l'Humanae vitae e l'Evangelii nuntiandi, documenti che, insieme, rendono vigorosa testimonianza di una visione, aperta alla speranza, dell'essere umano e del suo destino.
Questa visione dell'uomo, tradizionalmente cattolica, è radicata in definitiva nella cristologia. La convinzione di Benedetto XVI riflette fedelmente l'insegnamento della Gaudium et spes, la quale afferma che "solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo" (n. 22).
L'enciclica lancia quindi una sfida ulteriore al pensiero e all'azione dei cattolici. Si tratta della necessità di promuovere una ricezione integrale del Vaticano ii e delle quattro Costituzioni conciliari:  ognuna, infatti, illumina le altre. I sostenitori della Gaudium et spes e del suo interesse sociale devono svilupparne i fondamenti alla luce della Dei verbum. A loro volta, i fautori della riforma liturgica, cominciata con la Sacrosanctum concilium, devono considerare il culto della Chiesa associato intimamente alla testimonianza richiesta dalla Lumen gentium sulla Chiesa "sacramento di salvezza" per tutto il mondo.
In un discorso nell'anniversario del crollo della Lehman Brothers, il presidente degli Stati Uniti ha detto che "è stato un fallimento della responsabilità". Naturalmente, nel caso di Wall Street Barack Obama non poteva usare la parola conversione. Il Papa invece può dire a gran voce quello che i politici possono soltanto sussurrare. Il necessario cambiamento strutturale non può sostituire la conversione autentica del cuore e della mente.
Ma siccome la conversione è un imperativo permanente, la dottrina sociale della Chiesa è completa solo quando è incarnata in una spiritualità che nutre il suo impegno per la carità nella verità. Questa spiritualità "pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono" e promuove la realizzazione della "gratuità presente nella sua vita in molteplici forme" (n. 34), e per i cattolici è sempre radicata nell'Eucaristia. Insomma, la dottrina sociale deriva e dipende dalla matrice liturgica ed ecclesiale e dalle sue affermazioni dogmatiche.
Qualcuno potrebbe obiettare:  una simile lettura dell'enciclica non impedisce il dialogo con altre tradizioni e non rivela un atteggiamento settario? Credo di no. Può invece spronare quanti condividono le proposte e i valori della Caritas in veritate a considerare la base delle proprie convinzioni. In questo modo, il dialogo non potrà che essere più profondo (cfr. n. 55).


(©L'Osservatore Romano - 8 novembre 2009)
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In un convegno alla Pontificia Università della Santa Croce si confrontano diverse letture della «Caritas in veritate»

La fine del liberismo e l'alba di un mercato inclusivo


di Luca M. Possati

Come legge un ebreo la Caritas in veritate? E un musulmano? Cosa può dire il testo dell'enciclica a persone di una fede o di una cultura diverse? Se la Grande Crisi finanziaria ed economica di questi anni ha avuto degli effetti positivi, uno di essi è certamente quello di aver posto il mondo di fronte a problemi comuni, questioni che non possono essere risolte da un singolo Stato, per quanto potente esso sia, né da una piccola cerchia di Stati privilegiati. Tutti sono colpiti dalla crisi. Il Credit Crunch che ha messo in ginocchio Wall Street - e ha infranto il sogno di un liberismo senza regole alimentato dall'idea di un mercato capace di autoregolarsi - ha posto di fronte a sfide globali di eccezionale gravità, che chiedono di guardare ai fatti economici con occhi diversi. La Caritas in veritate è il primo trattato di economia del terzo millennio ad aver colto in pieno una tale provocazione, ripensando daccapo il rapporto tra la sfera economica e quella sociale, tra la produzione e la distribuzione della ricchezza. Proprio in virtù di quest'ambizione l'enciclica offre a tutte le religioni e le culture un terreno fecondo di scambio, una bussola per la costruzione di un nuovo mercato inclusivo fondato sul valore universale della fraternità.

Sondare la possibilità di questo nuovo confronto è stato l'obiettivo del convegno "Caritas in veritate, letture da prospettive culturali diverse", tenutosi lunedì 9 a Roma, presso la Pontificia Università della Santa Croce. Sono intervenuti il cardinale Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per i laici, il professore Luis Romera, rettore della Pontificia Università Gregoriana, l'onorevole Rocco Buttiglione, vice presidente della Camera dei Deputati, l'onorevole Paola Binetti, l'onorevole Pier Ferdinando Casini. Erano presenti numerosi ambasciatori presso la Santa Sede. A organizzare l'evento è stata la Fundación Promoción Social de la Cultura, associazione privata, senza scopi di lucro, che promuove progetti in quattro continenti e in 41 Paesi.

Uno dei richiami fondamentali della Caritas in veritate è che la crisi può diventare un'occasione di discernimento, un momento opportuno per pensare una nuova progettualità, per dare nuove regole ai rapporti umani in società. "L'enciclica Caritas in veritate non è solo un testo che tratta di temi economici - ha detto l'onorevole Binetti - ma una visione in cui l'economia è destinata a cambiare solo se noi cambiamo il nostro modello antropologico". In effetti, "la parola chiave attorno alla quale ruota tutto il discorso di Benedetto XVI non è solidarietà ma fraternità, un termine che non ha solo una dimensione etica, ma che rinvia a opere della comprensione, della inclusione". Sotto questo profilo, "è la grande enciclica della comprensione reciproca, della costruzione di un autentico processo di sviluppo".

Comprensione anche tra fedi, linguaggi e culture. "Il concetto di giustizia è essenziale nell'islam", ha sottolineato Youssef El-Khalil, presidente dell'Associazione d'Aide au Développement Rural. "L'islam afferra le basi teologiche essenziali che gli permettono di essere conforme alle idee di sviluppo, di aiuto e di carità così come sono presentate nella Lettera enciclica". Tuttavia, "il problema con gli approcci religiosi risiede nelle interpretazioni:  una versione attuale dell'islam detto integralista difende delle posizioni regressive per quanto riguarda l'educazione e i programmi insegnati". La Caritas in veritate è un documento che si pone spontaneamente in una prospettiva interreligiosa e interculturale, perché "Benedetto XVI non si è mantenuto sul piano generale e offre a tutti noi, credenti e non, molti temi di riflessione", ha spiegato il diplomatico israeliano Samuel Hadas, membro del Centro Shimon Peres per la pace. Nello specifico, la Caritas in veritate può anche essere uno strumento utile al dialogo tra cattolici ed ebrei. "Ebraismo e cristianesimo si ritrovano sullo stesso concetto di persona, base di tutto l'ordine sociale, creata a immagine e somiglianza di Dio:  la comune filiazione di tutta l'umanità autorizza il concetto di uguaglianza radicale di tutti gli uomini in dignità e diritti".

La Caritas in veritate segna un punto di svolta anche all'interno della dottrina sociale della Chiesa. Nonostante la fine della guerra fredda, e della rigida contrapposizione tra socialismo reale e capitalismo, i conflitti non si sono assopiti, anzi. Oggi la scelta non è più tra un sistema comunistico e un sistema liberale-individualistico:  nessun uomo ragionevole può contestare il primato dell'economia di mercato. Il vero oggetto del confronto odierno - ha spiegato il professore Stefano Zamagni - è tra due concezioni di mercato diametralmente opposte:  un mercato "darwiniano" che tende a escludere per fare spazio ai più efficienti; un mercato civile, capace di includere, ossia un modello di organizzazione socio-economica che tende a includere virtualmente tutti. "La tesi implicita dell'enciclica è questa - ha detto Zamagni - il Papa ci invita a recuperare le radici profonde del pensiero cattolico, perché le prime forme della finanza moderna risalgono ai cristiani, e in particolare ai francescani".


(©L'Osservatore Romano - 11 novembre 2009)
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13/11/2009 18:46

«Caritas in veritate» e uomo contemporaneo

Lo scandaloso antidoto a Baudolino


di Silvia Guidi

"La libertà è partecipazione" cantava Gaber negli anni Settanta; lo è, in un certo senso, anche la carità, perché la tensione a condividere il bisogno dell'altro risveglia l'io e lo libera dalla passività. È questo il tema che ha introdotto la tavola rotonda sull'ultima lettera enciclica del Papa che si è tenuta il 12 novembre nella Pontificia Università Gregoriana, moderata dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi.
Carità non è sinonimo di filantropia, hanno ribadito Berardino Guarino, vicepresidente del Jesuit Social Network, e Marco Petrini, presidente della Fondazione Magis; è un rapporto di mutua crescita in cui entrambi i soggetti si mettono in gioco e sono disponibili al cambiamento; se chi offre il suo aiuto non censura la sua domanda di significato potrà davvero aiutare l'altro a farsi carico delle sue ferite. Per questo una delle più gravi povertà - rese più evidenti dalla crisi economica mondiale - è la solitudine, intesa come penuria di relazioni.
"Fare famiglia" conviene, anche nelle relazioni fra gli Stati, ha aggiunto Elisabetta Belloni, citando esempi tratti dalla sua esperienza di direttore generale della Cooperazione italiana; l'attenzione all'antropologia è l'ingrediente irrinunciabile di ogni progetto di sviluppo.
Per argomentare questo assunto, Franco Imoda, presidente della fondazione La Gregoriana, non ha citato figure di santi o di religiosi ma l'uomo simbolo dell'Ostpolitik tedesca (a sua volta citato da Tony Blair in un articolo pubblicato su "la Repubblica" l'11 settembre scorso). "Un giornalista inglese, Anthony Sampson, ha riferito un episodio legato alla sua attività di ghost writer nella redazione del Rapporto Brandt del 1980. Dopo la pubblicazione del testo, Sampson chiese un giudizio a Willy Brandt e ottenne una risposta che gli sembrò enigmatica:  "Troppi economisti e pochi antropologi". Brandt intendeva dire che nel determinare gli obiettivi non si era prestata sufficiente attenzione all'importanza delle rispettive religioni e culture". "Avrà avuto i suoi difetti - chiosa con ironia tipicamente british Tony Blair - ma non si poteva certo imputargli un eccesso di religiosità. Ignorare la pervasività delle idee e pratiche religiose nei Paesi emergenti voleva dire compromettere l'efficacia di qualsiasi progetto di sviluppo".
La Caritas in veritate è anche un reagente capace di svelare la sfiducia nella positività ultima del reale di tanta cultura contemporanea. Imoda ha preso spunto da Baudolino, il romanzo picaresco di Umberto Eco, per evidenziare come l'uomo postmoderno non solo decida deliberatamente di ignorare la sua innata tensione alla verità (considerandola completamente soggettiva) ma la percepisca come un'ambizione pericolosa, una minaccia per la sua libertà e persino per l'integrità della sua persona (come dirà il protagonista al suo confidente, il dotto bizantino Niceta Coniate). Se ogni aspetto dell'azione umana è fondato sul potere - e il potere è costretto a scegliere il male per conservare se stesso - se l'amore è solo un gioco di passioni mutevoli e di illusioni evanescenti, l'unica via di scampo è la fuga dal mondo - ma le colonne degli stiliti sono sempre più rare, nota Baudolino - o la fuga nel sogno, l'evasione in mondi immaginari per trovare sollievo e scampo dal doloroso dramma della storia.
Al fascino del "nichilismo dolce" (come non ricordare il seducente elogio dell'irresponsabilità del geniale fisico Richard Feynman?) può rispondere solo qualcosa di "scandalosamente cristiano", ha continuato Imoda, come la via dell'alleanza suggerita da von Balthasar in alternativa alla via del combattimento tragico (il reale c'è, ma è assurdo) o alla via della trascendenza totale, che nega di fatto il valore della storia.
Lo stesso "scandaloso" realismo cristiano che emerge dalle encicliche sociali che Gianni Ambrosio, vescovo di Piacenza-Bobbio, ha ripercorso nel suo ampio intervento (con un'attenzione particolare alla Populorum progressio spesso ignorata o sottovalutata). L'unico antidoto alle sirene del sottile (ma corrosivo) cinismo di Baudolino.



(©L'Osservatore Romano - 14 novembre 2009)
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07/12/2009 22:21

«Caritas in veritate»

Il miglior libro del 2009


Come di consueto in questa stagione, "Il Sole 24 Ore" - nell'influente supplemento culturale "Domenica", che da una settimana è diretto da Giovanni Santambrogio - si è occupato ieri del miglior libro dell'anno. E per questo si è rivolto "a trentaquattro intellettuali, economisti, studiosi". Gli interpellati sono tutti italiani, eccetto lo storico britannico Simon Schama, e il risultato finale, oltre ventisette titoli in italiano, include sette libri pubblicati in inglese, prevalentemente di argomento economico, ma non solo. Molto diverse sono ovviamente le risposte raccolte dal giornale, tutte comunque interessanti.
Tra queste spicca quella di Mario Deaglio, uno dei più autorevoli economisti italiani, ordinario all'università di Torino, che ha diretto "Il Sole 24 Ore" dal 1980 al 1983 ed è ora editorialista de "La Stampa". Per l'intellettuale il miglior libro del 2009 è la Caritas in veritate di Benedetto XVI, perché - sottolinea - l'enciclica "propone uno sguardo globale sui problemi del pianeta che nessun leader politico è riuscito a fornire".
E continua:  "Il pontefice, definito da alcuni reazionario, ha redatto un'opera di innovazione che è anche un aiuto effettivo per inquadrare con originalità i temi caldi del presente:  la redistribuzione dei redditi, l'esigenza di trovare un modo per ridurre il divario tra le classi sociali, il ruolo del mercato e la questione dell'ambiente. Un inventario completo e ampio dei problemi del mondo, logico e rigoroso. Non un facile indicatore di soluzioni bensì un indicatore delle strade dove le soluzioni si possono trovare".
Alla scelta di Deaglio si può aggiungere che meno di un mese fa la rivista statunitense di economia e finanza "Forbes" - nota per diverse classifiche (www.forbes.com/lists), tra le quali quella dei più ricchi - ha diffuso l'elenco delle cento "persone più potenti del mondo" (The World's Most Powerful People). E all'undicesimo posto, dopo i principali leader politici internazionali e alcuni esponenti dell'economia e della finanza mondiali, ha collocato Benedetto XVI.
In un commento sul sito della rivista americana il Papa è definito "la più alta autorità terrena per un miliardo di anime, cioè circa un sesto della popolazione del pianeta", mentre la Chiesa cattolica è descritta, con linguaggio economico ma non privo di suggestione, come "la più antica e vasta multinazionale al mondo". Alla luce di queste frasi va compresa l'applicazione della categoria di "potenza" - anche se sarebbe più aderente alla realtà parlare di influenza - a un leader spirituale come Benedetto XVI, che viene tratteggiato come tradizionalista e conservatore senza coglierne l'anticonformismo. E in ogni modo ci si può rallegrare di questi riconoscimenti, del tutto laici, della presenza e dell'influsso di un uomo mite e gentile che alla predicazione cristiana unisce sempre il richiamo alla ragione, comune a tutti gli esseri umani. (g.m.v.)



(©L'Osservatore Romano - 7-8 dicembre 2009)
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26/12/2009 08:18



Echi della «Caritas in veritate» tra i lemmi di un nuovo dizionario

L'economia disgregante del male


di Simona Beretta

Ho letto il Dizionario di economia civile (a cura di Luigino Bruni e Stefano Zamagni, Roma, Città Nuova, 2009, pagine 813, euro 65) pagina dopo pagina, dall'inizio, perché la questione di una "buona" economia è cosa seria e urgente. Non mi era mai capitato di fare qualcosa di simile, e mi è piaciuto molto. Sessantuno autori - professori famosi e giovani ricercatori - e centoquattordici lemmi, dal respiro pluridisciplinare, documentano tangibilmente che il senso di urgenza è condiviso da non pochi protagonisti. I lemmi riguardano sia dimensioni teoriche, sia prassi ed esperienze, sia personaggi del mondo dell'economia civile; l'obiettivo dichiarato dei curatori è "dilatare l'orizzonte della ricerca economica fino a includervi il valore di legame", che si aggiunge ai tradizionali concetti analitici di valore d'uso e valore di scambio dei beni economici.

Allo stesso tempo, il Dizionario risponde alla preoccupazione di ridare voce a una tradizione, importante e dimenticata, del pensiero economico e filosofico soprattutto italiano e di prendere le distanze da un sistema di pensiero autoreferenziale che riduce le interazioni economiche nell'orizzonte limitato delle decisioni di un improbabile individuo, chiuso e perfetto in sé.

L'inclusione, fra i lemmi, dei personaggi e delle esperienze è l'elemento che aiuta maggiormente a dare rotondità complessiva alla nozione di economia "civile", la quale - in un certo senso - non può che essere la manifestazione quotidiana di una cultura di popolo:  cioè di una realtà dove le persone e le loro relazioni contano davvero.

La parte teorica è molto utile come introduzione ai vari concetti, ma in qualche caso indulge nel fare un fantoccio della posizione avversaria e cede alla tentazione di usare l'aggettivo "civile" come sinonimo di desiderabile - assottigliando la pregnanza dell'argomentazione.
Come si sa, ci vuole poco a criticare:  sono convinta che questo dizionario rimanga un must per chi desidera avvicinare e comprendere il fenomeno "economia civile" e approfondire parole essenziali quali dono, gratuità, fraternità.

La pubblicazione della Caritas in veritate da un lato rende ancora più urgente che non ci sia scontatezza nell'uso di tali parole, dall'altro mi pare inviti ad un approfondimento ulteriore, verso il punto genetico di un'esperienza di popola capace di esprimere  un  modo  più "civile", più "umano" di fare economia e politica.
Su che cosa si radica un'economia "civile"? Che cosa rende davvero "civile" una convivenza? Per rispondere, credo sia utile partire da una seconda domanda, più facile:  da cosa si riconosce che un'economia e una società sono "civili"?

Il sano empirismo della tradizione cristiana insegna infatti che dai frutti si riconosce l'albero, e il frutto più desiderabile è esattamente lo sviluppo umano integrale ossia, per usare l'espressione di Paolo VI, "fare, conoscere e avere di più, per essere di più" (Populorum Progressio, 6; Caritas in veritate, 18). L'ultima enciclica ci consegna una constatazione:  che gratuità e dono "possono e devono" trovare posto nella normale vita quotidiana (Caritas in veritate, 36).

In effetti, si riconosce a prima vista quando questi frutti mancano:  l'impresa privata, l'ufficio pubblico, l'opera sociale non funzionano, si burocratizzano. Chi ci lavora, si limita nel migliore dei casi a comportarsi secondo quanto prescritto dalla gabbia delle regole; se ha potere sufficiente, piega le regole al proprio tornaconto miope.

Questo non è solo moralmente cattivo, è economicamente inefficiente. Senza una gratuità e un dono "permanenti", la spinta iniziale che ha creato un'opera economica o sociale si esaurisce e l'opera si accartoccia su se stessa:  l'impresa va in crisi, l'ospedale o l'ufficio postale non funzionano, le istituzioni politiche e amministrative - di cui occorre "prendersi cura", dice l'enciclica - si sfaldano.
La Caritas in veritate ci invita al principio di realtà:  la persona è fatta di relazioni, e queste sono spesso asimmetriche. In particolare, si riceve la vita, ma non si può scegliere se riceverla o no - e questo dato mi pare resista al progresso delle tecnoscienze - si riceve l'impronta inconfondibile dell'umanità, e con essa la fraternità che l'agire umano può far emergere o può soffocare.

Le relazioni, nella vita umana, sono in un certo senso tutto; la sconnessione e la frantumazione della nostra esperienza ci rende infelici, come scrive incisivamente Eliot:  hell is a place where nothing connects to nothing.

Ma le relazioni non sono sempre rose e fiori. L'agire personale nei rapporti concreti può anche essere nefando:  "Ignorare che l'uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi" (34). Per questo la gratuità non può essere confusa con i buoni sentimenti che animano lo slancio di chi fa qualche cosa per gli altri.

Senza una radice di gratuità, nessun lavoro genera lo sviluppo umano integrale; persino le iniziative di Corporate Social Responsability, gli appelli all'etica (45) e la solidarietà internazionale (47) possono ridursi a business. Generare sviluppo significa prendersi cura della relazione con qualcosa di nuovo - per certi versi, imprevisto - nel quale ci si imbatte e con il quale si misura la nostra libertà. Al limite, per rifiutarlo.

Così è del frutto del grembo materno; così è di una intuizione imprenditoriale, profit o non profit. Le cose non nascono da sole, vanno curate.
La gratuità di cui parla questa enciclica è innanzitutto la sorprendente esperienza del dono ricevuto (34), di cui prendersi cura. Questa gratuità che nasce, per così dire, dalla gratitudine mi sembra un embrione di risposta alla domanda su cosa può stabilmente fondare una economia "civile".

Non su una nostra presunta gratuità:  sarebbe come costruire sulla sabbia. La gratuità su cui costruire instancabilmente è la memoria viva della precedenza della gratuità di Dio nei nostri confronti:  carità e verità. Ogni amore ricevuto e ogni conoscenza acquisita sono esperienza di una singolare "eccedenza" (34), sono un "piccolo prodigio" (77).

Questo ricevere ci regala un'esperienza così affascinante, così interessante da traboccare:  permanendo in questo dinamismo di appartenenza, si può esprimere la nostra gratuità.
Che cosa fonda, che cosa può dunque fondare stabilmente una economia "civile"? La stessa realtà di dono che rende possibile la permanenza, nelle iniziative politiche e sociali, dell'impulso che ha dato loro origine:  lo slancio di adesione, da parte di chi agisce, a quel "di più" che desidera perché ne ha potuto percepire l'esistenza.

Se non ne avesse percepito l'esistenza, non potrebbe desiderare amore e verità:  due parole da inserire nel prossimo dizionario di economia civile. Due parole molto concrete, capaci di animare il dialogo fra uomini. Di nuovo, ciò è evidente soprattutto in negativo:  a chi non dispiace essere imbrogliato? Chi gradisce non essere benvoluto? Davvero amore e verità sono la grammatica elementare dell'umano.


(©L'Osservatore Romano - 25 dicembre 2009)
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08/02/2010 19:40

Due letture della «Caritas in veritate»

Una nuova prospettiva per la giustizia


Si è svolto a Pavia un incontro sul tema "L'enciclica Caritas in veritate parla al mondo", organizzato dalla diocesi e introdotto dal vescovo Giovanni Giudici. Pubblichiamo stralci delle relazioni del vescovo di Ivrea e, a destra, del presidente nazionale dell'Associazione cristiana lavoratori italiani.

di Arrigo Miglio


La situazione europea e mondiale e la crisi finanziaria ed economica degli ultimi due anni hanno fatto sentire a molti, non solo cattolici, il bisogno di una parola autorevole della Chiesa per imparare a "riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità". (Caritas in veritate, 21).
L'attesa non è andata delusa, anche se bisogna riconoscere che l'orizzonte è molto più ampio rispetto ai problemi e alle preoccupazioni del momento. Abbiamo in mano sì un'enciclica sociale, che prosegue il cammino iniziato, nei tempi moderni, con la Rerum novarum, ma al tempo stesso abbiamo un testo di grande ricchezza teologica e antropologica, attento ad annunciare tutta la ricchezza del Vangelo per la vita dell'uomo e della società del nostro tempo:  con le altre due encicliche benedettine, forma una trilogia da considerare nel suo insieme.
È anzitutto la parola Amore, Caritas, Agape, il termine chiave che il Papa utilizza per introdurci nel cuore della dottrina sociale della Chiesa:  Deus caritas est - Caritas in veritate.
La dottrina sociale della Chiesa ha qui le sue radici, Caritas è il vero nome di Dio, una Verità che non può essere stravolta da nessuno, e "solo nella verità la carità risplende" (3), manifesta la sua forza di liberazione e di salvezza.
L'enciclica ricorda "che tutti gli uomini avvertono l'interiore impulso ad amare in modo autentico:  amore e verità non li abbandonano mai completamente perché sono la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo". Ma questo impulso ha bisogno di essere purificato e liberato da Gesù Cristo; ogni esperienza di amore umano ha bisogno di questa purificazione.
La Carità è dono, Dio che si dona, dono che diventa chiamata, vocazione anzitutto a lasciarsi amare, ad accogliere l'Amore nel dono dello Spirito Santo. L'Eucaristia è il sacramento di questo dono:  non semplice rito ma Sacramento che ci arricchisce dell'amore divino. "La dottrina sociale della Chiesa risponde a questa dinamica di carità ricevuta e donata" (5), non è un'appendice del suo insegnamento.
Carità e Giustizia! Quante volte le due parole vengono messe in contrapposizione, quasi fossero un'alternativa; il risultato è una visione solo "legale" della giustizia, con la carità ridotta a opzione volontaria, facoltativa. Se invece la giustizia è "la prima via della carità" (Caritas in veritate, 6) e questa completa e supera la giustizia, si apre una nuova prospettiva. Già nella Deus caritas est il Papa ricordava (n.28) che anche se lo Stato o la società raggiungessero una perfetta realizzazione della giustizia, questa resterebbe comunque bisognosa della carità:  l'Amore-Caritas sarà sempre necessario anche nella società più giusta. Perciò la parola dono può entrare a buon diritto in una visione nuova dell'economia. Viene qui sviluppato e applicato un principio già enunciato nella Deus Caritas est:  la dottrina sociale della Chiesa illumina e purifica la ragione, la muove e la spinge a cercare, vedere e realizzare ciò che è giusto. Quindi i cristiani possono e debbono portare nell'impegno politico tutta la loro fede, che illumina la ragione e li aiuta a saper "portare delle ragioni" per trovare soluzioni che siano veramente al servizio di tutto l'uomo e di ogni uomo.
La Caritas in veritate vuol farci comprendere la necessità di riscattare la parola caritas dall'irrilevanza cui spesso è condannata in ambito sociale, giuridico, culturale, politico ed economico; ridotta a un "guscio vuoto da riempire arbitrariamente", a una "riserva di buoni sentimenti utili per la convivenza sociale ma marginali".
La chiara visione neotestamentaria della caritas che Benedetto ripresenta, insieme alla visione completa di autentico sviluppo umano già presente nella Populorum progressio dovrebbero aiutare finalmente a superare la dicotomia ancora troppo diffusa tra valori "etici" e valori "sociali". Ambedue questi gruppi di valori sono irrinunciabili e soprattutto sono inseparabili, perché nascono da una visione antropologica completa e non riduttiva, che attraversa ad esempio tutta la Gaudium et spes.
La crisi che stiamo vivendo ha fatto sentire a molti che c'è bisogno di etica nel campo del mercato e della finanza:  l'enciclica allarga lo sguardo al campo del mondo globalizzato, sottolineando che questo nuovo contesto ha posto forti limiti al potere politico degli Stati, ma d'altra parte c'è oggi ancor più bisogno di una governance che possa assicurare la dimensione etica a tutti i livelli, attraverso i pubblici poteri e l'azione politica nazionale e internazionale che si realizza attraverso l'azione delle organizzazioni operanti nella società civile. Al n. 57 si parla di un'autorità organizzata in modo sussidiario e poliarchico, mantenendo strettamente uniti i principi di sussidiarietà e di solidarietà.
Vorrei concludere queste brevi note richiamando due paragrafi di grande attualità, che toccano sfide oggetto di discussione quotidiana. Il 56 ci aiuta a comprendere il valore della vera laicità, oltre il laicismo, mentre il 57 tocca il problema del dialogo tra fede e ragione, necessario per incentivare la collaborazione tra credenti e non credenti, chiamati a lavorare insieme per il bene comune.
Si fronteggiano oggi due visioni opposte di libertà, alternative in rapporto allo sviluppo dell'umanità, di ogni uomo e di ogni donna. L'enciclica si pone in modo netto, in veritate, di fronte a una mentalità e cultura che hanno prodotto in questi decenni uno sviluppo sbilanciato e generatore di nuove ingiustizie, corresponsabile di milioni di morti, che forse non ci turbano il sonno solo perché sono caduti appena un po' lontano dalla soglia di casa nostra. È il frutto di una cultura che confonde diritti con desideri, che esalta il libertarismo individuale senza considerare la persona nella sua dimensione relazionale e sociale.
Il Papa parla in veritate e non sempre la verità è facile da accettare, ma riesce al tempo stesso a parlare infondendo speranza e invitando a non perdere mai di vista quella caritas che sta all'origine della nostra stessa vita e continua a offrirci la sua forza straordinaria.



***

Quella bussola nel caos della politica e dell'economia


di Andrea Olivero

Più la rileggo e rifletto sull'ultima enciclica di Benedetto XVI, più mi rendo conto di avere davanti un testo veramente innovativo, "un prontuario sociale cristiano per il XXI secolo" (Bartolomeo Sorge), una bussola per orientarci sui temi della politica, dell'economia, del lavoro e della tecnica, ossia della questione sociale di ieri che si è trasformata nella questione antropologica di oggi. Per realizzare questa missione di verità, è necessario innanzitutto compiere una svolta culturale per dare vita a un "nuovo pensiero", a una nuova mentalità, ad una metànoia, come dice il Vangelo, poiché senza tale discontinuità tutto resterebbe immutato. Abbiamo dunque bisogno di un nuovo pensiero che vada oltre l'individualismo moderno e si apra a una antropologia della relazione e dell'interdipendenza. Questa "mancanza di pensiero" che era già stata denunciata più di quarant'anni fa da Paolo vi nella Populorum progressio (85) è diventata  oggi,  come  dice  Benedet- to XVI, "mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli" (Caritas in veritate, 19).
Questa enciclica mostra un coraggio insolito e chiama le cose per nome, introducendo categorie di pensiero non abituali nel linguaggio politico. La parola fraternità, ad esempio, ricorre 39 volte nel testo, in cui si aggiunge che la giustizia è la misura minima della carità, ma che quest'ultima la supera e la completa con la logica del dono, della gratuità e del perdono. È attorno a questa concezione più ampia e più dinamica che viene visto e approfondito l'insieme dei fenomeni connessi allo sviluppo, al lavoro, alla globalizzazione, alla crisi economica, all'ambiente.
Proprio perché la carità è "la principale forza propulsiva per lo sviluppo di ogni persona e dell'umanità", è giusto evitare quelli che il Papa chiama "sviamenti e svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla" (2). C'è un sentimentalismo, ad esempio, che la svuota dall'interno, "preda delle emozioni e delle opzioni contingenti dei soggetti".
"La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli" (19); proprio la fraternità è allora il criterio decisivo, capace di dare il giusto risalto anche a quei criteri dell'agire morale che vengono presentati al termine dell'enciclica, come il principio di sussidiarietà, di solidarietà e di reciprocità, strettamente collegati con la giustizia e il bene comune (57-58). La ragione, da sola, è certamente in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità (19).
Sul rinnovamento della politica vorrei fare ancora un'osservazione e richiamare l'invito del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, ai "cattolici impegnati in politica ad essere sempre coerenti con la fede che include ed eleva ogni istanza e valore veramente umani". L'essere fratelli esprime un legame costitutivo, che "precede" la nostra libera decisione di agire in modo solidale. In altre parole, si può dire che la fraternità (che riceviamo da Dio) fonda la vera solidarietà.
Aprire le porte della politica e dell'economia al principio di fraternità significa allora promuovere finalmente la civilizzazione della politica e dell'economia, farla finita con lo schema ideologico amico-nemico e con il clima di continua delegittimazione che è agli antipodi del bene comune.
Nella Caritas in veritate la fraternità viene inoltre tradotta laicamente nella cultura del dono che si collega all'antropologia della relazione, al tema della condivisione, al gesto dello "spezzare il pane", in una parola, alla tradizione francescana dell'economia civile. "L'essere umano - afferma il Papa - è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza" (34).
Benedetto XVI vuole che la logica del dono entri "nel" mercato e dice un secco "no" al mito dell'efficienza che discrimina le persone e premia i più forti; è una prospettiva che non solo scardina la tradizionale visione dell'economia capitalistica, ma allarga anche le responsabilità della società civile.
Nell'enciclica vengono elogiate le attività non profit, anche al di là del cosiddetto terzo settore, il commercio equo e solidale, le attività mutualistiche e sociali, il microcredito e la cosiddetta economia civile e di comunione che sono apparse negli ultimi decenni e che non trovano spazio nel mercato tradizionale. Purtroppo queste attività non vengano adeguatamente favorite dal sistema fiscale, giuridico, troppo legato alla logica del profitto. Non si tratta soltanto di creare settori o segmenti etici dell'economia e della finanza, ma - dice il Papa - "l'intera economia e l'intera finanza siano etiche e lo siano non per un'etichettatura dall'esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura" (45). Il tema del "lavoro decente" è particolarmente caro alle Acli poiché da un decennio lo abbiamo assunto, in seguito alla raccomandazione che Giovanni Paolo II fece nel Giubileo dei lavoratori a Roma nel 2000. Qualcuno ricorderà che su questo stesso tema della coalizione mondiale per il lavoro dignitoso le Acli hanno anche organizzato un Forum internazionale con la partecipazione di tutte le organizzazioni cristiane dei lavoratori in ogni parte del mondo.
Il Papa elogia lo sviluppo - "l'uomo è costitutivamente proteso verso l'"essere di più"" (14) - ma "senza la prospettiva di una vita eterna", lo sviluppo "rimane privo di respiro. Chiuso dentro la storia, è esposto al rischio di ridursi al solo incremento dell'avere".



(©L'Osservatore Romano - 8-9 febbraio 2010)
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23/02/2010 19:39

«Caritas in veritate»

Una risposta laica alla crisi globale


Lunedì 22 il presidente emerito della Corte Costituzionale italiana ha tenuto una lezione sull'enciclica Caritas in veritate presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Ne pubblichiamo uno stralcio.

di Giovanni Maria Flick

Accanto all'impresa sociale, espressione del "non profit", la Caritas in veritate considera numerosi esempi di imprese tradizionali operanti nel sociale. Così da far emergere un'area intermedia vigorosa, che supera la tradizionale contrapposizione fra Stato (sfera del pubblico e perciò del sociale) e privato (sfera del profitto). La prospettiva valorizza il profitto come strumento per realizzare finalità umane e sociali; e l'utilità sociale non solo come limite alla libertà di iniziativa economica bensì come obiettivo dell'impresa sociale. Il tema dell'impresa si salda strettamente con quello del mercato, perché l'enciclica sottolinea come la pluralità e l'articolazione di forme istituzionali della prima concorrano a una maggiore "civiltà" e competitività del secondo.
Quanto allo Stato, l'enciclica muove dalla rivalutazione del suo ruolo indotta dalla crisi, con i numerosi interventi statali per il salvataggio delle strutture di intermediazione finanziaria. Ma è ben chiara la consapevolezza che non bastano logiche soltanto nazionali, per affrontare un'emergenza originata anche (e proprio) dall'insufficienza delle regole che ne sono l'espressione. Riprendendo uno spunto della Pacem in terris, l'enciclica sottolinea l'opportunità, e anzi la necessità, di sostituire le autorità nazionali con un'autorità globale, soprattutto nell'ambito dell'economia e della finanza.
La rivalutazione dello Stato, al quale pure si applica il binomio Caritas in veritate, si articola in tre riferimenti. In primo luogo lo Stato può e deve essere strumento di realizzazione del bene comune e della giustizia. In secondo luogo, lo Stato è punto di riferimento per i doveri, accanto ai diritti. In terzo luogo, infine, la solidarietà trova attuazione e strumento nelle articolazioni dello Stato, attraverso il principio di sussidiarietà:  verticale, mediante la ripartizione di competenze tra i vari livelli pubblici; orizzontale, nella ripartizione tra pubblico e privato.
Il riferimento alla sussidiarietà apre la via all'applicazione del binomio anche alla società civile, come entità non più soltanto residuale rispetto allo Stato e al mercato, e alla quale non può essere attribuita solo la quota di solidarietà "pubblica" venuta meno per la crisi del welfare. La società civile va riscoperta per la ricchezza potenziale delle forme di solidarietà in cui la comunità può manifestarsi. Non possono esservi né soluzione di continuità né contrapposizione rigida, se non nella schematica e antica attribuzione di logiche al mercato (logica del privato e del profitto), allo Stato (logica del pubblico) e al sociale (logica residuale, di supplenza alle lacune degli altri due).
Il raccordo fra "sociale" e Stato, attraverso la sussidiarietà orizzontale si salda strettamente a quello fra Stato e mercato, proposto dalla stessa enciclica. La solidarietà, come espressione tipica della società civile, consente di superare la logica dello scambio che informa gran parte dell'economia globale; poiché la integra con le logiche della politica e del dono (della gratuità), proprie dello Stato e della società civile. La definizione di terzo settore - già delineata dalla Centesimus annus e ripresa vigorosamente dalla Caritas in veritate - schiude una realtà sociale che coinvolge e supera il privato e il pubblico; e non esclude il profitto, ma lo trasforma in strumento per realizzare finalità sociali. Infine, la riflessione dell'enciclica sulla finanza è esplicita, specifica e mirata, poiché lì sta il cuore della crisi, delle sue cause immediate. La patologia finanziaria, da cui la crisi ha avuto origine, dimostra la necessità di una riflessione sui princìpi, da cui far discendere l'elaborazione di regole nuove, delle quali tutti, almeno a parole, sentiamo l'esigenza.
Anche in ambito finanziario l'applicazione del binomio è precisa e concreta. Osserva che non ci si può limitare a segmenti settoriali di "finanza etica". Segmenti "di moda" ma molto settoriali, che proprio per questo si trasformano facilmente in alibi, tranquillante per la coscienza, copertura di immagine rispetto alle deviazioni sostanziali. Le iniziative umanitarie in ambito finanziario sono in sé certamente utili; ma l'intero sistema deve essere finalizzato allo sviluppo, integrale e umano.
Non tradire la fiducia dei risparmiatori; rinnovare strutture e modalità di funzionamento, dopo il pessimo uso che se n'è fatto; tornare alla miglior produzione di ricchezza e allo sviluppo; ripristinare l'equilibrio alterato tra economia finanziaria ed economia reale. Sono alcune fra le urgenze indicate dall'enciclica, con una concretezza che si esprime anche attraverso la esemplificazione articolata e consapevole della realtà:  la povertà crescente, anche nei Paesi dello sviluppo economico; la lotta all'usura e il sostegno ai ceti e ai soggetti deboli; la micro-finanza e il credito di prossimità, nei confronti delle piccole imprese e delle famiglie.
L'enciclica non può e non deve proporre regole; tecniche o politiche che siano. Ma può e deve proporre princìpi da cui muovere e valori ai quali tendere attraverso le regole. Mi sembra che princìpi e valori emergano concretamente e con fermezza. Ad esempio, la garanzia della trasparenza e la prevenzione del conflitto di interessi sono ritenute condizioni essenziali e preliminari, per assicurare fiducia e responsabilità, e indirizzare (anche) la finanza allo sviluppo integrale. Sono condizioni sulle quali si può e si deve intervenire concretamente, elaborando regole efficaci e curandone l'effettiva applicazione - non solo la loro proclamazione - a livello sovranazionale e nazionale.
Per la dimensione sovranazionale penso al tema dei Paesi off-shore, o all'utilizzo di tecniche finanziarie spregiudicate - i cui sospetti si sono manifestati appena qualche giorno fa - per "truccare" i bilanci di Paesi membri dell'Unione europea. Sul piano nazionale, penso alla desolazione di quanto va emergendo in Italia, con sistemi di corruzione innovativi rispetto al tradizionale contesto di inefficienza in cui si alimentavano (lubrificante per superare il "non fare" e il "non permettere" di fare), che sembrano essersi trasformati in corollario di una malintesa efficienza, caratterizzata dal "fare" in deroga alle regole e ai controlli.
Insomma, l'enciclica propone un metodo fondamentale:  il rifiuto della logica settoriale, della contrapposizione tra economia, politica e finanza; tra pubblico, privato e sociale. La crisi che stiamo vivendo - al di là delle cause remote e prossime, ampiamente ricordate - è soprattutto una crisi ideologica e culturale. Occorre dunque contrapporle un denominatore comune, una risposta globale, una visione positiva, il superamento della serie infinita di contrapposizioni, fino a quella tra carità e verità. È quanto propone l'enciclica coniugando la carità (come azione) e la verità (come relazione), non in rapporto di gerarchia ma nella sinergia che nasce dalla loro inscindibilità e illumina l'intera esperienza umana.
È a mio avviso importante raccogliere, interpretare e applicare questo messaggio anche in una prospettiva laica. E credo di poterlo fare attraverso una parola-chiave, nell'enciclica come nella nostra esperienza giuridica costituzionale:  la dignità umana, nel suo duplice e convergente significato universale (la dignità dell'uomo in quanto tale) e particolare (la dignità di ogni persona, nel rapporto con gli altri e nella parità). Al concetto della dignità nella dottrina sociale della Chiesa - come descritto dall'enciclica - sembra cioè di poter affiancare il cammino della dignità umana, sia nell'ordinamento giuridico internazionale, soprattutto dopo le catastrofi della seconda guerra mondiale e della Shoah; sia negli ordinamenti costituzionali nazionali.
La dignità si è affermata in entrambi gli ordinamenti in modo esplicito:  come premessa e sintesi dei diritti fondamentali derivanti dalla condizione umana, e come loro contenuto concreto. Penso alle proclamazioni sovranazionali, dalla Dichiarazione universale del 1948 alla Carta di Nizza dell'Unione europea del 2000; e alle Costituzioni nazionali, nelle quali la dignità emerge come valore fondante e denominatore comune di tutti i diritti fondamentali (nella Costituzione tedesca del 1949) ovvero come momento di specificazione di quei diritti (nella Costituzione italiana del 1948, dopo l'affermazione preliminare della pari dignità sociale).
La dignità diviene un ponte fra il passato, che spesso l'ha negata e aggredita, e continua a farlo nel presente; e un futuro nel quale il rischio di umiliarla come valore assume forme sempre nuove e inattese, attraverso l'evoluzione tecnologica e l'incessante scoperta di nuove occasioni e forme di aggressione alla dignità umana, in buona parte legate proprio alle dinamiche della globalizzazione. La dignità, d'altronde, è anche un ponte tra l'eguaglianza di tutti e la diversità di ciascuno:  non può comprimere il diritto alla diversità e alla propria identità; ma non può farsi scudo della diversità per alimentare la sopraffazione. Va affermata come principio, ma soprattutto garantita e rispettata in concreto, soprattutto nei confronti dei soggetti deboli, la cui dignità è protetta anche attraverso la solidarietà. Quest'ultima si realizza soprattutto nella sussidiarietà, particolarmente di quella orizzontale; e attraverso la sinergia tra pubblico, privato e sociale.


(©L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2010)
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23/02/2010 19:40

  L'intervento di Mario Monti durante un incontro in Laterano sull'enciclica

Verso un ripensamento radicale della finanza


di Luca M. Possati

"Oltre quarant'anni dopo la Populorum progressio, il suo tema di fondo, il progresso, resta ancora un problema aperto, reso più acuto ed impellente dalla crisi economico-finanziaria in atto". Sfida enorme e inquietante, quella evocata da Benedetto XVI nella Caritas in veritate:  ripensare il progresso alla luce della globalizzazione e dei limiti del capitalismo, puntando tutto sulla centralità della persona umana. Sfida difficile e complicata, è vero, ma non impossibile. L'impegno per un nuovo modello di sviluppo non può prescindere da una riflessione profonda sul ruolo della finanza e sulle modalità della collaborazione internazionale in vista della costituzione di "una vera Autorità politica mondiale".

L'urgenza di cogliere questa nuova dinamica descritta dalla Caritas in veritate in riferimento alla situazione economica mondiale è stata richiamata da Mario Monti, presidente dell'università Bocconi di Milano e commissario dell'Unione europea per il Mercato unico, servizi finanziari e fiscalità (1995-1999) e della Concorrenza (1999-2004), nell'incontro sul tema "Gli attori e le cause dello sviluppo umano integrale" introdotto dal cardinale Agostino Vallini. L'evento si è tenuto ieri, lunedì, nella Basilica di San Giovanni in Laterano. È stata la seconda di una serie di conferenze dedicate all'enciclica:  il prossimo 8 marzo sarà la volta di Stefano Zamagni, che parlerà del rapporto tra sviluppo economico e società civile.
"Il mondo degli economisti ha prestato un'attenzione straordinaria e inattesa all'enciclica", ha rilevato Monti, sottolineandone la pubblicazione in un momento molto delicato, cioè nel pieno della peggiore crisi economica degli ultimi settant'anni. Ma non è la crisi il vero oggetto della Caritas in veritate, anzi "è stato perfino notato che c'è una scarsa ricorrenza della parola crisi nel testo". Le parole del Papa non solo guardano verso un orizzonte molto più vasto della congiuntura attuale, cioè nella direzione di un ripensamento radicale della finanza, ma soddisfano anche un desiderio degli economisti stessi, tra i quali "soprattutto i migliori sono sempre pronti ad un'introspezione anche critica". In effetti, il ruolo essenziale della fiducia e dell'etica nel mercato "è un aspetto che gli economisti considerano con grande attenzione, com'è sottolineato anche da un'antica tradizione del pensiero liberale".
Citando le parole di Jacques Maritain, il pensatore cattolico che tanto ha inciso sui padri fondatori dell'Europa, Monti ha insistito su due punti fondamentali. L'inevitabilità di una governance mondiale dell'economia, anzitutto, perché la globalizzazione non è il male assoluto. "Benedetto XVI non si sottrae certo a una presa in considerazione della globalizzazione; la sua è un'analisi che è parsa a me, così come a molti altri osservatori, straordinariamente fredda, nel senso ch'essa si è tenuta al riparo dalle ondate emotive degli ultimi anni". La globalizzazione va orientata, questo è il punto. L'invito della Caritas in veritate a formare un'Autorità politica mondiale è un passo "straordinariamente impegnativo" e che dev'essere ascoltato anche dai non credenti. Tuttavia, "quel che impedisce la realizzazione di una tale autorità è la riluttanza degli Stati nazionali alla cessione di sovranità da parte dei pubblici poteri nazionali". Cessione che solo in parte è una perdita in termini reali.
Ma l'aspetto ancor più importante del discorso di Monti ha riguardato l'Unione europea, "l'esempio finora più avanzato di una gestione coordinata della globalizzazione". I tempi sono dunque maturi per un bilancio onesto e rigoroso dell'esperienza comunitaria. Nel mondo cattolico perplessità ci sono state a causa del mancato riconoscimento delle radici cristiane dei popoli europei nella Carta dei diritti fondamentali approvata a Nizza (dicembre 2000) e a causa della mancanza di carità, di un'unità che vada al di là del fatto puramente economico. Monti però difende il progetto dell'Unione "che da mezzo secolo è riuscita a fare quello che oggi l'enciclica chiede, associando aperture di mercato e coordinamento dell'azione dei pubblici poteri". È vero, una carenza si sente:  "come cattolico - ha detto Monti - anch'io avrei preferito vedere un riferimento alle radici cristiane, ma, come cattolico che tiene molto all'Europa, ho sempre pensato che occorra anche guardare al di là delle dichiarazioni".
L'Unione europea non è l'arido prodotto della tecnica economica perché è in grado di aprire prospettive etiche. Secondo Monti, la moneta unica "ha trasformato in meglio la solidarietà intergenerazionale". Difficile rendersene conto oggi, ma "prima dell'euro diversi Paesi creavano dei disavanzi pubblici del dieci, quindici o venti per cento per pil, aumentando a dismisura il debito pubblico a discapito di dosi massicce di debito". Inoltre, l'Europa - ha sottolineato Monti - è stata la prima sede a livello mondiale in cui si sono affermati con decisione i principi della tutela ambientale e della lotta contro il cambiamento climatico.
La necessità di una maggiore integrazione nel mercato è stata richiamata anche dal cardinale Agostino Vallini. Per apprendere l'essenza delle parole del Papa - ha ricordato Vallini - occorre anzitutto tenere bene presente una precisa concezione dell'uomo e dell'essere sociale:  "La visione antropologica che sottende la dottrina della Caritas in veritate, per la quale naturalmente appaiono riduttive e inaccettabili tutte le teorie naturalistiche e immanentistiche, sostiene che l'autentico sviluppo dell'uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione".


(©L'Osservatore Romano - 24 febbraio 2010)
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09/03/2010 18:32

Un incontro in Laterano sulla "Caritas in veritate"

L'autismo del mercato genera mostri


di Luca M. Possati

Il modello economico che si è venuto affermando negli ultimi quarant'anni ha prodotto paradossi teorici e lacerazioni sociali. Mettendo al centro il profitto e l'efficienza, ha diffuso quelle idee che stanno alla radice dell'attuale crisi economica. Occorre sovvertire i principi, tornare alle radici, là dove sono sorte le idee di mercato e di bene comune:  la scuola francescana del xiv secolo. Questa esigenza di rifondazione è stata richiamata con forza da Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia politica all'università di Bologna, durante l'incontro "Sviluppo economico e società civile" introdotto dal cardinale Agostino Vallini e tenutosi lunedì in Laterano. È stato l'ultimo appuntamento di una serie di meditazioni sulla "Caritas in veritate" organizzate dalla diocesi di Roma.
"La novità dell'enciclica - dice Zamagni - è che si tratta del primo documento di dottrina sociale della Chiesa in età postmoderna; è il primo tentativo di interpretare fenomeni nuovi, come la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale, quella delle nuove tecnologie, alla luce della dottrina sociale con l'obiettivo di offrire una risposta concreta alla nostra epoca piena di paradossi". Paradossi, fratture radicate nel nostro agire sociale e nel senso comune. Abbiamo sistemi economici molto sofisticati, in grado di produrre un'enorme ricchezza, ma incapaci di distribuirla. Un recente rapporto della Fao mostra che le risorse alimentari del pianeta potrebbero nutrire dodici miliardi di persone l'anno. Eppure i beni scarseggiano e in milioni soffrono la fame. E nelle aree più sviluppate si assiste all'effetto esattamente opposto:  più cresce la ricchezza, più aumenta il disagio. "È il paradosso della felicità", spiega Zamagni. "I ricercatori hanno dimostrato che al di là di una certa soglia in positivo di reddito pro capite il livello della felicità cala mentre aumentano l'uso degli psicofarmaci, il ricorso agli antidepressivi e i casi di suicidio".
Ecco allora che la "Caritas in veritate" ci aiuta a focalizzare meglio queste fratture, a ricondurle alla loro autentica forma, a individualizzarle. "Anzitutto - afferma Zamagni - dobbiamo parlare della scissione tra la sfera economica e la sfera sociale". La prima rivoluzione industriale ha alimentato l'idea, ora divenuta patrimonio comune, per cui l'economico è sinonimo di profitto e di efficienza. Il mercato, la piazza degli affari, è territorio degli efficienti. Gli altri, i non-produttivi, vanno relegati al sociale, cioè alla dimensione della filantropia, della donazione gratuita, del regalo che infine offende la dignità della persona. "Questo modello dicotomico dev'essere superato" e l'enciclica "non dà ricette, ma un'indicazione chiara:  la fraternità va reintrodotta nell'economia". Si deve guardare a un sistema inclusivo, fondato sul dono inteso come reciprocità. Il Papa "lancia un appello al mondo dell'impresa affinché a tutti sia data l'opportunità di lavorare". Per fare questo bisogna capire che "il principio dello scambio non è la categoria prima dell'economia; esso dipende dal principio di reciprocità, e non viceversa".
Ma ancora non basta. Ci sono altre sfide che impongono di riflettere meglio e di agire. Decenni di new economy hanno prodotto un'altra conseguenza spaventosa:  la separazione tra il lavoro e la causa della ricchezza. "Gli economisti - dice Zamagni - hanno iniziato a pensare che l'origine della ricchezza non sia l'attività lavorativa ma la finanza; si può diventare ricchi solo utilizzando abilmente gli strumenti finanziari". Si è prodotta così una sottovalutazione del lavoro che ha generato un'altra conseguenza:  la ridefinizione del ruolo dell'impresa. Quest'ultima "non è più intesa come un insieme di persone destinato a restare a lungo sul mercato; si è iniziato a pensare che l'impresa non sia un'associazione ma una merce a se stessa che può essere comprata o venduta secondo il momento, senza tenere conto dei lavoratori". Tutto è nelle mani del manager e della sua unica logica:  la massimizzazione del profitto.
La terza grande scissione, più radicale, è quella tra il mercato e la democrazia. Si pensa "che la democrazia, in virtù della sua natura deliberativa, non possa essere efficiente", dice Zamagni. Il mercato corre, non può aspettare e tende a darsi da solo delle regole. Si chiude in un circolo autistico. "Prendiamo il noto caso di Basilea2, quando si decisero nuove norme per le transazioni bancarie; in quel caso furono i banchieri a operare, a dare regole a se stessi". La crisi non è scoppiata per mancanza di controlli, perché l'idea era che i controlli non dovessero esserci. L'antidoto può essere soltanto il ritorno ai francescani, "che furono i primi a pensare il mercato come istituzione", spiega Zamagni. "L'antica scuola francescana è stata la prima a credere che per risolvere problemi specifici è necessario organizzare l'economia" in vista del bene comune.


(©L'Osservatore Romano - 10 marzo 2010)
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16/03/2010 21:41

Impresa, persona e territorio alla luce della «Caritas in veritate»

Uno sviluppo che guarda lontano


Pubblichiamo ampi stralci del discorso pronunciato il 16 marzo a Roma dal cardinale segretario di Stato alla riunione della Giunta di Confindustria.

di Tarcisio Bertone

Un'enciclica è "senza tempo" perché è un richiamo, pastorale e dottrinale, sul senso da dare alle azioni umane, secondo lo spirito cristiano. Ma una enciclica è anche "nel tempo" perché si riferisce ai problemi reali di oggi che, per chi fa impresa, sono complessi e talora preoccupanti, e Benedetto XVI nella Caritas in veritate non tralascia di evidenziarli con chiarezza.
Non sono qui per ripercorrere dettagliatamente i contenuti di tale documento pontificio, ma per ribadire in questa assemblea di imprenditori, preoccupati di una sana imprenditorialità che coniughi il profitto con lo sviluppo sociale, ciò che è ormai opinione diffusa:  che la crisi non è soltanto economica, ma è stata originata da deficit di valori morali e da comportamenti pratici contrari alla legge di Dio e conseguentemente contrari all'uomo; dannosi per la giustizia e negativi per la crescita materiale e spirituale della società. Dai recenti interventi di Benedetto XVI si può individuare una "trilogia" di piste da percorrere per arginare questo deficit di valori. Anzitutto occorre prendere in seria considerazione l'emergenza educativa. "La chiedono i genitori - dice il Papa - preoccupati e spesso angosciati per il futuro dei propri figli; la chiedono gli insegnanti, che vivono la triste esperienza del degrado delle loro scuole; la chiede la società nel suo complesso, che vede messe in dubbio le basi stesse della convivenza; la chiedono nel loro intimo gli stessi ragazzi e giovani, che non vogliono essere lasciati soli di fronte alle sfide della vita" (Lettera alla diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell'educazione, 21 gennaio 2008).

 Un'altra imprescindibile necessità è la formazione di una nuova generazione di laici cristiani impegnati nel mondo del lavoro, dell'economia, della politica, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile (Omelia per la celebrazione eucaristica sul sagrato di Nostra Signora di Bonaria, 7 settembre 2008).
Il terzo elemento, che si evince dall'enciclica stessa, è l'approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione. "Serve un nuovo slancio di pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l'interazione tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l'integrazione avvenga nel segno della solidarietà piuttosto che della marginalizzazione" (Caritas in veritate 53).

Possiamo così riassumere i valori che devono guidare l'imprenditore:  fare impresa è una missione potenzialmente elevatissima, ma essa è uno strumento per il benessere dell'uomo, il quale non è solo materia e perciò esige grandi attenzioni anche ai suoi bisogni spirituali. Quando l'imprenditore si occuperà anche di questi, avrà acquisito un vero vantaggio competitivo.
Per assicurare lo sviluppo dell'impresa, si deve credere nella vita e sostenerla con tutti i mezzi, aiutando le famiglie a formarsi, sostenendo la nascita e la crescita dei figli, assicurando così uno sviluppo vero e sostenibile per il sistema industriale.
Per favorire la creazione di ricchezza dell'impresa, lo sviluppo economico deve essere distribuito ed esteso a tutti, solo così potrà esser mantenuto.
L'economia e la tecnica non possono avere autonomia morale. Essendo mezzi, essi devono esser utilizzati per il bene comune e della persona.
La responsabilità dell'imprenditore e il comportamento cosiddetto etico sono personali, perché è la persona che dà senso alle proprie azioni.

Una ulteriore domanda viene tuttavia spontanea:  questi comportamenti sono validi per una corretta conduzione dell'azione di sviluppo in un mondo che cambia? Per rispondere a tale domanda è necessario chiedersi quali, in questo momento, sono i veri grandi cambiamenti che pretendono considerazione per un'azione imprenditoriale di sviluppo. Al riguardo, occorre ricordare che è cambiata la crescita economica a seguito di fattori diversi, a cominciare dall'introduzione di un distorto modello di crescita, dovuto al crollo delle nascite. Grazie alle azioni che hanno tentato di compensarne le conseguenze non previste, quali la spinta alla produttività esasperata, la delocalizzazione produttiva, il consumismo a debito delle famiglie..., si è creato uno sviluppo artificiale e insostenibile, il cui crollo ha prodotto distruzione di ricchezza e vulnerabilità delle imprese, delle famiglie, delle persone e degli stessi Stati.

Inoltre, sta anche cambiando la distribuzione del potere e dell'influenza politica a livello globale, che modifica il peso delle culture e, di conseguenza, il comportamento e i modelli imprenditoriali. Tale fenomeno potrà ancor più alterare pericolosamente la visione della dignità dell'uomo e della persona. Sta mutando, infine, anche il processo economico-finanziario, che da crescita drogata sta modificandosi in decrescita necessaria per ridurre il debito dei sistemi economici, provocando così maggior difficoltà per l'economia reale, chiamata a fronteggiare la crisi con minor sostegno finanziario e con rischi di conflittualità sociale.
Dai valori sottolineati discendono alcune raccomandazioni che mi sembrano significative. Certamente desta molta inquietudine il problema dell'occupazione e della sua tutela. Ce lo ricorda anche la Costituzione - che resta fondamentale per la vita civile del Paese - quando mette il lavoro alla base della democrazia. La perdita del lavoro per tanti occupati e la mancanza di prospettive di impegno per tante migliaia di giovani, pure qualificati, vanno ben oltre la perdita dello stipendio. Le persone espulse dal lavoro o senza prospettive di lavorare entrano in una crisi esistenziale, perché il lavoro è una parte costitutiva della persona che senza di esso si sente fuori posto e inutile. Non di rado entrano in difficoltà i rapporti familiari con le conseguenze sociali ben note. A questo riguardo, non voglio solo fare richiami generici e irrealistici. Come si garantisce l'occupazione, senza fare assistenzialismo? Conoscete meglio di me la risposta. Si tutela sviluppando l'impresa e rafforzandola competitivamente. Ciò richiede un adeguato sostegno finanziario, oggi carente. Ma voi avete chiaro il modello di sviluppo cosiddetto italiano, quello centrato sulla figura dell'imprenditore con una visione a lungo termine, con un senso di responsabilità sociale sul territorio, con una cura quasi personale ai propri dipendenti, con un'attenzione al rischio e prudenza nell'uso di strumenti complessi. Si rafforzi dunque questo modello e si convinca il sistema finanziario che è il migliore per il rilancio della nostra economia. Conseguentemente, auspico che si sviluppi una strategia di "concertazione" con le parti sociali e il governo per coordinare le scelte nella necessaria ristrutturazione a breve.

Sembra, infatti, doveroso fondare questo modello di ripresa sui valori di responsabilità personale e sul merito, anziché sulla ricerca di forme di assistenza o di protezione.
Parlando dell'oggi dell'impresa e dei valori che la devono guidare, non bisogna dimenticare gli sforzi di coloro che nel recente passato, in contesti certo differenti, sì da rendere forse problematico il volerli qui richiamare, con il rischio di semplificarli o mal interpretarli, hanno contribuito ad elaborare un modello di impresa con un forte senso di responsabilità sociale. Mi riferisco all'esperienza dell'azienda Olivetti, che mi piace ricordare dato che quest'anno ricorre il 50° anniversario della morte dell'ingegnere Adriano Olivetti (1960). Io sono originario della diocesi di Ivrea e questa esperienza è presente nella mia memoria e ha influito sulla mia sensibilità sociale.

In un convegno, voluto proprio dalla diocesi di Ivrea, intitolato "Olivetti ancora una sfida", tenutosi il 19 febbraio 2010, se ne è evidenziata la figura, ricordando i valori importanti e attuali dell'esperienza olivettiana. Il primo elemento ricordato è certamente quello di un umanesimo profondo nella gestione del mondo del lavoro. Un secondo elemento fondante è costituito dal senso di responsabilità con cui l'azienda ha affrontato il tema del suo rapporto con il territorio.
Per l'ingegnere Olivetti il movente del lavoro non è "quanto vale" ma "che cosa vale", con la conseguente traduzione in progresso civile dei risultati del processo produttivo. Secondo la concezione olivettiana l'impresa nasce e si sviluppa per poter ridistribuire gran parte dei profitti facendoli ritornare alla comunità circostante, con il conseguente armonico sviluppo dell'essere umano. Abissale la sua distanza dalla prospettiva dell'impresa predatoria impegnata a sfruttare le risorse locali senza restituire in ricchezza e bellezza. Egli si sforzava sempre e ovunque di radicare la fabbrica sul territorio di riferimento, al fine di farlo crescere materialmente, culturalmente, esteticamente.

L'ingegnere Adriano Olivetti è stato un esempio di umanesimo cristiano imprenditoriale (cfr. Luigino Bruni, Stefano Zamagni, Olivetti Adriano in Dizionario di economia civile, Città Nuova, 2009, pp. 635-640), conquistato dopo una svolta significativa della sua vita. Non è mia intenzione proporre la sua figura in chiave politica o ideologica - che può essere discussa a seconda dei punti di vista - ma piuttosto evidenziare che nella sua originale visione religiosa egli è stato simbolo del "dono" come vocazione. Egli volle donare i suoi averi per il bene comune. Per lui il dono era inteso come vocazione teologica di carità nella verità, non come filantropia. Perciò desidero simbolicamente ricordarlo alla luce dell'enciclica Caritas in veritate.

 Un altro esempio più vicino a noi - anche se non vorrei privilegiarlo rispetto ad altre valide realizzazioni - è dato dal Gruppo Cerutti, fondato dall'ingegnere Giovanni Cerutti, che mi piace citare per averne conosciuto l'operato quando ero arcivescovo di Vercelli. In particolare ricordo la signora Tere Cerutti Novarese, recentemente scomparsa, che è stata alla guida del Gruppo per molti anni, prima accanto al marito Luigi, figlio di Giovanni, e poi come presidente. La filosofia aziendale e la storia di ottant'anni di attività del Gruppo ci presentano un'azienda vincente sul piano tecnologico e nello stesso tempo particolarmente attenta al fattore umano. Si deve riconoscere a Tere Cerutti - donna di fede profonda con notevoli doti di efficiente imprenditrice - la passione per le relazioni umane all'interno dell'azienda e tra l'azienda e i suoi interlocutori sparsi in tutto il mondo.

Viene allora da chiederci:  come testimoniare con coraggio l'identità cristiana in questo momento di crisi? Credo che la risposta più opportuna possa essere trovata nella conclusione dell'enciclica, quando si afferma che "L'amore di Dio (...) ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti" (78). E ancora quando dice che "Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio" (79). Posso immaginare la vostra perplessità, ma vi parlo da pastore e non solo da studioso. La Chiesa, voi lo sapete, non svolge soltanto il compito di incoraggiare, ma anche quello di insegnare. Essa, infatti, ha una visione non solo naturale, ma anche soprannaturale.

Riguardo al lavoro, ad esempio, occorre notare che nei tempi antichi l'uomo libero non lavorava:  il lavoro era riservato agli schiavi. Gesù Cristo invece, prima di annunciare per tre anni il Vangelo, per venti anni ha lavorato come falegname; Paolo di Tarso si manteneva fabbricando tende e scriveva ai cristiani "chi non lavora non mangi", e Benedetto da Norcia inseriva nella regola per i suoi monaci il principio del "prega e lavora"; così il lavoro diventava per l'uomo un'attività con pari dignità della preghiera e diventava una sua attività fondamentale, costitutiva. Nella modernità il lavoro, nella organizzazione di Frederick W. Taylor, veniva ridotto a puro mezzo di produzione, ma per il cristiano il lavoro umano va ben oltre perché è il corrispondere alla volontà di Dio su ciascuno:  è così un atto di gratuità, un atto d'amore, una liturgia.
Vi invito, perciò, a riflettere attentamente su queste affermazioni. Gli imprenditori sono alla ricerca continua di nuove strategie vincenti, di nuovi vantaggi competitivi. Ebbene, non ho mai saputo che si fosse stabilita una strategia fondata su un vantaggio da molti ignorato:  la grazia. L'addendo in più che rende ogni futuro imprevedibile. Si può pensare che la fiducia in Dio possa diventare un vantaggio? Che l'attenzione alla vita spirituale dei dipendenti diventi un vantaggio, che provoca più produttività, minori costi, minori rischi?

Ci si chiede come testimoniare con coraggio l'identità cristiana. Da quanto fin qui detto abbiamo visto emergere chiaramente la risposta:  l'imprenditore cristiano considera l'impresa un mezzo e il profitto un utile strumento di misura. Entrambi, però, devono avere un fine, che è la persona umana. Il rispetto della dignità della persona si deve vedere anzitutto nell'attenzione dell'imprenditore verso il proprio comportamento, come pure verso i dipendenti, fornitori, clienti, azionisti, investitori. Tale attenzione provoca un valore, che si chiama fiducia. Occorre approntare strategie di sviluppo fondate proprio sul vantaggio competitivo della "fiducia", quella vera, non intesa soltanto come strumento di marketing, come avviene spesso con il termine "etica", usato specialmente quando questa viene a mancare. È necessario, quindi, che il mondo economico globale torni ad aver bisogno delle vostre capacità potenziate dalla risorsa "fiducia". Non si creda che modelli economici attualmente vincenti, ma che ci spaventano perché sono fondati su costi del lavoro troppo bassi, tecnologie troppo alte e prodotti di scarsa qualità, siano anche sostenibili. Se non sono centrati sulla valorizzazione dell'uomo, non lo saranno per molto. È una legge naturale fondata sul rispetto dell'uomo e delle leggi economiche naturali. Ignorarle produce gli effetti che abbiamo appena vissuto e che si riprodurranno in futuro in altre circostanze e condizioni. Vi invito, pertanto, a fornire al mondo l'esempio di come si governa una impresa con modelli cristiani di lealtà, trasparenza, sicurezza, qualità, capacità innovativa, senso di responsabilità e dovere. Tali scelte di alto profilo porteranno molti ad accorrere a voi per lavorare, per comprare, per fornire, per investire e per finanziare.

Per concludere vorrei ritornare all'inizio di questo mio intervento per riaffermate l'urgenza di una solida educazione delle nuove generazioni. È noto che il capitale umano di un'azienda passa attraverso la formazione, e questa rappresenta un vero obiettivo economico e sociale per il miglioramento dei rendimenti degli investimenti. Anche nei Paesi poveri il capitale umano ha questa funzione, nel senso che l'assorbimento di nuova tecnologia non può avvenire che attraverso la conoscenza. L'educazione però deve contribuire alla formazione delle idee e del pensiero dell'uomo in termini di socialità.
Prendo in prestito alcuni concetti espressi dal professore Ettore Gotti Tedeschi, in un recente articolo scritto per "Il Sole 24 Ore":  "Continuiamo a notare, opportunamente, una grande ansia di richiamare esigenze di etica e di fare proposte di nuovi modelli di capitalismo:  temo però che grandi soluzioni con questo approccio giuridico economico sul capitalismo o sulla responsabilità sociale dell'impresa non si troveranno. Soluzioni vere si produrranno solo se si hanno idee e progetti per cambiare l'uomo anziché gli strumenti (...) Se l'uomo ha un pensiero vero, forte e maturo, il suo lavoro ne trae beneficio. Con conseguenze evidenti sui modelli di capitalismo migliori (...)" (I buoni preti? Meglio degli economisti, 11 marzo 2010, pagina 15).

In questo modo la società può sperare in quella nuova generazione di uomini e di donne capaci di elaborare con competenza e rigore soluzioni di sviluppo sostenibile, e di impegnare le loro migliori energie morali nell'ambito della politica.


(©L'Osservatore Romano - 17 marzo 2010)
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08/05/2010 06:55

Diritti individuali e doveri collettivi

La "Caritas in veritate" per uscire dalla crisi economica e ambientale


Pubblichiamo ampi stralci del discorso pronunciato dall'Ambasciatore della Repubblica Federale di Germania presso la Santa Sede durante l'incontro svoltosi mercoledì 5 maggio all'Associazione internazionale Carità Politica.


di Hans-Henning Horstmann

In questi giorni l'attenzione della comunità internazionale è di nuovo incentrata sullo sforzo di superare la sfida del cambiamento climatico. A Bonn, dal 2 al 4 maggio, si sono riuniti i ministri dell'Ambiente di 45 Stati, per preparare le basi per il vertice delle Nazioni Unite sul clima che si terrà a Cancún alla fine di questo anno. Allo stesso tempo grava pesantemente sugli Stati la più profonda crisi economica, finanziaria, ma soprattutto di fiducia degli ultimi cinquanta anni. Crisi che continua a persistere, basti notare l'attuale situazione in Grecia. Oltre alla necessità di una giusta azione economica, tale crisi solleva anche ampie questioni etiche e morali. Benedetto XVI ha formulato la sua enciclica Caritas in veritate proprio in questo periodo. In essa il Papa cerca risposte all'interrogativo sul giusto comportamento in tempi di crisi economica e formula chiare richieste al singolo individuo, ai Governi e alle organizzazioni internazionali. L'Enciclica si occupa anche delle ampie ripercussioni sullo sviluppo dei popoli e dell'ambiente.
A causa della crisi economica è risultata evidente la necessità di una coscienza per una condotta morale nonché per una maggiore solidarietà tra le Nazioni del mondo e tra le generazioni. Decisioni locali hanno oggi impatti globali. L'azione sociale ed economica sia della popolazione che dei Governi delle Nazioni industrializzate incide in modo negativo sulle persone nei Paesi in via di sviluppo che spesso sono indifese dinnanzi a questi cambiamenti. Per questo Benedetto XVI rivendica un equilibrio tra diritti e doveri, cui fa seguito un equilibrio tra risorse e opportunità.
Mi concentrerò sulla necessità di questo equilibrio e sugli sforzi politici ed individuali per ottenerlo nello sviluppo dei popoli e dell'ambiente. "Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti". Sono le Nazioni Unite a sancire questo principio fondamentale nel 1948 nel primo articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani. Ma in realtà c'è una contraddizione:  da una parte c'è la società del benessere, dall'altra parte c'è il Sud del mondo, in cui la popolazione soffre per la carenza di cibo e di strutture mediche, per la scarsa istruzione scolastica e spesso anche per conflitti armati. Secondo una ricerca delle Nazioni Unite sono 49 i Paesi meno sviluppati del mondo, di cui 33 in Africa, dove la gente vive con meno di 1,25 dollari al giorno.
Ogni uomo ha dei diritti, ma anche dei doveri. Benedetto XVI definisce questi doveri nella sua enciclica sociale come "quadro etico" dei doveri. Giustizia e solidarietà si annoverano tra i valori fondamentali della nostra società e tra i valori fondamentali dell'Europa. La Legge fondamentale della Germania, la nostra Costituzione, recita all'articolo 14:  "La proprietà impone degli obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività". La ricchezza del mondo è concentrata negli Stati industrializzati. Da questo deriva la nostra responsabilità nei confronti delle popolazioni nei paesi in via di sviluppo.
La crisi economica ha dimostrato che l'uso dei diritti senza i doveri - quindi il disprezzo della responsabilità - si ripercuote su tutto il globo. La crisi ci ha mostrato chiaramente che, per evitare conseguenze gravi, dobbiamo prendere importanti decisioni tenendo in considerazione le conseguenze nel lungo termine. Anche questa crisi economica ha colpito più gravemente i poveri che non sono responsabili delle sue cause. Esse dipendono dal fatto che noi, come Stati o individui, esercitiamo o meno non solo i nostri diritti, ma anche i nostri doveri, che Benedetto XVI ha messo in rilievo. La convivenza con pari diritti degli esseri umani può diventare realtà soltanto se esiste una solidarietà mondiale.
L'etica è importante e vitale per l'organizzazione umana dell'economia. La politica economica della Germania si orienta al concetto di economia sociale di mercato. L'economia sociale di mercato (il cosiddetto modello renano) ha procurato ai cittadini tedeschi benessere, lavoro, sicurezza e libertà. Questa presuppone dei valori:  giustizia, solidarietà, sussidiarietà e la dignità dell'essere umano. Valori che sono radicati nei principi fondamentali dell'etica umana e civile della dottrina sociale cattolica e dell'etica sociale protestante. La globalizzazione ha bisogno di questi valori come pilastri etici per il funzionamento dei mercati finanziari e del commercio mondiale.
La Caritas in veritate ci ricorda i nostri diritti e le nostre libertà. Ma ci ricorda in particolare la responsabilità che essi comportano. Non c'è l'uno senza l'altro. Questa responsabilità è particolarmente importante per quanto riguarda l'ambiente. Nei secoli scorsi abbiamo preso più di quanto ci spettasse. Il nostro consumo supera da molto tempo il nostro bisogno effettivo. Abbiamo utilizzato troppo le nostre materie prime e vediamo già ora le conseguenze:  siamo abituati a vivere sopra la misura e utilizziamo le risorse a nostra disposizione in modo arbitrario senza preoccuparci delle conseguenze. Ma è un nostro dovere proteggere l'ambiente e cambiare il nostro stile di vita. La natura è, per tutti gli umani, la base della vita e della sopravvivenza. Non possiamo aspettare che appaiano ancora più forti gli effetti visibili dello sfruttamento dell'ambiente. Dal punto di vista teologico-morale vi sono chiare direttive per il rapporto con la natura e la creazione:  l'uomo e la creazione devono essere tutelati per responsabilità nei confronti del creatore. Benedetto XVI parla per questo di ecologia, ma anche di "ecologia umana". Egli la definisce come "grammatica" della creazione, che porta la natura in sé. Nel primo libro di Mosè c'è scritto che l'essere umano deve sottomettere la terra e deve regnare sugli animali, ma può utilizzare l'ambiente solo in misura moderata. E questa misura è superata laddove non tutti hanno un accesso paritario a risorse di importanza vitale o dove tali risorse vengono sprecate.
Le conseguenze coinvolgono in particolare le persone nei Paesi in via di sviluppo. In tante parti dell'Africa esse hanno sempre meno terreno coltivabile a disposizione, a causa dei periodi di siccità sempre più lunghi e dell'inaridimento delle fonti d'acqua e dei suoli. Per cui sono sempre più frequenti carestie:  ogni 3,5 secondi una persona muore di fame o a causa della denutrizione. Significa che ogni giorno muoiono 25 mila esseri umani. Inoltre a causa del continuo riscaldamento climatico aumenta il livello del mare. Intere regioni e persino piccoli Stati come il Tuvalu, che si trova a meno di cinque metri sopra il livello del mare, rischiano di sprofondare e sparire. Questi travolgimenti proseguiranno ulteriormente se i paesi del mondo non riusciranno a mettersi d'accordo di affrontare questa grande sfida tutti insieme, perché la protezione dell'ambiente supera le frontiere nazionali. In questo contesto gli stati industrializzati hanno rilevanti doveri.
Da questo deriva secondo Benedetto XVI "l'urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà". Le conseguenze di un uso indiscriminato dell'ambiente colpisce tutti i nostri discendenti. Dobbiamo lasciare loro un mondo degno di essere vissuto, in cui tutti hanno pari opportunità di vivere sulla terra.
Nel 1997 in Giappone venne sottoscritto il protocollo di Kyoto che obbliga per la prima volta in modo vincolante i paesi industrializzati, quali principali responsabili del cambiamento climatico, a una riduzione dei loro gas serra. Fino a oggi hanno aderito al protocollo 183 Stati, che sono responsabili di circa il 64 per cento delle emissioni di gas a effetto serra. La Germania già nel 2008 ha raggiunto i suoi obiettivi climatici ai sensi del protocollo di Kyoto e fa così da battistrada a livello internazionale nella protezione del clima. La Chiesa Cattolica si adopera da tanto tempo per un uso responsabile del creato. Nel documento Klimawandel la Conferenza episcopale tedesca identifica il cambiamento climatico come "punto focale della giustizia globale, intergenerazionale ed ecologica". L'enciclica di Benedetto XVI affronta questioni attuali e analizza in modo pertinente i problemi del nostro tempo. Le soluzioni proposte non sono rivolte solo ai cristiani, l'enciclica offre anche al singolo, alle organizzazioni internazionali e ai Governi un orientamento per una giusta condotta.


(©L'Osservatore Romano - 8 maggio 2010)
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23/06/2010 20:23

Bisogna superare gli squilibri globali partendo dalla "Caritas in veritate"

Per una nuova progettualità


Anticipiamo alcuni stralci dell'intervento introduttivo che il vescovo segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace terrà il 24 giugno al settimo Simposio internazionale dei docenti universitari che si svolgerà a Roma fino a sabato 26 sul tema "Caritas in veritate. Verso un'economia al servizio della famiglia umana. Persona, società, istituzioni".

di Mario Toso

Siamo convinti che la Caritas in veritate, che ha visto la luce all'inizio del terzo millennio, in un momento storico di trasformazioni tumultuose e di costruzione di nuove istituzioni commisurate a un mondo sempre più globalizzato, può divenire la magna charta di un impegno rinnovatore delle culture e della concezione dello sviluppo della famiglia umana, nonché delle connesse politiche e delle legislazioni. come già la Rerum novarum di Leone XIIi a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento.
In una società "liquido-moderna", per dirla con l'espressione di Zygmunt Bauman, che tutto avvolge e tutto inghiotte, e che assume le sembianze di una convivenza senza un costrutto unificante se non quello del mercatismo e della tecnocrazia, epigoni ideologici della modernità, la Caritas in veritate offre la speranza di una rinascita spirituale e morale, un supplemento di riflessività e le basi di una nuova progettualità atta a superare gli squilibri globali.
 La Dottrina o Insegnamento o Magistero sociale della Chiesa è un sapere teorico-pratico di tipo sapienziale e sintetico. È frutto dell'armonizzazione di molteplici saperi, composti entro un quadro unitario di senso, offerto e incontrato - ce lo dice la stessa Caritas in veritate col suo incipit - in quel "grembo" di vita e di saggezza che è rappresentato dalla comunione esistenziale con la Carità e la Verità di Cristo. La sintesi culturale elaborata dall'enciclica, per divenire l'anima di una prassi riformatrice e costruttrice, dev'essere articolata e specificata nei vari ambiti dell'esistenza umana.
Con questo vii simposio si intende dar vita ad una fase di approfondimento scientifico dei contenuti della Caritas in veritate che prelude a quella successiva della sperimentazione. Nell'enciclica si incontrano principi di riflessione, criteri di giudizio, orientamenti pratici che richiedono di essere sviluppati e integrati dal punto di vista teorico-pratico, dell'operatività storicamente contestualizzata. Ad esempio, vi si legge:  "La dignità della persona e le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le scelte economiche non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze di ricchezza e che si continui a perseguire quale priorità l'obiettivo dell'accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti" (n. 32). Subito dopo sono addotte altre ragioni fondamentali di una politica attiva del lavoro per tutti coloro che ne sono capaci. Oltre a quelle antropologiche ed etiche appena segnalate, esse sono di natura economico-sociale, psicologica, civile, culturale e giuridica.
L'aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi sociali all'interno di un medesimo Paese e tra le popolazioni dei vari Paesi, ossia l'aumento massiccio della povertà in senso relativo, non solamente tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette a rischio la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del "capitale sociale", ossia di quell'insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile. È sempre la scienza economica a dirci che una strutturale situazione di insicurezza genera atteggiamenti antiproduttivi e di spreco di risorse umane, in quanto il lavoratore tende ad adattarsi passivamente ai meccanismi automatici, anziché liberare creatività. Anche su questo punto c'è una convergenza tra scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani. Va poi ricordato che l'appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica, se nel breve periodo può favorire l'ottenimento di profitti, nel lungo periodo ostacola l'arricchimento reciproco e le dinamiche collaborative.
È importante distinguere tra considerazioni economiche o sociologiche di breve e di lungo termine. L'abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori o la rinuncia a meccanismi di ridistribuzione del reddito per far acquisire al Paese maggiore competitività internazionale impediscono l'affermarsi di uno sviluppo di lunga durata. Vanno, allora, attentamente valutate le conseguenze sulle persone delle tendenze attuali verso un'economia del breve, talvolta brevissimo termine" (n. 32). Ecco la conclusione a cui giunge l'enciclica, che smentisce il giudizio di astrattezza rivoltole da alcuni:  "Ciò richiede una nuova e approfondita riflessione sul senso dell'economia e dei suoi fini, nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà, lo stato di salute ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale e morale dell'uomo, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo" (n. 32).
In definitiva, non solo la Caritas in veritate indica l'obiettivo da raggiungere, un obiettivo davvero ambizioso ma anche la strada da percorrere:  "una nuova e approfondita riflessione sul senso dell'economia e dei suoi fini, nonché una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo" (n. 32). Si tratta, pertanto di riflettere sui problemi odierni, di discernere e di iniziare ad abbozzare nuove progettualità, relativamente a un'economia che ponga al centro la persona e sia, di conseguenza, al servizio del bene della famiglia umana.
Così, si esprime ancora la Caritas in veritate in proposito, infondendo coraggio a noi, assetati di giustizia e di pace:  "Gli aspetti della crisi e delle sue soluzioni, nonché di un futuro nuovo possibile sviluppo, sono sempre più interconnessi, si implicano a vicenda, richiedono nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi umanistica. La complessità e gravità dell'attuale situazione economica giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova  progettualità.  In questa chiave,  fiduciosa  piuttosto che  rassegnata, conviene affrontare  le  difficoltà del momento presente" (n. 21).


(©L'Osservatore Romano - 24 giugno 2010)
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