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La "paolinità" del Pastore

Ultimo Aggiornamento: 02/12/2008 14:29
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02/12/2008 14:29

La "paolinità" del Pastore


ROMA, lunedì, 1 dicembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la riflessione di don Michele Delle Foglie apparsa sul sesto numero di
“Paulus” (dicembre 2008), dedicato a “Paolo come esempio di carità pastorale”.



* * *

di Michele Delle Foglie, parroco

Il primo linguaggio che ha sempre aperto il cuore dei fedeli e ha attirato il loro amore verso Chiesa è stato il modo con cui il parroco ha indossato i panni del Pastore. Il linguaggio dei gesti concreti, specialmente dell’attenzione ai periferici o anche lontani, ha sempre aperto un varco per il quale non doveva passare la persona del parroco, il suo saper dire o il suo saper fare: sarebbe questo un fallimento! Doveva invece passare, deve necessariamente passare il messaggio affidato alla nostra predicazione: «Ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11).

Nella predicazione non ho mai registrato la necessità dell’uso del linguaggio teologico, benché anche a me sia piaciuto studiare un po’ di teologia e tenermene aggiornato. Un conto è il bagaglio delle nozioni e della dottrina, un conto è la comunicazione del messaggio che richiede i segni immediati della percezione e dell’accoglienza. Quel dire di san Paolo – «Mi sono fatto tutto a tutti» (1Cor 9,22) – mi pare che sia misura e compimento dell’esigenza di offrire nel nostro ministero, specialmente nella nostra predicazione e nella presidenza della sacra liturgia, non qualcosa per la vita ma “Qualcuno” che dà la Vita. Se il messaggio della Chiesa è Cristo ieri, oggi e sempre, è Cristo il dono della fede, che si apre all’accoglienza perché i suoi testimoni non predicano una dottrina, bensì il “Vangelo” del Signore Gesù. Paolo getta il fondamento della sua riuscita sul punto essenziale della sua conversione, della sua vocazione e della sua missione: Cristo Gesù è il suo amore, la sua vita offerta in sacrificio.

Il Pastore dei tempi moderni attinge a questa inesauribile sorgente dell’amore di Dio in Cristo Gesù che è motivo della sua fedeltà al ministero ricevuto, alla sua difficile missione tanto poco compresa dal mondo e molto più combattuta fino alla persecuzione. Il linguaggio dell’amore è il linguaggio del vangelo e del suo Maestro; è il linguaggio dell’apostolo e dei santi; è il linguaggio della Chiesa quando spoglia se stessa della veste preziosa per indossare, per dirla con il Servo di Dio Don Tonino Bello, il grembiule del servizio. Il linguaggio dell’amore investe la vita ministeriale e apre la strada alla comunicazione, al dialogo, all’intesa reciproca e alla conversione. Quante e quante volte nella nostra vita di parroci, pastori più avvertiti dalla sensibilità del popolo a motivo della qualifica del nostro ufficio pastorale, il nostro contatto con la gente, anche la più lontana dei nostri ambienti, rifulge per un semplice gesto di cortesia, per un saluto, per un qualche interesse al mondo del lavoro o della sofferenza, o del mondo giovanile e degli anziani.

All’ascensore dell’ospedale, dove corri perché chiamato ad amministrare il sacramento dell’unzione degli infermi, ti senti dire: «Grazie, Padre, per essere venuto; noi non siamo della sua parrocchia, ma avevamo bisogno del sacerdote. Le saremo grati per sempre». Sali le scale per comunicare alla famiglia la tragica morte del figlio, il giovane Paolo, vittima dell’incidente stradale, e chiedi al Signore la parola giusta per l’ingrato compito. «È successo qualcosa», hanno intuito la ferale notizia che riguarda il figlio di appena 23 anni morto sul colpo per l’urto frontale. Prolungare la presenza nella famiglia e condividerne in silenzio le lacrime apre alla fiducia e alla confidenza nel pastore d’anime. Ti rechi con discrezione nelle case più umili e più povere. La carità non fa chiasso, perciò si fa in modo che il pasto quotidiano vi giunga con il massimo riserbo. Cosa poi senti dirti? «Non sapevo, Padre, di questa carità della Chiesa», e voi cosa sapete, mi domando. «Non l’avrei mai saputo né creduto se la persona beneficata non me lo avesse confidato».

Molti parlano e tanti hanno scritto di un’ “arte pastorale”. Essa è anche tra le materie d’insegnamento nei seminari. Ma non basta che sia materia d’insegnamento, perché si rischia l’astrazione se mancasse la “vita del Pastore” offerta senza misura, che è il segno massimo della sua configurazione al buon Pastore, maestro e santificatore, «il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Non dunque la straordinarietà del ministero, ma la quotidianità di vita di ogni giorno vissuta per la causa di Cristo e del vangelo. In tal modo non è difficile percepire i sentimenti del popolo dei fedeli, dei vicini e dei lontani: quel modo di pregare e di celebrare, quella straordinaria sensibilità verso i poveri, quel grande rispetto per i dotti e per gli umili, finanche per i lontani o forse anche nemici della Chiesa; quel farsi piccoli con i piccoli, quella particolare tenerezza verso gli anziani, quel cuore paterno vicino a tutti nella sofferenza nel lutto e nella prova; quella profezia nella sua predicazione, quel piacere di ascoltarlo; quella severità a tempo opportuno, quei richiami forti e amabili al suo gregge, quell’appello rispettoso ma esigente alle istituzioni; quel consenso, spesso tacito e velato, ma sempre vero nella missione pastorale del proprio parroco…

L’ardore e l’ansia apostolica di Paolo verso le anime sono propri di chi ha incontrato Cristo e sa di essere stato da Lui amato fino al sangue e a Lui ha offerto tutta la sua vita; di chi ha reso vincente la scommessa che Gesù aveva fatto su di lui riguardo al discepolo Anania, turbato da quella conversione che avrebbe fatto dello spietato persecutore dei seguaci di Cristo un vas electionis: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15-16).

Lo stile dell’Apostolo va all’essenziale, in molte prove sempre sorretto dalla forza della verità che egli stesso predica: «Vivendo la verità nell’amore» (Ef 4,5). È lo stile semplice ma forte di chi ha creduto e si sente chiamato e consacrato a dare la vita perché il vangelo penetri il cuore di ogni uomo. Anche fino all’inferno, pur di salvarne uno solo! (1Cor 9,22). È la vita fatta dono e sacrificio, dono e servizio, dono e responsabilità.

La predicazione di Paolo, ad ampio respiro missionario, è fatta non di dottrina astratta, ma di vita testimoniata fin dal martirio. Paolo non teme le potenze di questo mondo, è proteso al traguardo. In catene a Roma scriverà: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,7). Sa egli di non predicare se stesso, ma il vangelo di Gesù Cristo Salvatore, e Cristo crocifisso: «Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso come io per il mondo» (Gal 6,14) . E predicare per Paolo non è facoltativo. È invece un obbligo: «Guai a me se non predicassi il vangelo!» (1Cor 9,16).

La vita sacerdotale e il ministero pastorale del parroco hanno da attingere abbondantemente al vangelo di nostro Signore Gesù Cristo. Ma non è passato questo stesso vangelo attraverso l’esperienza dell’apostolato di chi adesso ha per vocazione consacrato la propria vita? Non si chiama, oggi più che mai, l’apostolo Paolo il grande catecheta e il catechista missionario del vangelo predicato a tutte le genti secondo il comando di Gesù? «Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16,15). È tutta qui la ragione e la forza della “paolinità” che investe la vita e la storia della Chiesa, e tutta la permea e la informa durante i secolari percorsi della sua missione. È qui anche la fonte del respiro paolino che a pieni polmoni è presente nel nostro ministero. È una strada tracciata e battuta ormai da duemila anni, perciò è una strada sicura perché il vangelo sia predicato, in parole e in opere, anche oggi a tutti i popoli e a tutte le nazioni.

L’Areopago ateniese (At 17,22ss.) ai nostri giorni non è più o esclusivamente il pulpito delle nostre chiese e delle nostre cattedrali, dove forse molto si proclama e poco si ascolta. Ed ecco la necessità di “impiantare “ pulpiti dovunque è presente l’uomo, dove egli vive, dove egli lavora, dove egli si aggrega, gioisce o soffre, discute o riflette. Sono i moderni areopaghi da dove l’apostolo di Cristo annuncia la parola che salva e la sostiene con la buona testimonianza della vita, che le dà credito ed efficacia. Il comando di Gesù di portare il vangelo in ogni angolo della terra impegna gli evangelizzatori e i ministri, dispensatori dei misteri di Dio, a cominciare dalle nostre parrocchie, dai nostri paesi, dalle nostre città. Col linguaggio nuovo, “ma sempre antico” della carità, il più persuasivo e il più fecondo dei linguaggi, perché è il linguaggio comunicativo dell’amore.


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