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Cinquant'anni fa moriva monsignor Giulio Belvederi, fondatore della comunità delle suore benedettine di Priscilla

Ultimo Aggiornamento: 29/09/2009 18:24
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29/09/2009 18:24



Cacciava gli anticlericali a colpi di cero


di Giulio Andreotti

Nel diario personale di Giovanni xxiii alla data del 10 settembre 1959 è scritto:  "Uscendo da San Pietro proseguii per via Salaria per visitare il mio caro Mons. Giulio Belvederi, gravemente malato. Grande emozione per tutti. Lo incoraggiai uti frater fratrem". 
Era l'ultimo atto di una solidarietà nata negli anni giovanili romani e tale da far sì che la sera stessa dell'elezione papale don Angelo chiamasse al telefono l'amico don Giulio intrattenendolo a lungo quasi per alleggerirsi dalla comprensibile emozione. Due personalità moderne provvidenzialmente sfuggite ai rigori dell'antimodernismo fanatico perché chiamate subito a prestar servizio sacerdotale extra urbem, come segretari dei vescovi:  il primo a Bergamo e l'altro a Bologna.
Il distacco dai suoi famigliari nel 1900 era stato reciprocamente duro; e dopo il quadriennio romano e l'ordinazione sacerdotale, nel bivio tra la permanenza a Roma e il ritorno a Bologna, era comprensibilmente titubante. A decidere fu la richiesta del suo arcivescovo, che pregò il Respighi di rinunciare al nipote, volendolo come suo collaboratore. Don Giulio vide nel ritorno la risposta alla sua vocazione primaria. Del resto anche a Bologna avrebbe potuto studiare e insegnare. E così fu, con intensità e grande successo.
Don Giulio, trasferitosi in seminario, insegnò Sacra Scrittura e lingua ebraica, continuando però nello studio dell'archeologia sacra, con una eco che andava ben oltre il seminario e la città. Accanto all'insegnamento moltiplicava le sue attività sia nella cura spirituale del celebre Collegio degli Spagnoli sia nella redazione del quotidiano cattolico, di cui era la penna più nota e apprezzata. Come dignità canonica fu importante anche il ruolo di primicerio del Capitolo della Cattedrale, ma il soggetto non si lasciava attrarre dalle pompe e dai ruoli gerarchici.
La fondatrice della Gioventù cattolica femminile, Armida Barelli, dovendo scegliere un assistente centrale propose don Belvederi, che di fatto ricoprì tale incarico senza peraltro la definitiva formalizzazione. Forse non senza qualche obiettivo fondamento qualcuno non gradiva la assoluta indipendenza intellettuale di questo sacerdote; e ne temeva anche le posizioni schiettamente irruenti dinanzi alle ingiustizie e all'ignoranza. Ne sapeva qualcosa la pattuglia di anticlericali che disturbavano durante la processione del Corpus Domini. Più di una volta il canonico Belvederi utilizzò il cero - che era lieto fosse di dimensioni consistenti - per far saltare il cappello dei petulanti provocatori. In tutta la sua vita non confuse mai la virtù della prudenza con l'adagiamento al quieto vivere e a qualunque forma di viltà.
Una svolta decisiva avvenne nel 1922. Dopo gli otto anni di pontificato di Giacomo Della Chiesa fu eletto Pio xi, che aveva avuto modo di apprezzare Belvederi nella Biblioteca Ambrosiana e aveva conosciuto il suo lavoro nella Gioventù femminile e specialmente la connessione tra ricerche bibliche e archeologiche e formazione spirituale dei giovani.
Volendo il Papa dar vita a un Istituto di Archeologia cristiana la candidatura di don Giulio Belvederi era la più naturale. Staccarsi da Bologna dopo ventidue anni così intensi non era facile, ma, a parte la sua vocazione specifica di studioso, lo attrasse il caldo invito del Collegio Capranica che lo volle come padre spirituale.
Si deve al binomio Kirsch-Belvederi la creazione dell'Istituto e il suo prestigioso avvio. Belvederi realizzò anche la sua vecchia idea di una associazione di "Amici delle catacombe" che ebbe subito l'approvazione del Papa, con un discorso che riassumeva la tematica belvederiana dell'apostolato fatto attraverso la liturgia e lo studio della Chiesa dei primi secoli.
Di un attivismo entusiasmante, raccolse le adesioni e i mezzi necessari per costruire su alcune catacombe case di accoglienza per i pellegrini. Quella di Priscilla diverrà la pupilla dei suoi occhi; con una comunità di suore oblate benedettine, particolarmente vocate - anche con una piccola tipografia specializzata - alla divulgazione dei valori catacombali. Don Giulio Belvederi promosse anche la nascita di altri due insediamenti delle sue oblate benedettine:  a Casperia-Montefiolo nel reatino e a San Felice Circeo. Nel contempo, morto Orazio Marucchi, era stata offerta a Belvederi la cattedra di Archeologia presso l'Università Urbaniana di Propaganda Fide.
Schivo da ogni esteriorità, Belvederi fu sorpreso per un incarico straordinario che il Papa volle dargli nel 1927:  lo inviò come suo rappresentante a portare a Madrid la berretta cardinalizia che il Re di Spagna doveva imporre all'arcivescovo di Toledo monsignor Segura y Sáenz. Accompagnato da monsignor Luigi Traglia (suo grande amico, più tardi vicario di Roma) svolse questa missione senza essere coinvolto da quelle vanità cui anche anime molto belle non sfuggono. Questa missione straordinaria fu l'unica parentesi in una vita tutta dedita all'apostolato, alla ricerca, alla coltivazione di rapporti spirituali con la legione degli ex alunni di Propaganda e del Collegio Capranica.
Don Giulio morì il 28 settembre 1959, dopo aver avuto venti giorni prima lo straordinario conforto della visita del Papa, che anche nei giorni successivi volle manifestargli tenera amicizia inviandogli più volte monsignor Loris Capovilla, il quale celebrò anche la messa funebre nella chiesa parrocchiale di San Saturnino, rinnovando la partecipazione del Papa espressa con un messaggio ai familiari alla notizia della morte.
Giovanni XXIII volle fare di più. Volle andare a pregare di persona presso la tomba del "Nostro Padre" nel monastero sabino di Montefiolo.


(©L'Osservatore Romano - 30 settembre 2009)
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