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Lettera di Giacomo

Ultimo Aggiornamento: 26/11/2008 11:23
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26/11/2008 11:11

2.2
La preghiera fiduciosa per la sapienza
(1,5-8)

5Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. 6La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; 7e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore 8un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni.

v. 5. Non si può acquistare la sapienza da soli; essa è un dono divino da chiedere nella preghiera. Giacomo assicura la certezza dell’esaudimento della preghiera: Dio dà volentieri e senza vantarsi. Mentre lo stolto dà con sette occhi (Sir 20,14), cioè con tutti i secondi fini possibili, il dare di Dio è senza riserve, senza mire, senza calcoli.

v. 6. Qui viene data una maggiore chiarificazione sulla qualità della preghiera. La semplice richiesta non basta, ma deve essere congiunta alla fede, altrimenti Dio non esaudisce la preghiera per ottenere la sapienza. La fede di cui si parla qui è la fede fiduciale, quella priva di dubbi che è giustificata dalla natura stessa di Dio. Colui che dubita vive in intimo conflitto tra confidenza e sfiducia davanti a Dio, gettato qua e là da ogni sorta di pensieri, invece di gettarsi nelle braccia di Dio con fiducia infantile. Il dubbioso non è colui che ha difficoltà intellettuali, ma chi vive in conflitto con se stesso, chi non ha ancora fatto una scelta decisa per Dio.

v. 7. Il dubbioso non ha alcuna fede reale nell’assoluta disposizione di Dio all’esaudimento della preghiera. Il v. 7 spiega perché la preghiera del dubbioso non è esaudita: il pensare (òisthai) non ha niente a che vedere con la fede fiduciale (pìstis). La fede è incontro reale con Dio e non conoscenza teorica di verità religiose.

v. 8. L’uomo che ha il cuore diviso è il contrario dell’uomo ideale dell’Antico Testamento: Tu devi appartenere tutto, senza divisione, di tutto cuore, a Jahvè tuo Dio (Dt 18,13). L’anima del dubbioso è sdoppiata perché oscilla continuamente tra fiducia e sfiducia.

Il dubbioso non segue la via diritta della fiducia, ma cambia continuamente strada ed è simile ad un’onda marina buttata qua e là dalla tempesta. La risolutezza del cristianesimo rappresentato e postulato da Giacomo appare già nettamente in questa prima esortazione.

2.3
La gloria del povero e del ricco
(1,9-11)

9Il fratello di umili condizioni si rallegri della sua elevazione 10e il ricco della sua umiliazione, perché passerà come fiore d’erba. 11Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l’erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese.

Nei due salmi della povertà, il 49 e il 73, i ricchi vanno di colpo in distruzione e muoiono di spavento, mentre il povero viene strappato dal regno dei morti e rapito in Dio e la sua eredità rimane per sempre presso di Lui (49,16; 73,23-26). Così l’afflizione del povero si trasforma in gioia. Nel v. 9 Giacomo riprende l’invito alla gioia del v. 2 . Là aveva esortato tutti i fratelli alla gioia, qui esorta alla gioia il fratello che è povero.

v. 9. Gloriarsi è di per sé il comportamento normale dei ricchi, ma Giacomo esorta il povero (tapèinos) a gloriarsi. Questo verbo non vuole avere alcun connotato di presunzione, come il desiderio smodato dei ricchi che posseggono soprattutto per apparire e gloriarsi, ma esprime la grande gioia che deve riempire il povero. Il ricco è colui che dispone di potenza e di considerazione davanti a tutti, mentre il povero rappresenta l’uomo da poco, insignificante, che spesso viene oppresso dai ricchi (Gc 2,6). Quando Giacomo esorta il cristiano povero a gloriarsi della sua altezza, intende parlare in senso del tutto religioso. Qui Giacomo riprende, a modo suo, la prima beatitudine del discorso della montagna (Mt 5,3).

v. 10. L’energico imperativo rivolto al ricco perché si glori della sua condizione di umiliazione, non va inteso in senso ironico; è una esortazione seria rivolta ai ricchi della comunità. La successiva considerazione sulla morte del ricco fa pensare all’abbassamento futuro, di cui i ricchi devono gloriarsi già adesso. Questo è certamente uno strano gloriarsi, ma è la conseguenza logica della valutazione escatologica dell’esistenza, che considera con l’occhio della fede le cose ultime. Solo così l’esortazione ai membri ricchi della comunità può accompagnarsi ai duri giudizi che la lettera pronuncerà sui ricchi (2,6-7; 5,1 ss).

La vita del ricco è un rapido fiorire e un rapido disseccarsi e morire.

v. 11. Con i verbi sorse, seccò, cadde, venne meno il narratore riporta qualcosa che ha già osservato più volte nella sua vita. Qui non si parla solo del ricco cristiano, ma del ricco in genere, che è perennemente in viaggio per curare i suoi affari e mira solo al proprio utile. Immancabilmente, un giorno, lo raggiungerà la morte; egli appassirà come un fiore d’erba.

2.4
La beatitudine della perseveranza
(1,12-18)

12Beato l’uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.
13Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. 14Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; 15poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand’è consumato, produce la morte.
16Non andate fuori strada, fratelli miei carissimi; 17ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c’è variazione né ombra di cambiamento. 18Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature.

Dopo aver iniziato la sua lettera con un’esortazione alla gioia (v. 2 ) rivolta ai fratelli travagliati da ogni sorta di prove, e dopo aver incitato a un vanto glorioso anche il povero e il ricco (v. 9), ora Gc conclude con una beatitudine in cui riprende ancora una volta il tema delle tentazioni, ma modellato in forma fortemente escatologica. Il tema delle tentazioni fa però sorgere anche il pensiero della loro provenienza, e ciò induce l’autore a offrire una piccola teodicea (in greco Theòs dìke = giustizia di Dio) nei vv. 13-18.

v. 12. Il grido di salvezza Beato, assieme alla promessa della corona di vita, costituisce un ben riuscito contrasto con l’appassirà immediatamente precedente: caducità-vita eterna! In questo verso Giacomo non pensa a una precisa tentazione, ma a tutte, specialmente a quelle morali, come indicano i versi seguenti. La beatitudine viene motivata in senso escatologico: chi resiste alla tentazione riceverà la corona della vita eterna, che Dio ha promesso a quelli che lo amano. In ultima analisi Giacomo esorta i fratelli cristiani a perseverare perché ne vale la pena.

v. 13. La storia di Abramo e di Giobbe, a cui nella lettera si rimanda esplicitamente (2,21; 5,11) potrebbe far pensare che è Dio stesso la causa delle tentazioni in cui l’uomo incorre. E avendo ognuno sperimentato che l’inclinazione cattiva appare inscindibilmente con la natura dell’uomo, viene spontaneo pensare che il Dio della creazione sia responsabile dei conflitti etici dell’uomo, e che quindi l’uomo è sgravato da ogni responsabilità. Per distogliere da opinioni tanto pericolose Giacomo svolge una breve teodicea che respinge decisamente l’idea di un Dio causa delle tentazioni: Nessuno che venga tentato deve dire: da Dio vengo tentato. Il rifiuto di un’opinione così blasfema è fondato da Giacomo in primo luogo teologicamente, partendo dal concetto di Dio: Dio non è tentato dal male. E di conseguenza neppure tenta alcuno al male. Qui si parla di male come di azioni moralmente cattive, non di prove della fede come quelle superate da Abramo e Giobbe.

v. 14. Giacomo parla della vera provenienza delle tentazioni: ciascuno, senza eccezione, è tentato dalla propria concupiscenza. Le cupidigie scaturiscono dall’intimo di ciascuno (Mt 15,18-20; Mc 7,20-23).

La concupiscenza appare qui quasi come un essere personale al quale l’uomo è strettamente legato, ma non consegnato come impotente. La sua attività nell’uomo si manifesta nella forma di trascinare, attrarre, allettare, adescare. Giacomo presenta la concupiscenza come una specie di meretrice che con il suo fascino adesca l’uomo.

v. 15. Ci viene presentata la genealogia della morte: la concupiscenza genera il peccato, il peccato genera la morte. È una fosca antitesi alla promessa della corona di vita: chi resiste alle tentazioni otterrà la corona della vita eterna, chi accondiscende alla concupiscenza incorrerà nella morte eterna.

Poiché nel v. 14 la concupiscenza appare come una meretrice che alletta e seduce l’uomo, il v. 15 rimane probabilmente nello stesso ordine di idee: la meretrice-concupiscenza concepisce quando l’uomo tentato cede a lei, cioè aderisce a ciò a cui la concupiscenza vuole adescarlo. Dopo aver concepito, la concupiscenza genera il peccato. Donde propriamente derivi la concupiscenza dell’uomo, la lettera non lo dice. Però i vv. 14 e 15 fanno pensare al racconto del peccato originale che si legge in Gen 3.

Il peccato genera la morte solo quando è giunto al compimento, alla maturazione.

Il peccato (gr. = hamartìa) è in un certo senso il feto della concupiscenza. E solo quando il peccato è diventato maturo ed è cresciuto fino alla pienezza della sua natura, genera la morte. I vv. 14 e 15 nella loro inesorabile sequenza, il cui termine ultimo è la morte, certamente mirano anzitutto a scopi parenetici: Resisti alle tentazioni e deciditi per la vita! Forse Giacomo si ispira a Sir 15,17 dove l’uomo è invitato a prendere una decisione: Davanti all’uomo sta la vita e la morte; ciò che egli vuole, gli sarà dato.

v. 16. Il versetto unisce le affermazioni negative su Dio del v. 13 alle seguenti positive. L’esortazione non lasciatevi traviare mette in guardia da un pericoloso accecamento che consiste nel supporre che Dio sia la vera causa delle tentazioni e quindi delle cattive azioni dell’uomo. Chi vive in tale errore e lo difende cerca di sottrarsi alla sua responsabilità davanti a Dio, riversando su di lui la colpa dei propri peccati; dietro una simile opinione ci sarebbe inoltre un falso concetto di Dio. Per questo Giacomo spiega subito che Dio è datore solo di doni buoni.

v. 17. Ogni donazione buona e ogni dono perfetto discende dall’alto; quindi ciò che alla fine reca la morte, come la tentazione, la concupiscenza e il peccato, non può venire da Dio. Dio viene designato come Padre delle luci, evidentemente in riferimento alla creazione delle stelle, come indica la continuazione del versetto.

Giacomo quindi dall’opera del creatore, che è buona (Gen 1,18) deduce la natura del creatore, il quale, come padre della luce, può dare solo doni buoni. Egli respinge quella pericolosa opinione che considera Dio come causa del male.

Dio non può cambiare; infatti in lui non c’è mutazione, né oscuramento per alterazione. Forse con i tre termini: mutazione, oscuramento, alterazione si intende descrivere il corso giornaliero del sole. Mentre il sole nel suo corso causa un mutamento quotidiano tra luce e tenebra, presso il Padre delle luci non è così. Egli rimane inalterato nella sua proprietà di concedere solo doni buoni.

v. 18. Qui Giacomo parla della creazione escatologica, di cui i cristiani sono la primizia. In questo versetto si fa riferimento al battesimo che è una rinascita e una nuova creazione; esso è visto in stretta connessione con la docile accettazione della Parola presentata nella predicazione missionaria. Pertanto la parola della verità significa il vangelo che gli uditori hanno accolto nell’istruzione battesimale e che per essi è diventato forza vivificante e salvifica (cf 1,21).

La nascita divina dell’uomo ha come scopo che i battezzati siano, in certo modo, primizia delle creature del Padre. I cristiani per Giacomo sono l’inizio della nuova creatura e forse egli pensa qui soprattutto ai giudeo-cristiani, che furono proprio i primi membri della nuova comunità del Messia Gesù. Dio ci ha generati nel battesimo, affinché noi fossimo la primizia delle sue creature e non figli della concupiscenza e del peccato che genera alla morte. Così appare anche il collegamento del tema delle tentazioni con l’idea della nascita divina dei battezzati. Le tentazioni, appena si accondiscende alla concupiscenza, conducono l’uomo alla morte; il vincerle conduce invece a quella vita che Dio dona ai battezzati, i quali sono la primizia della nuova creazione. L’elezione ad essere primizia si basa esclusivamente sulla libera chiamata mediante la libera grazia di Dio.

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