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Viaggio Apostolico di Sua Santità Benedetto XVI a Cipro 4-6 giugno 2010

Ultimo Aggiornamento: 11/06/2010 21:46
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07/06/2010 18:20

Le radici della pace crocevia dell'umanità


dal nostro inviato Mario Ponzi
 

Il viaggio apostolico del Papa a Cipro si è concluso - così come si era iniziato - con un gesto simbolico, significativo per quella Terra Santa "ancora insanguinata", che tanto sta a cuore a Benedetto XVI:  la benedizione di una pianta di ulivo, l'albero della pace per eccellenza. Lo aveva fatto appena giunto a Paphos venerdì pomeriggio, e lo ha fatto di nuovo all'aeroporto di Larnaca, domenica sera, 6 giugno, prima di lasciare l'isola.
Un messaggio molto semplice e molto chiaro il suo. È venuto a seminare la pace nel solco tracciato da Paolo, Barnaba e Marco; ha raccolto, per buona parte delle circa cinquantadue ore trascorse nell'isola, le speranze di pace di un popolo e le ha innestate in alberi secolari che saranno piantati, a ricordo e monito, in una terra che, forse mai come in questa circostanza, si è proposta al mondo intero come crocevia di popoli, razze, culture e religioni diverse; per poche ore specchio di quel sogno di pace che continua a sfuggire a tutta la martoriata regione mediorientale.
La pace dunque è stata il filo conduttore di questo nuovo pellegrinaggio del Papa. Le premesse c'erano tutte. La tragica uccisione in Turchia di monsignor Padovese, proprio nelle ultime ore prima della partenza; le ansie manifestate dal presidente cipriota Dimitris Christofias, per l'ultradecennale divisione dell'isola, le tensioni interne alla Chiesa ortodossa, nonostante le concrete manifestazioni di stima e di amicizia di Sua Beatitudine Crisostomo II; il dolore dei cattolici armeni defraudati delle loro chiese come delle loro case; l'emorragia cristiana nel Medio Oriente causata dall'odio razziale e religioso; le attese riposte nell'assise sinodale d'ottobre per la Chiesa in quest'area del mondo senza pace; i bagliori di guerra nel mare che bagna la Terra Santa. Il Papa è passato in mezzo a questa Chiesa e a questo popolo in affanno, con la sua consueta delicata ma ferma determinazione, non senza lasciare traccia.
La testimonianza più concreta si è avuta proprio domenica mattina, momento culminante di tutto il viaggio. Nel palazzo dello sport di Nicosia si doveva celebrare la messa per la consegna dell'Instrumentum laboris per la prossima assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei vescovi.
Una cerimonia che è stata rattristata da gravi episodi, causa di profondo dolore per il Pontefice. E non ne ha fatto mistero parlando dinanzi al mondo intero. Doveva esserci, a quella celebrazione, anche monsignor Padovese, il pastore che tanto aveva contribuito alla preparazione del documento di lavoro che di lì a poco il Papa avrebbe rimesso nelle mani dei rappresentanti delle Chiese del Medio Oriente. E Benedetto XVI ha fatto sì che fosse presente tra i protagonisti di questo momento di apertura simbolica dell'assise sinodale, ricordandone la personalità e il sacrificio. Così come ha voluto aggiungere nel suo calice il sangue versato, anche di recente, in questa parte di mondo e ripetere il suo "appello personale" perché fosse l'ultimo a bagnare queste terre, specie la Terra Santa.
La consegna del documento è avvenuta al termine della messa, alla quale hanno partecipato migliaia di persone, cattoliche e non, provenienti anche dalle altre Chiese della regione. Forse il momento più toccante di questa giornata è stato proprio lo sfilare dei patriarchi (Sfeir, Delly, Twal, Naguib, Tarmouni, Younan, Laham), dei presidenti delle Conferenze episcopali locali, dei tre cardinali a capo dei dicasteri della Santa Sede più direttamente coinvolti - Kasper, Sandri e Tauran - davanti al Papa per ricevere quel libriccino di appena quaranta pagine, nelle quali sono contenute tutte le attese e le speranze della Chiesa diffusa in quella vasta regione del mondo, che va dall'Egitto all'Iraq. "La Chiesa cattolica nel Medio Oriente:  comunione e testimonianza. La moltitudine di coloro che erano diventati credenti (Atti degli Apostoli, 4, 32) aveva un cuor solo e un'anima sola" il titolo del documento. I presuli che lo avevano ricevuto, lo stringevano tra le mani tradendo ora emozione, ora gioia, ora perplessità per un futuro che sanno comunque difficile. E mostravano anche un po' di preoccupazione per la grande responsabilità che il Papa aveva appena messo nelle loro mani, cioè guardare con onestà e sino in fondo anche all'interno della propria casa, per vedere, per capire.
Il testo è il frutto di un lavoro collettivo durato alcuni mesi. In esso sono affrontate tutte le situazioni difficili che vivono i cristiani nella regione, assediati da una parte dall'estremismo islamico che minaccia persino gli stessi musulmani, e dall'altra dai conflitti che ancora scuotono la Terra Santa. Vengono denunciate situazioni destabilizzanti, causate da occupazioni territoriali, vere e proprie "ingiustizie politiche", che di fatto limitano la libertà di movimento a popoli e individui, penalizzano lo sviluppo economico, la vita sociale e quella religiosa. Così come vengono denunciate le violenze perpetrate contro i cristiani, come per esempio accade in Iraq, e le angherie subite in regimi autoritari se non proprio dittatoriali, dove sono costretti a subire tutto in silenzio, nel tentativo di salvare almeno l'essenziale. Ma lo sguardo cade anche all'interno della Chiesa, dove si intrecciano debolezze strutturali, affannosa ricerca dell'unità anche tra i membri del clero, l'affacciarsi di posizioni estremistiche che tendono a giustificare atteggiamenti di ingiustizia, offrendo così una sorta di controtestimonianza, dannosa per la Chiesa e per il popolo dei fedeli.
Puntuale sembra il richiamo dell'arcivescovo Eterovic alla situazione vissuta dalla prima comunità cristiana in Terra Santa, costretta a vivere tra difficoltà e persecuzioni ai tempi della dominazione romana.
Per poche ore questo popolo e questa Chiesa, si sono ritrovati uniti davanti al Papa che è sembrato reincarnare per loro le figure degli antichi padri:  Paolo, Barnaba, Marco. Affollatissimo l'Eleftherìa, il palazzo dello sport della capitale. Generalmente può contenere seimila persone. Difficile dire quante ce ne fossero domenica mattina. Certo è che almeno il doppio erano all'esterno, nel grande parcheggio, attrezzato per l'occasione con maxischermi per consentire a tutti la partecipazione. Molta gente è venuta dalla Grecia, dalla Turchia, dall'Egitto, dall'Iraq, dalla Terra Santa, dall'Europa. Alcuni fedeli maroniti profughi dal nord rivendicavano con striscioni la liberazione delle loro case. Gli striscioni sono stati rimossi prima dell'arrivo di Benedetto XVI, perché non fosse confusa la cerimonia liturgica con altri tipi di manifestazione. Mentre è rimasto sul muro di fondo del complesso sportivo, proprio davanti all'altare del Papa, un manifesto assai significativo per il momento particolare che il Paese sta vivendo, proprio dopo la tragedia di monsignor Padovese:  "Santo Padre - era scritto sul manifesto - la Chiesa che è in Turchia ti ama".
Imponente il coro multirazziale che ha guidato il canto della composita assemblea. Formato per la gran parte da fedeli filippini, ne facevano parte coriste africane, srilankesi, musicisti libanesi e ciprioti. Sull'altare, a far corona al Pontefice, i porporati, i presuli e i prelati del seguito papale, i patriarchi e i vescovi rappresentanti delle Chiese cattoliche del Medio Oriente, diciassette vescovi maroniti provenienti da diverse parti del mondo, e numerosi sacerdoti.
Si è pregato in greco, in inglese, in arabo, in latino. Il rito è stato estremamente suggestivo. Sarà stato per l'emozione di certi canti o per i colori degli abiti tradizionali indossati dagli offerenti, o per la commozione che per lunghi tratti ha segnato il volto del Papa; sta di fatto che tutta la cerimonia si è risolta in una espressione di fede profonda, proposta in tutta la ricchezza di una tradizione che nulla toglie alla solennità del rito.
E poi il momento della presentazione dell'Instrumentum da parte dell'arcivescovo Eterovic e la successiva consegna alla Chiesa del Medio Oriente dalle mani del Papa.
I fedeli hanno seguito questo momento con una partecipazione incredibile. La gente semplice spesso comprende o intuisce molto più di qualsiasi commentatore che cerca nel bagaglio della propria cultura la chiave di interpretazione di una realtà che invece agli occhi della gente è già chiara.
Il popolo di Cipro ha mostrato di aver capito il messaggio di Benedetto XVI. Molto più di quanto non abbiano sottolineato i quotidiani nazionali, peraltro tutti abbastanza benevoli nei suoi confronti, con qualche rara eccezione ferma su posizioni estremiste. Del resto quello lanciato dal Papa - ed è stato chiarissimo in tutti i suoi discorsi, sino a quello del congedo - è stato un messaggio religioso e umano. Dunque molto più facile da capire di un qualsiasi discorso politico o ideologico. La Chiesa e il Papa non si muovono su un terreno politico. Ribadiscono principi generali, universali, religiosi e umani che nessun sistema politico e nessuna ideologia ha il diritto di tradurre, bandire o negare. A Cipro Benedetto XVI si è posto ai piedi della Croce e ha richiamato proprio quei valori fondamentali per l'uomo, per qualsiasi uomo libero. Ha invocato la giustizia, la solidarietà, la riconciliazione e la pace oltre ogni confine. Parlava a Nicosia ma il suo sguardo era rivolto altrove, laddove si trova l'ultimo uomo che soffre e spera in un futuro diverso.


(©L'Osservatore Romano - 7-8 giugno 2010)
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