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In memoria di Paolo VI servo di Dio

Ultimo Aggiornamento: 10/12/2008 12:24
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10/12/2008 12:20

TRENT’ANNI DI GRATITUDINE
 Giovanni Battista Montini Una vita trasfigurata dalla luce del Risorto


 DI MARCO
RONCALLI
 A
Castel Gandolfo, la sera del 6 agosto del 1978, ricevute poche ore prima la Comunione in forma di viatico e l’Unzione degli infermi, Paolo VI scioglieva le vele, lasciava la sua tenda per il cielo. Un epilogo affrontato come atto supremo nella preghiera e nell’abbandono, ultima battuta di un ininterrotto colloquio con Dio al quale da tempo Giovanni Battista Montini si era preparato. «Mi aiuti a morire bene», aveva più volte ripetuto al fedele segretario monsignor Pasquale Macchi al quale – dall’inizio del pontificato – aveva raccomandato che l’Olio santo fosse sempre a portata di mano. Come fu necessario in quel giorno, festa della Trasfigurazione, solennità che «getta una luce abbagliante sulla nostra vita quotidiana e ci fa rivolgere la mente al destino immortale che quel fatto in sé adombra», per dirla con le parole che avrebbe dovuto pronunciare papa Montini nell’Angelus, esattamente trent’anni fa. Paolo VI era stato esaudito: «Ecco: mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce», aveva scritto nel suo Pensiero alla morte. Se è vero che l’annuncio dell’assenza del Papa al balcone in quella domenica deluse i fedeli raccolti a Castel Gandolfo, passò comunque fra i più il messaggio non allarmistico di un’indisposizione, come altre volte. Del resto, la primavera del 1978 per l’ottantenne Paolo VI era stata particolarmente pesante. Lui stesso nel messaggio pasquale Urbi et orbi, il 26 marzo 1978, confidava di annunciare il Cristo risorto raccogliendo «quanto ancora ci resta di umana energia e quanto ancora ci sovrabbonda di sovrumana certezza». C’era stata anche per cinquantacinque giorni, fra marzo e maggio, la straziante vicenda di Aldo Moro, il rapimento, i cinque componenti della scorta barbaramente trucidati, l’assassinio dello statista nonostante gli accorati appelli «agli uomini delle Brigate Rosse». C’era stata la ferita – recata il 22 maggio 1978 – quando con la legge 194 anche in Italia era diventato possibile abortire legalmente. E il 29 giugno di quello stesso anno, tracciando una specie di bilancio del suo servizio petrino, era stato ancora lo stesso Paolo VI a parlare di «corso naturale della nostra vita» che «volge al tramonto». Tuttavia, tornando al 6 agosto ’78, nessun segnale d’inquietudine era uscito dal Palazzo in quel pomeriggio festivo, né il giorno prima quando il suo respiro si era fatto più affannoso, la febbre era salita e c’era stato un consulto fra i medici. Il Segretario di Stato vaticano Jean-Marie Villot stava nella vicina Villa Barberini; in libertà uomini di curia e di governo; la maggior parte degli italiani in vacanza. E Paolo VI, schiacciato da un incalzare di eventi così rapidi da rendere inutili i presidi medici, se ne andava come aveva sempre desiderato: senza disturbare nessuno, lavorando sino alla fine sulle labbra il Pater noster:

 «Discessus pius, morte pia», «un progresso nella comunione dei Santi».
  Riappropriarci oggi di quel momento lasciando scorrere nella mente i fotogrammi di quel congedo, ad esempio, nella cronaca del fedele segretario don Pasquale Macchi, significa ripensare ad una morte repentina, quasi solitaria, senza veglie di popolo – pensiamo a quella di Giovanni XXIII o di Giovanni Paolo II – ma che, egualmente, fu coronamento di una vita completa, sigillo di un dono:
quello di tanti anni di servizio alla Chiesa e al mondo. Per tante persone le sequenze successive sono quelle di una semplice bara di legno chiaro, senza drappi, a terra e, sopra, pagine di Vangelo sfogliate dal vento, ma anche una foresta di mani che applaudono, con calore e affetto, i funerali di un pontefice. Un Papa entrato nella storia come tormentato, amletico, cupo – così vuole lo stereotipo –, in realtà ben capace di sorridere, di credere nell’uomo, di gustare la verità, la bontà, la bellezza «in quella essenziale unità da cui scaturisce la gioia, che a differenza del piacere o della felicità, sempre illusoria, è soltanto un’esperienza dello spirito», come intuì lucidamente monsignor Enzo Giammancheri, sacerdote bresciano, 'colonna' della Editrice La Scuola, pronto a cogliere nel grande conterraneo una personalità «intrinsecamente» religiosa («Essere religiosi ex officio che giova quando non lo si è ex animo?», così in un appunto, Montini, già nel 1920). Personalità religiosa, sì, e tuttavia non formalistica o ritualistica, ma libera, forte di quella libertà docile all’azione dello Spirito.
  Una personalità che con un solo aggettivo potremmo connotare come «cristocentrica». E aveva ragione Yves Congar a sostenere : «Paolo VI sarà valutato col tempo». Amato e discusso, timoniere del Concilio Vaticano II, sostenitore di quel dialogo vero appreso alla scuola del Vangelo, di Pascal, di padre Giulio Bevilacqua («nessuno è estraneo al cuore della Chiesa; nessuno è indifferente al suo ministero»), Paolo VI, primo pontefice a rinunciare alla tiara e – va da sé dopo Pietro – a visitare la Terra Santa, primo a parlare alla Nazioni Unite e a visitare i cinque continenti, e altro ancora, continua a scuoterci e a interrogarci. Soprattutto però attraverso quel suo amore per la Chiesa manifestato sino all’ultimo respiro come si legge ancora nel

 Pensiero alla morte:
«La Chiesa (...) potrei dire che da sempre l’ho amata e che per essa, non per altro, mi pare d’aver vissuto».
 
http://edicola.avvenire.it/ee/avvenire/default.php?pSetup=avvenire&curDate=20080806&goTo=A01

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