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Lettera ai ROMANI ( dal cap. 12 alla fine)

Ultimo Aggiornamento: 26/11/2008 10:50
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26/11/2008 10:38

2) Esortazioni alla ponderatezza e all’amore (12,3-21).

3Per la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato. 4Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione, 5così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri. 6Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fede; 7chi ha un ministero attenda al ministero; chi l’insegnamento, all’insegnamento; 8chi l’esortazione, all’esortazione. Chi dà, lo faccia con semplicità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia.
9La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; 10amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. 12Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, 13solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità.
14Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. 16Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi.
17Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. 18Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. 19Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. 20Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. 21Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.

Il v.2 non era ancora un’indicazione di che cosa sia in concreto il sacrificio vivente richiesto dalla misericordia di Dio, ma ci mostrava in forma negativa e positiva il suo tratto essenziale: distanza critica nei confronti di questo mondo e una costante trasformazione dell’esistenza mediante il rinnovamento del pensiero per comprendere e fare la volontà di Dio.

Ora Paolo procede all’illustrazione di questo enunciato, per non rimanere nella pura teoria.

L’esortazione dell’apostolo mira a sollecitare e a risvegliare incessantemente il pensiero e la vita attiva dei cristiani, indirizzandoli verso il senso vero e proprio dell’esistenza cristiana: quel sacrificio che rende liberi e altruisti.

V. 3 - La grazia di Dio si esprime in parole per mezzo di Paolo. Facendo cadere il discorso sulla grazia che gli è stata concessa da Dio, Paolo intende parlare, oltre che del vangelo dell’apostolato, anche della grazia che si è manifestata efficacemente attraverso la sua autorità di apostolo. Paolo possiede uno speciale dono di grazia per edificare le chiese (Barrett). Questa parola della grazia che gli è stata concessa viene comunicata da Paolo a ciascuno nella comunità cristiana di Roma.

Tutti hanno bisogno di lui, sebbene alcuni - ad esempio tra i carismatici - potessero credersi autosufficienti. L’aspirare oltre la misura consentita è un’ambizione sconsiderata, irragionevole e errata. La misura della fede viene dosata individualmente da Dio a ogni singolo credente. Ognuno deve stare dentro i limiti della rispettiva misura personale di fede.

Ciò che qui è detto in un modo alquanto sottinteso, lo capiremo meglio un poco più avanti.

Vv. 4 - 5 - La comunità è paragonata al corpo umano. Solo la fede coordina nell’unità la molteciplità dei membri e dei loro misteri e doni. Paolo chiarirà il suo pensiero nei Vv.6-8. Egli ha presenti i diversi carismi e carismatici e teme che essi si sottraggano alla limitazione imposta dalla fede donata loro da Dio e così distruggano non solo i loro doni, ma anche l’unità del corpo della comunità. Paolo insiste perché ognuno valorizzi il suo carisma, ma anche perché se ne accontenti.

V. 6 - Ognuno ha dei carismi diversi, che variano secondo la grazia che ci è stata data. Essi sono la dimostrazione della grazia di Dio. I detentori valorizzino questi doni dello Spirito, loro concessi, nella giusta misura e nella loro limitazione nei confronti con gli altri. Se ciò avviene, si dimostrerà quel pensiero rinnovato, quell’esistenza trasformata, quella distanza critica dallo spirito mondano, il quale vuole sempre più di quanto gli si dà, e infine la libertà della donazione di sé.

Come primo carisma è nominata la profezia. Essa serve all’insegnamento, all’incoraggiamento, alla consolazione e, come tale, all’edificazione della chiesa (1Cor 14,3ss). Se ne deve controllare l’autenticità, perché c’è anche una falsa profezia (1Cor 12,10). Essa non è propriamente una predizione del futuro, ma un annuncio della volontà di Dio (1Cor 14,24-25). Quindi Paolo vuol dire: se un membro di una comunità ha il dono della profezia, rispetti il limite personale che la fede gli impone. Sia prudente. Solo così il suo carisma è un vero carisma che serve per l’unità della comunità.

Vv. 7 - 8 - Per diakonìa si intende ogni prestazione di servizio alla comunità. Chi possiede questo dono lo metta in pratica e si limiti ad esso; non vada in cerca di altri carismi, che forse sono più apprezzati o più vistosi o di maggior soddisfazione personale. Il dovere di chi ha ricevuto in dono il lavoro diaconale è che questi faccia il suo servizio. Non deve profetare o insegnare o governare, ma servire, e in tal modo egli agisce come la misura di fede donatagli gli consente e gli richiede (Schlatter). Però dobbiamo ricordare che anche l’insegnare o il governare rientrano nella diakonìa. Anche gli insegnanti si occupino del loro carisma e non vogliano per esempio, governare la chiesa. La didaskalìa è l’insegnamento didattico sul patrimonio della tradizione cristiana (H. W. Schmidt). Il medesimo principio della limitazione a un solo carisma vale anche per il parakalòn il quale è probabilmente quello che noi chiamiamo pastore d’anime, ossia colui che incoraggia, consolando e ammonendo.

Mentre finora Paolo ha raccomandato che ciascuno serva Dio entro i limiti delle sue capacità, ora passa a presentare lo stato d’animo con cui si devono compiere queste prestazioni di servizio carismatiche. Chi si prende cura dei poveri lo faccia con semplicità, senza secondi fini. La semplicità è quella libertà interiore che non rende il dare solenne e non rende amaro il ricevere, ma fa del dare e dell’accettare una testimonianza dell’imperscrutabile semplicità di Dio (Barth). Anche l’ufficio di capo è un carisma. Questo incarico deve essere esercitato con sollecitudine, con serietà e diligenza, con abnegazione e non pigramente. Le opere assistenziali e l’ufficio di responsabile non consentono per loro natura, il quieto vivere.

Colui che fa opere di carità di ogni genere, o èleon, agisca con serenità e gioia, non per costrizione o di malavoglia. Paolo si riferisce a Pr 22,8: Dio ama il donatore gioioso. Egli stesso cita la frase in 2Cor 9,7. La gioia di chi dona manifesta che, chi usa misericordia, dà agli altri con riconoscenza ciò che egli stesso ha ricevuto e così, con l’assistenza compassionevole fa capire che cosa sia la misericordia.

Il sacrificio a cui si è esortati dalla misericordia di Dio, secondo Rm 12,3 ss, comporta anzitutto che ogni componente della comunità si mantenga nei limiti della sua dotazione di fede e valorizzi i diversi doni per quel che sono e non li falsifichi con un entusiasmo da esaltato e neppure con modi di sentire inopportuni, mettendo così in pericolo l’unità della comunità.

V. 9 - A partire da questo versetto non si tratta più di servizi carismatici ma di sentimenti e disposizioni comuni a tutti. Al vertice si trova l’agàpe, l’amore sincero, genuino. L’amore non recita, non fa messe in scena, non dà spettacolo. Esso si sposa sempre con la verità.

Nella realizzazione del sacrificio richiesto dalla misericordia di Dio rientra anche la risolutezza nei confronti del male: Aborrite il male.

V. 10 - Paolo sottolinea la reciproca cordialità dell’amore fraterno, che deve regnare nella comunità. Essa è infatti la famiglia di Dio. Per quanto riguarda l’onore, o la deferenza, non basta tributarlo agli altri ma prevenire gli altri, ritenendoli superiori a se stessi (Fil 2,3; 1Ts 5,13).

Il rendere onore non è soltanto una convenzione, ma un precetto.

Anche la cortesia va connessa col disinteresse. In senso più profondo essa è umiltà.

V. 11 - All’indolenza Paolo contrappone l’ardore dello Spirito santo e l’entusiasmo dello zelo per il Signore.

V. 12 - La speranza, che anche nella sofferenza suscita la gioia, si basa nella speranza nell’invisibile e nell’eterno. A questo concorrono anche la pazienza e la preghiera. Per resistere pazientemente nella tribolazione è necessaria la preghiera assidua e costante.

V. 13 - L’amore sincero deve portare a prendersi cura delle necessità di ogni genere dei fratelli cristiani e a praticare l’ospitalità. L’ospitalità era molto apprezzata nel mondo antico perché la possibilità di trovare alloggio in strutture alberghiere era molto limitata e precaria.

Con l’ospitalità si può realizzare il sacrificio voluto dalla misericordia di Dio.

V. 14 - La misericordia di Dio esige che il cristiano preghi per la salvezza del suo nemico e faccia scendere la pace su di lui (Mt 10,13; Mc 6,10) e non - come la sinagoga - invochi su di lui la maledizione.

V. 15 - È un’esortazione tradizionale, il che però non sminuisce affatto la sua importanza. Il Sir 7,34 dice: Non evitare coloro che piangono e con gli afflitti mostrati afflitto. Il gioire e il piangere insieme significa il vivere l’uno per l’altro. È l’abnegazione spinta a un punto tale che l’altro sono io e io sono l’altro, e così vivo la vita dell’altro (Fil 2,17-18).

V. 16 - Si succedono tre esortazioni a sé stanti. La prima mira alla concordia della comunità. Essa consiste nell’avere un medesimo fine e nell’usare gli stessi mezzi per raggiungerlo. Tale concordia si realizza quando si ha un unico modo di sentire in Cristo (Fil 2,5).

I credenti devono evitare la superbia e cercare l’umiltà. E tutto questo esige un rinnovamento del pensiero. Diversamente chi può essere attratto da ciò che è umile, da ciò che è di poco conto o insignificante o piccolo? Senza un rinnovamento nella visuale di fondo della propria vita, chi rinuncia veramente a una qualsiasi rinomanza o a una posizione di rilievo o in genere a una certa superiorità, sia mondana o spirituale o ecclesiastica? Con una nuova ammonizione si pone termine a queste esortazioni: Non vi considerate saggi a vostro giudizio (cfr Pr 3,7).

Questa frase equivale press’a poco a: non curarsi del vangelo predicato da Paolo (del mistero che solo lui conosce) proponendo delle rivelazioni personali spacciandole come vangelo; oppure non curarsi del parere di un altro fratello, ma ostinarsi a seguire la propria opinione, come fa chi rifiuta per principio la tradizione nel puro entusiasmo che presume di sapere già tutto in virtù di una ispirazione privata.

Vv. 17 - 18 - Questo testo fa ricordare Mt 5,38-39 dove Gesù respinge il principio occhio per occhio, dente per dente. L’idea è formulata da Paolo anche in 1Ts 5,15 e da Pietro in 1Pt 3,9. A questo comandamento, espresso in forma negativa, segue un comandamento in forma positiva: Mirate al bene davanti a tutti gli uomini.

La misericordia di Dio invita a conservare la pace non solo con quelli che sono personalmente ben intenzionati, ma con tutti. Spesso i cristiani sono odiati, calunniati, perseguitati e nel nemico non c’è alcuna intenzione di rappacificarsi. La volontà di pace del cristiano dev’essere illuminata, ma non deve credere utopisticamente di poter giungere alla conciliazione in ogni caso. Se non è possibile e se non dipende da lui raggiungere la pace, il cristiano deve sopportare con pazienza e vedere in ciò la volontà di Dio.

V. 19 - Abbiamo ancora un incitamento negativo e uno positivo. Colui al quale fu fatto del male non deve vendicarsi (Lev 19,18), ma lasciar posto al giudizio dell’ira di Dio, che ristabilisce la giustizia. Il NT non ammette alcuna restrizione a questo comandamento. Il sacrificio richiesto è radicale anche in questo caso.

V. 20 - Per la comunità cristiana il nemico è colui che la perseguita o la calunnia. Ma qui può essere anche il nemico personale. Il nemico saziato dall’amore giungerà a pentirsi e diventerà un amico. Quest’ultima esortazione approfondisce ancor più l’amore richiesto dalla misericordia di Dio, radicalizzandolo fino all’amore per il nemico. Il sacrificio richiesto dalla misericordia di Dio è l’amore verso il nemico, che è contemporaneamente impossibile e possibile: impossibile all’uomo carnale, possibile all’uomo spirituale.

V. 21 - Con un’esortazione negativa e positiva espressa all’imperativo il v.21 conclude anzitutto il brano dei Vv.17-21, ma anche l’intera pericope: Vv.3-21. Si tratta di una massima conclusiva di stile sapienziale.

Paolo esorta la comunità di Roma alla resistenza e alla vittoria sul male e le insegna come effettivamente si riporta questa vittoria: contrapponendo al male il bene.

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