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VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 21:54
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25/11/2008 13:59

   II.      L’INIZIO DEI SEGNI A CANA  (2,1- 4,54)

Fino a questo momento i discepoli si sono limitati a ripetere la testimonianza del Battista, secondo la quale Gesù è il Messia. Nell’episodio che segue troviamo in compimento della profezia fatta a Natanaele  di qualcosa di più grande della messianicità di cui essi saranno testimoni: “Vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv. 1,51). Con l’inzio dei “segni”, i discepoli saranno testimoni di una graduale rivelazione da parte di Gesù, che avrà il suo massimo splendore nell’ “ora” oscura e vivificante della Croce.

1.     Il primo segno: le nozze di Cana (2, 1-12)

Questo racconto, come la maggior parte dei testi di Giovanni, è talmente elaborato che è  difficile individuare l’esatto nucleo storico. Giovanni, a partire da un ricordo autentico, trasfigura a tal punto la storia che  è preferibile più interessarsi alla teologia che vi è sotto anziché alla conoscenza storica dei fatti. Per convincersene, basta mettere in prospettiva le diverse scene.

Introduzione (vv. 1-2). I primi due versetti introducono i personaggi del racconto e i loro rapporti reciproci. Le circostanze (le nozze) sono esposte senza che si parli, come ci si aspetterebbe, degli sposi. La sposa non viene mai nominata e lo sposo interviene soltanto in seguito a una confusione del direttore di mensa.

Anche l’annotazione temporale: “Tre giorni dopo” è simbolica. Nel seguire la cronologia (1,29.35.41.43), dobbiamo intendere qui il terzo giorno (vale a dire “tre giorni dopo”) dopo la chiamata di Filippo e Natanaele.  Ma Giovanni ha deliberatamente elaborato una cronologia simbolica più che storica, in modo tale da creare un “terzo giorno” per evocare la memoria della risurrezione (glorificazione) del Signore nel terzo giorno dopo la sua morte.

Scena Prima: Gesù e sua madre (vv. 3-4). La mancanza di vino, elemento costitutivo di una festa di nozze, è il punto di partenza del racconto. Nelle nozze ebraiche, che duravano una settimana, bisognava prevedere una quantità sufficiente di bevande. Nulla viene detto sul motivo della mancanza di vino e anche il dialogo tra Gesù e Maria è oscuro. La risposta di Gesù (letteralmente egli dice: “Che cosa c’è tra me e te?”) nel contesto dell’AT significa sempre un malinteso: cioè il rifiuto di una persona a intervenire negli affari di un'altra. Tra i commentatori che mitigano la severità delle parole di Gesù è Giovanni Crisostomo, che  vede nella risposta di Gesù un voler mettere le distanze: sua madre è invitata a superare la sua maternità carnale per nascere come discepola.

Ma l’espressione: “Non è ancora venuta la mia ora” va vista nell’ottica dei “segni”, che spiegheremo più avanti. L’ “ora” della glorificazione di Gesù,  è quella della sua crocifissione, morte e risurrezione per mezzo delle quali si attua la salvezza (cfr. 7,30; 8,20; 12,23.27; 13,1; 17,1). Gesù, pertanto, fa di questo primo “segno” un’anticipazione e un annuncio dell’ “ora” che si compirà sulla croce, e sulla croce, Gesù assocerà sua madre e il discepolo che egli amava (Gv 19, 25-27). Ambedue rappresentano così il vero Israele, la comunità che prosegue la presenza e l’azione di Gesù dopo la sua dipartita. A Cana, la madre di Gesù è diventata la prima dei discepoli.

Scena Seconda: La madre di Gesù e i servi (vv. 5-6). La parola della madre di Gesù ai servi attesta che Maria ha compiuto quel superamento al quale la invitava Gesù. La frase: “Fate quello che vi dirà” manifesta l’adesione incondizionata; la madre carnale diventa così la prima dei discepoli.

Scena Terza: Gesù e i servi (vv. 7-8). Nello schema che abbiamo proposto, questa scena è isolata: è il segno che essa occupa il posto centrale. L’evangelista insiste come se descrivesse al rallentatore le diverse azioni, gli ordini e la loro esecuzione: “Riempite le giare di acqua”. Le riempirono fino all’orlo. Dice loro: “Ora attingete e portatene al direttore di mensa”  Essi ne portarono. E’ il tempo del compimento delle meraviglie: la mancanza di vino[12] che ha dato origine al racconto è colmata, tutto potrebbe così concludersi nella gioia e nella festa.

Scena Quarta: il direttore di mensa e lo sposo (vv. 9-11). Il direttore di mensa e lo sposo corrispondono alla madre di Gesù e a Gesù: il malinteso è al colmo. Il direttore di mensa ignora che qualcuno si è sostituito a lui nelle sue funzioni; ignora anche che lo sposo non è quello che egli crede.

Conclusione. La fine del racconto indica il vale simbolico del segno: “Gesù rivelò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui”.

Dopo questo sguardo generale sul testo, scendiamo ora nei particolari, per comprendere la ricchezza e la profondità del pensiero di Giovanni.

Innanzitutto Giovanni più che di  “miracolo” preferisce parlare di “segno”.

Sfogliando il quarto vangelo non troveremo mai la parola miracolo, anche se l’evangelista racconta ben sette straordinari miracoli di Gesù. Eppure egli dà loro un nome diverso: per lui sono dei segni”. Dopo il primo: il cambiamento dell’acqua in vino, l’evangelista dice al lettore: “Gesù diede inizio ai suoi segni a Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (2,11). E alla fine riassume così il suo libro: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (20, 30-31).

Che cos’è un segno? Un segno che sia autentico rimanda a un significato. Se vedo uno sgorbio su un foglio bianco, allora penso a un bambino. Se invece vedo una parola scritta, allora penso a una persona adulta, il segno quindi rimanda a una realtà al di là di sé. Ci può essere un segno convenzionale e allora è solo un simbolo, come la bandiera italiana, che rimanda all’Italia. Ma ci può essere anche un segno reale come un fumo che si innalza da qualcosa che brucia, rimanda alla realtà del fuoco. Quindi un segno reale è un fatto concreto (il fumo si vede) che rimanda a una realtà non immediatamente visibile (il fuoco che sta sotto il fumo). Tale è il miracolo come “segno” nel vangelo di Giovanni. Il “segno” non è semplicemente una guarigione miracolosa di una parte del corpo, come quella di un qualsiasi taumaturgo (Padre Pio, o S. Antonio, chiamato “santo dei miracoli”), ma è un fatto straordinario che non riguarda solo la guarigione fisica, ma soprattutto ciò che in essa si rivela, e Giovanni scorge nel miracolo, o “segno” la rivelazione dell’identità della persona di Gesù.

Facciamo qualche esempio: nel primo segno, alle nozze di Cana, Gesù rivela la sua identità “ sposo”; nel secondo di “colui che dona la vita”; nel terzo“Gesùè uguale a Dio”; nel quarto e quinto segno è Colui che“dona la vita eterna”; ecc…

Questa identità della rivelazione di Gesù, però, è sempre in relazione alla salvezza totale dell’uomo: a Cana, per esempio Gesù è presentato come colui che offre il vino ultimo e migliore, per la salvezza non solo d’Israele, ma di tutti gli uomini. Così negli altri segni: Gesù è luce, vita, per tutti noi. I “segni” perciò sono sfaccettature diverse del significato salvifico che ha per noi la persona di Gesù.

Tornando all’immagine del “segno reale” del fumo e del fuoco, possiamo concludere che il fumoè ciò che noi vediamo esternamente (la guarigione fisica),  e il fuoco è la realtà nascosta dal fumo (la rivelazione della persona di Gesù per noi), che poi è la parte più vera del “segno”: il fumo, infatti, esiste perché c’è il fuoco.

Passiamo ora brevemente in rassegna i sette segni che rimandano all’ultimo e definitivo segno, il più grande che Cristo ci ha lasciati: la sua morte e risurrezione.

Il primo segno, il cambiamento dell’acqua in vino alle nozze di Cana, viene qualificato come “l’inizio dei segni”. Il suo significato è svelato da Giovanni Battista in 3,29: “Chi possiede la sposa è lo sposo (Cristo); ma l’amico dello sposo (Giovanni), che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta”: Gesù si rivela perciò come lo sposo nascosto alle nozze di Cana, dietro al segno operato per gli sposi.

Nella scena che segue alle nozze di Cana, la cacciata dei venditori dal tempio (2, 13-22), Gesù parla del segno ultimo e definitivo: “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere” (2, 18-19). L’evangelista spiega che egli parlava del suo corpo, che sarebbe stato distrutto da loro e che lui avrebbe fatto risorgere dopo tre giorni (2, 21-22). La sua morte-risurrezione è perciò l’ottavo segno, l’ultimo, che rivela Gesù come il Signore glorificato, che dona lo Spirito.

Nel secondo segno che Gesù compie (4, 46-54), la guarigione del figlio del funzionario regio: “Và tuo figlio vive”, Gesù si rivela come colui che dona la vita.

Il terzo segno, la guarigione di un paralitico durante una festa, di sabato (5, 1-9), nel dialogo che segue, il “segno” della guarigione svela che Gesù opera di sabato come il Padre: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5,17). I Giudei vogliono ucciderlo, perché capiscono che pretende mettersi sul piano stesso di Dio (5,18).

Nel dialogo successivo al quarto e quinto segno: la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque (6, 1-12), il segno viene interpretato come la rivelazione di Gesù “pane di vita disceso dal cielo”, che sostituisce la manna che Dio diede a Israele nel deserto. Solo il pane dal cielo, che è Gesù e che dà Gesù (nell’eucarestia) è capace di donare la vita che non muore.

Nel sesto segno: la guarigione del cieco nato (9, 1-41) Gesù rivela di essere la “luce del mondo”: “Io sono la luce del mondo, chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12).

Il settimo, infine, è il più esplicito: la risurrezione di Lazzaro quattro giorni dopo la sua morte prelude alla morte-risurrezione di Gesù (11, 17-44). E’ Gesù stesso che ne anticipa il significato nel dialogo con Marta: “Io sono la risurrezione e la vita, chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” (11, 25-26).

I sette segni più uno, l’ottavo e definitivo, delineano progressivamente i tratti della persona di Gesù in relazione all’uomo e alla salvezza che gli offre, significata con l’espressione sintetica “vita eterna”. Questi segni dunque hanno due funzioni ben precise, la prima l’abbiamo già messa in luce: ognuno dei segni rivela un tratto singolare della persona di Gesù. La seconda funzione è di testimonianza o prova di quanto viene rivelato da Gesù. Basti un testo per confermarlo: le parole con cui il cieco nato guarito confuta i sapienti membri del sinedrio: “Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla” (Gv. 9,33).

Oltre ai “segni”  Giovanni parla anche di opere di Gesù. Anche qui, le opere comprendono certamente i suoi miracoli, ma non si limitano a quelli. Queste opere sono tutto il suo ministero pubblico e includono anche le sue parole (14,10). “Parole” e “opere” erano strettamente unite e perfino identificate nel pensiero antico.

In Gv 15,3 Gesù dichiara “puri” i suoi discepoli in virtù della parola che egli ha loro annunciata. In un certo senso, almeno, le parole di Gesù sono l’elemento più importante nei “segni” di Gesù, perché queste parole definiscono le sue opere e le dimostrano come opere di Dio.

Se la fede è accettazione di una Persona quale essa si è rivelata, poiché Gesù si è rivelato in “parole” e “opere”, noi dobbiamo credere sia alle sue “Parole” che ai suoi “segni”. E Gesù promette che le sue parole rimarranno nei suoi discepoli (Gv 15,7), i quali faranno anch’essi le sue opere e faranno perfino opere maggiori.

L’altro termine usato da Giovannu è: la gloria di Dio”.

I “segni” di Gesù sono manifestazioni (segni) della sua gloria (Gv 2,11), e questa gloria è la stessa gloria di Dio (11,40). Nell’AT l’espressione “la gloria di Dio” allude alla manifestazione visibile di Dio, di solito nel fuoco e nel fumo (o in una nube), qualche volta in perturbazioni atmosferiche (Sal 29, 1-9; 97, 1-6), nei cieli stessi come opera della mano di Dio (Sal 19,2) o in qualche speciale forma di teofania. Nel tempio pieno di fumo Isaia (6, 1-5) vide “la gloria del Signore” (cfr. Gv 12,41; Ap 15,8). Nella tradizione del Pentateuco, Mosè incontrò “la gloria del Signore” nella nube e nel fuoco sul Monte Sinai (Es 24, 15-18) e il Signore fece conoscere a Israele la sua presenza per mezzo di una nube che coprì la tenda del convegno e riempì il tabernacolo (Es 40,34). Tenendo presente questo retroterra di idee, possiamo dire che per Giovanni “Gloria” significa la presenza divina manifestata in Gesù.

Per completare il discorso simbolico di Giovanni dobbiamo fare un cenno anche ai “segni sacramentali” e “feste ebraiche.

Un aspetto importante di Gv è la sua dottrina sacramentale. I più significativi tra i “segni” di Gesù sono quelli che pongono in risalto la vita sacramentale della Chiesa: il vino di Cana che sostituisce l’acqua delle abluzioni giudaiche (2, 1-11), l’acqua, sorgente viva, che proviene da Cristo (3, 5-7; 4, 10-14; 7, 37-38), il pane celeste che è la sua carne (6,51), sono tutti riferimenti ai sacramenti che sono efficaci in virtù della sua opera redentrice; essi conferiscono lo Spirito Santo che è la vita della Chiesa (19,34; 1 Gv 5,6.8). Il dono di questo stesso Spirito è la fonte del potere della Chiesa di rimettere i peccati (20,22).

Conseguentemente, Giovanni presta una particolare attenzione al calendario rituale e liturgico del giudaismo – si può affermare che il suo vangelo si impernia sulle principali festività giudaiche – con l’unico intento di mostrare che tutti questi riti sono stati sostituiti nel corpo risuscitato di Cristo, la Chiesa, che ha preso il posto del tempio giudaico (2,20) e nella quale Dio è adorato in spirito e verità (4,23).

Possiamo concludere affermando che il miracolo di Cana è scritto per i credenti che hanno fatto l’esperienza della fede pasquale e cha hanno rotto i ponti con il giudaismo, come traspare dalla costruzione del racconto. L’inizio e la conclusione del racconto situano il lettore in un contesto pasquale: il terzo giorno, qui tradotto “tre giorni dopo” (2,1) che evoca la risurrezione, in cui si è rivelata la gloria (2,11) di Gesù e in cui la fede dei discepoli è diventata totale. L’insieme del racconto descrive in che modo in Gesù si attua il passaggio dal giudaismo al cristianesimo. Il giudaismo, con il quale i primi cristiani hanno rotto i ponti, è qui presentato come un movimento religioso in via di esaurimento. Le sei giare destinate alla purificazione dei giudei sono vuote; i responsabili della festa di nozze sono imprevidenti: il festino messianico è sul punto di restare a secco. Per di più, quando Gesù interviene, dando alle nozze un prolungamento inaspettato e meraviglioso, il direttore di mensa e lo sposo (immagine d’Israele) sono incapaci di accogliere la novità che offre Gesù: il direttore di mensa si accontenta di volgersi verso il passato e di ripetere “quello che si fa di solito”. La quantità e la qualità eccezionale del vino significano che la festa messianica è cominciata e che ormai il vino non mancherà mai più, perché lo sposo sarà sempre presente al banchetto di nozze.

TORNA ALL'INDICE2.     La purificazione del tempio (2, 13-24)

Tutti e quattro i vangeli raccontano il segno del tempio[13], ma tra Giovanni e gli altri tre ci sono importanti differenze. La più importante riguarda la localizzazione nel tempo: all’inizio della vita pubblica per Giovanni, alla fine per i sinottici. Giovanni ha voluto spostare l’avvenimento per sottolineare, fin dall’inizio della vita pubblica di Gesù, la rottura con il giudaismo (corrispondente alla situazione storica della sua Chiesa). Lo conferma il vocabolario utilizzato: è la “Pasqua dei giudei”, questa formula che si ritrova in Gv 6,4 e 11,55 (e in 7,2 per la festa delle Capanne) rivela la distanza, anzi la rottura tra i primi cristiani e la comunità giudaica.

Inoltre Giovanni, a differenza dei sinottici, è il solo che, dopo la cacciata dei mercanti, parla di una domanda di segno da parte dei giudei e della risposta di Gesù riguardo alla distruzione del tempio e alla sua ricostruzione in tre giorni.

L’introduzione del brano (vv. 13-14) precisa il quadro e il luogo. Questa “salita” di Gesù a Gerusalemme è la prima e si svolge mentre “era prossima la Pasqua dei giudei”. La formula è ripresa altre due volte nel vangelo (6,4; 11,55). Queste tre pasque corrispondono a due anni e mezzo di vita pubblica di Gesù. Il mettere in parallelo feste ebraiche con fatti importanti di Gesù lascia intendere che nella sua persona le feste ebraiche assumono un altro significato.

Il gesto profetico di Gesù (vv. 15-16) ha maggiore ampiezza che nel racconto sinottico: fabbricazione della frusta, presenza dei buoi e delle pecore nel tempio. Davanti a una simile profanazione, Gesù protesta alla stregua di quel che avevano fatto prima di lui profeti come Geremia (7,14), Malachia ( 3,1), Isaia (56,7), e dimostra che la purificazione del tempio prevista per gli ultimi tempi è già avviata.

Nel vangelo di Marco, la distruzione del tempio è attribuita a Gesù: “Io distruggerò” (14,28); nel vangelo di Giovanni, la parola è rivolta ai suoi interlocutori: “Distruggete questo tempio”. Gv usa volontariamente il termine, egherò “lo farò risorgere”, indicante la costruzione, ma anche la risurrezione.

Interpretazione (vv. 17-22). Non è facile conoscere lo sfondo storico preciso di questo racconto. Si può pensare a un atto simbolico contro certi abusi nel tempio. La presenza dei cambiavalute era indispensabile per permettere ai pellegrini di ottenere, in cambio delle loro monete recanti le effigi imperiali, denaro non impuro. Così pure la vendita di animali per il sacrificio era una necessità. La critica radicale dei sacrifici potrebbe invece essere stata accentuata dalla comunità di Giovanni, dopo la distruzione del tempio che ha segnato la fine dei sacrifici.

Lo scrittore, però, non si sofferma su tali questioni: il suo interesse è rivolto ad altro, come dimostra inserendo nel racconto alcune note interpretative. Osserviamo:

a) La vicinanza con il miracolo di Cana. Le due scene infatti hanno vari punti in comune. Tutti e due i racconti raccontano un “passaggio”: le giare sono “vuote”; il tempio è “svuotato”. Il legame con la Pasqua è sottolineato nel primo racconto: “Tre giorni dopo…gloria”, e nel secondo: “Era prossima la pasqua”, “in tre giorni lo farò risorgere”; “quando risuscitò dai morti”.

b) I commenti dell’evangelista. Lo scrittore, introducendo le proprie riflessioni nel racconto, guida la nostra lettura: “I suoi discepoli si ricordarono….” . I vangeli testimoniano di frequente che il pieno significato delle parole e delle azioni di Gesù fu capito unicamente alla luce della risurrezione e della venuta dello Spirito Santo (cfr. 7,39; 13,19; 14,29; Lc 24,8).

In conclusione, in questo racconto in cui il nuovo tempio (Gesù) prende il posto di quello antico (già scomparso quando veniva scritto il vangelo), Giovanni ha saputo collegare con abilità le Scritture, i fatti di Gesù e la rilettura pasquale.

Sommario storico (2, 23-25)

Giovanni parla ben poco dell’attività di Gesù in Galilea. Questo sommario, tuttavia, si accorda con la tradizione sinottica nell’affermare che la fase di Cafarnao del ministero di Gesù fu breve (Mc, 1,14; 2,1).

Questi versetti costituiscono un’abile passaggio tra le scene di Cana e del tempio e l’episodio di Nicodemo. Possiamo vedere in essi una conclusione consapevole alla rottura solenne con il giudaismo presentata nel racconto di Cana e nel gesto profetico della cacciata del tempio. Nello stesso tempo questa constatazione di fallimento prepara l’incontro con una personalità rappresentativa del giudaismo: Nicodemo, malgrado il suo atto di buona volontà, appare incapace di seguire Gesù nelle sue esigenze. Questa dubbiosità si colloca tra il rifiuto sistematico da parte del giudaismo ufficiale e la fede dei discepoli. Giovanni non precisa la natura dei segni compiuti a Gerusalemme (cfr. anche 4,45).

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