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Le radici ebraiche del Padre Nostro nella Scrittura

Ultimo Aggiornamento: 16/11/2008 18:29
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16/11/2008 18:29

continua da sopra.............


Genhqhtw to qelhma sou, wV en ouranw kai epi ghV. "Sia fatta la tua volontà, come in cielo, così in terra".

Chi fa la volontà di Dio in cielo? Gli angeli. Lo dice il Salmo CIII, 20-21:
Benedite il Signore, o suoi angeli,
obbedienti al suono della sua parola.
Benedite il Signore, tutti voi, o eserciti suoi,
suoi ministri che fate la sua volontà.
E in terra? I giusti. perché "i giusti conoscono la volontà" (Proverbi X, 32). Il Salmo XL, 8:
Insegnami a fare la tua volontà,
perché tu sei il mio Dio.
E il Salmo CXLIII, 10:
Io mi compiaccio di fare la tua volontà, o mio Dio,
Sì la tua legge è nel mio cuore.


Anche alcune preghiere ebraiche contengono un parallelo fra il cielo e la terra. Il Kaddish: Colui che fa la pace nelle sue altezze, nella sua misericordia conceda la pace a noi e a tutto Israele. E Rabbi Eliezer (verso il 90 dell'E. V.) pregava: Fa' la tua volontà nell'alto dei cieli e dà pace sulla terra a coloro che ti temono (Berakot Tosefta 3, 7). E viene in mente il canto degli angeli "Gloria a Dio nelle altezze e pace in terra agli uomini dei quali Egli si compiaceva" (Luca II, 14).


ton arton hmwn ton epiousion doV hmin shmeron "Dacci oggi il nostro pane epiousion.

Questa parola è un "hàpax legòmenon" ed è di incerta interpretazione. Menzionerò le principali congetture.
Alcuni traducono "dacci oggi il nostro pane quotidiano". Bellissima interpretazione, conforme alla preghiera nei Proverbi XXX,8:
Non mi dare nè povertà nè ricchezza
Porgimi il pane che è la mia porzione.
Se non che epiousion non può significare "quotidiano". Quotidiano in greco si dice kathemerinos o ephemeros. Ambedue queste parole s'incontrano nel N. T. (Atti VI,1 e Giacomo II, 15). Perché l'Evangelista, avendo a disposizione due ottime parole usuali, ne avrebbe inventata una terza incomprensibile?

Altri interpreti traducono "per domani". E derivano epiousion da epiousa "il giorno seguente". Abbiamo dunque un'etimologia possibile. E anch'io preferisco il pane un po' raffermo, e la previdenza è raccomandata nella Bibbia (Proverbi VI, 6-8):
Va' alla formica, o pigro;
considera i suoi costumi e sii savio,
la quale... si provvede di pane nell'estate,
e raccoglie il cibo nella stagione delle messi.
Ma non sempre la previdenza fu lodata dagli Ebrei. Rabbi Eliezer (tempo di Domiziano) diceva: "Chiunque ha pane nel paniere e domanda: Che cosa mangerò domani? è un uomo di poca fede" (Sota 48). Pare che anche Gesù la pensasse come R.Eliezer: "Non pensate alla vita vostra, che mangerete e che berrete... Non vi preoccupate dunque per il domani" ( Matteo VI, 25-34) e additava ad esempio gli uccelli del cielo; anziché la formica, tanto ammirata dal poeta dei Proverbi e dal La Fontaine. Perciò è poco verosimile che Gesù consigliasse di chiedere il pane per il giorno dopo (come interpretano i Protestanti).

Altri interpreti derivano epiousion da epi (sopra) e ousia (sostanza) e traducono "soprassostanziale", cioé spirituale, metaforico.

Anche quest'immagine del pane spirituale è ebraica. Isaia LV, 1-2:
O voi tutti che avete sete, venite all'acqua.
E voi che non avete denaro, venite, comperate e mangiate.
Perché spendete denaro per cose che non sono pane?
E i vostri guadagni per cose che non saziano?
E nei Proverbi IX, 5 la Sapienza chiama:
Venite, mangiate del mio pane
E bevete del vino che vi ho mesciuto.
E Ben Sira XV, 1-3:
L'uomo che teme il Signore farà questo.
Colui che si attiene alla Torà l'otterrà.
Ella gli verrà incontro come una madre,
come una giovane sposa l'accoglierà.
Lo nutrirà col pane dell'intelligenza
e gli darà da bere l'acqua della dottrina.
In questi versi la Sapienza è probabilmente, per noi Ebrei, la Torà (cfr. Ben Sira XXIV, 22) e il cibo e le bevande sono i suoi frutti salutiferi.

Mi par poco verosimile che Gesù pregasse per ricevere la Torà, se di Lui dobbiamo pensare alla Somma Sapienza. Ma le difficoltà principali sono linguistiche. Esiste la parola "soprassostanziale" in aramaico? E supponendo che esistesse, sarebb'essa una definizione esatta della Torà, della Grazia o del soccorso divino chiesto dai primi discepoli? E sarebbe naturale questo termine filosofico in bocca a semplici pescatori di scarsa istruzione? Oltre a ciò, un composto di ousia sarebbe epousion anziché epiousion. Il prefisso epi elide sempre la finale in composizione con la parola che comincia per vocale, a meno che non sia impedito il digamma. Dunque nessuna delle supposte congetture pare accettabile. Non saprei più cosa proporre.

Forse un'emendazione del testo. Leggendo epi ousion "per l'esistenza, per la vita" il senso corrererebbe bene. Ousia nel senso di vita, esistenza è documentato in Platone, Sofista 232. (Naturalmente, alla fine, non resta, fino a prova contraria così come illustrata dallo storico Ebreo, il senso Cattolico: l'Eucarestia Cibo di vita eterna che non perisce e che dona l'eternità!)

Si osservi ancora che la presenza di questa parola rarissima così nel testo di Matteo come in quello di Luca dimostra che ambedue derivano da un'unica fonte greca e non sono traduzioni indipendenti dall'aramaico.

Kai afeV hmin ta ofeilhmata hmwn, wV kai nmeiV afhkamen toiV ofeiletaiV hmvn "Rimettici i nostri debiti, come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori".

Qui c'è qualche divergenza fra i Vangeli. Matteo ha la parola "debiti", Luca la parola "peccati". La remissione dei debiti ogni sette anni era prescritta dal Deuteronomio XV, 1-11. Ma poiché questa disposizione, adatta per i prestiti caritatevoli dell'età più antica, produceva gravi inconvenienti nelle operazioni commerciali di un popolo più evoluto, Hillel l'aveva abolita pochi anni prima del tempo di Gesù. E' probabile che la predicazione di Gesù e dei primi Cristiani avesse anche un contenuto sociale, che essi non vedessero benignamente i ricchi (Luca VI, 20-26; XVI, 19-31; XVIII, 22-25; Giacomo I, 9-11; II, 5-7; V, 1-6) e che praticassero la comunione dei beni (Atti II, 42-45; IV, 32-37). Ma non pare che rimettessero i debiti. Anzi pare che qualche volta fossero rapaci ed esosi nell'esigerli (Atti V, 1-6).

E poi, quali sono i debiti dell'uomo verso Dio? Non si può certo pregare Dio d'essere esentati dall'adempiere ai comandamenti né d'essere dispensati dai voti. Perciò par meglio intendere i peccati. E' stato osservato che la parola aramaica "hobayya" può valere "debito" e "peccato". Matteo ci dà la traduzione letterale, Luca interpreta e chiarifica per il lettore greco (si deve ricordare tuttavia che le due versioni del Paternostro derivano probabilmente da una fonte comune Q scritta in greco e non sono traduzioni indipendenti dall'aramaico). Vi sono altri passi dei Vangeli (Matteo XVIII, 23-35, Luca VII, 37-39) nei quali i debiti sono figura dei peccati.

Molti precetti dell'A. T. impongono di perdonare i torti ricevuti (Genesi XLV, 4-15; L, 15-21; Esodo XXIII, 4-5; Levitico XIX, 17-18, 34; I Samuele XXV, 28-34; Giobbe XXXI, 29: Salmo XVIII, 24-25; Proverbi XX, 72; XXIV, 29; XXV, 21-22).

Molte preghiere chiedono a Dio di perdonare i peccati degli uomini (Esodo X, 17; XXXII,32; XXXIV, 7-9; Numeri XIV, 19; I Re VIII, 30, 34, 50; Salmi XXV, 11, 18; XXXII, 5; LI, 2; LXXIX, 9; LXXXVI, 3-5; CXXX, Amos VII,2; Daniele IX, 19).

La connessione tra i due concetti s'incontra in Ben Sira XXVIII, 2:
Perdona il torto che ti ha fatto il vicino
E quando pregherai i peccati saranno perdonati.
Sifré sul Deuter. XIII, 18: "Ogni volta che avrai misericordia delle altre creature, dal cielo avranno misericordia di te".
Si può ricordare anche Luca VI, 36: "Siate misericordiosi, come ancora il Padre vostro è misericordioso".


Kai mh eisenegkhV hmaV eiV peirasmon, si suol tradurre "non c'indurre in tentazione".

Ma il Cristiano potrebbe domandare: E' Dio o il Diavolo colui che induce in tentazione? Infatti un antico Cristiano, il quale forse non aveva capito il Paternostro, protesta: "Che nessuno dica, quando è tentato: io sono tentato da Dio. Perché Dio non può essere tentato dal male, né può Egli tentare alcun uomo. Ma l'uomo è tentato quando è sedotto dalle sue voglie." (Epistola di Giacomo I, 13-14). Ma altri osserva che "tentazione" è traduzione inesatta di peirasmon. Il Tommaseo traduce: "Non ci recare in cimento".

E il Pernot: "non ci esporre alla prova". Infatti non credo che Gesù alludesse alle tentazioni del bambino che trova la scatola delle caramelle e dell'adulto che trova a portata di mano il denaro della ditta o la moglie del collega. Si tratta di cosa ben più tragica. In tempi di oppressione, di guerriglia, di congiura, coloro che speravano che il regno di Dio sostituisse il dominio romano, erano sempre in pericolo d'essere arrestati, torturati e costretti a rivelare i progetti, a denunciare i camerati, ecc.. Perciò era naturale il timore d'essere esposti alla prova.

Citerei il detto attribuito a Gesù da Origene (In Jerem. hom. lat. XX, 3): "Chi è vicino a me è vicino al fuoco. Chi è lontano da me, è lontano dal regno."
Marcione, la Vetus Latina, S. Cipriano e S. Agostino emendano e traducono: "Non permettere che siamo indotti in tentazione". E il padre Tonna - Barthet: "non ci lasciar soccombere alla tentazione". Ma così si discostano dal testo.

continua.........


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