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la beatificazione di don Carlo Gnocchi

Ultimo Aggiornamento: 26/10/2009 18:09
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23/10/2009 20:00

Domenica 25 ottobre in piazza Duomo a Milano don Carlo Gnocchi sarà proclamato beato

«Sei pronto a rischiare la prigione per me?»


di Giulia Galeotti

Alle 10 di mattina del 27 febbraio 1956, un dodicenne cieco, che era stato colpito da uno schizzo di calce viva mentre lavorava alla costruzione della sua casa abruzzese, venne sottoposto a Roma a una visita oculistica. Il dottore era Cesare Galeazzi, noto professore milanese, mentre il bambino, che qualche giorno dopo avrebbe riacquistato la vista, si chiamava Silvio Colagrande. Nulla fu casuale:  l'incontro si tenne per espressa volontà di don Carlo Gnocchi che, ormai prossimo alla morte, dal suo letto di ospedale convocò l'amico Galeazzi impartendogli un ordine preciso:  utilizzare le sue cornee per ridare la vista ai suoi amati bambini. E così avvenne. Tra i tanti sogni che il sacerdote riuscì a realizzare, vi fu anche questo.
Oggi l'innesto di cornea da cadavere non solleva problemi giuridici né morali, ma nel 1956 le cose stavano in tutt'altro modo. Si trattava, infatti, di un intervento proibito dalle leggi dello Stato italiano e non del tutto pacifico per la Chiesa, che non aveva ancora espresso un parere definitivo sulla donazione di organi e tessuti. Don Gnocchi spinse l'uno e l'altra alla piena accettazione del gesto.
L'idea di don Carlo non fu improvvisa. Leggendo le parole che scrisse fin dalla campagna di Russia con gli alpini, la sua sembra una vocazione profetica:  tra tutte le immagini di grande sofferenza che incontrava quotidianamente, don Carlo ritornò molto spesso sugli occhi disperati di chi non ce la faceva più ("quei loro occhi d'angoscia impotente, come potrò dimenticarli? Gli occhi allucinati e imploranti. Ho sempre nel cuore, fermi, aperti, pungenti, gli occhi dei miei morti"). E, nel settembre 1955, quando venne posta la prima pietra del Centro Pilota a Milano, don Gnocchi palesò espressamente le sue intenzioni. Suor Silvestra Lucato ne ricorda chiaramente le parole:  "Se dovessi morire voglio che mi portiate qui e che cerchiate di dare i miei occhi a due dei miei ragazzi. Mi restano solo gli occhi, anche questi sono per i miei mutilatini".
Carlo Gnocchi sa perfettamente che la sua decisione va contro la legge. E sa anche benissimo che le eventuali conseguenze dell'intervento ricadranno sui suoi "complici". Quattro giorni prima di morire, con la limpida schiettezza che lo contraddistingueva, domandò a don Barbareschi:  "Sei pronto a rischiare la prigione per me? Io voglio dare la cornea. Se ti senti, vai a cercare un oculista, che si tenga a disposizione. Se ti va male, sappi che andrai in galera".
L'oculista scelto fu Cesare Galeazzi, che qualche tempo prima aveva contattato don Gnocchi in modo non del tutto tranquillo. Come egli stesso ha raccontato, il professore aveva avuto una reazione di grande disappunto quando, negli anni immediatamente successivi alla guerra, aveva letto sui giornali che un certo don Gnocchi, ex cappellano degli alpini durante la disperata campagna di Russia, avendo dato vita a un'iniziativa per soccorrere i bambini mutilati di guerra, si era rivolto al professor Streiff di Losanna, che gratuitamente aveva operato due bambini dell'Opera di don Carlo. "La notizia m'indispose. Gli scrissi immediatamente dicendogli molto energicamente che mi sentivo offeso come italiano e come oculista:  "Lei, reverendo, ha intrapreso una bellissima fatica, ma si dimentica evidentemente che gli oculisti italiani, senza modestia, in tema di chirurgia oculare non sono inferiori ai loro colleghi esteri. Trattandosi inoltre del dramma della fanciullezza italiana colpita dal furore bellico, desidereremmo affiancarla nella sua benemerita iniziativa:  se crederà di servirsene, conti sull'Istituto Oftalmico di Milano che ho l'onore di dirigere, e sulla mia opera di chirurgo"".
Per tutta risposta, due giorni dopo, uscendo dalla sala operatoria, a Galeazzi viene annunciato che un sacerdote lo sta aspettando da oltre un'ora. "Mai dimenticherò l'incontro:  su di un viso esprimente intelligenza, volontà, bontà, la luce di due grandi occhi azzurri, di un azzurro incredibile". Fu l'inizio di un'amicizia e di una collaborazione ricca e fruttifera, culminata con l'innesto delle cornee di don Gnocchi, la mattina del 29 febbraio 1956, il giorno dopo la sua morte.
Una domenica pomeriggio il professor Galeazzi venne messo al corrente del progetto di don Carlo. Ricevuta una telefonata da una suora cabriniana della Columbus ("professore venga subito, don Carlo ha chiesto di lei"), si precipitò in clinica. "Giaceva nel letto, sotto la tenda a ossigeno, il viso esangue, le belle mani stanche e bianche:  con palese sforzo fece cenno a un sacerdote presente di uscire, e fummo soli. "Cesare, ti chiedo un grande favore, non negarmelo:  fra poche ore io non ci sarò più, prendi i miei occhi e ridona la vista a uno dei miei ragazzi, ne sarei tanto felice. Parti subito per Roma, ma subito ti prego, non c'è tempo da perdere:  là nella mia casa c'è da pochi giorni un ragazzo biondo e poi forse anche un altro, mi hanno detto che un trapianto di cornee potrebbe farli rivedere. Avrei già dovuto parlartene, parti, parti subito, fammi questo regalo, promettimelo"". Il professore è preoccupato, ma non per il lato legale della questione, quanto per quello medico:  "Com'erano le cornee di questo ragazzo? Era veramente recuperabile? E se non lo fosse stato? Potevo non mantenere l'impegno?".
Giunto a Roma, Galeazzi valuta Silvio Colagrande adatto all'innesto, mentre non ne trova altri con indicazione clinica favorevole all'intervento. Convinto che ciò che interessa a don Carlo è ridare la vista - e non che il destinatario sia necessariamente uno dei suoi ragazzi - il professore chiama il suo ospedale di Milano, chiedendo di mettere in stato di preallarme uno dei tanti casi in lista di attesa. Dopo Silvio, verrà infatti operata Amabile Battistello, una diciannovenne divenuta paziente di Galeazzi tramite la Croce Rossa.
Galeazzi sta per rientrare a Milano, quando giunge la notizia della morte di don Carlo. Il suo aiuto, Celotti, si reca subito alla clinica Columbus, ma viene intercettato dalla polizia:  "Qui non si tocca niente". Il medico, però, non si lascia intimorire e, aggirate le forze dell'ordine, riesce a compiere il suo triste ma indispensabile compito:  asporta i bulbi oculari di don Gnocchi. All'uscita dalla clinica la sua macchina viene per un tratto seguita da quella della polizia, ma poi l'inseguimento fallisce:  volutamente, secondo il racconto dello stesso Galeazzi.
Nel 1956, infatti, la legge italiana non ammetteva né trapianti né innesti. Non che del tema non si parlasse, ma la proposta di legge per permettere l'innesto di cornee era ferma da cinque anni in Parlamento. La scienza, dal canto suo, premeva non poco per legalizzare questo intervento, essendosene ormai provata l'opportunità e la riuscita. Già in occasione del xxXVIii Congresso, l'Assemblea generale della Società oftalmologica italiana aveva ufficialmente posto il problema della liceità giuridica dell'espianto corneale, e nel giugno 1950 la Società romana di medicina legale e delle assicurazioni aveva indetto una serie di giornate scientifiche. Esse si conclusero con la formulazione di una proposta di legge per iniziativa dei deputati De Maria e Capua, annunciata alla Camera il 20 febbraio 1951. Fu l'inizio del lungo e travagliato iter legislativo di quella che sarà la legge sul trapianto da cadavere, la 235 del 1957, alla cui promulgazione il gesto di don Gnocchi aveva dato un decisivo input. Nella relazione che verrà presentata alla Camera nel 1968 per modificare quella legge, si afferma che essa fu "la diretta conseguenza del nobile gesto dell'indimenticabile padre Gnocchi, il quale, in punto di morte, fece dono, primo nella nostra nazione, dei propri occhi per ridare la vista ad un cieco, scuotendo con il proprio esempio i sentimenti della pubblica opinione".
Anche per la Chiesa si trattò di un gesto decisivo, visto il dibattito che la attraversava. Ma il Pontefice fu estremamente chiaro:  la domenica successiva alla morte di don Carlo, Pio xii ne elogiò il gesto durante l'Angelus. La posizione, tra l'altro, era già stata espressa, e venne più volte ribadita.
"Ricordo ancora con commozione quando il professore mi tolse le bende, dopo 22 giorni di buio assoluto, e mi ordinò di guardare il mondo", ha raccontato Amabile Battistello. "Mi abbracciò commosso e poi fece un gesto semplice che mi colpì molto:  con il dito indice premette un bottone di un vecchio registratore che si mise in moto, e mi pregò di ascoltare. Fu allora che udii don Carlo che tentava di dire delle parole, con una voce sofferente che usciva a stento dalla gola, ma che possedeva una forza misteriosa. Essa implorava:  "Tu professore, dopo la mia morte, prendi questi miei occhi e fa' che qualcuno possa vedere con essi"".


(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2009)
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