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I Domenica di Avvento: Rito Ambrosiano

Ultimo Aggiornamento: 22/11/2008 18:03
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16/11/2008 23:13

Tempo e fine
 
Commento al Vangelo di domenica 16 novembre
I Domenica di Avvento
(Is 24,16b-23; 1Cor 15,22-28; Mc 13,1-27)
di Giuseppe GRAMPA
parroco di San Giovanni in Laterano

Con questa domenica inizia un nuovo anno secondo il calendario della Chiesa. Ci sono, infatti diversi calendari, cioè diversi modi di calcolare il tempo . Il calendario agricolo scandito dall’avvicendarsi delle stagioni, il calendario lunare scandito dalle diverse fasi lunari, il calendario scolastico che prevede tempi di lezioni e di vacanze, il calendario sportivo e calcistico in particolare… così come le diverse tradizioni religiose conoscono calendari diversi. E così impariamo che l’anno che si conclude per noi il 2008, per i Buddisti è il 2568, per gli Ebrei il 5768-9, per gli islamici il 1429, per gli Induisti il 2063-4.

Come noi cristiani segniamo il tempo a partire dall’evento decisivo della nascita nel tempo del figlio di Dio, così le altre tradizioni religiose segnano il tempo a partire da eventi decisivi per la loro storia religiosa. La Chiesa non rinuncia ad avere un suo calendario perché ha una sua nozione del tempo come itinerario verso il mistero di Cristo: di domenica in domenica rivivendo le tappe della vita del Signore Gesù la Chiesa ci educa ad assumere gli stili di vita propri di Cristo, ad essere a lui sempre più somiglianti.

Prima e terza lettura di questa domenica annunciano, a tinte fosche, la fine del tempo. «A pezzi andrà la terra, in frantumi si ridurrà la terra, crollando crollerà la terra… barcollerà la terra come un ubriaco, vacillerà come una tenda… arrossirà la luna e impallidirà il sole»… proprio gli orologi astronomici che stabiliscono la scansione del tempo, verranno meno. Verranno meno anche le opere dell’uomo, a cominciare dalla più grandiosa, il tempio di Gerusalemme: “Non rimarrà pietra su pietra che non sia distrutta”. Questo linguaggio esprime una dura verità: noi abitiamo il tempo, lo calcoliamo, tentiamo di dominarlo, lo sfruttiamo al meglio ma non ne siamo davvero i padroni, ne siamo solo inquilini, provvisori.

Proprio a partire da questi testi terrificanti della fine del mondo i predicatori del passato scuotevano i loro ascoltatori con accenti quasi terroristici. Si racconta che il padre Matteo da Bascio, predicatore capuccino, dal pulpito declamava un poema, efficace descrizione dei peccati, intercalato dal ritornello: «All’inferno peccatori, scellerati al grande inferno. Che il ben fare avete a scherno ostinati negli errori. Scellerati al grande inferno».

Un linguaggio questo che oggi fa sorridere piuttosto che incutere paura, in ogni caso un linguaggio improponibile. Eppure non possiamo sbarazzarci, magari con un gesto di sufficienza, di questo tema certamente arduo ma decisivo. Dobbiamo invece lasciarci istruire dall’appello a vivere la precarietà del tempo, l’attesa del Signore e il suo giudizio al quale non potremo sfuggire. Ma non è in uno spirito di paura, di angoscia, bensì di serietà e responsabilità che dobbiamo meditare il tema della vigilante attesa del Signore.

Fin dalle prime pagine della Bibbia Dio affida all’uomo la terra perchè la coltivi e la custodisca. Siamo noi i custodi e gli operai del creato e se oggi il volto della terra è tanto degradato è nostra responsabilità. Ma Dio affida all’uomo non solo la terra, ma soprattutto l’altro uomo, il suo simile: siamo stati costituiti “custodi” l’uno dell’altro. Non possiamo rispondere come Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?». Sì, Dio ci ha affidato la custodia del creato e soprattutto quella dei nostri simili. E proprio perchè il mondo e ogni uomo è stato affidato alla nostra custodia, grande è la nostra responsabilità. Proprio perchè siamo stati chiamati all’alleanza con Dio, perchè siamo il suo popolo amato e custodito come la pupilla del suo occhio, Dio ci chiederà conto nell’ultimo giorno. E quell’ultimo giorno è presentato dai profeti a tinte fosche, terribili: per scuoterci dalla superficialità, dall’irresponsabilità, dalla persuasione di poter agire nell’impunità.

Questa insistenza di Gesù sul tema della fine e dell’attesa vigile del suo ritorno per il giudizio non deve essere da noi sottovalutata. Possiamo dire che la serietà del giudizio è l’altra faccia della serietà dell’amore di Dio per noi, della grandezza dei suoi doni. Proprio perchè Dio ci ha dato tutto è esigente con noi, i suoi doni devono destare in noi il senso della responsabilità. Dio e i suoi doni sono il bene supremo per noi: qui si gioca la partita decisiva. Il valore della nostra esistenza dipende appunto dalla risposta che sapremo dare.

Dobbiamo riconoscere che questi testi certamente duri e inquietanti della fine e dell’attesa del ritorno del Signore sono fatte per scuoterci, per sottrarci alla superficialità, per darci il senso del nostro impegno di corrispondenza ai doni di Dio. Ha scritto Pascal: «Gesù sarà… in agonia fino alla fine del mondo. Durante questo tempo non bisogna dormire».


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