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VANGELO DI GIOVANNI

Ultimo Aggiornamento: 25/11/2008 21:54
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3)    La vera vite e i tralci (15, 1-27)


L’ultima frase del capitolo precedente: “Alzatevi, andiamo via di qui” sembrava concludere il discorso che Gesù stava rivolgendo ai discepoli nel cenacolo. Invece inizia con questo capitolo 15 il “secondo discorso di addio”.

Attraverso un’immagine molto nota all’AT , quella della vite-vigna (Isaia 5, 1-7; 27, 2-6; Ezechiele 15, 1-8; 17, 5-10; Salmo 80, 9- 17), che ora Gesù applica a se stesso, (mentre nelle pagine bibliche era attribuita all’intero Israele), si delinea il rapporto di comunione che deve intercorrere tra Gesù e i discepoli.

L’immagine usata da Gesù è un’allegoria (significato diverso da quello letterale). I tralci della vite sono i discepoli di Gesù (v. 5), se non portano frutto il Padre li taglia, d’altra parte è soltanto in virtù del suo potere che essi possono produrre frutti. Nel paragone di chi non “rimane in Gesù” con i “tralci gettati nel fuoco e bruciati” non bisogna vedere una descrizione dell’inferno e dei suoi castighi. Anche se la prospettiva è minacciosa (un dualismo irriducibile tra i discepoli fedeli e quelli che si sono separati da Gesù), tuttavia bisogna inquadrare questi passi nelle correnti spesso dualistiche di certe comunità cristiane primitive che dovettero fronteggiare delle crisi interne. Anche oggi il lettore deve essere consapevole delle conseguenze inevitabili che le scelte comportano. Il richiamo alla conversione rimane sempre presente nella proposta dal vangelo.

Portare frutto significa dunque, per Giovanni, essere discepolo, ossia aderire a Gesù nella fede e nell’amore, in un atteggiamento di conversione permanente. Questa dimensione cristologia la troviamo nei versetti successivi: “Senza di me non potete far nulla” (vv. 5-6). Per il credente moderno, sollecitato da tante proposte, la Parola di Gesù deve essere un’àncora di salvezza di cui non bisogna disfarsi. La comunione di vita infatti è la condizione per produrre frutti, per piacere a Dio (v. 8).

La seconda parte del discorso (15, 9-17) si rivolge solamente ai discepoli che hanno fatto la buona scelta. Per dodici volte risuonano le parole “amore-amare-amici”.  Qui le immagini allegoriche sono spigate parola per parola. “Portare frutto” equivale ad “amare”. Nel momento in cui Gesù ama fino alla fine (13,1), invita i suoi discepoli a innestarsi sullo stesso amore. La reciprocità, che è la legge dell’amore, è il fulcro di questo passo: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi . “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri”. In questo caso, la restituzione e il contraccambio del dono, legge di ogni amore, si rivolge sempre verso un destinatario diverso da quello che è stato all’origine del dono: l’amore del Padre è destinato al Figlio – l’amore del Figlio è destinato ai discepoli – l’amore dei discepoli è destinato a tutti gli uomini.

Il “come” ripetuto due volte non è un semplice paragone, ma esprime il fondamento della rivelazione: l’amore del Padre si manifesta nell’incarnazione e nella morte di Gesù (3,16) .

In questa seconda parte del discorso la minaccia del castigo non ha più ragione di essere; gli avversari sono scomparsi lasciando il posto soltanto agli amici. E qui Gesù indica il criterio per riconoscere i suoi amici: sono quelli che fanno ciò che egli comanda loro (v. 14), ossia che si amino gli uni gli altri (vv. 15-17).

All’amore che anima i discepoli si contrappone l’odio del mondo (v. 18), cioè di coloro che rifiutano Gesù e che rigettano i suoi amici. La vicenda del Maestro si ripete anche nei discepoli perseguitati e Gesù vede in questa dura e cosciente reazione del mondo l’attuarsi di un annunzio biblico, trovato nel Salmo 69,5: “Mi odiano senza ragione”. Anche oggi accade che i credenti siano perseguitati o presi in giro per la loro fede, ma bisogna saper sfumare questa visione pessimistica del mondo e dei suoi valori, perché la luce e le tenebre coabitano nel cuore di ciascuno di noi.

I discepoli però devono sapere che nelle persecuzioni non saranno soli: il Difensore sarà accanto a loro, lo Spirito di verità che ha dato testimonianza a Gesù (vv. 26-27), la darà anche a loro. Ma anche i discepoli vivendo la vita stessa di Cristo saranno un’interrotta testimonianza delle sua opera. Lo Spirito infatti, inviato dal Padre per mezzo del Figlio sarà “l’anima” della Chiesa.

TORNA ALL'INDICE4)    Promessa dello Spirito Santo (16, 1-33)

Come nei capitoli precedenti anche qui (vv. 1-10) Gesù fa una precisa profezia del futuro per rafforzare la fede dei suoi discepoli. Avvisati in anticipo, essi dovrebbero essere preparati per quello che sarà il destino della Chiesa. E Giovanni, attraverso questo discorso di Gesù, prolunga nel tempo della Chiesa questa persecuzione inerente alla condizione del discepolo. L’evangelista vive in un’epoca in cui i cristiani sono esposti a difficoltà estreme. Sono cacciati fuori dalle sinagoghe, messi a morte, e queste condanne contro di loro sono pronunciate da gente convinta di rendere culto a Dio (cioè la persecuzione con cui il mondo - pagano o giudeo - colpirà la Chiesa, avrà una motivazione religiosa). Attraverso questo brano si esprimono probabilmente situazioni concrete che la comunità cristiana di Giovanni vive alla fine del I secolo. Giovanni quindi pone sulle labbra di Gesù questo discorso che rispecchia i suoi tempi di persecuzione.[42]

Ma Gesù per la quarta volta ripropone la presenza del Paraclito-Consolatore come sostegno. E’ lui a vincere la lotta con il mondo difendendo Gesù e accusando gli avversari “quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio” (v. 11).

- Quanto al peccato, lo Spirito metterà in luce, attraverso la testimonianza vitale della Chiesa, che Cristo fu innocente e il mondo è colpevole, e il peccato del mondo è quello dell’incredulità “perché non hanno creduto in me” (3, 19-21; 15, 21-25).

- Quanto alla giustizia, Gesù con la sua glorificazione manifesterà la giustizia. Dio solo è Giusto perché è Dio. E Gesù con la sua risurrezione (segno di quella divinità) mostrerà anche lui la sua giustizia, cioè la sua divinità.

- Quanto al giudizio, il trionfo di Cristo segna la sconfitta definitiva di satana. Una parola, dunque, di speranza per i discepoli, ora oppressi e umiliati.

Gesù (vv. 12-15) ha espresso l’essenziale della sua rivelazione, lo Spirito farà capire ciò che è avvenuto. Lo Spirito farà conoscere le cose future non predicendo l’avvenire o apportando una nuova rivelazione, ma chiarendo il mistero di Gesù. In conclusione, lo Spirito prosegue ciò che Cristo ha fatto: rivelare agli uomini il mistero di Dio. Essendo l’ultima parola di Dio agli uomini, Gesù rimane in parte un enigma per gli uomini, finché lo Spirito non ci apre all’intelligenza profonda del suo mistero.

L’esperienza che i discepoli vivono ora (vv. 16- 24), nel momento del distacco, è di sofferenza, ma non è uno stato definitivo, perché la presenza di Gesù si riproporrà e allora sboccerà la gioia. Per descrivere questo ribaltamento del dolore in felicità, Gesù ricorre all’esempio della madre che partorisce, un’immagine applicata nell’AT all’éra messianica (Isaia 66, 7-9; 26, 17-19; le tribolazioni che precederanno la fine del tempo): alle doglie violente subentra la gioia per la nuova nascita. Alla prova che ora attanaglia il cuore dei discepoli succederà una gioia indistruttibile, legata alla nuova presenza di Gesù dopo la sua glorificazione.

Con la morte e le risurrezione di Gesù (vv. 25- 33), i discepoli entrano nel tempo dell’intimità con Dio grazie allo Spirito (cfr. Ef 2,18). Grazie allo Spirito, ai credenti viene rivelato il senso dell’Incarnazione, che Gesù riassume nel v. 28: venuto da Dio, egli ha stabilito un legame con gli uomini; ritornando a Dio, ristabilisce questo legame con Dio.

Il capitolo termina con l’affermazione della signoria di Gesù. Il v. 33 annuncia le tribolazioni che la Chiesa deve affrontare e la vittoria sicura poiché il Cristo “ha vinto il mondo”. Questa vittoria non è limitata a un momento determinato. Giovanni usa qui il perfetto del verbo greco che indica il permanere di un’azione avvenuta nel passato. Si potrebbe dire così: “Poiché io ho vinto il mondo, sono vincitore del mondo ora e sempre”.

TORNA ALL'INDICE5)    La preghiera sacerdotale (17, 1-26)

Questa preghiera è stata definita “sacerdotale” dalla tradizione[43], perché Gesù sembra intercedere presso il Padre come un grande sacerdote che si offre come vittima in favore di quelli che Dio gli ha affidato, ma anche perché oggetto della sua preghiera sono i discepoli “consacrati” dalla sua parola.

Si nota subito (vv. 1-8) in questa preghiera di Gesù il verbo “glorificare”: Gesù va incontro all’ “ora” per eccellenza (cioè alla croce) che conclude la sua vita terrena, non per approdare alla morte, ma per superarla e accedere alla luce della divinità e dell’eternità. Quindi questa “ora” giunge per la “gloria”, e il Figlio ha glorificato il Padre su questa terra facendo conoscere il suo nome agli uomini attraverso le sue parole e le sue azioni. Il Padre, a sua volta, con la risurrezione glorificherà Gesù con il suo ritorno a quella gloria che egli possedeva fin da tutta l’eternità nel suo stato di pre-incarnazione (cfr. 1,1; 6,62; 8,58). Colui che accoglie questa gloria di Dio presente in Gesù crocifisso riceve la vita eterna, vale a dire entra nell’intimità (nella “conoscenza”) del vero Dio e di suo Figlio Gesù Cristo.

Ora la preghiera si rivolge direttamente ai discepoli (vv. 9-19), a coloro cioè che appartengono quale proprietà comune al Padre e al Figlio. Non è che Gesù escluda dalle sue preghiere il mondo che Dio ama (3,16), ma qui egli intende pregare in modo speciale per la sua Chiesa che deve vivere nel mondo senza appartenervi (v. 14). E qui viene precisato il motivo che giustifica questa preghiera: i discepoli avranno un bisogno speciale della protezione divina, adesso che egli sta per lasciarli soli nel mondo. E ciò che i discepoli devono fare nell’occasione della dipartita di Gesù, è essere uniti: l’unità del Padre e del Figlio è il modello e il principio dell’unità dei discepoli, dato che la “realtà divina” che Cristo ha rivelato ai discepoli non è altro che il mistero di comunione della Trinità.

Qui si fa un accenno a Giuda, “figlio della perdizione” vocabolo arcaico che significa “uno destinato alla perdizione”, ma qui il termine si riferisce alla defezione dal discepolato, non necessariamente alla dannazione eterna.

L’ultima parte di questa preghiera (vv. 20-26) si apre sul futuro, sul tempo storico della Chiesa in cammino verso l’unità, cioè su coloro che crederanno in Gesù sulla base dell’annunzio dei primi testimoni. Per questa futura comunità dei credenti Gesù chiede come dono l’unità, cioè quella stessa comunione che lo unisce al Padre. Uniti a lui, essi saranno intimamente uniti al Padre, e uniti anche tra loro nell’amore. Ed è grazie a questo legame d’amore che i credenti saranno destinati a contemplare la gloria di Cristo e a parteciparvi. Questa è la mèta ultima dei fedeli: condividere, oltre la morte, la vita eterna del Padre e del Figlio.

Cristo termina la sua preghiera con un fuggevole sguardo sulla storia dell’alleanza: dopo la rivelazione del Sinai, la gloria di Dio dimorava sopra il tabernacolo in mezzo a Israele (Es 40,34). Durante la sua vita Gesù è stato, secondo Giovanni, la gloria di Dio manifestata agli uomini (1,14). Ora questa gloria abita nella comunità dei credenti (17,22).

IL RACCONTO DELLA PASSIONE (18,1-19,42)

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Lo scopo del vangelo è raggiunto in questa sezione finale, la passione e la morte di Gesù è il punto culminante del libro dell’esaltazione  e la realizzazione di tutto quanto è stato simboleggiato nel libro dei segni. Il racconto della passione occupa la parte principale di questa sezione, come avviene del resto in tutti i vangeli. Tuttavia è il vangelo di Giovanni che non ci fa dimenticare che questo è il racconto di una vittoria, anche se il mondo non lo considera come tale. Conformemente al suo pensiero, qui l’evangelista non fa alcuna menzione dell’agonia nel giardino e non si parla che pochissimo delle umiliazioni subite da Gesù da parte dei giudici. Noi conosciamo tutti questi eventi in base alle informazioni dei sinottici, ma Giovanni si è preoccupato di selezionare quel materiale dove l’occhio della fede riesce a ravvisare solo il Signore della salvezza. La comparsa di Gesù davanti al tribunale di Pilato gli permette di asserire la sua supremazia sul mondo. Se è coronato di spine, lo è in quanto re. Dall’inizio alla fine, pertanto, e non soltanto nei momenti della risurrezione e dell’effusione dello Spirito, questo è un racconto della glorificazione di Cristo.

TORNA ALL'INDICEa)    L’arresto di Gesù (18, 1-11)

Concluso il suo testamento (“Detto questo”) contenuto nei capitoli 13-17, Gesù lascia il cenacolo, attraversa la valle del Cedron e inizia la vicenda drammatica e gloriosa della sua passione. Giovanni, come abbiamo già accennato prima, non dice nulla dell’agonia di Gesù, della sua preghiera, del conforto dell’angelo, ecc. Egli passa immediatamente a parlare dell’arresto di Gesù, e perfino in questo episodio egli ravvisa una chiara manifestazione della sua divinità. Infatti, appena pronunziata la parola “Io sono” (“Sono io”), evocatrice del nome di Dio secondo l’Esodo (3,14), tutti piombano a terra come di fronte a un’apparizione divina. In generale, Giovanni ha cancellato i tratti che potrebbero sminuire la grandezza di Gesù (il bacio di Giuda, presente nei sinottici, è scomparso in Giovanni). Il Cristo appare come Signore pieno di dignità e come padrone degli avvenimenti e degli uomini. Egli si assume la responsabilità di mettere i suoi discepoli al riparo dalla violenza che sta per abbattersi su di lui (18,8). Quello che accade, lungi dall’essere frutto del caso o segno della vittoria degli empi, è compimento delle Scritture.

In questo episodio comune ai quattro vangeli, soltanto Giovanni nomina Pietro e il servo Malco. La disapprovazione immediata di Gesù (sul metodo di Pietro di difendere il Maestro), sottolinea che egli pone il suo combattimento su un piano diverso da quello dei suoi avversari armati: rifiuta la violenza e si sottopone alla volontà del Padre.

Due mondi stanno per affrontarsi: da una parte le tenebre, rappresentate dalle autorità religiose e politiche, coalizzate per condannare a morte Gesù. Dall’altra Gesù, solo (da un punto di vista umano, ma nella fede unito a suo Padre), che assume liberamente la sua missione e già trionfa anticipatamente sui suoi avversari con la sua parola: “Io sono”.

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