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Commenti di Padre Raniero Cantalamessa

Ultimo Aggiornamento: 23/12/2008 18:48
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Il giudizio universale è la risposta alla sete di giustizia

Il giudizio universale è la risposta alla sete di giustizia


Commento di padre Cantalamessa alla liturgia di domenica prossima

 




* * *

 XXXIV Domenica del tempo ordinario, Solennità di Cristo Re

  Ezechiele 34, 11-12.15-17; 1 Corinzi 15, 20-26a.28: Matteo 25, 31-46

  "Saranno riunite davanti a lui tutte le genti" 
 

Il Vangelo dell'ultima domenica dell'anno liturgico, solennità di Cristo Re, ci fa assistere all'atto conclusivo della storia umana: il giudizio universale: "Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra".

Il primo messaggio contenuto in questo vangelo non è il modo o l'esito del giudizio, ma il fatto che ci sarà un giudizio, che il mondo non viene dal caso e non finirà a caso. Esso è iniziato con una parola: "Sia la luce…Facciamo l'uomo" e finirà con una parola: "Venite, benedetti…Andate, maledetti". Al suo inizio e alla sua fine c'è la decisione di una mente intelligente e di una volontà sovrana.

Questo inizio di millennio è caratterizzato da una accesa discussione su evoluzionismo e creazionismo. Ridotta all'essenziale, la disputa oppone quelli che, richiamandosi – non sempre a ragione - a Darwin, credono il mondo sia frutto di una evoluzione cieca, dominata dalla selezione delle specie, e quelli che, pur ammettendo una evoluzione, vedono Dio all'opera nello stesso processo evolutivo.

Giorni fa si è svolta in Vaticano una sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze che aveva per tema: "Vedute scientifiche intorno all'evoluzione dell'universo e della vita", con la partecipazione dei massimi scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, diversi dei quali premi Nobel. Nel programma sul vangelo che conduco su Rai Uno, ho intervistato uno degli scienziati presenti, il Prof. Francis Collins, capo del gruppo di ricerca che ha portato alla scoperta del genoma umano. Gli ho chiesto: "Se l'evoluzione è vera, resta ancora uno spazio per Dio?". Ecco la sua risposta:

"Darwin aveva ragione nel formulare la sua teoria secondo cui discendiamo da un antenato comune e ci sono stati cambiamenti graduali nel corso di lunghi periodi di tempo, ma questo è l'aspetto meccanico di come la vita è arrivata al punto di formare questo fantastico panorama di diversità. Non risponde alla domanda sul perché c'è vita. Vi sono aspetti dell'umanità che non sono facilmente spiegabili, quali il nostro senso morale, la cognizione del bene e del male che a volte ci induce a compiere sacrifici che non sono dettati dalle leggi dell'evoluzione, che ci suggerirebbero di preservare noi stessi a tutti i costi. Questa non è una prova, ma non sta forse ad indicare che Dio esiste?". 

Ho anche chiesto al Prof. Collins se aveva creduto prima in Dio o in Gesù Cristo. Mi ha risposto: "Sino all'età di circa 25 anni ero ateo, non avevo una preparazione religiosa, ero uno scienziato che riduceva quasi tutto ad equazioni e leggi di fisica. Ma come medico ho cominciato a vedere la gente che doveva affrontare il problema della vita e della morte, e questo mi ha fatto pensare che il mio ateismo non era un'idea radicata. Ho cominciato a leggere testi sulle argomentazioni razionali della fede che io non conoscevo. Per prima cosa sono arrivato alla convinzione che l'ateismo era l'alternativa meno accettabile, e poco a poco sono giunto alla conclusione che deve esistere un Dio che ha creato tutto questo, ma non sapevo com'era questo Dio. Ciò mi ha indotto a compiere una ricerca per scoprire qual è la natura di Dio, e l'ho trovata nella Bibbia e nella persona di Gesù. Dopo due anni di ricerche ho ritenuto che non fosse più ragionevole opporre resistenza, e sono divenuto un seguace di Gesù".

Un grande fautore dell'evoluzionismo ateo ai nostri giorni è l'inglese Richard Dawkins, l'autore del libro "God Delusion", L'illusione di Dio. Egli sta promuovendo una campagna pubblicitaria che si propone di mettere sui bus delle città inglesi la scritta: "Dio, probabilmente, non esiste: smetti di angustiarti e goditi la vita" ("There's probably no God. Now stop worrying and enjoy life"). "Probabilmente": dunque non si esclude del tutto che possa esistere! Ma se Dio non esiste il credente non ha perso quasi niente, se invece esiste il non credente ha perso tutto.

Io mi metto nei panni di un genitore che ha un figlio portatore di handicap, autistico, o gravemente malato, di un immigrato fuggito dalla fame o dagli orrori della guerra, di un operaio rimasto senza lavoro, o di un contadino espulso dal suo campo…Mi domando come reagirebbe a quell'annuncio: "Dio non esiste: smetti di preoccuparti e goditi la vita!".

L'esistenza del male e dell'ingiustizia nel mondo è certo un mistero e uno scandalo, ma senza la fede in un giudizio finale, essa risulterebbe infinitamente più assurda e più tragica. In tanti millenni di vita sulla terra, l'uomo si è assuefatto a tutto; si è adattato a ogni clima, immunizzato da ogni malattia. A una cosa non si è assuefatto mai: all'ingiustizia. Continua a sentirla come intollerabile. Ed è a questa sete di giustizia che risponderà il giudizio universale.

Esso non sarà voluto solo da Dio, ma, paradossalmente, anche dagli uomini, anche dagli empi. "Nel giorno del giudizio universale, non è solo il Giudice che scenderà dal cielo, ha scritto il poeta Claudel, ma sarà tutta la terra a precipitarglisi incontro".  

La festa di Cristo Re, con il vangelo del giudizio finale, risponde alla più universale delle speranze umane. Ci assicura che l'ingiustizia e il male non avranno l'ultima parola e nello stesso tempo ci esorta a vivere in modo che il giudizio non sia per noi di condanna ma di salvezza e possiamo essere di quelli a cui Cristo dirà: "Venite, benedetti dal Padre mia, prendete possesso del regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo".  


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Predicatore del Papa: Paolo, modello di vera conversione evangelica


Prima predica d'Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap.


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 5 dicembre 2008 (ZENIT.org).-



* * *


"QUELLO CHE POTEVA ESSERE UN GUADAGNO

L'HO CONSIDERATO UNA PERDITA A MOTIVO DI CRISTO"



L'anno paolino è una grazia grande per la Chiesa, ma presenta anche un pericolo: quello di fermarsi a Paolo, alla sua personalità, la sua dottrina, senza fare il passo successivo da lui a Cristo. Il Santo Padre ha messo in guardia contro questo rischio nell'omelia stessa in cui ha indetto l'anno paolino e nell'udienza generale del 2 Luglio scorso ribadiva: "È questo il fine dell'anno Paolino: imparare da san Paolo, imparare la fede, imparare il Cristo".

È successo tante volte nel passato, fino a dar luogo all'assurda tesi secondo cui Paolo, non Cristo, sarebbe il vero fondatore del cristianesimo. Gesù Cristo sarebbe stato per Paolo quello che Socrate era stato per Platone: un pretesto, un nome, sotto il quale mettere il proprio pensiero.

L'Apostolo, come prima di lui Giovanni Battista, è un indice puntato verso uno "più grande di lui", di cui egli non si ritiene degno nemmeno di essere apostolo. Quella tesi è il travisamento più completo e l'offesa più grave che si possa fare all'apostolo Paolo. Se tornasse in vita, egli reagirebbe a quella tesi con la stessa veemenza con cui reagì di fronte a un analogo fraintendimento dei corinzi: "Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?" (1 Cor 1,13).

Un altro ostacolo da superare, anche per noi credenti, è quello di fermarci alla dottrina di Paolo su Cristo, senza lasciarci contagiare dal suo amore e dal suo fuoco per lui. Paolo non vuole essere per noi solo un sole d'inverno che illumina ma non riscalda. L'intento evidente delle sue lettere è di portare i lettori non solo alla conoscenza, ma anche all'amore e alla passione per Cristo.

A questo scopo vorrebbero contribuire le tre meditazioni di Avvento di quest'anno, a partire da questa di oggi in cui rifletteremo sulla conversione di Paolo, l'avvenimento che, dopo la morte e risurrezione di Cristo, ha maggiormente influito sul futuro del cristianesimo.

1. La conversione di Paolo vista da dentro

La migliore spiegazione della conversione di san Paolo è quella che da lui stesso quando parla del battesimo cristiano come di un essere "battezzati nella morte di Cristo" "sepolti insieme con lui" per risorgere con lui e "camminare in una vita nuova" (cf. Rom 6, 3-4). Egli ha rivissuto in sé il mistero pasquale di Cristo, intorno a cui ruoterà in seguito tutto il suo pensiero. Ci sono delle analogie anche esterne impressionanti. Gesù rimase tre giorni nel sepolcro; per tre giorni Saulo visse come un morto: non poteva vedere, stare in piedi, magiare, poi al momento del battesimo i suoi occhi si riaprirono, poté mangiare e riprendere le forze, tornò in vita  (cf. Atti 9,18).

Subito dopo il suo battesimo, Gesù si ritirò nel deserto e anche Paolo, dopo essere stato battezzato da Anania, si ritirò nel deserto di Arabia, cioè nel deserto intorno a Damasco. Gli esegeti calcolano che tra l'evento sulla via di Damasco e l'inizio della sua attività pubblica nella Chiesa ci sono una decina d'anni di silenzio nella vita di Paolo. Gli ebrei lo cercavano a morte, i cristiani non si fidavano ancora e avevano paura di lui. La sua conversione ricorda quella del cardinal Newman che gli ex fratelli di fede anglicani consideravano un transfuga e i cattolici guardavano con sospetto per le sue idee nuove e ardite.

L'Apostolo ha fatto un lungo noviziato; la sua conversione non è durata pochi minuti. Ed è in questa sua kenosi, in questo tempo di svuotamento e di silenzio che ha accumulato quella energia dirompente e quella luce che un giorno riverserà sul mondo.

Della conversione di Paolo abbiamo due diverse descrizioni: una che descrive l'evento, per così dire, dall'esterno, in chiave storica e un'altra che descrive l'evento dall'interno, in chiave psicologica o autobiografica. Il primo tipo è quello che troviamo nelle tre diverse relazioni che si leggono negli Atti degli apostoli. Ad esso appartengono anche alcuni accenni che Paolo stesso fa dell'evento, spiegando come da persecutore divenne apostolo di Cristo (cf. Gal 1, 13-24).

Al secondo tipo appartiene il capitolo 3 della Lettera ai Filippesi, in cui l'Apostolo descrive quello che ha significato per lui, soggettivamente, l'incontro con Cristo, quello che era prima e quello che è diventato in seguito; in altre parole, in che è consistito, esistenzialmente e religiosamente, il cambiamento intervenuto nella sua vita. Noi ci concentriamo  su questo testo che, per analogia con l'opera agostiniana, potremmo definire "le confessioni di S. Paolo".

In ogni cambiamento c'è un terminus a quo e un terminus ad quem, un punto di partenza e un punto di arrivo. L'Apostolo descrive anzitutto il punto di partenza, quello che era prima:

"Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge" (Fil 3, 4-6).

Ci si può facilmente sbagliare nel leggere questa descrizione: questi non erano titoli negativi, ma i massimi titoli di santità del tempo. Con essi si sarebbe potuto aprire subito il processo di canonizzazione di Paolo, se fosse esistito a quel tempo. È come dire di uno oggi: battezzato l'ottavo giorno, appartenente alla struttura per eccellenza della salvezza, la chiesa cattolica, membro dell'ordine religioso più austero della Chiesa (questo erano i farisei!), osservantissimo della Regola...".

Invece c'è nel testo un punto  a capo che divide in due la pagina e la vita di Paolo. Si riparte da un "ma" avversativo che crea un contrasto totale:

"Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo" (Fil 3, 7-8).

Tre volte ricorre il nome di Cristo in questo breve testo. L'incontro con lui ha diviso la sua vita in due, ha creato un prima e poi. Un incontro personalissimo (è l'unico testo dove l'apostolo usa il singolare "mio", non "nostro" Signore) e un incontro esistenziale più che mentale. Nessuno mai potrà conoscere a fondo cosa avvenne in quel breve dialogo: "Saulo, Saulo!" "Chi sei tu, Signore? Io sono Gesù!". Una "rivelazione", la definisce lui (Gal 1, 15-16). Fu una specie di fusione a fuoco, un lampo di luce che ancora oggi, a distanza di duemila anni, rischiara il mondo.

2. Un cambiamento di mente

Proviamo ad analizzare il contenuto dell'evento. È stato anzitutto un cambiamento di mente, di pensiero, letteralmente una metanoia. Paolo aveva fino allora creduto di potersi salvare ed essere giusto davanti a Dio mediante l'osservanza scrupolosa della legge e delle tradizioni dei padri. Ora capisce che la salvezza si ottiene in altro modo. Voglio essere trovato, dice, "non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede" (Fil 3, 8-9). Gesù gli ha fatto sperimentare su di sé quello che un giorno avrebbe dovuto proclamare a tutta la Chiesa: la giustificazione per grazia mediante la fede (cf. Gal 2,15-16; Rom 3, 21 ss.).

Leggendo il capitolo terzo della Lettera ai Filippesi a me viene in mente un'immagine: un uomo cammina di notte in un fitto bosco al fioco lume di una candela, facendo attenzione a che non si spenga; camminando, camminando viene l'alba, sorge il sole, il fioco lume di candela impallidisce, finché non gli serve più e lo getta via. Il lucignolo fumigante era la sua propria giustizia. Un giorno, nella vita di Paolo, è spuntato il sole di giustizia, Cristo Signore,  e da quel momento non ha voluto altra luce che la sua.

Non si tratta di un punto accanto ad altri, ma del cuore del messaggio cristiano; lui lo definirà il "suo vangelo", al punto di dichiarare anatema chi osasse predicare un vangelo diverso, fosse pure un angelo o lui stesso (cf. Gal 1, 8-9). Perché tanta insistenza? Perché in ciò consiste la novità cristiana, quello che la distingue da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni proposta religiosa comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi o ottenere la "Illuminazione". Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare, ma quello che Dio ha fatto per loro in Cristo Gesù. Il cristianesimo è la religione della grazia.

C'è posto - e come - per i doveri e l'osservanza dei comandamenti, ma dopo, come risposta alla grazia, non come sua causa o suo prezzo. Non ci si salva per le buone opere, anche se non ci si salva senza le buone opere. È una rivoluzione di cui, a distanza di duemila anni, ancora stentiamo a prendere coscienza. Le polemiche teologiche sulla giustificazione mediante la fede dalla Riforma in poi l'hanno spesso ostacolata più che favorita perché hanno mantenuto il problema a livello teorico, di tesi di scuole contrapposte, anziché aiutare i credenti a farne esperienza nella loro vita.

3. "Convertitevi e credete al vangelo"

Ma dobbiamo porci una domanda cruciale: chi è l'inventore di questo messaggio? Se esso fosse l'Apostolo Paolo, allora avrebbero ragione quelli che dicono che è lui, non Gesù, il fondatore del cristianesimo. Ma l'inventore non è lui; egli non fa che esprimere in termini elaborati e universali un messaggio che Gesù esprimeva con il suo tipico linguaggio, fatto di immagini  e di parabole.

Gesù iniziò la sua predicazione dicendo: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo" (Mc 1, 15). Con queste parole egli insegnava già la giustificazione mediante la fede. Prima di lui, convertirsi significava sempre "tornare indietro" (come indica lo stesso termine ebraico shub); significava tornare all'alleanza violata, mediante una rinnovata osservanza della legge. "Convertitevi a me [...], tornate indietro dal vostro cammino perverso", diceva Dio nei profeti  (Zc 1, 3-4; Ger 8, 4-5).

Convertirsi, conseguentemente, ha un significato principalmente ascetico, morale e penitenziale e si attua  mutando condotta di vita. La conversione è vista come condizione per la salvezza; il senso è: convertitevi e sarete salvi; convertitevi e la salvezza verrà a voi. Questo è il significato predominante che la parola conversione ha sulle labbra stesse di Giovanni Battista (cf. Lc 3, 4-6). Ma sulla bocca di Gesù, questo significato morale passa in secondo piano (almeno all'inizio della sua predicazione), rispetto a un significato nuovo, finora sconosciuto. Anche in ciò si manifesta il salto epocale che si verifica tra la predicazione di Giovanni Battista e quella di Gesù.

Convertirsi non significa più tornare indietro, all'antica alleanza e all'osservanza della legge, ma significa fare un salto in avanti, entrare nella nuova alleanza, afferrare questo Regno che è apparso, entrarvi mediante la fede. "Convertitevi e credete" non significa due cose diverse e successive, ma la stessa azione: convertitevi, cioè credete; convertitevi credendo! "Prima conversio fit per fidem", dirà san Tommaso d'Aquino, la prima conversione consiste nel credere (1).

Dio ha preso, lui, l'iniziativa della salvezza: ha fatto venire il suo Regno; l'uomo deve solo accogliere, nella fede, l'offerta di Dio e viverne, in seguito, le esigenze. È come di un re che apre la porta del suo palazzo, dove è apparecchiato un grande banchetto e, stando sull'uscio, invita tutti i passanti a entrare, dicendo: "Venite, tutto è pronto!". È l'appello che risuona in tutte le cosiddette parabole del Regno: l'ora tanto attesa è scoccata, prendete la decisione che salva, non lasciatevi sfuggire l'occasione!

L'Apostolo dice la stessa cosa con la dottrina della giustificazione mediante la fede. L'unica differenza è dovuta a ciò che è avvenuto, nel frattempo, tra la predicazione di Gesù e quella di Paolo: Cristo è stato rifiutato e messo a morte per i peccati degli uomini. La fede "nel Vangelo" ("credete al Vangelo"), ora si configura come fede "in Gesù Cristo", "nel suo sangue" (Rm 3, 25).

Quello che l'Apostolo esprime mediante l'avverbio "gratuitamente"(dorean) o "per grazia", Gesù lo diceva con l'immagine del ricevere il regno come un bambino, cioè come dono, senza accampare meriti, facendo leva solo sull'amore di Dio, come i bambini fanno leva sull'amore dei genitori.

Si discute da tempo tra gli esegeti se si debba continuare a parlare della conversione di san Paolo; alcuni preferiscono parlare di "chiamata", anziché di conversione. C'è chi vorrebbe che si abolisse addirittura la festa della conversione di S. Paolo, dal momento che conversione indica un distacco e un rinnegare qualcosa, mentre un ebreo che si converte, a differenza del pagano, non deve rinnegare nulla, non deve passare dagli idoli al culto del vero Dio (2).

A me pare che siamo davanti a falso problema. In primo luogo non c'è opposizione tra conversione e chiamata: la chiamata suppone la conversione, non la sostituisce, come la grazia non sostituisce la libertà. Ma soprattutto abbiamo visto che la conversione evangelica non è un rinnegare qualcosa, un tornare indietro, ma un accogliere qualcosa di nuovo, fare un balzo in avanti. A chi parlava Gesù quando diceva: "Convertitevi e credete al vangelo"? Non parlava forse a degli ebrei? A questa stessa conversione si riferisce l'Apostolo con le parole: "Quando ci sarà la conversione al Signore quel velo verrà rimosso" (2Cor 3,16).

La conversione di Paolo ci appare, in questa luce, come il modello stesso della vera conversione cristiana che consiste anzitutto nell'accettare Cristo, nel "rivolgersi" a lui mediante la fede. Essa è un trovare prima che un lasciare. Gesù non dice: un uomo vendette tutto che quello che aveva e si mise alla ricerca di un tesoro nascosto; dice: un uomo trovò un tesoro e per questo vendette tutto.

4. Un'esperienza vissuta

Nel documento di accordo tra la Chiesa cattolica e la Federazione mondiale della Chiese luterane sulla giustificazione mediante la fede, presentato solennemente nella Basilica di S. Pietro da Giovanni Paolo II e l'arcivescovo di Uppsala nel 1999, c'è una raccomandazione finale che mi pare di importanza vitale. Dice in sostanza questo: è venuto il momento di fare di questa grande verità una esperienza vissuta da parte dei credenti, e non più un oggetto di dispute teologiche tra dotti, come è avvenuto nel passato.

La ricorrenza dell'anno paolino ci offre una occasione propizia per fare questa esperienza. Essa può dare un colpo d'ala alla nostra vita spirituale, un respiro e una libertà nuova. Charles Péguy ha raccontato, in terza persona, la storia del più grande atto di fede della sua vita. Un uomo, dice, (e si sa che quest'uomo era lui stesso) aveva tre figli e un brutto giorno essi si ammalarono, tutti e tre insieme. Allora aveva fatto un colpo di audacia. Al ripensarci si ammirava anche un po' e bisogna dire che era stato davvero un colpo ardito. Come si prendono tre bambini da terra e si mettono tutti e tre insieme, quasi per gioco, nelle braccia della loro madre o della loro nutrice che ride e dà in esclamazioni, dicendo che sono troppi e non avrà la forza di portarli, così lui, ardito come un uomo, aveva preso -s'intende, con la preghiera - i suoi tre bambini nella malattia e tranquillamente li aveva messi nelle braccia di Colei che è carica di tutti i dolori del mondo: «Vedi - diceva - te li do, mi volto e scappo, perché tu non me li renda. Non li voglio più, lo vedi bene! Devi pensarci tu». (Fuori metafora, era andato a piedi in pellegrinaggio da Parigi a Chartres per affidare alla Madonna i suoi tre bambini malati). Da quel giorno, tutto andava bene, naturalmente, poiché era la Santa Vergine a occuparsene. È perfino curioso che non tutti i cristiani facciano altrettanto. È così semplice, ma non si pensa mai a ciò che è semplice (3).

La storia ci serve in questo momento per l'idea del colpo di audacia, perché è di qualcosa del genere che si tratta. La chiave di tutto, si diceva, ciò è la fede. Ma ci sono diversi tipi di fede: c'è la fede-assenso dell'intelletto, la fede-fiducia, la fede-stabilità, come la chiama Isaia (7, 9): di quale fede si tratta, quando si parla della giustificazione «mediante la fede»? Si tratta di una fede tutta speciale: la fede-appropriazione!

Ascoltiamo, su questo punto, san Bernardo: «Io - dice -, quello che non posso ottenere da me stesso, me lo approprio (usurpo!) con fiducia dal costato trafitto del Signore, perché è pieno di misericordia. Mio merito, perciò, è la misericordia di Dio. Non sono certamente povero di meriti, finché lui sarà ricco di misericordia. Che se le misericordie del Signore sono molte (Sal 119, 156), io pure abbonderò di meriti. E che ne è della mia giustizia? O Signore, mi ricorderò soltanto della tua giustizia. Infatti essa è anche la mia, perché tu sei per me giustizia da parte di Dio» (4). È scritto infatti che  "Cristo Gesù ... è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione (l Cor l, 30). Per noi, non per se stesso!

San Cirillo di Gerusalemme  esprimeva, con altre parole, la stessa idea del colpo di audacia della fede: «O bontà straordinaria di Dio verso gli uomini! I giusti dell'Antico Testamento piacquero a Dio nelle fatiche di lunghi anni; ma quello che essi giunsero a ottenere, attraverso un lungo ed eroico servizio accetto a Dio, Gesù te lo dona nel breve spazio di un'ora. Infatti, se tu credi che Gesù Cristo è il Signore e che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo e sarai introdotto in paradiso da quello stesso che vi introdusse il buon ladrone» (5).

Immagina, scrive il Cabasilas sviluppando un'immagine di san Giovanni Crisostomo, che si sia svolta, nello stadio, un'epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, provochi e scuoti per lui l'assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.

Ma c'è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l'incoronazione dell'amico, in tal caso quell'uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l'otterrà! Ebbene, così avviene tra Cristo e noi. Pur non avendo ancora faticato e lottato - pur non avendo ancora alcun merito -, tuttavia, per mezzo della fede noi inneggiamo alla lotta di Cristo, ammiriamo la sua vittoria, onoriamo il suo trofeo che è la croce e per lui valoroso, mostriamo veemente e ineffabile amore; facciamo nostre quelle ferite e quella morte (6). È così che si ottiene la salvezza.

La liturgia di Natale ci parlerà del "santo scambio", del sacrum commercium, tra noi e Dio realizzato in Cristo.  La legge di ogni scambio  si esprime nella formula: quello che è mio è tuo e quello che è tuo è mio. Ne deriva che quello che è mio, cioè il peccato, la debolezza, diventa di Cristo; quello che è di Cristo, cioè la santità, diventa mio. Poiché noi apparteniamo a Cristo più che a noi stessi (cf.1 Cor 6, 19-20), ne consegue, scrive il Cabasilas, che, inversamente, la santità di Cristo ci appartiene più che la nostra stessa santità (7). E' questo il colpo d'ala nella vita spirituale. La sua scoperta non si fa, di solito, all'inizio, ma alla fine del proprio itinerario spirituale, quando si sono sperimentate tutte le altre strade e si è visto che non portano molto lontano.

Nella Chiesa cattolica abbiamo un mezzo privilegiato per fare esperienza concreta e quotidiana di questo sacro scambio e della giustificazione per grazia, mediante la fede: i sacramenti. Ogni volta che io mi accosto al sacramento della riconciliazione faccio concretamente l'esperienza di essere giustificato per grazia, ex opere operato, come diciamo in teologia. Salgo al tempio, dico a Dio: "O Dio, abbia pietà di me peccatore" e, come il pubblicano, me ne torno a casa "giustificato"  (Lc 18,14), perdonato, con l'anima splendente, come al momento in cui uscii dal fonte battesimale.

Che san Paolo, in questo anno a lui dedicato, ci ottenga la grazia di fare come lui questo colpo di audacia della fede.                       

(1) S. Tommaso d'Aquino, S. Th., I-IIae, q. 113,a.4.

(2) Cf. J.M.Everts, Conversione e chiamata di Paolo, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, San Paolo 1999, pp. 285-298 (riassunto delle posizioni e bibliografia).

(3) Cf. Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù.

(4) In Cant. 61, 4-5; PL 183, 1072.

(5) Catechesi,. 5, 10; PG 33,517.

(6) Cf. N. Cabasilas, Vita in Cristo, I, 5; PG 150,517.

(7) N. Cabasilas, Vita in Cristo IV, 6 (PG 150, 613).

[Modificato da Cattolico_Romano 06/12/2008 11:07]
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Predicatore del Papa: Dio ci chiama alla comunione con Gesù


Seconda predica d'Avvento di padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap.


CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).-


* * *

 


 

"Chiamati da Dio

alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo"

Per rimanere fedeli al metodo della lectio divina, tanto raccomandata dal recente sinodo dei vescovi, ascoltiamo anzitutto le parole di san Paolo sulle quali vogliamo riflettere in questa meditazione:

"Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo" (Fil 3, 7-12).

1. "Perché io possa conoscere Lui..."

La volta scorsa abbiamo meditato sulla conversione di Paolo come una metanoia, un cambiamento di mente, nel modo di concepire la salvezza. Paolo però non si è convertito a una dottrina, fosse pure la dottrina della giustificazione mediante la fede; si è convertito a una persona! Prima che un cambiamento di pensiero, il suo è stato un cambiamento di cuore, l'incontro con una persona viva. Si usa spesso l'espressione "colpo di fulmine" per indicare un amore a prima vista che travolge ogni ostacolo; in nessun caso questa metafora è più appropriata che per san Paolo.

Vediamo come questo cambiamento di cuore traspare dal testo appena ascoltato. Egli parla del "bene supremo" (hyperechon) di conoscere Cristo e si sa che in questo caso, come in tutta la Bibbia, conoscere non indica una scoperta solo intellettuale, un farsi un'idea di qualcosa, ma un legame vitale intimo, un entrare in rapporto con l'oggetto conosciuto. Lo stesso vale per l'espressione "...perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze". "Conoscere la partecipazione alle sofferenze" non significa, evidentemente, averne un'idea, ma sperimentarle.

Mi è capitato di leggere questo brano in un momento particolare della mia vita in cui mi trovavo anch'io davanti a una scelta. Mi ero occupato di cristologia, avevo scritto e letto tanto su questo argomento, ma quando lessi "perché io possa conoscere Lui", capii di colpo che quel semplice pronome personale "lui" (autòn) conteneva più verità su Gesù Cristo che tutti i libri scritti o letti su di lui. Capii che per l'Apostolo Cristo non era un insieme di dottrine, di eresie, di dogmi; era una persona viva, presente e realissima che si poteva designare con un semplice pronome, come si fa, quando si parla di qualcuno che è presente, indicandolo con il dito.

L'effetto dell'innamoramento è duplice. Da una parte opera una drastica riduzione ad uno, una concentrazione sulla persona amata che fa passare in secondo piano tutto il resto del mondo; dall'altra rende capaci di soffrire qualsiasi cosa per la persona amata,  di accettare la perdita di tutto. Vediamo entrambi questi effetti realizzati alla perfezione nel momento in cui l'Apostolo scopre Cristo: "per lui, dice,  ho accettato la perdita  di tutte queste cose e le considero come spazzatura".

Ha accettato  la perdita dei suoi privilegi di "ebreo da ebrei", la stima e l'amicizia dei suoi maestri e connazionali, l'odio e la commiserazione di quanti non comprendevano come un uomo come lui avesse potuto farsi sedurre da una setta di fanatici senza arte né parte. Nella seconda Lettera ai Corinzi c'è l'elenco impressionante di tutte le cose sofferte per Cristo  (cf. 2 Cor 11, 24-28).

L'Apostolo ha trovato lui stesso la parola che da sola racchiude tutto: "conquistato da Cristo". Si potrebbe tradurre anche afferrato, affascinato, o con una espressione di Geremia, "sedotto" da Cristo. Gli innamorati non si trattengono; lo hanno fatto tanti mistici al colmo del loro ardore. Io non ho difficoltà, perciò, a immaginare un Paolo che in un impeto di gioia, dopo la sua conversione, grida da solo agli alberi o in riva al mare quello che più tardi scriverà ai Filippesi: "Sono stato conquistato da Cristo! Sono stato conquistato da Cristo!"

Conosciamo bene le frasi lapidarie e pregnanti dell'Apostolo che ognuno di noi amerebbe poter ripetere nella propria vita: "Per me vivere è Cristo" (Fil 1,21), e "Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).

2. "In Cristo"

Ora, tenendo fede a quanto annunciato nel programma di queste prediche, vorrei mettere in luce quello che, su questo punto, il pensiero di Paolo può significare, prima per la teologia di oggi e poi per la vita spirituale dei credenti. 

L'esperienza personale ha condotto Paolo a una visione globale della vita cristiana che egli indica con l'espressione "in Cristo" (en Christō). La formula ricorre 83 volte nel corpus paolino, senza contare l'espressione affine "con Cristo" (syn Christō) e le espressioni pronominali equivalenti "in lui" o "in colui che".

È quasi impossibile tradurre con parole il contenuto pregnante di queste frasi. La preposizione "in" ha un significato ora locale, ora temporale (al momento in cui Cristo muore e risorge), ora strumentale (per mezzo di Cristo). Delinea l'atmosfera spirituale in cui il cristiano vive e agisce. Paolo applica a Cristo quello che nel discorso all'Areopago  di Atene dice di Dio, citando un autore pagano: "In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" (Atti 17, 28). Più tardi l'evangelista Giovanni esprimerà la stessa visione con l'immagine del "rimanere in Cristo" (Gv 15, 4-7). 

Su queste espressioni fanno leva quelli che parlano di mistica paolina. Frasi come "Dio ha riconciliato  a sé il mondo in Cristo" (2 Cor 5,19) sono totalizzanti, non lasciano fuori di Cristo nulla e nessuno. Dire che i credenti sono "chiamati a essere santi" (Rom 1,7) equivale per l'Apostolo a dire che  sono "chiamati da Dio alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo" (1 Cor 1,9).

Giustamente, anche in seno al mondo protestante, oggi si comincia a considerare la visione sintetizzata nell'espressione "in Cristo" o "nello Spirito" come più centrale e rappresentativa del pensiero di Paolo che la stessa dottrina della giustificazione mediante la fede.

L'anno paolino potrebbe rivelarsi l'occasione provvidenziale per chiudere tutto un periodo di discussioni e contrasti legati più al passato che al presente e aprire un nuovo capitolo nell'utilizzo del pensiero dell'Apostolo. Tornare a utilizzare le sue lettere, e in primo luogo la Lettera ai Romani, per lo scopo per cui furono scritte che non era, certo, quello di fornire alle generazioni future una palestra in cui esercitare il loro acume teologico, ma quello di edificare la fede della comunità, formata per lo più da gente semplice e illetterata. "Ho un vivo desiderio, scrive ai Romani,  di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati, o meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi e io" (Rom 1, 11-12).

3. Oltre la Riforma e la Controriforma

È tempo, credo, di andare oltre la Riforma e oltre la Controriforma. La posta in gioco all'inizio del terzo millennio, non è più la stessa dell'inizio del secondo millennio, quando si produsse la separazione tra oriente e occidente, e neppure è quella a metà del millennio, quando si produsse, in seno alla cristianità occidentale, la separazione tra cattolici e protestanti.

Per fare un solo esempio, il problema non è più quello di Lutero di come liberare l'uomo dal senso di colpa che l'opprime, ma come ridare all'uomo il vero senso del peccato che ha smarrito del tutto. Che senso ha continuare a discutere su "come avviene la giustificazione dell'empio", quando l'uomo è convinto di non aver bisogno di alcuna giustificazione e dichiara con orgoglio: "Io stesso oggi mi accuso e solo io posso assolvermi, io l'uomo"? (1)

Io credo che tutte le secolari discussioni tra cattolici e protestanti intorno alla fede e alle opere hanno finito per farci perdere di vista il punto principale del messaggio paolino, spostando spesso  l'attenzione da Cristo alle dottrine su Cristo, in pratica, da Cristo agli uomini. Quello che all'Apostolo preme anzitutto affermare in Romani 3 non è che siamo giustificati per la fede, ma che siamo giustificati per la fede in Cristo; non è tanto che siamo giustificati per la grazia, quanto che siamo giustificati per la grazia di Cristo. L'accento è su Cristo, più ancora che sulla fede e sulla grazia.

Dopo avere nei due precedenti capitoli della Lettera presentato l'umanità nel suo universale stato di peccato e di perdizione, l'Apostolo ha l'incredibile coraggio di proclamare che questa situazione è ora radicalmente cambiata "in virtù della redenzione realizzata da Cristo", "per l'obbedienza di un solo uomo" (Rom 3, 24; 5, 19).  L'affermazione che questa salvezza si riceve per fede, e non per le opere, è importantissima, ma essa viene in secondo luogo, non in primo. Si è commesso l'errore di ridurre a un problema di scuole, interno al cristianesimo, quella che era per l'Apostolo una affermazione di portata più vasta, cosmica e universale.

Questo messaggio dell'Apostolo sulla centralità di Cristo è di grande attualità. Molti fattori portano infatti a mettere tra parentesi oggi la sua persona. Cristo non entra in questione in nessuno dei tre dialoghi più vivaci in atto oggi tra la chiesa e il mondo. Non nel dialogo tra fede e filosofia, perché la filosofia si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche come è la persona di Gesù di Nazareth; non nel dialogo con la scienza, con la quale si può unicamente discutere dell'esistenza o meno di un Dio creatore, di un progetto al di sotto dell'evoluzione; non, infine, nel dialogo interreligioso, dove ci si occupa di quello che le religioni possono fare insieme, nel nome di Dio, per il bene dell'umanità.

Pochi anche tra i credenti, interrogati in che cosa credono, risponderebbero: credo che Cristo è morto per i miei peccati ed è risorto per la mia giustificazione. I più risponderebbero: credo nell'esistenza di Dio, in una vita dopo la morte. Eppure per Paolo, come per tutto il NT, la fede che salva è solo quella nella morte e risurrezione di Cristo: "Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo" (Rom 10,9).

Nel mese scorso, si è tenuto qui in Vaticano, nella Casina Pio IV, un simposio promosso dalla Pontificia Accademia delle Scienze, dal titolo "Vedute scientifiche intorno all'evoluzione dell'universo e della vita", cui hanno partecipato i massimi scienziati di tutto il mondo. Ho voluto intervistare, per il programma che conduco ogni sabato sera in TV sul vangelo, uno dei partecipanti, il Prof. Francis Collins, direttore del gruppo di ricerca che portò nel 2000 alla completa decifrazione del genoma umano. Sapendolo un credente, gli ho posto, tra le altre, la domanda: "Lei ha creduto prima in Dio o in Gesù Cristo?" Ha risposto:

"Sino all'età di circa 25 anni ero ateo, non avevo una preparazione religiosa, ero uno scienziato che riduceva quasi tutto ad equazioni e leggi di fisica. Ma come medico ho cominciato a vedere la gente che doveva affrontare il problema della vita e della morte, e questo mi ha fatto pensare che il mio ateismo non era un'idea radicata. Ho cominciato a leggere testi sulle argomentazioni razionali della fede che io non conoscevo. Per prima cosa sono arrivato alla convinzione che l'ateismo era l'alternativa meno accettabile. A poco a poco sono giunto alla conclusione che deve esistere un Dio che ha creato tutto questo, ma non sapevo com'era questo Dio".

È istruttivo leggere, nel suo libro "Il linguaggio di Dio", come superò questa impasse:

"Trovavo difficile gettare un ponte verso questo Dio. Più imparavo a conoscerlo, più la sua purezza e santità mi apparivano inavvicinabili. In questa amara consapevolezza arrivò la persona di Gesù Cristo. Era passato più di un anno da quando avevo deciso di credere in qualche specie di Dio, ed ora ero arrivato alla resa dei conti. In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta passeggiando sulle montagne mi spingevo all'ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull'erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo" (2).

Viene da pensare alla parola di Cristo: "Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me". È solo in lui che Dio diventa accessibile e credibile. Grazie a questa fede ritrovata, il momento della scoperta del genoma umano fu, nello stesso tempo, dice lui, un'esperienza di esaltazione scientifica e di adorazione religiosa.

La conversione di questo scienziato dimostra che l'evento di Damasco si rinnova nella storia; Cristo è lo stesso, oggi come allora. Non è facile per uno scienziato, specie per un biologo, dichiarasi oggi pubblicamente credente, come non lo fu per Saulo: si rischia di essere immediatamente "cacciati dalla sinagoga". E di fatti è quello che è successo al Prof. Collins che per la sua professione di fede ha dovuto subire gli strali di molti laicisti.

4.  Dalla presenza di Dio alla presenza di Cristo

Mi resta da dire qualcosa sull'altro punto: cosa l'esempio di Paolo ha da dire per la vita spirituale dei credenti. Uno dei temi più trattati nella spiritualità cattolica è quello del pensiero della presenza di Dio (3). Non si contano i trattati su questo argomento dal secolo XVI ad oggi. In uno di essi si legge:

"Il buon cristiano deve abituarsi a questo santo esercizio in ogni tempo e in ogni luogo. Al risveglio  rivolga subito lo sguardo dell'anima su Dio, parli e conversi con lui come il suo padre amato. Quando cammina per le strade tenga gli occhi del corpo  bassi e modesti elevando quelli dell'anima a Dio" 4).

Si distingue il "pensiero della presenza di Dio" dal "sentimento della sua presenza": il primo dipende da noi, il secondo è invece dono di grazia che non dipende da noi. (Si sa che per san Gregorio Nisseno "il sentimento della presenza" di Dio, la aisthesis parousia, è quasi un sinonimo di esperienza mistica).

Si tratta di una visione rigidamente teocentrica che in alcuni autori si spinge fino al consiglio di "lasciare da parte la santa umanità di Cristo". Santa Teresa d'Avila reagirà energicamente contro questa idea che riappare periodicamente da Origene in poi in seno al cristianesimo sia orientale che occidentale. Ma la spiritualità della presenza di Dio, anche dopo di lei, continuerà a essere rigidamente teocentrica, con tutti i problemi e le aporie che ne derivano, messe in luce dagli stessi autori che ne trattano (5).

Su questo punto il pensiero di san Paolo ci può aiutare a superare la difficoltà che ha portato al declino della spiritualità del presenza di Dio. Egli parla sempre di una presenza di Dio "in Cristo". Una presenza irreversibile e insuperabile. Non c'è uno stadio della vita spirituale in cui si possa fare a meno di Cristo, o andare "oltre Cristo". La vita cristiana è una "vita nascosta con Cristo in Dio" (Col 3,3). Questo cristocentrismo paolino non attenua l'orizzonte trinitario della fede ma lo esalta, perché per Paolo tutto il movimento parte dal Padre e ritorna al Padre, per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. L'espressione "in Cristo" è intercambiabile, nei suoi scritti, con l'espressione "nello Spirito".

Il bisogno di superare l'umanità di Cristo, per accedere direttamente al Logos eterno e alla divinità, nasceva da una scarsa considerazione della risurrezione di Cristo. Questa veniva vista nel suo significato apologetico, come prova della divinità di Gesù, e non abbastanza nel suo significato misterico, come inaugurazione della sua vita "secondo lo Spirito", grazie alla quale l'umanità di Cristo appare ormai nella sua condizione spirituale e dunque onnipresente e attuale.

Cosa ne deriva sul piano pratico? Che noi possiamo fare ogni cosa "in Cristo" e "con Cristo", sia che mangiamo, sia che dormiamo, sia che facciamo qualsiasi altra cosa, dice l'Apostolo (1 Cor 10,31). Il Risorto  non è presente solo perché lo pensiamo, ma è realmente accanto a noi; non siamo noi che dobbiamo, con il pensiero e la fantasia, riportarci alla sua vita terrena e rappresentarci gli episodi della sua vita (come ci si sforzava di fare nella meditazione dei "misteri della vita di Cristo"); è lui, il risorto, che viene verso di noi. Non siamo noi che, con l'immaginazione, dobbiamo diventare contemporanei di Cristo; è Cristo che si fa realmente nostro contemporaneo. "Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo". (A proposito, perché non fare subito un atto di fede? Egli è qui, in questa cappella, più presente di quanto lo sia ciascuno di noi; cerca lo sguardo del nostro cuore e gioisce quando lo trova).

Una testo che riflette meravigliosamente questa visione della vita cristiana è la preghiera attribuita a san Patrizio: "Cristo con me, Cristo davanti a me, Cristo dietro di me, Cristo in me! Cristo sotto di me, Cristo sopra di me, Cristo alla mia destra, Cristo alla mia sinistra!" (6)

Quale nuovo e più alto significato acquistano le parole di san Luigi Grignon de Montfort, se applichiamo allo "Spirito di Cristo" ciò che egli dice dello "spirito di Maria":

"Dobbiamo abbandonarci allo Spirito di Cristo per essere mossi e guidati secondo il  suo volere. Dobbiamo metterci e restare fra le sue mani come uno strumento tra le mani di un operaio, come un liuto tra le mani di un abile suonatore. Dobbiamo perderci e abbandonarci in lui come pietra che si getta in mare. È possibile fare tutto ciò semplicemente e in un istante, con una sola occhiata interiore o un lieve movimento della volontà, o anche con qualche breve parola" (7).

5. Dimentico del passato

Concludiamo tornando al testo di Filippesi 3. San Paolo termina le sue "confessioni"  con una dichiarazione:

"Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù" (Fil 3, 13-14).

"Dimentico del passato". Quale passato? Quello di fariseo, di cui ha parlato prima? No, il passato di apostolo, nella Chiesa! Ora il guadagno da considerare perdita è un altro: è proprio l'aver già una volta considerato tutto una perdita per Cristo. Era naturale pensare: "Che coraggio, quel Paolo: abbandonare una carriera di rabbino così ben avviata per una oscura setta di galilei! E che lettere ha scritto! Quanti viaggi ha intrapreso, quante chiese fondato!"

L'Apostolo ha avvertito confusamente il pericolo mortale di rimettere tra sé e il Cristo una "propria giustizia" derivante dalle opere - questa volta le opere compiute per Cristo -, e ha reagito energicamente. "Io non ritengo -dice- di essere arrivato alla perfezione". San Francesco d'Assisi, verso la fine della vita, tagliava corto a ogni tentazione di autocompiacenza, dicendo: "Cominciamo, fratelli, a servire il Signore, perché finora abbiamo fatto poco o niente" (8).

Questa è la conversione più necessaria a coloro che hanno già seguito Cristo e sono vissuti al suo servizio nella Chiesa. Una conversione tutta speciale, che non consiste nell'abbandonare il male, ma, in certo senso, nell'abbandonare il bene! Cioè nel distaccarsi da tutto ciò che si è fatto, ripetendo a se stessi, secondo il suggerimento di Cristo: "Siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo fare" (Lc 17,10).

Questo svuotarci le mani e le tasche di ogni pretesa, in spirito di povertà e umiltà, è il modo migliore per prepararci al Natale. Ce lo ricorda una simpatica leggenda natalizia che mi piace citare di nuovo. Narra che tra i pastori che accorsero la notte di Natale ad adorare il Bambino ce n'era uno tanto poverello che non aveva proprio nulla da offrire e si vergognava molto. Giunti alla grotta, tutti facevano a gara a offrire i loro doni. Maria non sapeva come fare per riceverli tutti, dovendo tenere in braccio il Bambino. Allora, vedendo il pastorello con le mani libere, prende e affida a lui Gesù. Avere le mani vuote fu la sua fortuna e, su un altro piano, sarà anche la nostra.

(1) J.-P. Sartre, Il diavolo e il buon dio, X,4 (Parigi, Gallimard 1951, p. 267.).

(2) F. Collins, The Language of God. A Scientist Presents Evidence for Belief, pp. 219-255.

(3) Cf.  M. Dupuis, Présence de Dieu, in D Spir. 12, coll. 2107-2136.

(4) F. Arias (+1605), cit. da Dupuis, col. 2111.

(5) Dupuis, cit., col 2121:  "Se l'onnipresenza di Dio non si distingue dalla sua essenza, l'esercizio della presenza di Dio non aggiunge al tradizionale tema del ricordo di Dio, se non un sforzo immaginativo".

(6) "Christ with me, Christ before me, Christ behind me, Christ below me, Christ above me, Christ at my right, Christ at my left".

(7) Cf. S. L. Grignon de Montfort, Trattato della vera devozione a Maria, nr. 257.259 (in Oeuvres complètes, Parigi 1966, pp. 660.661).

(8) Celano, Vita prima, 103 (Fonti Francescane, n. 500).

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23/12/2008 18:48

Terza predica d'Avvento di padre Raniero Cantalamessa


Alla presenza del Santo Padre e dei membri della Curia romana

CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 12 dicembre 2008 (ZENIT.org).-

* * *

1. Paolo e il dogma dell’incarnazione

Premettiamo, anche questa volta, il brano paolino sul quale intendiamo meditare:

“Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio” (Gal 4, 4-7).

Ascolteremo spesso questo brano nel tempo natalizio, a cominciare dai Primi Vespri della solennità del Natale. Diciamo anzi tutto qualcosa sulle implicazioni teologiche di questo testo. È il passo in cui si va più vicino, nel corpo paolino, all’idea di preesistenza e di incarnazione. L’idea di “invio” (“Dio mandò, exapesteilen, il suo Figlio”) è messa in parallelo con l’invio dello Spirito di cui si parla due versetti dopo e richiama ciò che nell’AT si dice dell’invio della Sapienza e del santo Spirito sul mondo da parte di Dio (Sap 9, 10.17). Questi accostamenti indicano che non si tratta di un invio “dalla terra”, come nel caso dei profeti, ma “dal cielo”.

L’idea della preesistenza di Cristo è implicita nei testi paolini in cui si parla di un ruolo di Cristo nella creazione del mondo (1 Cor 8,6; Col 1, 15-16) e quando Paolo dice che la roccia che seguiva il popolo nel deserto era Cristo (1 Cor 10,4). L’idea di incarnazione, a sua volta, è soggiacente nell’inno cristologico di Filippesi, 2: “Essendo nella forma di Dio spogliò se stesso, assumendo la forma di servo”.

Nonostante questo, bisogna ammettere che preesistenza e incarnazione in Paolo sono delle verità in gestazione, non ancora giunte alla piena formulazione. Il motivo è che il centro dell’interesse e il punto di partenza di tutto per lui è il mistero pasquale, cioè l’operato, più che la persona del Salvatore. Il contrario di Giovanni, per il quale il punto di partenza e l’epicentro dell’attenzione è proprio la preesistenza e l’incarnazione.

Si tratta di due “vie”, o percorsi diversi, nella scoperta di chi è Gesù Cristo: una, quella di Paolo, parte dall’umanità per giungere alla divinità, dalla carne per giungere allo Spirito, dalla storia di Cristo, per arrivare alla preesistenza di Cristo; l’altra, quella di Giovanni, segue il cammino inverso: parte dalla divinità del Verbo per giungere ad affermare la sua umanità, dalla sua esistenza nell’eternità per scendere alla sua esistenza nel tempo; una pone come cerniera tra le due fasi la risurrezione di Cristo, e l’altra vede il passaggio da uno stato all’altro nell’incarnazione.

Appena si passa all’epoca successiva, le due vie tendono a consolidarsi dando luogo a due modelli o archetipi e finalmente a due scuole cristologiche: la scuola antiochena che si richiama di preferenza a Paolo e la scuola alessandrina che si richiama di preferenza a Giovanni. Nessuno dei seguaci dell’una o dell’altra via ha coscienza di scegliere tra Paolo e Giovanni; ognuno è sicuro di averli entrambi dalla propria parte. Ciò è senz’altro vero; sta di fatto però che i due influssi rimangono ben visibili e distinguibili, come due fiumi che, pur confluendo insieme, continuano a distinguersi per il colore diverso delle rispettive acque.

Questa differenziazione si riflette per esempio nel modo diverso con cui viene interpretata, nelle due scuole, la kenosi di Cristo di Filippesi 2. Fino dal II-III secolo si delineano, di questo testo, due letture diverse che si ritrovano anche nell’esegesi moderna. Secondo la scuola alessandrina, il soggetto iniziale dell’inno è il Figlio di Dio preesistente nella forma di Dio. La kenosi perciò in questo caso sarebbe consistita nell’incarnazione, nel farsi uomo. Secondo l’interpretazione dominante nella scuola antiochena, il soggetto unico dell’inno dall’inizio alla fine è il Cristo storico, Gesù di Nazareth. In questo caso la kenosi, consisterebbe nell’abbassamento insito nel suo farsi servo, nel sottoporsi alla passione e alla morte.

La differenza tra le due scuole non è tanto che alcuni seguono Paolo e altri Giovanni, ma che alcuni interpretano Giovanni alla luce di Paolo e altri interpretano Paolo alla luce di Giovanni. La differenza è nello schema, o nella prospettiva di fondo, che si adotta per illustrare il mistero di Cristo. Nel confronto tra queste due scuole si può dire che si sono formate le linee portanti del dogma e della teologia della Chiesa, rimaste operanti fino ad oggi.


2. Nato da donna

Il relativo silenzio sull’incarnazione comporta, in Paolo, un silenzio quasi totale su Maria, la Madre del Verbo incarnato. L’inciso “nato da donna” (factum sub muliere) del nostro testo è l’allusione più esplicita che si ha a Maria nel corpo paolino. Essa è l’equivalente dell’altra espressione: “dal seme di David secondo la carne” “factum ex semine David secundum carnem” (Rom 1,3).

Per quanto scarna, però, questa affermazione dell’Apostolo è importantissima. Essa fu uno dei cardini nella lotta contro il docetismo gnostico, dal II secolo in poi. Dice infatti che Gesù non è un’apparizione celeste; grazie alla sua nascita da donna, egli è pienamente inserito nell’umanità e nella storia, “in tutto simile agli uomini” (Fil 2, 7). “Perché diciamo che Cristo è uomo, scrive Tertulliano, se non perché è nato da Maria che è una creatura umana?” A pensarci bene, “nato da donna” è più adatto a esprimere la vera umanità di Cristo che non il titolo “figlio dell’uomo”. In senso letterale, Gesù non è figlio dell’uomo, non avendo avuto per padre un uomo, mentre è realmente “figlio della donna”.

Il testo paolino sarà anche al centro del dibattito sul titolo di madre di Dio (theotokos) nelle dispute cristologiche posteriori, e questo spiega perché la liturgia ce lo farà ascoltare nella seconda lettura della messa della solennità di Maria Santissima Madre di Dio, del primo Gennaio.

È da notare un particolare. Se Paolo avesse detto: “nato da Ma­ria “, si sarebbe trattato solo di un dettaglio biografico; avendo detto “nato da donna “, ha dato alla sua affermazione una por­tata universale e immensa. È la donna stessa, ogni donna, che è stata elevata, in Maria, a tale incredibile altezza. Maria è qui la donna per antonomasia.


3. “Che giova a me che Cristo sia nato da Maria?”

Noi meditiamo il testo paolino nell’imminenza del Natale e nello spirito della lectio divina. Non possiamo perciò indugiare troppo sul dato esegetico, ma dopo aver contemplato la verità teologica contenuta nel testo, dobbiamo trarre da esso spunti per la nostra vita spirituale, mettendo in luce il “per me” della parola di Dio.

Una frase di Origene, ripresa da sant'Agostino, san Bernardo, da Lutero e da altri, dice: “Che giova a me che Cristo sia nato una volta da Maria a Betlemme, se non nasce anche per fede nella mia anima?

La maternità divina di Maria si realizza su due piani: su un piano fisico e su un piano spirituale. Maria è Madre di Dio non solo perché l'ha portato fisicamente nel grembo, ma anche perché l'ha concepito prima nel cuore, con la fede. Noi non possiamo, naturalmente, imitare Maria nel primo senso, generando di nuovo Cristo, ma possia­mo imitarla nel secondo senso, che è quello della fede. Gesù stesso iniziò questa applicazione alla Chiesa del titolo di “Madre di Cristo “, quando dichiarò: “Mia madre e miei fratel­li sono coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pra­tica” (Lc 8, 21; cf. Mc 3, 31 s; Mt 12, 49).

Nella tradizione, questa verità ha conosciuto due livelli di ap­plicazione complementari tra di loro, una di tipo pastorale e l’altra di tipo spirituale. In un caso, si vede realizzata questa maternità, nella Chiesa presa nel suo insieme, in quanto “sa­cramento universale di salvezza “; nell'altro, la si ve­de realizzata in ogni singola persona o anima che crede.

Uno scrittore del Medio Evo, il Beato Isacco della Stella, ha fatto una specie di sintesi di tutti questi motivi. In una omelia famosa che abbiamo letto nella Liturgia delle ore di sabato scorso, scrive: “Ma­ria e la Chiesa sono una madre e più madri; una vergine e più vergini. L'una e l'altra madre, l'una e l'altra vergine... Per questo, nelle Scritture divinamente ispirate, ciò che si dice in modo uni­versale della Vergine Madre Chiesa, lo si intende in modo sin­golare della Vergine Madre Maria; e ciò che si dice in modo speciale di Maria lo si intende in senso generale della Vergine Madre Chiesa... Infine, ogni anima fedele, sposa del Verbo di Dio, madre figlia e sorella di Cristo, viene ritenuta anch'essa a suo modo vergine e feconda”.

Il Con­cilio Vaticano II si colloca nella prima prospettiva quando scrive: “La Chiesa... diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio” .

Noi ci concentriamo sull'applicazione perso­nale ad ogni anima: “Ogni anima che crede, scrive sant’Ambrogio, concepisce e gene­ra il Verbo di Dio... Se secondo la carne una sola è la Madre di Cristo, secondo la fede, tutte le anime generano Cristo quando accolgono la parola di Dio” . Gli fa eco un altro Padre dall'orien­te: “Il Cristo nasce sempre misticamente nell'anima, prendendo carne da coloro che sono salvati e facendo dell'anima che lo genera una madre vergine” .

Come si di­venta, in concreto, madre di Gesù, ce lo ha indicato lui stesso nel vangelo: ascoltando la Parola e mettendola in pratica (cf. Lc 8,21; Mc 3, 31 s.; Mt 12,49). Ripen­siamo, per capire, a come divenne madre Maria: concependo Gesù e partorendolo. Nella Scrittura vediamo sottolineati questi due momenti: “Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio”, si legge in Isaia, e “Concepirai e darai alla luce un Figlio”, dice l’angelo a Maria.

Vi sono due maternità incomplete o due tipi di interruzione di maternità. Una è quella, antica e nota, del­l'aborto. Essa avviene quando si concepisce una vita, ma non la si dà alla luce, perché, nel frattempo, o per cause naturali o per il peccato degli uomini, il feto è morto. Fino a poco fa, questo dell’aborto era l'unico caso che si conosceva di maternità incompleta. Oggi se ne conosce un altro che consiste, all'opposto, nel partorire un figlio senza averlo concepito. Avviene nel caso di figli con­cepiti in provetta e immessi, in un secondo momento, nel seno di una donna, e nel caso dell'utero dato in prestito per ospitare, magari a pagamento, vite umane concepite altrove. In questo caso, quello che la donna partorisce, non vie­ne da lei, non è concepito “prima nel cuore che nel corpo “.

Purtroppo anche sul piano spirituale ci sono queste due tristi possibilità di maternità incompleta. Concepisce Gesù senza partorirlo chi accoglie la Pa­rola, senza metterla in pratica, chi continua a fare un aborto spi­rituale dietro l'altro, formulando propositi di conversione che vengono poi sistematicamente dimenticati e abbandonati a me­tà strada; chi si comporta verso la Parola come l'osservatore frettoloso che guarda il suo volto nello specchio e poi se ne va dimenticando subito com'era (cf. Gc 1, 23-24). Insomma, chi ha la fede, ma non ha le opere.

Partorisce, al contrario, Cristo senza averlo concepito chi fa tante opere, anche buone, ma che non vengono dal cuore, da amore per Dio e da retta intenzione, ma piuttosto dall'abitudi­ne, dall'ipocrisia, dalla ricerca della propria gloria e del proprio interesse, o semplicemente dalla soddisfazione che dà il fare. Insomma, chi ha le opere ma non ha la fede.

San Francesco d'Assisi ha una pa­rola che riassume, in positivo, in che consiste la vera maternità nei confronti di Cristo: “Sia­mo madri di Cristo - dice - quando lo portiamo nel cuore e nel corpo nostro per mezzo del divino amore e della pura e sincera coscienza; lo generiamo attraverso le opere sante, che devono risplendere agli altri in esempio... Oh, come è santo e come è caro, piacevole, umile, pacifico, dolce, amabile e desiderabile sopra ogni cosa, avere un tale fratello e un tale figlio, il Signore No­stro Gesù Cristo!”.
Noi - vuol dire il santo - concepiamo Cristo quando lo amiamo in sincerità di cuore e con rettitudine di coscienza, e lo diamo alla luce quando compiamo opere san­te che lo manifestano al mondo.


4. Le due feste di Gesù Bambino

San Bonaventura, discepolo e figlio del Poverello, ha raccolto e svilup­pato questo pensiero in un opuscolo intitolato “Le cinque feste di Gesù Bambino “. Nell'introduzione al libro, egli racconta co­me un giorno, mentre era in ritiro sul monte della Verna, gli tornò in mente ciò che dicono i santi Padri e cioè che l'anima di Dio devota, per grazia dello Spirito Santo e la potenza dell'Al­tissimo, può spiritualmente concepire il benedetto Verbo e Fi­glio Unigenito del Padre, partorirlo, dargli il nome, cercarlo e adorarlo con i Magi e infine presentarlo felicemente a Dio Pa­dre nel suo tempio.

Di questi cinque momenti, o feste di Gesù Bambino, che l'a­nima deve rivivere, ci interessano soprattutto le prime due: il concepimento e la nascita. Per san Bonaventura, l'anima conce­pisce Gesù quando, scontenta della vita che conduce, stimolata da sante ispirazioni e accendendosi di santo ardore, infine stac­candosi risolutamente dalle sue vecchie abitudini e difetti, è come fecondata spiritualmente dalla grazia dello Spirito Santo e concepisce il proposito di una vita nuova. È avvenuta la conce­zione di Cristo!

Una volta concepito, il benedetto Figlio di Dio nasce nel cuore, allorché, dopo aver fatto un sano discernimen­to, chiesto opportuno consiglio, invocato l'aiuto di Dio, l'anima mette immediatamente in opera il suo santo proposito, comin­ciando a realizzare quello che da tempo andava maturando, ma che aveva sempre rimandato per paura di non esserne capace.

Ma è necessario insistere su una cosa: questo proposito di vi­ta nuova deve tradursi, senza indugio, in qualcosa di concreto, in un cambiamento, possibilmente anche esterno e visibile, nella nostra vita e nelle nostre abitudini. Se il proposito non è messo in atto, Gesù è concepito, ma non è partorito. E uno dei tanti aborti spirituali. Non si celebrerà mai “la seconda festa “ di Ge­sù Bambino che è il Natale! È uno dei tanti rinvii che sono una delle ragioni principali per cui così pochi si fanno santi.

Se decidi di cambiare stile di vita ed entrare a far parte di quella categoria di poveri ed umili, che, come Maria, cercano so­lo di trovare grazia presso Dio, senza curarsi di piacere agli uomini, allora, scrive san Bonaventura, devi armarti di coraggio, perché ce ne sarà biso­gno. Dovrai affrontare due tipi di tentazione. Ti si presenteran­no dapprima gli uomini carnali del tuo ambiente a dirti: “È troppo arduo ciò che intraprendi; non ce la farai mai, ti mancheranno le forze, ne andrà di mezzo la tua salute; queste cose non si addicono al tuo stato, compro­metti il tuo buon nome e la dignità della tua carica... “.

Superato questo ostacolo, si presenteranno altri che hanno fama di essere e, forse, sono anche di fatto, persone pie religiose, ma che non credono veramente nella potenza di Dio e del suo Spirito. Que­ste ti diranno che, se cominci a vivere in questo modo - dando tanto spazio alla preghiera, evitando di prendere parte a pettegolezzi e a chiacchiere inutili, fa­cendo opere di carità -, sarai ritenuto presto un santo, un uomo devoto, spirituale, e poiché tu sai benissimo di non esserlo an­cora, finirai per ingannare la gente ed essere un ipocrita, atti­rando su di te la riprovazione di Dio che scruta i cuori.

A tutte queste ten­tazioni, bisogna rispondere con fede: “Non è divenuta troppo corta la mano del Signore da non poter salvare!” (Is 59, 1) e, quasi adirandoci con noi stessi, esclamare, come Agostino alla vigilia della sua conversione: “Se questi e queste ce la fanno, perché non anch'io? Si isti et istae, cur non ego? “


5. Maria ha detto Sì

L’esempio della Madre di Dio ci suggerisce cosa fare in concreto per imprimere alla nostra vita spirituale questo nuovo slancio, per concepire e far nascere davvero Gesù in noi in questo Natale. Maria disse un Sì deciso e pieno a Dio. Si insiste molto sul Fiat di Maria, su Maria come “la Vergine del fiat”. Ma Maria non parlava latino e perciò non disse fiat; non disse neppure genoito che è la parola che troviamo, a quel punto, nel testo greco di Luca, perché non parlava greco.

Se è lecito cer­care di risalire, con pia riflessione, alla ipsissima vox, alla parola esatta uscita dalla bocca di Maria - o almeno alla parola che c'era, a questo punto, nella fonte giudaica usata da Luca -, que­sta deve essere stata la parola “amen “. Amen - parola ebraica, la cui radice significa solidità, certezza - era usata nella liturgia come risposta di fede alla parola di Dio. Ogni volta che, al termine di certi Salmi, nella Volgata si leggeva una volta “fiat, fiat “, ora nella nuova versione dai testi originali si legge: Amen, Amen. Lo stesso per la parola greca: ogni volta che nella Bibbia dei Settanta si legge in quei medesimi salmi génoito, génoito, l'originale ebraico porta: Amen, amen!

Con l'“amen “ si riconosce quel che è stato detto come paro­la ferma, stabile, valida e vincolante. La sua traduzione esatta, quando è risposta alla parola di Dio, è: “Così è e così sia “. Indica fede e obbedienza insieme; riconosce che quel che Dio dice è vero e vi si sottomette. E dire “sì “ a Dio. In questo senso lo troviamo sulla bocca stessa di Gesù: “Sì, amen, Padre, perché così è piaciuto a te... “ (cf. Mt 11, 26). Egli anzi è l'Amen personificato: “Così parla l’Amen... (Ap 3, 14) ed è per mezzo di lui, aggiunge Paolo, che ogni “amen “ pronunciato sulla terra sale ormai a Dio (cf 2 Cor l, 20).

In quasi tutte le lingue umane la parola che esprime il consenso è un monosillabo: sì, ja, yes, oui, tag… La più corta parola del vocabolario, ma quella con cui sia gli sposi che i consacrati decidono della loro vita per sempre. Anche nel rito della professione religiosa e dell’ordinazione sacerdotale c’è infatti un momento in cui viene pronunciato un sì.

C’è una sfumatura nell’Amen di Maria che è importante raccogliere. Nelle lingue moderne noi usiamo del verbo il modo indicativo per indicare una cosa accaduta o che accadrà, il modo condizionale per indicare qualcosa che potrebbe accadere a certe condizioni e così via; il greco conosce un modo particolare che si chiama l’ottativo. È un modo che si usa quando si vuole esprimere desiderio o impazienza che una certa cosa accada. Ora il verbo usato da Luca, genoito, è proprio in tale modo!

San Paolo dice che “Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9, 7) e Maria ha detto a Dio il suo “sì “ con gioia. Chiediamole che ci ottenga la grazia di dire a Dio un gioioso e rinnovato Sì e così concepire e dare alla luce anche noi, in questo Natale, il Figlio suo Gesù Cristo.


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 Tertulliano, De carne Christi, 5,6 (CC,2, p. 881).

 Origene, Commento al vangelo di Luca, 22,3 (SCh, 87, p. 302).

 Isacco della Stella, Discorsi 51 (PL 194, 1863 s.).

 Lumen gentium 64.

 S. Ambrogio, Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 26 (CSEL 32,4, p.55).

 S. Massimo Confessore, Commento al Padre nostro (PG 90, 889).

 S. Francesco d’Assisi, Lettera ai fedeli, 1 (Fonti Francescane, n. 178).

 S. Bonaventura, Le cinque feste di Gesù Bambino, prologo (ed. Quaracchi 1949, pp. 207 ss.).

 S. Agostino, Confessioni, VIII,8,19.


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