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Dante poeta teologo

Ultimo Aggiornamento: 25/01/2010 20:22
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24/06/2009 20:50

Si avvia alla chiusura il tour mondiale di letture dantesche

Benigni e la nostalgia dell'eterno


di Marco Tibaldi

L'ampio successo di critica e di pubblico registrato dalle letture dantesche realizzate dal comico toscano Roberto Benigni, ora raccolte anche in un saggio (Il mio Dante, Torino, Einaudi, 2008, pagine 145, euro 16), come direbbe Paul Ricoeur "danno a pensare". Come già accaduto in relazione al film La vita è bella, che gli ha valso l'Oscar e un successo planetario, anche in questo caso il principale merito di Benigni è di esser riuscito a divulgare a una quantità enorme di persone temi e messaggi impegnativi e ardui da trattare.



Una delle ragioni di tanto successo è nello stile comunicativo adottato, che si riallaccia, con le opportune personalizzazioni, al filone antico dei giullari, dei norren della tradizione nordica. Per uno strano paradosso antropologico, tipico del fenomeno teatrale, a colui che per definizione e per mestiere "finge" da sempre è riconosciuta una certa parentela con la verità. Anche nel caso in cui questa verità non venga accettata, come ricorda Kierkegaard nel celebre apologo del clown che corre nel villaggio per annunciare l'imminente incendio che sta già consumando il tendone del circo.

La forza e le ambiguità del fenomeno tutto umano del ridere si trovano esemplarmente all'inizio stesso dell'esperienza della fede, come la storia di Abramo e Sara ci ricorda. Ciò che è decisivo è allora, per così dire, la qualità del riso che viene suscitata dal comico. Ci può essere, infatti, un riso irriverente e sarcastico, un riso di sfiducia e incredulità, ma anche un riso che nasce dalla gioia e, cosa ancora più tremenda e sublime, un riso che nasce dalla o nella sofferenza. Benigni sa muoversi con maestria all'interno di questa vasta gamma dei significati del ridere, ma colpisce nel segno quando riesce nell'ultima e più impegnativa impresa:  parlare con il sorriso della sofferenza. Così è stato per La vita è bella e così è stato anche per Dante.

Benigni infatti mette subito in evidenza come il cammino descritto nasca da una profonda sofferenza del poeta, che vuole uscire da una situazione angosciante di peccato:  "Ci sono delle persone che dicono che tutto è brutto senza possibilità di riscatto, e a me non piacciono per niente; ce ne sono delle altre che dicono che tutto è brutto, ma riescono lo stesso a farci vedere la bellezza in mezzo a tanto buio. Sono le mie preferite, e Dante è tra queste, perché nonostante il malessere che lo angosciava amava la vita. La Divina Commedia è un pianeta sconosciuto dove troviamo cose che riguardano noi. E bisogna che andiamo a vedere nel nostro passato, proprio come fa Dante, che rientra nella sua vita". Un cammino, quindi, che prende le mosse dalla propria situazione di inautenticità, dal sentire tutta l'asperità per l'amaro salario del peccato e, per contrario, anche un cammino per recuperare il bene più prezioso:  l'incontro con Dio, Signore e amante della vita.

Ciò che Benigni è riuscito a fare è l'aver reso presente lo spirito del capolavoro dantesco, in cui si trova "praticamente tutto", ovvero tutto ciò che serve realmente:  un cammino di redenzione per uscire dalla morte e incontrare la vita vera.

Sappiamo bene quanto oggi sia difficile parlare, e soprattutto essere ascoltati, su temi impegnativi quanto decisivi come la redenzione, il peccato, la vita eterna. Benigni, forse inconsapevolmente attratto e, per così dire, posseduto dalla tragica bellezza del poema dantesco, l'ha saputo fare, mostrando come la bellezza di Dio, il fascino della vita eterna, la possibilità dell'incontro definitivo con il Creatore della vita, covino, come brace sotto la cenere, anche nel cuore del disincantato uomo dei nostri tempi. Si era detto, infatti, che la secolarizzazione aveva come portato l'eterno nella storia, generando quel senso di accelerazione che è una nota distintiva dei tempi moderni, e cancellando definitivamente la percezione della destinazione ultraterrena. La riscoperta attualità di Dante smentisce questa visione e invita a riproporre con rinnovata insistenza i temi decisivi della fede cristiana.

Il successo della proposta di Benigni, ora confermato anche da una tournée internazionale (che terminerà con le date di Madrid, dal 30 giugno al 2 luglio), risiede in ultimo anche da una certa inflessione cristologica del suo raccontare. L'attore ha ben presente il sostrato biblico della Commedia, come più volte ricorda nel suo saggio. Emblematico è, ad esempio, il richiamo che fa a proposito del celebre episodio del conte Ugolino, uno dei punti sicuramente più drammatici dell'intera opera, in cui assistiamo allo strazio di un padre che deve morire accanto e dopo i propri figli. Ebbene uno di questi, in preda ormai agli spasmi del digiuno, implora il genitore:  "Padre mio, ché non mi aiuti?" al che Benigni commenta:  "E qui, non si resiste, e non solo per lo strazio del figlio più piccino, ma perché le parole di Gaddo sono quelle che Cristo pronunciò sulla croce:  "Padre, perché mi hai abbandonato?". C'è dunque il richiamo alla crocifissione, e nella faccia di Cristo vediamo quella di tutti coloro che soffrono e chiedono un aiuto estremo all'insopportabilità del dolore".

Non è un richiamo di maniera, quanto una feconda intuizione, se pensiamo che ci troviamo ancora nell'inferno dantesco, da cui, come ricordava Hans Urs von Balthasar in un celebre saggio su Dante, manca proprio il tema cristologico del descensus, così presente nella tradizione orientale. Ma la vera intonazione cristologica viene, ancora una volta, da quel sorriso con cui Benigni, sulla scia di Dante, ci sa raccontare tutto questo, quel sorriso che paradossalmente molti artisti antichi e contemporanei hanno posto proprio sulle labbra del Gesù morente in croce, piccolo ma sconvolgente segnale dell'imminente risurrezione.


(©L'Osservatore Romano - 25 giugno 2009)
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