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la beatificazione di don Carlo Gnocchi

Ultimo Aggiornamento: 26/10/2009 18:09
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La dichiarazione d'amore di don Carlo Gnocchi

Geloso di un Novecento grande e disperato


Il 2 ottobre si tiene a Milano, nell'Università Cattolica del Sacro Cuore, il convegno ""Amiamo di un amore geloso il nostro tempo". Don Carlo Gnocchi e il Novecento". Sul tema pubblichiamo un articolo di uno dei relatori.

di Daniele Bardelli

La riprovazione dei mali causati dal progresso impetuoso del Novecento ha fatto spesso condannare i cattolici come inguaribili reazionari, secondo uno scontato pregiudizio che confonde il riferimento alla tradizione con la rinuncia a confrontarsi con il presente e la sua problematicità. Il "secolo nuovo" è stato invece lumeggiato da figure significative di credenti pienamente coinvolti nel loro tempo, impazienti di raccogliere le sfide dell'economia, dei mutamenti sociali, dell'evoluzione politica, non solo per difendere i propri consolidati valori, ma per vivificare la modernità. Non si comprenderebbe altrimenti la dichiarazione d'amore che don Carlo Gnocchi espresse nei confronti di un Novecento "così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante", che tuttavia egli avrebbe nuovamente scelto "senza un istante di esitazione" se fosse tornato a nascere, nutrendo per esso "un amore geloso". 

Una predilezione manifestata nel 1937, quando già conosceva le inquietudini del secolo, l'attesa e il travaglio di tempi nuovi che le istanze frenetiche delle avanguardie e i piani redentivi delle ideologie cercavano di propiziare, mentre per i cattolici restavano da chiudere definitivamente molti solchi che ancora li isolavano dagli ambiti che la modernità modellava in formule inedite, come le nuove aggregazioni sociali di massa e lo Stato.

Il cardinale Schuster, nel 1944, indicava al clero ambrosiano la necessità di imitare don Bosco, don Orione e don Guanella per riuscire a fare intendere il messaggio cristiano agli uomini di un'epoca tanto determinata a superare il passato, proiettata nelle visioni di un futuro di tendenziale autonoma perfezione. "La predica più efficace" di quei "preti di fede, che non fecero mai carriera perché vollero restare a disposizione unicamente del popolo", fu la loro stessa vita, e sul loro modello don Carlo Gnocchi orientò la propria missione terrena, obbedendo alle necessità che le circostanze gli ponevano innanzi, anche se controverse o rischiose.

Fu, dunque, oltre che parroco, direttore spirituale degli allievi dell'Istituto Gonzaga, ma anche cappellano dei Balilla, convinto che non si dovesse tralasciare il "magnifico campo d'apostolato moderno" delle nuove organizzazioni di massa, per mettere i sacerdoti "a contatto con zone vastissime di anime non altrimenti accostabili per via ordinaria". "La nostra consegna - ammoniva dalle pagine della Rivista del clero - è quella del Papa:  capire i tempi nuovi", senza pedissequa sottomissione e meno ancora fraintendimento di piani fra il politico e lo spirituale (dove a fraintendere era piuttosto la pretesa totalizzante del regime). Se il fascismo aveva pur "rivoltato la faccia della terra italiana", non era per nulla scontato che le "forme nuove di civiltà" annunciate da Mussolini avrebbero avuto connotati cristiani. I cattolici - clero in testa - dovevano invece lavorare perché ciò avvenisse.

L'arruolamento volontario come cappellano militare fu conseguente al desiderio di condividere con i "suoi" giovani non solo i rischi del campo di battaglia, ma l'intero dramma di un conflitto che appariva l'acme e si sarebbe rivelato il collasso di tutta un'epoca. Essere "direttamente presente al vasto fenomeno spirituale della guerra" era per don Gnocchi imperativo "per il domani", quando come prete avrebbe dovuto parlare a una generazione devastata dall'esperienza bellica.

Conobbe così nei Balcani e in Russia l'orrore che dissolse in lui ogni astrazione teorica sull'uomo e sulle sue sorti progressive. La condizione umana - a dirla con Giorgio Rumi - gli si mostrò "nella sua nudità sofferente, incapace di redimersi da sola", in grado solo di intendere la tenerezza divina.

Di fronte alle sofferenze degli alpini, don Carlo Gnocchi si dette disponibile a incarnare una tale amorevolezza in un'opera di carità che ancora non intravedeva, ma che si sarebbe rivelata "vocazione imperiosa" quando le lacrime di vittime ancora più incolpevoli, i bambini mutilati, lo accusarono "insopportabilmente" di ogni consentimento, anche solo implicito, con chi "farneticava di spazi vitali e di supremazie di razza". Il desiderio d'espiare l'"oscura colpa", la responsabilità individuale e collettiva del male, del disordine morale che aveva generato e alimentato la guerra, lo portò a sovvenire al dolore dell'innocente che "paga per tutti".

È questo l'educatore che padre Gemelli volle come assistente ecclesiastico degli studenti della Cattolica. E fu proprio durante i due anni in cui vi lavorò, fra il 1946 e il 1948, che per don Gnocchi si decise la strada del futuro, nella fatica di un discernimento tra i desideri umani, le altrui volontà, le urgenze di ciò che vedeva crescere fra le sue mani.

Alla fine, dall'università dovette prendere congedo, per la difficoltà a corrispondere ai doveri di un ruolo che Gemelli concepiva "come una funzione parrocchiale", e che come tale richiedeva completa dedizione. Lo riconosceva anche don Gnocchi:  costretto da "situazioni più forti e obbliganti" a scegliere fra l'ancora giovane opera della Pro Infanzia e la già robusta Università Cattolica del Sacro Cuore, "a quale - si chiedeva - io dovevo cedere?".

Al di là delle prospettive diverse e anche divergenti circa l'educazione, con Gemelli ci furono importanti tratti di sintonia:  il sacerdote vedeva la necessità di restituire all'uomo "una meta ragionevole di vita, una ferma volontà per conseguirla e una chiara norma di moralità"; il rettore coglieva l'urgenza di formare i giovani perché con l'intelletto, il carattere e la volontà potessero "scegliere un fine, imporselo, raggiungerlo". Per entrambi certamente "il naturale" da solo non bastava alla salvezza, ma neppure il soprannaturale "senza il concorso della natura", cioè della persona nella sua umana concretezza di "carne animata e anima incarnata".

Su questi presupposti etici e pedagogici si fondavano itinerari che rettore e assistente potevano pensare differentemente declinati, ma che tendevano entrambi alla "restaurazione" della persona nella sua integralità umana e spirituale, in un dopoguerra che già mostrava problemi e debolezze anche superiori al passato.


(©L'Osservatore Romano - 2 ottobre 2009)
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