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VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 21:54
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25/11/2008 14:07

1)     L’ultima Cena e la lavanda dei piedi (13, 1-38)

Con il capitolo 13 si apre la seconda parte del vangelo di Giovanni, il cosiddetto “Libro della gloria e dell’ora”, la rivelazione che Gesù riserva ai discepoli è l’evento decisivo della morte e della glorificazione in croce. Stupenda è la nota iniziale, che pone questa vicenda conclusiva della vita terrena di Gesù all’insegna dell’amore. La lavanda dei piedi, all’interno del cenacolo, è la rappresentazione simbolica di questo amore. Gesù ama “fino alla fine”: questo significa nello stesso tempo fino alla morte e fino all’estremo dell’amore. A partire dal capitolo 13 il Cristo riserva il suo amore “ai suoi” (cfr. anche 13, 34-35; 15,12.17). Non è una restrizione apportata all’amore senza limiti del Gesù dei sinottici, ma è l’indicazione di un amore specifico che ci deve essere tra i credenti, amore radicato in quello del Figlio per il Padre.

L’introduzione solenne, quindi, prepara il lettore a leggere la lavanda dei piedi non come un semplice gesto di ospitalità[40], ma come un gesto simbolico dell’amore spinto fino alla morte. L’atto in sé era, infatti, di estrema umiliazione ed era proibito imporlo al servo ebreo; Gesù, invece, lo compie liberamente nei confronti dei suoi discepoli. Il rituale della Pasqua ebraica, infatti, non prevedeva nulla di simile.

La reazione di Pietro mira a sottolineare l’assurdità di quanto sta succedendo: il capovolgimento dei ruoli del padrone e dello schiavo, per lui Gesù non deve umiliarsi fino a quel punto. Questo mistero sarà veramente comprensibile ai discepoli soltanto più tardi, dopo la risurrezione e il dono dello Spirito (2,22; 3, 37-39; 12,16; 14,26).

Pietro dà immediatamente un’altra prova di non aver ancora capito nulla di quando sta succedendo, e Gesù: “Se non ti laverò non avrai parte con me”. Il gesto è un simbolo di tutto il ministero di Gesù che Pietro deve accettare come espressione della volontà di Dio, così come Cristo stesso ha fatto. Se Gesù insiste nel volergli lavare i piedi perché quella è la condizione per essere perennemente unito a lui. La replica di Pietro: “Non solo i piedi ma anche le mani e il capo”, è lodevole perché vuole che la comunione col Maestro sia completa, ma la risposta è del tutto superflua. La lavanda dei piedi, dopo tutto, è semplicemente un simbolo, non è  che i discepoli abbiano bisogno di lavare questa o quella parte del corpo. Essi infatti hanno già tutto quanto occorre  per essere in unione con Cristo. La lezione generale è, però, molto chiara: anche i seguaci di Gesù dovranno seguirlo sulla via della generosità assoluta nel donarsi, simbolicamente espressa nella lavanda dei piedi: “Vi ho dato, infatti, l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (v. 15).

Come Pietro, Giuda si oppone a Gesù (v. 18), ma lo fa in maniera radicale in una specie di predestinazione tragica. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, manifestando così il rifiuto di accompagnarlo nella morte. Giuda, adempiendo la Scrittura (Salmo 41,10), leva il suo calcagno contro di lui, vale a dire prende diventa complice nella morte di Cristo. Ma la citazione del Salmo indica anche che, ciò che sta per accadere, si situa all’interno del progetto di Dio che ha come meta la rivelazione della divinità di Cristo anche nell’umiliazione della croce.

Il “turbamento” di Gesù (v. 21) è legato al tradimento e al potere del demonio che esso rivela. “Giuda” e il “discepolo che Gesù amava” esprimono due atteggiamenti di accoglienza opposti di Gesù: il primo lo tradisce senza pentimenti; il secondo lo accompagna nella sua morte, senza alcuna restrizione: è l’immagine del vero discepolo (19,16). Pietro, tra i due, tradisce ma si pente.

Appena uscito Giuda, ha inizio il lungo discorso di Gesù (13,31) che si estenderà fino alla fine del capitolo 17. In questo lungo discorso Gesù parla ai discepoli come se fosse già stato glorificato, perché la successione degli eventi (passione e morte) connessi con la sua glorificazione, hanno ormai avuto inizio.

La glorificazione del Figlio è in pari tempo la glorificazione del Padre: l’una si attua nell’altra. Tale glorificazione sarà realizzata immediatamente con la morte e risurrezione di Cristo, ma avrà la sua pienezza alla Parusìa, alla fine dei tempi.

La separazione di Gesù dai discepoli è solo temporanea, perché essi lo avranno sempre in mezzo a loro, se vivono il comandamento nuovo. Il comandamento di Gesù è nuovo in quanto viene esteso a tutti gli uomini senza alcuna distinzione. L’amore di Cristo non è soltanto il modello ma anche la motivazione e la causa dell’amore cristiano: “Amatevi come io ho amato voi”. Di qui l’importanza dell’amore fraterno come segno distintivo della vera Chiesa “in attesa del Cristo”.

La partenza di Gesù comporta sia la sua morte che il suo ritorno presso il Padre. Sarà il destino di Pietro e degli altri discepoli il condividere entrambe queste esperienze (“Più tardi mi seguirai”).

TORNA ALL'INDICE2)    Gesù “Via Verità e Vita” (14, 1-31)

Continua in questo capitolo il primo discorso di Gesù durante l’ultima cena (Gv 13,36-14,31). Questo discorso al pari del successivo (cc. 15-16), non si muove secondo un rigoroso senso filologico, ma presenta una costante atmosfera di commiato da parte di Gesù riguardo agli apostoli, e forti esortazioni alla fede e all’amore.

- Gli apostoli sono in uno stato di profondo turbamento (14, 1-14) per le tre predizioni che Gesù ha fatto poco prima relativamente al tradimento di Giuda (13,21), alla sua dipartita da questo mondo (13,33) e al rinnegamento di Pietro (13,38). Gesù li esorta a superare tale momento difficile invitandoli a credere in lui in modo rinnovato e più profondo: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me” (versetto 1). In questa esortazione a continuare a credere (il verbo “credere” è al tempo presente!), è notevole il fatto che la fede in Gesù (“in me”) venga messa sullo stesso piano della fede “in Dio”; questo parallelismo si ripresenta poco dopo con il verbo “conoscere” (“Se conoscete me, conoscerete anche il Padre” (v. 7) e con il verbo “vedere” (“Chi ha visto me ha visto il Padre” (v. 9). Si tratta quindi di un’unica fede, che ha per oggetto sia il Padre che il Figlio: “Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato” (12,42; cfr. 1 Gv 2,23). La ragione profonda di questo sta nel fatto che il Figlio possiede la stessa natura divina del Padre, come viene detto più avanti (vv. 9-11: “… Io sono nel Padre e il Padre è in me…). Per questo motivo anche la preghiera viene rivolta sia al Padre (cc. 15-16) che al Figlio (14,14).

Gli apostoli, mediante l’esercizio della fede, devono affidare la loro esistenza concreta, specialmente il turbamento di quel momento, al Padre e al Figlio; questo affidamento donerà loro una nuova luce, che li aiuterà a comprendere come la dipartita del Maestro sarà seguita da una sua presenza ancor più vitale.

- L’amore di Gesù e i suoi effetti (Gv. 14, 15-31)

Ora il discorso si sposta sul dono dello Spirito Santo. Per consolare i discepoli, rattristati per la sua dipartita ormai imminente, Gesù fa queste promesse che realizzerà con la sua morte e risurrezione: lo Spirito Santo verrà ad abitare per sempre nei discepoli (vv. 15-17), lui stesso ritornerà da loro (vv. 19-21). E ancora lui e il Padre verranno in chi ama Gesù e prenderanno dimora presso di lui (v. 23). Il brano è dunque impostato in forma trinitaria, in modo tale da non separare le tre persone divine, per cui lo Spirito Santo è dato dal Padre su richiesta del Figlio, e, al pari dello Spirito Santo (v. 17), anche il Padre e il Figlio verranno ad abitare nel credente (vv. 21.23).

- “Il Paraclito[41] sarà in voi”

Il brano inizia precisando in che cosa consista il vero amore dei discepoli nei riguardi di Gesù: “Se mi amate, osserverete i miei comandamenti” (v. 15). Il comando dell’amore si unisce armoniosamente anche alle altre due promesse: “Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama” (v. 21), e Gesù si manifesterà a lui: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (v. 23), il Padre e il Figlio prenderanno dimora presso di lui”. Infine, il v. 24 ripete in forma negativa i concetti precedenti: “Chi non mi ama, non osserva le mie parole”.

Sono doverosi alcuni rilievi. Si tratta innanzitutto di un amore di risposta a quello di Gesù stesso, che da sempre ha amato i discepoli di amore infinito: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13,1). Va anche ricordato che Dio è amore e sorgente dell’amore: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” (1 Gv 4,10; cfr. 4,8.16). Ne segue che l’amore dei discepoli verso Gesù è solo amore di risposta. Inoltre, si tratta di un amore non sentimentale, ma concreto, fondato sull’accoglienza della parola di Gesù e sulla pratica della sua volontà. La pratica dell’amore fraterno – richiamata vigorosamente nei discorsi dell’ultima cena (13, 34-35; 15, 12-14) -  è il segno manifesto che il credente ama davvero il Figlio e il Padre: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (15,12), e “chi ama Dio, ami anche il suo fratello” ( 1 Gv 4,21). Infine, è proprio questo amore concreto e operoso per Cristo che apre all’uomo la vita della comunione trinitaria.

Affermato il precetto dell’amore, Gesù promette: “Il Padre vi darà un altro Paraclito” (v. 16). Solo Giovanni usa questo termine forense “difensore” per indicare sia lo Spirito Santo (14,16.26; 15,26; 16,7) sia Gesù stesso (“Abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto” 1 Gv 2,1). Quindi, il Paràclito è, al pari di Gesù (“un altro Consolatore”) persona divina. Viene chiamato anche “lo Spirito di verità (v. 17; 15,26; 16,13) e “Spirito Santo” (15,26).

L’opera del Paraclito, secondo i discorsi dell’ultima cena, è molteplice.

- Nei riguardi di Gesù: gli rende testimonianza dinanzi ai discepoli (15, 26-27) e lo glorifica (16,14).

- Nei riguardi dei discepoli: rimane in loro (v. 17), è loro maestro (14,26) e guida (16,13), in quanto li introduce alla piena comprensione dell’insegnamento di Cristo e li rende testimoni (15,27).

- Nei riguardi del “mondo”, considerato qui come ostile alla verità e all’amore è critico: un mondo del genere non può conoscere lo Spirito di verità (v. 17), lo Spirito denuncerà le colpe del mondo (16, 8-11).

Ci sono inoltre affermazioni fondamentali riguardanti l’ “inabitazione” dello Spirito. Il Padre darà ai discepoli il Paraclito “perché rimanga con voi sempre” (v. 16), e Gesù dice che lo Spirito di verità “dimora presso di voi e sarà in voi” (v. 17). Se si bada attentamente a queste affermazioni si possono individuare due fasi della presenza dello Spirito sui discepoli.

- La prima riguarda il periodo della vita terrena di Gesù: per il fatto che lo Spirito “scese e rimase” (1,34) su di lui, ne consegue che grazie alla presenza di Cristo in mezzo agli apostoli, anche lo Spirito “dimora presso di voi”.

- A questa fase ne succede un’altra che incomincia con la risurrezione, quando lo Spirito sarà “in voi” e “per sempre”. Quindi alla fase della “vicinanza” succede quella dell’ “inabitazione”, che prosegue per tutto il tempo della Chiesa (“per sempre”): questa fase è anche la nostra.

-  “Ritornerò da voi”.

Accenniamo alle altre due “immanenze” – quella del Figlio e quella del Padre – nei credenti. La glorificazione di Gesù non solo comporterà il dono dello Spirito (7,39), ma anche la presenza del Risorto nell’intimo dei discepoli: “In quel giorno – nel periodo escatologico che inizia con la Risurrezione di Gesù e termina con la sua parusìa – voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi” (v. 20). Si tratta non soltanto delle apparizioni pasquali (“voi mi vedrete” v. 19), ma anche della luce della fede che fa conoscere le relazioni che intercorrono tra il Maestro e i discepoli (“voi in me e io in voi”), relazioni analoghe a quelle che esistono tra Figlio e Padre (“io sono nel Padre”). Gesù non ci lascia orfani perché dimora in noi.

-  “Prenderemo dimora presso di lui”.

Gesù afferma: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (v. 23).

Si conclude così la serie: lo Spirito Santo, Figlio e Padre vengono ad abitare negli apostoli e nei cristiani di ogni tempo, e questi possiedono già ora un anticipo della presenza beatificante del cielo.

Ci chiediamo: una dottrina così sublime, quale è quella dell’inabitazione della Trinità nel credente, come può essere accolta dall’uomo d’oggi, tanto preso dalle cose materiali e immediate? E’ questo uno dei casi nel quale dobbiamo fare affidamento sull’efficacia della parola di Dio e sull’aiuto della grazia. L’evangelista Giovanni e l’apostolo Paolo hanno proposto una dottrina del genere non solo ai giudei, ma anche ai pagani, che l’hanno accolta. Suor Elisabetta della Trinità (1880-1906) ha fatto di questa dottrina il fulcro della sua santità: “Ho trovato il cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nella mia anima…i tre che abitano in me… mio Dio Trinità che adoro”. Forse l’uomo moderno aspetta, più che mai, che gli venga indicata questa sorgente purissima della rivelazione del Nuovo Testamento.

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