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IL PRIMATO DI ROMA PER L’ORIENTE ORTODOSSO NEL PRIMO MILLENNIO

Ultimo Aggiornamento: 03/11/2009 09:45
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03/11/2009 09:44

c. Roma nella Pentarchia per l’ecclesiologia dei concili del IX secolo

La "crisi foziana" ci testimonia l'iniziale coesistenza di posizioni minimaliste

e massimaliste in ordine al ruolo di Roma nella Pentarchia. Nelle due sinodi

costantinopolitane dell'869-70 e del 879-80, esse continuano ad integrarsi

vicendevolmente in una dinamica che non segue necessariamente i "partiti"

ecclesiastici, ma divide trasversalmente gli schieramenti. Si potrebbe anzi

aggiungere che al concilio dell'879-80 - come hanno intravvisto sia il cattolico

Peri sia l’ortodosso Pheidas - le due sensibilità ecclesiologiche furono in grado

di raggiungere un precario equilibrio, anche se la ratifica conciliare di una

sostanziale diarchia tra le sedi delle due Rome avrebbe segnato inesorabilmente

la fine della Pentarchia anche nella sua dimensione virtuale.

Nell'assise dell'869-70 il
patrikios Baanes, rappresentante imperiale al

concilio, ripropone fedelmente la dottrina sull'origine divina della Pentarchia ed

applica a tutti e cinque i patriarchi la qualifica di "capo della Chiesa" (altrimenti

riservata al papa), nonché la promessa di indefettibilità della Chiesa contenuta

nel
loghion mattaico, interpretandola nel senso che alcuni resteranno comunque

fedeli alla fede ortodossa (tre o almeno due su cinque). Ravvisa anche la

possibilità che la retta fede sopravviva in uno soltanto, ma evita

significativamente di precisare che questo sarebbe comunque quello romano,

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"città di rifugio" dell'ortodossia perseguitata, come avevano teorizzato i teologi

iconofili. Per converso il patriarca Ignazio - nella sua lettera scritta al papa

Nicola I nell'868 e letta alla terza sessione del concilio - enfatizzava proprio

quest'ultimo aspetto, coniando per il papa di Roma una nuova metafora, quella

di medico («unum et singularem praecellentem atque catholicissimum

medicum») per il corpo divino-umano di Cristo, che è la Chiesa, in preda alla

febbre dell'eresia ed al disordine canonico-disciplinare.

Al concilio, riunitosi esattamente dieci anni dopo, si trovano a confronto non

già due ecclesiologie costantinopolitane, rispettivamente minimalista e

massimalista per quanto riguarda il primato romano, bensì quella più gelosa

delle prerogative patriarcali, ora propria dell'ambiente foziano, e l'ecclesiologia

romana, esposta però dai legati papali in termini comparativamente misurati. Il

successo di questo concilio d'unione è probabilmente dovuto all'incontro di due

diverse forme di moderatismo. L'approccio moderato di Fozio al problema del

primato romano è stato individuato da Frantisek Dvornik attraverso l'analisi

delle modifiche apportate - o meglio, non apportate - dalla cancelleria patriarcale

alle lettere papali arrivate in oriente, al momento della loro traduzione in greco.

Tale indagine, anche se condotta per via indiretta - in quanto considera non già

ciò che il patriarca dice, bensì ciò che lascia dire al papa - consente di pervenire

a conclusioni significative. Mentre infatti vengono puntualmente espunte le

censure papali nei confronti di Fozio, non altrettanto avviene per l'enfasi posta

dal papa, nella lettera all'imperatore, sulle prerogative della propria sede. Quella

di essere "a capo di tutte le Chiese" viene sì trasferita, nell'adattamento foziano,

dal papa a Pietro, ma nondimeno è conservata la rivendicazione, per il trono

apostolico romano, del potere petrino di legare e sciogliere, nonché l'universalità

dell'estensione del suo diritto d'intervento, «fin dove può senza incorrere nel

biasimo e nella condanna», in tutte le Chiese.

La lettura sostanzialmente minimalista del primato romano, affermatasi nella

pars Orientis dopo la vittoria di Fozio, emerge piuttosto dalla reazione negativa

dei primi metropoliti del trono ecumenico all’affermazione dei legati che la

Chiesa della Nuova Roma era stata pacificata dall’intervento dell'Antica. Anche

in questo contraddittorio si percepisce tuttavia come i legati romani,

rivendicando il primato della propria sede in termini inaspettatamente

"pentarchici", abbiano ripreso, in questo scorcio finale della fase da me definita

della "pentarchia virtuale", la prospettiva ecclesiologica tipicamente orientale al

tempo della "pentarchia reale". Questo
revival pentarchico comporta una ripresa,

anche da parte dei legati romani, di un linguaggio arcaico, testimoniato

dall’espressione
papa ecumenico, già caratteristico del sentire pentarchico

dell'oriente pre-iconoclastico e del tutto inconsueto su labbra occidentali.

La "restaurazione pentarchica" formalmente promossa da questo concilio è

tuttavia espressione di un modello di Chiesa sostanzialmente incompatibile con i

presupposti teorici e le modalità pratiche di questa istituzione. La pentarchia

delineata dal concilio dell'879-80 si regge infatti sul principio dell'isotimia, cioè

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della parità nelle prerogative, tra la due Rome, almeno come linea di tendenza in

via teorica e come dato di fatto nel concreto della dinamica ecclesiale. Fozio non

esita a definire il papa, nell'accogliere i legati romani, suo "padre spirituale",

secondo una terminologia ancora una volta pentarchica e riservata

protocollarmente al rapporto tra il rappresentante della
regalità (l'imperatore) edil vertice del sacerdozio (il papa), ma nondimeno viene acclamato dai suoi

vescovi, con l'esplicito assenso dei legati romani, «sorvegliante del mondo

intero, a immagine del Cristo,
arcipastore», con la sorprendente appropriazione

di attributi imperiali.

Questa tendenza all'
isotimia tra Roma e Costantinopoli ha la sua più

autorevole ratifica nel primo canone promulgato da questo concilio che

prescrive il reciproco riconoscimento, da parte dei titolari delle due Rome, delle

misure canonico-disciplinari da essi deliberate nei confronti di chierici e laici

della propria giurisdizione, dovunque si trovino. I legati di Roma, in una

dichiarazione fatta nel corso della quinta sessione dal cardinale Pietro,

affermano che il papa Giovanni VIII ha conferito il potere di legare e di

sciogliere, ereditato dall'apostolo Pietro, al patriarca Fozio.

Proprio uno dei principali convincimenti a cui siamo pervenuti nella nostra

analisi è che, sia nella prassi sia nella teoria pentarchica, le prerogative anche

più esclusive della sede romana prendono le mosse da un potere condiviso. Ciò

viene esemplarmente espresso, quasi ai limiti del paradosso, nella già ricordata

locuzione dell'imperatore Costantino IV, contenuta nella sua lettera al papa del

dicembre 681, dove la posizione rispetto a Roma dei restanti patriarchi è

definita, con un'unica formula, come quella di consedenti
insieme alla maestà

papale e, nel contempo, di sedenti dopo di essa. La compresenza delle dueparticelle,

insieme e dopo, oggettivamente in contraddizione, fornisce a questa

relazione una coloritura per così dire "antinomica", precisabile con difficoltà già

in via teorica e pertanto ancora di più nel concreto della dinamica dei rapporti

ecclesiali.

Nel contempo, nella Chiesa "imperiale" si registra una prolungata continuità,

dagli imperatori Giustiniano e Foca, a Costante II ed a Giustiniano II, nel

riconoscimento alla sede romana della prerogativa di "capo di tutte le Chiese".

La valenza "filo-romana" di questa definizione, costantemente ribadita, viene

oggettivamente ridimensionata non solo dalla sua stretta correlazione con la

qualifica papale - assai più pentarchica - di "capo del sacerdozio", ma soprattutto

dal fatto che la fondazione petrina della Chiesa di Roma non è che uno dei

fattori determinanti la sua posizione particolare nell'ambito della Pentarchia.

Tale prerogativa pare infatti in sinergia, quando non apertamente sostituita, con

altri fattori, come la normativa canonica, nonché la motivazione, tipicamente

giustinianea, che, come Roma è
patria legum, allo stesso titolo essa è anche fonssacerdotii. A sua volta il carattere normativo della fede di Roma - scoperto nel

pieno della crisi iconoclastica - non è mai isolabile dalla struttura pentarchica

della Chiesa: come ogni patriarca non è isolabile dal corpo episcopale della sua

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giurisdizione - e ne esprime il punto di vista collettivo normalmente in sede

conciliare - così Roma non è isolabile dagli altri quattro patriarchi, ed anche in

questo caso dà voce all'intero collegio pentarchico.

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