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Introduzione allo spirito della liturgia

Ultimo Aggiornamento: 11/03/2010 10:49
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17/01/2010 08:58

Introduzione allo spirito della liturgia

ROMA, sabato, 16 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito una conferenza tenuta il 6 gennaio scorso, in Vaticano, da mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, alla presenza di un gruppo di sacerdoti anglofoni giunti a Roma in occasione dell’Anno Sacerdotale.



* * *

Mi propongo, con questa riflessione, di soffermarmi con voi su alcuni temi che riguardano lo spirito della liturgia. Mi propongo molto, mi verrebbe da dire moltissimo. Non solo perché parlare dello spirito della liturgia è impegnativo e complesso, ma anche perché su questo tema hanno intitolato opere importantissime autori di indubbio e altissimo spessore liturgico e teologico. Penso solo a due esempi tra gli altri: Romano Guardini e Joseph Ratzinger.

D’altra parte è vero che parlare oggi dello spirito della liturgia è quanto mai necessario, soprattutto tra noi sacerdoti. Anche perché è urgente riaffermare l’«autentico» spirito della liturgia, così come è presente nella ininterrotta tradizione della Chiesa e testimoniato, in continuità con il passato, nel più recente Magistero: a partire dal Concilio Vaticano II fino a Benedetto XVI. Ho pronunciato la parola “continuità”. E’ una parola cara all’attuale Pontefice, che ne ha fatto autorevolmente il criterio per l’unica interpretazione corretta della vita della Chiesa e, in specie, dei documenti conciliari, come anche dei propositi di riforma ad ogni livello in essi contenuti. E come potrebbe essere diversamente? Si può forse immaginare una Chiesa di prima e una Chiesa di poi, quasi che si sia prodotta una cesura nella storia del corpo ecclesiale? O si può forse affermare che la Sposa di Cristo sia entrata, in passato, in un tempo storico nel quale lo Spirito non l’abbia assistita, così che questo tempo debba essere quasi dimenticato e cancellato?

Eppure, a volte, alcuni danno l’impressione di aderire a quella che è giusto definire una vera e propria ideologia, ovvero un’idea preconcetta applicata alla storia della Chiesa e che nulla ha a che fare con la fede autentica.

Frutto di quella fuorviante ideologia è, ad esempio, la ricorrente distinzione tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare. Può anche essere legittimo un tale linguaggio, ma a condizione che non si intendano in questo modo due Chiese: una – quella pre conciliare – che non avrebbe più nulla da dire o da dare perché irrimediabilmente superata; e l’altra – quella post conciliare – che sarebbe una realtà nuova scaturita dal Concilio e da un suo presunto spirito, in rottura con il suo passato. Questo modo di parlare e ancor più di “sentire” non deve essere il nostro. Oltre a essere erroneo, è superato e datato, forse storicamente comprensibile, ma legato a una stagione ecclesiale ormai conclusa.

Quanto affermato fin qui a proposito della “continuità” ha a che fare con il tema che siamo chiamati ad affrontare? Assolutamente sì. Perché non vi può essere l’autentico spirito della liturgia se non ci si accosta ad essa con animo sereno, non polemico circa il passato, sia remoto che prossimo. La liturgia non può e non deve essere terreno di scontro tra chi trova il bene solo in ciò che è prima di noi e chi, al contrario, in ciò che è prima trova quasi sempre il male. Solo la disposizione a guardare il presente e il passato della liturgia della Chiesa come a un patrimonio unico e in sviluppo omogeneo può condurci ad attingere con gioia e con gusto spirituale l’autentico spirito della liturgia. Uno spirito, dunque, che dobbiamo accogliere dalla Chiesa e che non è frutto delle nostre invenzioni. Uno spirito, aggiungo, che ci porta all’essenziale della liturgia, ovvero alla preghiera ispirata e guidata dallo Spirito Santo, in cui Cristo continua divenire a noi contemporaneo, a fare irruzione nella nostra vita. Davvero lo spirito della liturgia è la liturgia dello Spirito.

Riguardo al tema proposto non pretendo di essere esauriente. Non pretendo, neppure, di trattare tutti i temi che sarebbe utile affrontare per una panoramica complessiva della questione. Mi limito a considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, con riferimento specifico alla Celebrazione Eucaristica, così come la Chiesa ce li presenta e così come ho imparato ad approfondirli in questi due anni di servizio accanto a Benedetto XVI: un vero maestro di spirito liturgico, sia attraverso il suo insegnamento, sia attraverso l’esempio del suo celebrare.

E se, nel considerare alcuni aspetti dell’essenza della liturgia, mi troverò ad annotare qualche comportamento che ritengo non del tutto in sintonia con l’autentico spirito liturgico, lo farò solo per offrire un piccolo contributo perché tale spirito possa risaltare ancor di più in tutta la sua bellezza e verità.

1. La sacra liturgia, un grande dono di Dio alla Chiesa

Come ben sappiamo, il Concilio Vaticano II ha dedicato un intero documento, il primo in ordine di pubblicazione, alla liturgia. Il suo nome è “Sacrosanctum concilium” ed è definito come la Costituzione sulla sacra liturgia.

E’ il termine sacro che intendo sottolineare, in quanto affiancato a “liturgia”. Al riguardo, non si tratta di un caso né di un dato di poca importanza. In tal modo, infatti, i Padri conciliari hanno inteso dare forza al carattere sacro della liturgia.

Ma che cosa si intende per carattere sacro? Gli orientali parlerebbero di dimensione divina della liturgia. Ovvero di quella dimensione che non è lasciata all’arbitrio dell’uomo perché è dono che viene dall’alto. Si tratta, in altre parole, del mistero della salvezza in Cristo, consegnato alla Chiesa, perché lo renda disponibile in ogni tempo e in ogni luogo attraverso l’oggettività del rito liturgico-sacramentale. Una realtà, dunque, che ci supera, da accogliere in dono e dalla quale lasciarsi trasformare. Infatti, afferma il Concilio Vaticano II, “…ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza…” (Sacrosanctum concilium, n. 7)

Ponendosi in questa prospettiva, non è difficile rendersi conto di quanto alcuni modi di fare siano distanti dall’autentico spirito della liturgia. A volte, in effetti, con il pretesto di una male intesa creatività si è arrivati e si arriva a stravolgere in vario modo la liturgia della Chiesa. In nome del principio di adattamento alle situazioni locali e ai bisogni della comunità ci si appropria del diritto di togliere, aggiungere e modificare il rito liturgico all’insegna della soggettività e dell’emotività. E in questo noi sacerdoti abbiamo una grande responsabilità.

Ecco, in proposito, quanto affermava il Card. Ratzinger già nel 2001: “C’è bisogno come minimo di una nuova consapevolezza liturgica che sottragga spazio alla tendenza a operare sulla liturgia come se fosse oggetto della nostra abilità manipolatoria. Siamo giunti al punto che dei gruppi liturgici imbastiscono da se stessi la liturgia domenicale. Il risultato è certamente il frutto dell’inventiva di un pugno di persone abili e capaci. Ma in questo modo viene meno il luogo in cui mi si fa incontro il totalmente Altro, in cui il sacro ci offre se stesso in dono; ciò in cui mi imbatto è solo l’abilità di un pugno di persone. E allora ci si accorge che non è quello che si sta cercando. E’ troppo poco e insieme qualcosa di diverso. La cosa più importante oggi è riacquistare il rispetto della liturgia e la consapevolezza della sua non manipolabilità. Reimparare a riconoscerla nel suo essere una creatura vivente che cresce e che ci è stata donata, per il cui tramite noi prendiamo parte alla liturgia celeste. Rinunciare a cercare in essa la propria autorealizzazione per vedervi invece un dono. Questa, credo è la prima cosa: sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro” (da “Dio e il mondo”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2001).

Affermare, dunque, che la liturgia è sacra significa sottolineare il fatto che essa non vive delle invenzioni sporadiche e delle “trovate” sempre nuove di qualche singolo o di qualche gruppo. Essa non è un circolo chiuso in cui noi decidiamo di incontrarci, magari per farci coraggio a vicenda e sentirci protagonisti di una festa. La liturgia è convocazione da parte di Dio per stare alla sua presenza; è il venire di Dio a noi, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo.

Una forma di adattamento alle situazioni particolari è prevista ed è bene che ci sia. E’ il messale stesso che la indica in alcune sue parti. Ma in queste e solo in queste, non arbitrariamente in altre. Il motivo è importante ed è bene riaffermarlo: la liturgia è dono che ci precede, tesoro prezioso che ci è stato consegnato dalla preghiera secolare della Chiesa, luogo in cui la fede della Chiesa ha trovato nel tempo forma ed espressione orante. Tutto questo non è nella nostra disponibilità soggettiva. E’ indisponibile a noi per essere integralmente a disposizione di tutti, ieri come oggi e ancora domani. “Anche nei nostri tempi – ha scritto Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia – l’obbedienza alle norme liturgiche dovrebbe essere riscoperta e valorizzata come riflesso e testimonianza della Chiesa una e universale, resa presente in ogni celebrazione dell’Eucaristia” (n. 52).

Nella stupenda Enciclica “Mediator Dei”, che spesso viene citata nella “Sacrosanctum Concilium”, Pio XII definiva la liturgia come: “…il culto pubblico… il culto integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra”. Come a dire, tra l’altro, che nella liturgia la Chiesa riconosce “ufficialmente” se stessa, il suo mistero di unione sponsale con Cristo, e lì “ufficialmente” si manifesta. Con quale insana spensieratezza potremmo noi, dunque, arrogarci il diritto di alterare in modo soggettivo quei santi segni che il tempo ha vagliato e attraverso i quali la Chiesa parla di sé, della propria identità, della propria fede?

C’è un diritto del popolo di Dio che non può mai essere disatteso. In virtù di tale diritto tutti devono poter accedere a ciò che non è semplicemente e poveramente frutto dell’opera umana, ma a ciò che è opera di Dio e, proprio per questo, sorgente di salvezza e di vita nuova.

Mi dilungo ancor un momento su questo tema che, posso testimoniare, sta tanto a cuore al Papa, riascoltando con voi un brano di “Sacramentum caritatis”, l’Esortazione apostolica di Benedetto XVI, successiva al Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia: “Sottolineando l’importanza dell’ars celebrandi – afferma il Papa – si pone in luce, di conseguenza, il valore delle norme liturgiche… La celebrazione eucaristica trova giovamento là dove i sacerdoti e i responsabili della pastorale liturgica si impegnano a fare conoscere i vigenti libri liturgici e le relative norme… Nelle comunità ecclesiali si dà forse per scontata la loro conoscenza e il loro giusto apprezzamento, ma spesso così non è. In realtà, sono testi in cui sono contenute ricchezze che custodiscono ed esprimono la fede e il cammino del Popolo di Dio lungo i due millenni della sua storia” (40).

2. L’orientamento della preghiera liturgica

Al di là dei cambiamenti che storicamente hanno caratterizzato la disposizione architettonica delle chiese e degli spazi liturgici, una convinzione è rimasta sempre chiara all’interno della comunità cristiana, quasi fino ai giorni nostri. Mi riferisco alla preghiera rivolta a oriente, tradizione che risale alle origini del cristianesimo.

Che cosa si intende con “preghiera rivolta a oriente”? Si intende l’orientamento del cuore orante a Cristo, Colui dal quale proviene la salvezza e al quale si tende come al Principio e al Fine della storia. A est sorge il sole e il sole è simbolo di Cristo, la Luce che sorge dall’oriente. Si ricordi, in proposito, il passo del cantico messianico del “Benedictus”: “…per cui verrà a visitarci dall’alto come sole che sorge”.

Studi molto seri e anche recentissimi hanno ormai dimostrato che, in ogni tempo della sua storia, la comunità cristiana ha trovato il modo di esprimere anche nel segno liturgico, esterno e visibile, questo orientamento fondamentale per la vita della fede. Così troviamo le chiese costruite in modo tale che l’abside fosse rivolta verso oriente. Quando non fu più possibile un tale orientamento nella edificazione del luogo sacro, si fece ricorso al grande crocifisso posto sopra l’altare e a cui tutti potessero rivolgere lo sguardo. Si pensi, ancora, alle absidi decorate con splendide raffigurazioni del Signore, verso le quali tutti erano invitati ad alzare gli occhi al momento della Liturgia Eucaristica.

Senza entrare nel dettaglio di un percorso storico che ci porrebbe all’interno di una riflessione riguardante lo sviluppo dell’arte cristiana, in questo contesto ci interessa affermare che la preghiera orientata, ovvero rivolta al Signore, è espressione tipica dell’autentico spirito liturgico. In questo senso, come ben ci ricorda il dialogo introduttivo del Prefazio, al momento della Liturgia Eucaristica siamo invitati a rivolgere il cuore al Signore: “In alto i nostri cuori”, esorta il sacerdote, e tutti rispondono: “Sono rivolti al Signore”. Ora, se tale orientamento deve essere sempre interiormente adottato dall’intera comunità cristiana raccolta in preghiera, esso deve poter trovare espressione anche nel segno esteriore. Il segno esteriore, infatti, non può che essere vero, così che in esso si renda manifesto il corretto atteggiamento spirituale.

Ecco, allora, il motivo della proposta fatta a suo tempo dal card. Ratzinger e ora riaffermata nel corso del suo pontificato, di collocare il crocifisso al centro dell’altare, in modo tale che tutti, al momento della Liturgia Eucaristica, possano effettivamente guardare al Signore, orientando così la loro preghiera e il loro cuore. Ascoltiamo direttamente Benedetto XVI, che così scrive nella prefazione al I volume della Sua Opera Omnia, dedicato alla liturgia: “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo”.

E non si dica che l’immagine del crocifisso viene a oscurare la vista dei fedeli in rapporto al celebrante. I fedeli non devono guardare al celebrante, in quel momento liturgico! Devono guardare al Signore! Come al Signore deve poter guardare anche colui che presiede la celebrazione. La croce non impedisce la vista; anzi, le apre l’orizzonte sul mondo di Dio, la porta a contemplare il mistero, la introduce in quel Cielo da cui proviene l’unica luce capace di dare senso alla vita di questa terra. La vista, in verità, rimarrebbe oscurata, impedita se gli occhi rimanessero fissi su ciò che è solo presenza dell’uomo e opera sua.

Così si comprende perché è ancora oggi possibile celebrare la Messa agli altari antichi, quando le particolari caratteristiche architettoniche e artistiche delle nostre chiese lo dovessero consigliare. Il Santo Padre ci dona anche in questo l’esempio quando celebra l’Eucaristia all’altare antico nella Cappella Sistina, per la festa del Battesimo del Signore.

Nel nostro tempo è entrata nel linguaggio abituale l’espressione “celebrazione verso il popolo”. Se con tale espressione si intende descrivere l’aspetto topografico, dovuto al fatto che oggi, il sacerdote, a motivo della collocazione dell’altare, si trova spesso in posizione frontale rispetto all’assemblea, la si può accettare. Ma non la si potrebbe assolutamente accettare nel momento in cui venisse ad avere un contenuto teologico. Infatti, la Messa, teologicamente parlando, è sempre rivolta a Dio attraverso Cristo Signore e sarebbe un grave errore immaginare che l’orientamento principale dell’azione sacrificale fosse la comunità. Tale orientamento, dunque - quello al Signore –, deve animare l’interiore partecipazione liturgica di ciascuno. Ed è altrettanto importante che possa essere ben visibile anche nel segno liturgico.

3. L’adorazione e l’unione con Dio

L’adorazione è il riconoscimento pieno di stupore, potremmo anche dire estatico – perché ci fa uscire da noi stessi e dal nostro piccolo mondo -, della grandezza infinita di Dio, della sua maestà inafferrabile, del suo amore senza fine che si dona a noi in assoluta gratuità, della sua signoria onnipotente e provvidente. L’adorazione conduce, di conseguenza, alla riunificazione dell’uomo e della creazione con Dio, all’uscita dallo stato di separazione, di apparante autonomia, alla perdita di se stessi che è, poi, l’unico modo di ritrovarsi.

Di fronte alla bellezza indicibile della carità di Dio, che prende forma nel mistero del Verbo Incarnato, morto e risorto per noi, e che trova nella liturgia la sua manifestazione sacramentale, altro non resta per noi che rimanere in adorazione. “C’è, nell’evento pasquale e nell’Eucaristia che lo attualizza nei secoli, - afferma Giovanni Paolo II nella Ecclesia de Eucharistia - una capienza davvero enorme, nella quale l’intera storia è contenuta, come destinataria della grande redenzione. Questo stupore deve invadere sempre la Chiesa raccolta nella celebrazione eucaristica” (n. 5).

“Mio Signore e mio Dio”, ci hanno insegnato, da bambini, a dire al momento della consacrazione. In tal modo, prendendo a prestito l’esclamazione dell’apostolo Tommaso, siamo condotti ad adorare il Signore presente e vivo nelle specie eucaristiche, unendoci a Lui e riconoscendolo come il nostro Tutto. E da lì si può riprendere il cammino quotidiano, avendo ritrovato l’ordine esatto dell’esistenza, il criterio fondamentale alla luce del quale vivere e morire.

Ecco perché tutto, nell’azione liturgica, nel segno della nobiltà, della bellezza, dell’armonia deve condurre all’adorazione, all’unione con Dio: la musica, il canto, il silenzio, il modo di proclamare la Parola del Signore e il modo di pregare, la gestualità, le vesti liturgiche e le suppellettili sacre, così come anche l’edificio sacro nel suo complesso. Proprio in questa prospettiva è da considerare la decisione di Benedetto XVI che, a partire dal “Corpus Domini” del 2008, ha iniziato a distribuire la Santa Comunione ai fedeli, direttamente sulla lingua e in ginocchio. Con l’esempio di questo gesto, il Papa ci invita a rendere manifesto l’atteggiamento dell’adorazione davanti alla grandezza del mistero della presenza eucaristica del Signore. Atteggiamento di adorazione che dovrà ancor più essere custodito accostandosi alla SS. Eucaristia nelle altre forme oggi concesse.

Mi piace al riguardo citare ancora un brano dell’Esortazione Apostolica Postsinodale “Sacramentum caritatis”: “Mentre la riforma muoveva i primi passi, a volte l’intrinseco rapporto tra Santa Messa e l’adorazione del SS.mo Sacramento non fu abbastanza chiaramente percepito. Un’obiezione allora diffusa prendeva spunto, ad esempio, dal rilievo secondo cui il Pane eucaristico non ci sarebbe dato per essere contemplato, ma per essere mangiato. In realtà, alla luce dell’esperienza di preghiera della Chiesa, tale contrapposizione si rivelava priva di ogni fondamento. Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste” (n.66).

Penso che, tra gli altri, non sia passato inosservato il seguente passaggio del testo appena letto: “(La Celebrazione eucaristica) è in se stessa il più grande atto di adorazione della Chiesa”. Grazie all’Eucaristia, afferma ancora Benedetto XVI, “ciò che era lo stare di fronte a Dio diventa ora, attraverso la partecipazione alla donazione di Gesù, partecipazione al suo corpo e al suo sangue, diventa unione” (Deus caritas est, n. 13). Per questo motivo tutto, nella liturgia, e in specie nella Liturgia Eucaristica, deve tendere all’adorazione, tutto nello svolgimento del rito deve aiutare a entrare dentro l’adorazione che la Chiesa fa del Suo Signore.

Considerare la liturgia come luogo dell’adorazione, dell’unione con Dio, non significa perdere di vista la dimensione comunitaria della celebrazione liturgica, né tanto meno dimenticare l’orizzonte della carità. Al contrario, soltanto da una rinnovata adorazione del mistero di Dio in Cristo, che prende forma nell’atto liturgico, potrà scaturire un’autentica comunione fraterna e una nuova storia di carità, secondo quella fantasia e quell’eroicità che solo la grazia di Dio può donare ai nostri poveri cuori. La vita dei santi ce lo ricorda e ce lo insegna. “L'unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me; posso appartenergli soltanto in unione con tutti quelli che sono diventati o diventeranno suoi. La comunione mi tira fuori di me stesso verso di Lui, e così anche verso l'unità con tutti i cristiani” (Deus caritas est, n. 14)

4. La partecipazione attiva

Proprio loro, i santi, hanno celebrato e vissuto l’atto liturgico partecipandovi attivamente. La santità, come esito della loro vita, è la testimonianza più bella di una partecipazione davvero viva alla liturgia della Chiesa.

Giustamente, dunque, e anche provvidenzialmente il Concilio Vaticano II ha insistito tanto sulla necessità di favorire un’autentica partecipazione dei fedeli alla celebrazione dei santi misteri, nel momento in cui ha ricordato la chiamata universale alla santità. E tale autorevole indicazione ha trovato puntuale conferma e rilancio nei tanti documenti successivi del magistero fino ai nostri giorni.

Tuttavia, non sempre vi è stata una comprensione corretta della “partecipazione attiva”, così come la Chiesa insegna ed esorta a viverla. Certo, si partecipa attivamente anche quando si compie, all’interno della celebrazione liturgica, il servizio che è proprio a ciascuno; si partecipa attivamente anche quando si ha una migliore comprensione della Parola di Dio ascoltata e della preghiera recitata; si partecipa attivamente anche quando si unisce la propria voce a quella degli altri nel canto corale… Tutto questo, però, non significherebbe partecipazione veramente attiva se non conducesse all’adorazione del mistero della salvezza in Cristo Gesù morto e risorto per noi: perché solo chi adora il mistero, accogliendolo nella propria vita, dimostra di aver compreso ciò che si sta celebrando e, dunque, di essere veramente partecipe della grazia dell’atto liturgico.

A riprova e sostegno di quanto si va affermando, ascoltiamo ancora il Card. Ratzinger in un brano del suo fondamentale volume “Introduzione allo spirito della liturgia”: “In che cosa consiste… questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più presto possibile. La parola partecipazione rinvia, però, a un’azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa ‘actio’ centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità. Con il termine actio riferito alla liturgia, si intende il canone eucaristico. La vera azione liturgica, il vero atto liturgico, è l’oratio. Questa oratio - la solenne preghiera eucaristica, il canone- è più che un discorso, è actio nel senso più alto del termine. In essa si fa presente Cristo stesso e tutta la sua opera di salvezza e per questo motivo, l’actio umana passa in secondo piano e lascia spazio all’actio divina, all’agire di Dio”.

Così, la vera azione che si realizza nella liturgia è l’azione di Dio stesso, la sua opera salvifica in Cristo a noi partecipata. Questa è, tra l’altro, la vera novità della liturgia cristiana rispetto a ogni altra azione cultuale: Dio stesso agisce e compie ciò che è essenziale, mentre l’uomo è chiamato ad aprirsi all’azione di Dio, al fine di rimanerne trasformato. Il punto essenziale della partecipazione attiva, di conseguenza, è che venga superata la differenza tra l’agire di Dio e il nostro agire, che possiamo diventare una cosa sola con Cristo. Ecco perché, per riaffermare quanto detto in precedenza, non è possibile partecipare senza adorare. Ascoltiamo ancora un brano della Sacrosanctum concilium: “Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti” (n. 48).

Rispetto a questo tutto il resto è secondario. E mi riferisco, in particolare, alle azioni esteriori, pur importanti e necessarie, previste soprattutto durante la Liturgia della Parola. Mi riferisco ad esse, perché se diventano l’essenziale della liturgia e questa viene ridotta a un generico agire, allora si è frainteso l’autentico spirito della liturgia. Di conseguenza, la vera educazione liturgica non può consistere semplicemente nell’apprendimento e nell’esercizio di attività esteriori, ma nell’introduzione all’azione essenziale, all’opera di Dio, al mistero pasquale di Cristo dal quale lasciarsi raggiungere, coinvolgere e trasformare. E non si confonda il compimento di gesti esterni con il giusto coinvolgimento della corporeità nell’atto liturgico. Senza nulla togliere al significato e all’importanza del gesto esterno che accompagna l’atto interiore, la Liturgia chiede molto di più al corpo umano. Chiede, infatti, il suo totale e rinnovato impegno nella quotidianità della vita. Ciò che il Santo Padre Benedetto XVI chiama “coerenza eucaristica”. E’ proprio l’esercizio puntuale e fedele di tale coerenza l’espressione più autentica della partecipazione anche corporea all’atto liturgico, all’azione salvifica di Cristo.

Aggiungo ancora. Siamo proprio sicuri che la promozione della partecipazione attiva consista nel rendere tutto il più possibile e subito comprensibile? Non sarà che l’ingresso nel mistero di Dio possa essere anche e, a volte, meglio accompagnato da ciò che tocca le ragioni del cuore? Non succede, in taluni casi, di dare uno spazio sproporzionato alla parola, piatta e banalizzata, dimenticando che alla liturgia appartengono parola e silenzio, canto e musica, immagini, simboli e gesti? E non appartengono, forse, a questo molteplice linguaggio che introduce al centro del mistero e, dunque alla vera partecipazione, anche la lingua latina, il canto gregoriano, la polifonia sacra?

5. La musica sacra o liturgica

In effetti, per introdursi in modo autentico nella spirito della liturgia non si può prescindere dal discorso sulla musica sacra o liturgica.

Mi permetto, al riguardo, solo una breve riflessione orientativa. Ci si potrebbe domandare il motivo per cui la Chiesa nei suoi documenti, più o meno recenti, insista nell’indicare un certo tipo di musica e di canto come particolarmente consoni alla celebrazione liturgica. Già il Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in atto, ristabilendo la norma per cui nella musica l’aderenza alla parola è prioritaria, limitando l’uso degli strumenti e indicando una chiara differenza tra musica profana e musica sacra. La musica sacra, infatti, non può mai essere intesa come espressione di pura soggettività. Essa è ancorata ai testi biblici o della tradizione, da celebrare nella forma del canto. In epoca più recente, il Papa San Pio X fece un intervento analogo, cercando di allontanare la musica operistica dalla liturgia e indicando il canto gregoriano e la polifonia dell’epoca del rinnovamento cattolico come criterio della musica liturgica, da distinguere dalla musica religiosa in generale. Il Concilio Vaticano II non ha fatto che ribadire le stesse indicazioni, così come anche i più recenti interventi magisteriali.

Perché, dunque, l’insistenza della Chiesa nel presentare le caratteristiche tipiche della musica e del canto liturgico in modo tale che rimangano distinti da ogni altra forma musicale? E perché il canto gregoriano come la polifonia sacra classica risultano essere le forme musicali esemplari, alla luce delle quali continuare oggi a produrre musica liturgica, anche popolare?

La risposta a questa domanda sta esattamente in quanto abbiamo cercato di affermare in merito allo spirito della liturgia. Sono proprio quelle forme musicali - nella loro santità, bontà e universalità - a tradurre in note, in melodia e in canto l’autentico spirito liturgico: indirizzando all’adorazione del mistero celebrato, diventando esegesi musicata della Parola di Dio, favorendo un’autentica e integrale partecipazione, aiutando a cogliere il sacro e, quindi, il primato essenziale dell’agire di Dio in Cristo, consentendo uno sviluppo musicale non disancorato dalla vita della Chiesa e dalla contemplazione del suo mistero.

Mi sia permessa un’ultima citazione di J. Ratzinger: “Gandhi evidenzia tre spazi di vita del cosmo e mostra come ognuno di questi tre spazi vitali comunichi anche un proprio modo di essere. Nel mare vivono i pesci e tacciono. Gli animali sulla terra gridano, ma gli uccelli, il cui spazio vitale è il cielo, cantano. Del mare è proprio il tacere, della terra il gridare e del cielo il cantare. L'uomo però partecipa di tutti e tre: egli porta in sé la profondità del mare, il peso della terra e l'altezza del cielo; perciò sono sue anche tutte e tre le proprietà: il tacere, il gridare il cantare. Oggi… vediamo che all'uomo privo di trascendenza rimane solo il gridare, perché vuole essere soltanto terra e cerca di far diventare sua terra anche il cielo e la profondità del mare. La vera liturgia, la liturgia della comunione dei santi, gli restituisce la sua totalità. Gli insegna di nuovo il tacere e il cantare, aprendogli la profondità del mare e insegnandogli a volare, l'essere dell'angelo; elevando il suo cuore fa risuonare di nuovo in lui quel canto che si era come assopito. Anzi, possiamo dire persino che la vera liturgia si riconosce proprio dal fatto che essa ci libera dall'agire comune e ci restituisce la profondità e l'altezza, il silenzio e il canto. La vera liturgia si riconosce dal fatto che è cosmica, non su misura di un gruppo. Essa canta con gli angeli. Essa tace con la profondità dell'universo in attesa. E così essa redime la terra” (Cantate al Signore un canto nuovo, p. 153-154)

Concludo. E’ ormai da alcuni anni che nella Chiesa, a più voci, si parla della necessità di un nuovo rinnovamento liturgico. Di un movimento, in qualche modo analogo a quello che pose le basi per la riforma promossa dal Concilio Vaticano II, che sia capace di operare una riforma della riforma, ovvero ancora un passo avanti nella comprensione dell’autentico spirito liturgico e della sua celebrazione: portando così a compimento quella riforma provvidenziale della liturgia che i Padri conciliari avevano avviato, ma che non sempre, nell’attuazione pratica, ha trovato puntuale e felice realizzazione.

Non c’è dubbio che in questo nuovo rinnovamento liturgico siamo proprio noi sacerdoti a ricoprire un ruolo determinante. Possa, con l’aiuto del Signore e di Maria Madre dei sacerdoti, l’ulteriore sviluppo della riforma essere anche il frutto del nostro amore sincero per la liturgia, nella fedeltà alla Chiesa e al Papa.

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11/02/2010 12:37

Il sacerdote nell'Offertorio della S. Messa
Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi
ROMA, mercoledì, 10 febbraio 2010 (ZENIT.org).- L'articolo odierno della nostra rubrica - scritto originariamente in spagnolo da don Juan Silvestre, professore di Liturgia presso la Pontificia Università della Santa Croce e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice - descrive il ruolo del sacerdote nell'Offertorio della Santa Messa, prendendo in considerazione solo la forma ordinaria del Rito Romano, che è stata semplificata, sia nei gesti sia soprattutto nelle orazioni, rispetto alla forma straordinaria. Il testo pone in evidenza la ricchezza spirituale che, nonostante ciò, è ancora possibile individuarvi (Don Mauro Gagliardi).

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Il sacerdote nell'Offertorio della S. Messa


Don Juan José Silvestre Valór



«Nella Chiesa antica esisteva la consuetudine che il vescovo o il sacerdote dopo l'omelia esortasse i fedeli esclamando "Conversi ad Dominum" - volgetevi ora verso il Signore. Ciò significava anzitutto che essi si voltassero verso l'oriente, nella direzione da cui sorge il sole in quanto segno di Cristo che ritorna, all'incontro con il quale noi andiamo nella celebrazione eucaristica. Dove per qualche ragione questo non era possibile, essi volgevano lo sguardo all'immagine di Cristo nell'abside oppure alla croce, per orientarsi verso il Signore. Perché, in definitiva, si trattava di questo fatto interiore: della conversio, del dirigere la nostra anima verso Gesù Cristo e, in questo modo, verso il Dio vivente, verso la luce vera»[1]. Queste parole del Santo Padre Benedetto XVI ci permettono di introdurre al tema che ora ci interessa: «Il sacerdote nell'Offertorio della Santa Messa».

Terminata la Liturgia della Parola, entriamo nella Liturgia Eucaristica. Come è noto, entrambe le parti della Messa «sono strettamente unite tra loro e formano un unico atto di culto»[2]. Di qui che la oblatio donorum, o presentazione delle offerte, primo gesto che il sacerdote, rappresentando Cristo Signore, realizza nella Liturgia Eucaristica[3], non è semplicemente un "intermezzo" tra questa e la Liturgia della Parola, bensì costituisce un punto di unione tra queste due parti strettamente connesse per formare, senza confondersi, un unico rito. Di fatto, la Parola di Dio, che la Chiesa legge e proclama nella liturgia, conduce all'Eucaristia.

La Liturgia della Parola è un vero discorso, che attende ed esige una risposta. Essa possiede il carattere di proclamazione e di dialogo: Dio che parla al suo popolo e questo che risponde e fa sua la Parola divina per mezzo del silenzio e del canto; che aderisce ad essa professando la propria fede nella professio fidei e che, pieno di fiducia si presenta con le sue richieste al Signore[4]. Di conseguenza, il reciproco rivolgersi di colui che proclama verso chi ascolta, e viceversa, implica che sia ragionevole che si pongano l'uno di fronte all'altro[5].

Tuttavia, quando il sacerdote lascia l'ambone o la sede, per salire all'altare - centro di tutta la Liturgia Eucaristica[6] - ci prepariamo in modo più immediato alla preghiera comune che sacerdote e fedeli dirigono al Padre, attraverso Cristo, nello Spirito Santo[7]. In questa parte della celebrazione, il sacerdote parla al popolo unicamente dall'altare[8], dato che l'azione sacrificale che ha luogo nella Liturgia Eucaristica non si dirige principalmente alla comunità. Di fatto, l'orientamento spirituale ed interiore di tutti, del sacerdote - come rappresentante di tutta la Chiesa - e dei fedeli, è versus Deum per Iesum Christum. In questo modo, comprendiamo meglio l'esclamazione della Chiesa antica: Conversi ad Dominum. «Sacerdote e fedeli certamente non pregano l'uno verso l'altro, bensì verso l'unico Signore. Pertanto, durante la preghiera guardano nella stessa direzione, verso un'immagine di Cristo nell'abside, o verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come fece il Signore nell'orazione sacerdotale la notte prima della sua Passione»[9].

La oblatio donorum, vale a dire l'Offertorio o presentazione dei doni, prepara il sacrificio. Agli inizi si trattava di una semplice preparazione esteriore del centro e vertice di tutta la celebrazione, che è la Preghiera Eucaristica. Così si vede nelle testimonianze di Giustino[10], o nello sviluppo più elaborato che presenta l'Ordo Romanus I già nel secolo VII. Ad ogni modo, limitarsi a considerare l'offerta dei fedeli, in questi primi secoli, a partire solo dalla semplice apparenza esterna preparatoria, significherebbe svuotare il suo significato ideale e concreto[11].

In realtà, molto presto si intese questo gesto materiale in modo molto più profondo. Tale preparazione non sarà concepita unicamente come un'azione esteriore necessaria, bensì come un processo essenzialmente interiore. Per questo si relazionò con il gesto del capofamiglia giudaico che eleva il pane verso Dio, per riceverlo di nuovo da Lui, rinnovato. In un secondo momento, inteso in modo più profondo, questo gesto si associa con la preparazione che Israele fa di se stesso per presentarsi davanti al suo Signore. In questo modo, il gesto esterno di preparare i doni si comprenderà, sempre più, come un prepararsi interiormente dinanzi alla vicinanza del Signore, che cerca i cristiani nelle loro offerte. In realtà «si fa manifesto che il vero dono del sacrificio conforme alla Parola siamo noi, o almeno dobbiamo arrivare ad esserlo, con la partecipazione all'atto con il quale Gesù Cristo offre se stesso al Padre»[12].

Questo approfondimento del gesto della presentazione dei doni risulta una conseguenza logica della stessa forma esterna che presenta la Santa Messa[13]. Il suo elemento primordiale, il novum radicale che Gesù inserisce nella cena sacrificale giudaica, è precisamente l'«Eucaristia», cioè il fatto che sia un'orazione memoriale di azione di grazie. Questa oratio - la solenne Preghiera Eucaristica - è qualcosa di più che una serie di parole: è actio divina che si realizza attraverso il discorso umano. Per mezzo di essa, gli elementi della terra sono transustanziati, strappati, per dir così, dal loro radicamento creaturale, assunti nel fondamento più profondo del proprio essere e trasformati nel Corpo e Sangue del Signore. Noi stessi, partecipando a questa azione, siamo trasformati e ci convertiamo nel vero Corpo di Cristo.

Si comprende, così, che «il memoriale della sua totale donazione non consiste nella ripetizione dell'Ultima Cena, bensì propriamente nell'Eucaristia, vale a dire, nella novità radicale del culto cristiano. Gesù ci ha affidato così il compito di partecipare alla sua hora. L'Eucaristia ci inserisce nell'atto oblativo di Gesù. Non riceviamo il Logos solamente in modo passivo; siamo invece coinvolti nella dinamica della sua donazione. Egli ci attrae verso di sé»[14].

È Dio stesso colui che opera nella Preghiera Eucaristica e noi ci sentiamo attratti verso questa azione di Dio[15]. In questo cammino, che inizia con la presentazione dei doni, il sacerdote esercita una funzione di mediazione, come avviene nel Canone o nel momento della Comunione. Sebbene con l'attuale processione offertoriale venga soprattutto evidenziato il compito dei fedeli, rimane sempre la mediazione sacerdotale perché il sacerdote riceve le offerte e le depone sull'altare[16].

In questo percorso verso la oratio, che comporta l'offerta di sé, le azioni esterne risultano secondarie. Dinanzi alla oratio, l'agire dell'uomo passa in secondo piano. Essenziale è l'azione di Dio, che attraverso la Preghiera Eucaristica vuole trasformare noi stessi e il mondo. Per questa ragione, è logico che alla Preghiera Eucaristica ci accostiamo in silenzio e pregando. E rimane d'obbligo che, al processo esteriore della presentazione dei doni, corrisponda un processo interiore: «La preparazione di noi stessi; ci mettiamo in cammino, ci presentiamo al Signore: gli chiediamo che ci prepari per la trasformazione. Il silenzio comune è pertanto orazione comune, persino azione comune; è porsi in cammino dall'ambito della nostra vita quotidiana verso il Signore, per farci suoi contemporanei»[17].

Pertanto, il momento della oblatio donorum, «gesto umile e semplice, ha un significato molto grande: nel pane e nel vino che portiamo all'altare tutta la creazione è assunta da Cristo redentore per essere trasformata e presentata al Padre»[18]. È ciò che potremmo chiamare il carattere cosmico e universale della Celebrazione eucaristica. L'offertorio prepara la celebrazione e ci inserisce nel «mysterium fidei che si realizza nell'Eucaristia: il mondo nato dalle mani di Dio creatore ritorna a Lui redento da Cristo»[19].

Non è altro il significato del gesto dell'elevazione dei doni e delle orazioni che lo accompagnano: «Benedetto sei tu, Signore, Dio dell'universo. Dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell'uomo. Lo presentiamo a te perché diventi per noi cibo di vita eterna». Il contenuto delle preghiere è collegato con le orazioni che gli ebrei recitavano a tavola. Orazioni che, nella forma di benedizioni, hanno per punto di riferimento la Pasqua di Israele e sono pensate, declamate e vissute pensando ad essa. Questo suppone che esse sono state scelte in quanto anticipazione silenziosa del mistero pasquale di Gesù Cristo. Per questo, la preparazione e la realtà definitiva del sacrificio di Cristo si compenetrano in queste parole.

D'altro canto, «portiamo all'altare anche la sofferenza e il dolore del mondo, coscienti che tutto è prezioso agli occhi di Dio»[20]. In realtà, «il celebrante, in quanto ministro del sacrificio, è l'autentico sacerdote, che porta a compimento - in virtù del potere specifico della sacra ordinazione - il vero atto sacrificale che conduce di nuovo tutti gli esseri a Dio. Invece coloro che partecipano all'Eucaristia, senza sacrificare come lui, offrono assieme a lui, in virtù del loro sacerdozio comune, i propri sacrifici spirituali, rappresentati dal pane e dal vino, dal momento della loro preparazione sull'altare»[21].

Il pane e il vino diventano, in un certo senso, simbolo di tutto ciò che l'assemblea eucaristica in quanto tale porta in offerta a Dio e che essa offre in spirito. Questa è la forza ed il significato spirituale della presentazione dei doni[22]. In questa linea si comprende l'incensazione dei doni collocati sull'altare, della croce e dell'altare stesso, che significa l'oblazione della Chiesa e la sua preghiera, che salgono come incenso verso la presenza di Dio[23].

«Si comprende ora meglio perché la Liturgia Eucaristica, con il suo valore di di presentazione e di offerta della creazione e di se stessi a Dio iniziasse, nella Chiesa antica, con l'acclamazione: Conversi ad Dominum - dobbiamo sempre allontanarci dai cattivi sentieri sui quali tanto spesso ci incamminiamo con i nostri pensieri e le nostre opere. Dobbiamo invece sempre dirigerci verso di Lui. Dobbiamo essere sempre convertiti, con la nostra vita intera diretta verso Dio»[24].

Questo cammino di conversione, che deve essere più intenso ed immediato nel momento previo alla Preghiera Eucaristica, dovrebbe essere orientato in primo luogo dalla croce. Una proposta per attuare ciò la segnala Benedetto XVI: «Non procedere a nuove trasformazioni, ma proporre semplicemente la croce al centro dell'altare, verso la quale possano guardare insieme il sacerdote ed i fedeli, per lasciarsi guidare così dal Signore, che tutti insieme preghiamo»[25].

D'altro canto, il gesto di presentazione dei doni e l'atteggiamento con cui si realizza, stimolano il desiderio di conversione e di oblazione di sé. Sono diversi i gesti e le parole che sono finalizzati al raggiungimento di questo obiettivo. Vediamo brevemente due di essi.

a) La preghiera «In spiritu humilitatis...»[26]. Questa formula è entrata nei libri liturgici in Francia nel secolo IX. Appare per la prima volta nel sacramentario di Amiens, nella parte offertoriale[27]. Nella liturgia romana la troviamo già nell'Ordo della Curia e di lì passa nel Messale di san Pio V.

Come segnala Lodi, prima di iniziare il testo della grande Preghiera Eucaristica (o Canone Romano), che deve essere recitato fedelmente e nel quale le intenzioni personali sono più difficilmene esprimibili, troviamo questa orazione che permette al celebrante di esprimere i suoi sentimenti. Allo stesso tempo, per mezzo della Parola biblica che ispira tutta questa orazione, si esprime il senso ultimo di ogni oblazione esteriore: il dono del cuore accompagnato dalla disposizione intima al sacrificio personale[28].

Notiamo che l'articolazione al plurale («...sacrificium nostrum...») sembra indicare, una volta di più, che il sacerdote celebrante la pronunzia a nome suo e del popolo. Il fatto che essa sia pronunciata in segreto dal sacerdote non ci sembra ragione sufficiente per qualificarla come una orazione privata. Infatti, le stesse orazioni di presentazione dei doni possono essere pronunciate a voce alta o in segreto e in nessun caso si considerano private.

Il silenzio che si produce in questo momento di preghiera della apologia, e la posizione - profondamente inclinata - del sacerdote, che manifesta una chiara indole penitenziale, facilitano ai presenti alla celebrazione il penetrare nelle cose invisibili e accentuano l'idea della necessità della penitenza e dell'umiltà nell'incontrarci con Dio. Umiltà e riverenza dinanzi ai santi misteri: atteggiamenti che rivelano la sostanza stessa di qualunque liturgia[29].

b) Il lavabo[30]. Il lavabo nella Messa da parte del presbitero non rappresenta una tradizione universale (in Italia e in Spagna non lo si incontra praticamente fino al secolo XV, mentre in Francia fu introdotto a partire dagli Ordines che pervennero da Roma verso il secolo IX[31]). A Roma esso avrà una funzione unicamente pratica, sebbene più tardi acquisisca anche un valore simbolico[32].

Attualmente, il lavabo è un'azione puramente simbolica, come si deduce dalla formula impiegata, come pure dal fatto che, in genere, si lavano unicamente le punte delle dita indice e pollice - quelle che toccheranno la sacra Ostia. Possiamo dire che il rito esprime il desiderio di purificazione interiore[33]. Di qui che alcuni abbiano proposto e continuino a proporre la soppressione di questo rito. Non condividiamo quest'idea, perché pensiamo che esso ha un chiaro valore catechetico e inoltre rappresenta un rinnovato atto penitenziale per il sacerdote, che in quel momento si dispone all'azione eucaristica e si prepara ad essa. Allo stesso tempo, come nota Lodi[34], la formula che accompagna il gesto del lavabo delle mani è presente già dall'antichità cristiana come uso solenne, praticato prima che il sacerdote si raccolga in orazione, come testimoniato da Tertulliano[35] e dalla Traditio apostolica[36].

Il sacerdote conclude la presentazione dei doni rivolgendosi ai fedeli e chiedendo loro che preghino affinché «il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre onnipontente». «Queste parole hanno valore di impegno in quanto esprimono il carattere di tutta la Liturgia Eucaristica e la pienezza del suo contenuto tanto divino quanto ecclesiale»[37]. Lo stesso può dirsi della risposta dei fedeli: «Il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa». Risulta così logico che «la coscienza dell'atto di presentare le offerte dovrebbe essere mantenuta durante tutta la Messa»[38], perché i fedeli devono imparare ad offrire se stessi all'atto di offrire l'Ostia immacolata, non solo attraverso le mani del sacerdote, ma anche insieme con lui[39].

Note

[1] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

[2] Institutio Generalis Missalis Romani (= IGMR), n. 28; cf. Vaticano II, Sacrosanctum concilium, n. 56.

[3] Cf. IGMR, nn. 72-73.

[4] Cf. IGMR, n. 55.

[5] Cf. J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 102.

[6] Cf. IGMR, n. 73.

[7] Cf. IGMR, n. 78.

[8] Cf. «Pregare "ad Orientem versus"», Notitiae 322, vol. 29 (1993), p. 249.

[9] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesammelte Schriften, Presentazione al vol. XI: Theologie der Liturgie.

[10] Cf. Giustino di Nablus, I Apologia, 65 ss.

[11] Cf. V. Raffa, «Oblazione dei fedeli», in Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2003, p. 405.

[12] J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 237.

[13] Cf. J. Ratzinger, «Forma y contenido de la celebración eucarística», in La fiesta de la fe, pp. 43-66.

[14] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 11.

[15] «La grandezza dell'opera di Cristo consiste appunto nel fatto che egli non resta isolato e separato di fronte a noi, che non ci rinvia a una semplice passività; non solo ci sopporta, ma ci porta, si identifica con noi, che a lui appartengono i nostri peccati, a noi il suo essere: egli ci accoglie realmente, così che diventiamo attivi con lui e a partire da lui, agiamo con lui e partecipiamo quindi al suo sacrificio, condividiamo il suo mistero. Così anche la nostra vita e la nostra sofferenza, la nostra speranza e il nostro amore diventano fecondi nel nuovo cuore che lui ci ha donato" (J. Ratzinger, Il Dio vicino, pp. 47-48).

[16] Cf. IGMR, n. 73.

[17] J. Ratzinger, El espíritu de la liturgia. Una introducción, p. 236.

[18] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 47.

[19] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 8. «Comunque sia da spiegare la cosa, oggettivamente parlando non sembra potersi negare l'effettivo coinvolgimento già attuale nell'azione e nel movimento, che diremmo di natura oblativa (offerimus), della terra, dell'uomo e della sua attività creativa, ovviamente non come oggetto assoluto chiuso in se stesso e concluso definitivamente nell'attimo fuggente, ma dinamico, aperto a un divenire e mirato a un traguardo futuro in se stesso, ma già presente nella mente e nel cuore. Il sacrificio certo ritualmente si ripresenterà solo nella preghiera eucaristica. Tuttavia non sarà come un evento che emerge del vuoto. Sarà invece il culmine di un'ascesa vissuta interiormente e tutta tesa ad esso» (V. Raffa, Liturgia eucaristica. Mistagogia della Messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica, p. 415).

[20] Benedetto XVI, Sacramentum caritatis, n. 47.

[21] Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae (24.02.1980), n. 9.

[22] Cf. IGMR, n. 73.

[23] Cf. IGMR, 75.

[24] Benedetto XVI, Omelia nella Veglia pasquale, 22.03.2008.

[25] J. Ratzinger/Benedetto XVI, Gesammelte Schriften, Presentazione al vol. XI: Theologie der Liturgie.

[26] Cf. J. Jungmann, El sacrificio eucarístico, II, nn. 52, 58, 60, 105. M. Righetti, Historia de la Liturgia, II, p. 292.

[27] Cf. P. Tirot, «Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle», Ephemerides Liturgicae 98 (1984), p. 169.

[28] Cf. E. Lodi, «Les prières privées du prêtre dans le déroulement de la messe romain», en L'Eucharistie: célebrations, rites, piétés, BEL Subsidia 79, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 1995, p. 246.

[29] Cf. Giovanni Paolo II, Messaggio all'Assemblea plenaria della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (21.09.2001).

[30] Cf. J. Jungmann, El sacrificio eucarístico, nn. 83-84. M. Righetti, Historia de la Liturgia, II, pp. 282-284.

[31] Cf. P. Tirot, «Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle», pp. 174-177.

[32] Conviene non dimenticare che un'abluzione simbolica si trova da tempi molto antichi nella liturgia della Messa in Oriente. Essa è attestata già nella catechesi mistagogica attribuita a san Cirillo di Gerusalemme morto nel 387 (cf. Catechesi mistagogiche, V, 2: ed. A. Piédagnel, SCh 126, 146-148) nonché, tra V e VI secolo, nello Pseudo-Dionigi (cf. Ecclesiastica Hierarchia, III, 3, 10: PG 3, 437D-440AB).

[33] IGMR, n. 76: «Deinde sacerdos manus lavat ad latus altaris, quo rito desiderium internae purificationis exprimitur».

[34] Cf. E. Lodi, «Les prières privées du prêtre dans le déroulement de la messe romain», p. 246.

[35] Cf. Tertulliano, De oratione, III: CSEL 20, 188.

[36] Cf. Tradition Apostolique, 41, SCh 22bis, 125.

[37] Giovanni Paolo II, Dominicae Cenae (24.02.1980), n. 9.

[38] Ibid.

[39] Cf. Vaticano II, Sacrosanctum concilium, n. 48.

[Traduzione dallo spagnolo di Don Mauro Gagliardi]

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01/03/2010 13:41

Il sacerdote e il Canone della S. Messa, o Prece eucaristica
Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

ROMA, mercoledì, 24 febbraio 2010 (ZENIT.org).- L'odierno articolo della nostra rubrica - scritto originariamente in inglese e che termina citando un testo di J. Ratzinger che viene qui tradotto per la prima volta in italiano dall'originale tedesco - evidenzia l'importanza della Preghiera Eucaristica della Santa Messa. L'articolo invita tutti i fedeli, ma in particolare i sacerdoti, a riconoscere nel Canone della Messa il cuore e il culmine della vita cristiana (don Mauro Gagliardi).




 

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Il cuore e culmine della Santa Messa

La Preghiera Eucaristica, nota nella tradizione orientale come Anaphora («offerta»), è davvero il «cuore» e il «culmine» della celebrazione della Santa Messa, come spiega il Catechismo della Chiesa Cattolica[1]. Nella tradizione romana, la Preghiera Eucaristica ha preso il nome di Canon Missae («Canone della Messa»), espressione che si trova nei primi Sacramentari e che risale almeno al Papa Vigilio (537-555), il quale parla della «prex canonica»[2].

La Anafora o Canone è una lunga preghiera che ha forma di ringraziamento (eucharistia), improntata all'esempio di Cristo stesso durante l'Ultima Cena, quando Gesù prese il pane ed il calice del vino e «diede grazie» (Mt 26,27; Mc 14,23; Lc 22,19; 1Cor 11,23). San Cipriano di Cartagine (morto nel 258), uno dei testimoni più importanti della tradizione latina, ha fornito una formulazione classica del legame inseparabile tra la celebrazione liturgica e l'evento dell'istituzione dell'Eucaristia nel cenacolo, quando ha enfatizzato il fatto che il celebrante deve imitare da vicino gli atti e le parole che il Signore usò in quell'occasione, e dai quali dipende la validità dei sacramenti[3].

Il Santo Padre Benedetto XVI ha espresso questa verità essenziale della fede in un'omelia tenuta a Parigi durante la sua Visita Apostolica del 2008:

«Il pane che noi spezziamo è comunione al Corpo di Cristo; il calice di ringraziamento che noi benediciamo è comunione al Sangue di Cristo. Rivelazione straordinaria, che ci viene da Cristo e ci è trasmessa dagli Apostoli e da tutta la Chiesa da quasi duemila anni: Cristo ha istituito il sacramento dell'Eucaristia la sera del Giovedì Santo. Egli ha voluto che il suo sacrificio fosse nuovamente presentato, in modo incruento, ogni volta che un sacerdote ridice le parole della consacrazione sul pane e sul vino. Milioni di volte da venti secoli, nella più umile delle cappelle come nella più grandiosa delle basiliche o delle cattedrali, il Signore risorto si è donato al suo popolo, divenendo così, secondo la formula di sant'Agostino, "più intimo a noi che noi medesimi" (cf. Confess. III, 6.11)»[4].

Le singole parole del «ringraziamento» di Cristo - eccetto quelle dell'istituzione, con le quali il Signore stabilì il Sacrificio della Nuova Alleanza - non ci sono state trasmesse e perciò all'interno della Tradizione Apostolica si è sviluppata una varietà di riti che sono storicamente associati con le sedi primaziali più importanti, che sono nominate dal sesto canone del Concilio di Nicea (325): Roma, Alessandria, Antiochia e, un poco più tardi, Bisanzio[5].

Elementi essenziali della Prece Eucaristica

Gli elementi essenziali della Preghiera Eucaristica sono presentati sinteticamente nel Catechismo:

- Nel Prefazio, «la Chiesa rende grazie al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito Santo, per tutte le sue opere, per la creazione, la redenzione e la santificazione. In questo modo l'intera comunità si unisce alla lode incessante che la Chiesa celeste, gli angeli e tutti i santi cantano al Dio tre volte Santo»[6].

- Nell'Epiclesi, la Chiesa «prega il Padre di mandare il suo Santo Spirito (o la potenza della sua benedizione) sul pane e sul vino, affinché diventino, per la sua potenza, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo e perché coloro che partecipano all'Eucaristia siano un solo corpo e un solo spirito (alcune tradizioni liturgiche situano l'epiclesi dopo l'anamnesi)»[7].

- Nel cuore della Preghiera Eucaristica, ossia nel racconto dell'istituzione, «l'efficacia delle parole e dell'azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le specie del pane e del vino il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte»[8].

- Al racconto istituzionale fa seguito l'anamnesi, nella quale «la Chiesa fa memoria della Passione, della Risurrezione e del Ritorno glorioso di Gesù Cristo; essa presenta al Padre l'offerta di suo Figlio che ci riconcilia con lui»[9].

- Nelle intercessioni, si «manifesta che l'Eucaristia viene celebrata in comunione con tutta la Chiesa del cielo e della terra, dei vivi e dei defunti, e nella comunione con i pastori della Chiesa, il Papa, il vescovo della diocesi, il suo presbiterio e i suoi diaconi, e tutti i vescovi del mondo con le loro Chiese»[10].

Dalla tarda antichità fino alla riforma liturgica effettuata dopo il Concilio Vaticano II, il Canon Missae era l'unica Preghiera Eucaristica del Rito Romano, ed è ancora così per la forma straordinaria di questo rito, celebrata in accordo al Missale Romanum del 1962. Nella editio typica del Messale pubblicata nel 1970, il Canone Romano è stato conservato con alcune modifiche secondarie (e con la riduzione dei gesti rubricali) come la prima di quattro Preghiere Eucaristiche. Le nuove Preghiere Eucaristiche contengono elementi sia della tradizione latina che di quelle orientali. Successivamente, sono state aggiunge al Messale ancora altre Preghiere Eucaristiche.

Il Canon Missae risale alla seconda metà del IV secolo, periodo in cui la liturgia latina romana cominciò a svilupparsi pienamente. Nel suo De Sacramentis, che consiste in una serie di catechesi tenute ai nuovi battezzati attorno all'anno 390, sant'Ambrogio cita in modo esteso brani della Preghiera Eucaristica utilizzata in quel tempo nella sua città[11]. I brani citati rappresentano le prime formulazioni delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone che si trova nei primi Sacramentari romani.

Nella più anticha tradizione romana, il Canone inizia con ciò che noi oggi chiamiamo Prefazio, un atto solenne di ringraziamento a Dio per i suoi innumerevoli benefici, specialmente per la sua opera di salvezza. Il Sanctus fu introdotto in un momento successivo, separando così il Prefazio dalle preghiere che seguono. È una caratteristica propria del Rito Romano che il testo del Prefazio vari in accordo al tempo liturgico o alla festa celebrata. Le collezioni più antiche di Messe riportavano diversi Prefazi, che si erano molto ridotti già nel primo medioevo, sicché il Missale Romanum del 1570 ne mantenne soltanto undici. Successivamente se ne aggiunsero altri e di certo rappresenta uno dei guadagni dell'opera più recente di riforma liturgica l'aver arricchito il corpus dei Prefazi scegliendoli dalle fonti antiche[12].

La preghiera sacerdotale

Come ha scritto Giovanni Paolo II nella sua Lettera Apostolica Dominicae Cenae nei primi anni del suo pontificato, l'Eucaristia è «la principale e centrale ragion d'essere del sacramento del sacerdozio, nato effettivamente nel momento dell'istituzione dell'Eucaristia e insieme con essa»[13]. La Preghiera Eucaristica è davvero la preghiera sacerdotale per eccellenza perché, come insegna il Concilio Vaticano II, il sacerdote ordinato «compie il sacrificio eucaristico nel ruolo di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo»[14]. Il sacerdote, che ricevendo il sacramento dell'Ordine è stato conformato a Cristo Sommo Sacerdote, agisce e parla rappresentando Cristo Capo. È per questa ragione - scrive Giovanni Paolo II nella sua ultima Enciclica Ecclesia de Eucharistia - che «nel Messale Romano è prescritto che sia unicamente il sacerdote a recitare la Preghiera Eucaristica, mentre il popolo vi si associa con fede e in silenzio»[15].

Nella consacrazione dell'Eucaristia, il sacerdote ordinato non agisce mai da solo, ma sempre in e con il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa, i cui membri, attraverso le virtù infuse della fede e della carità, partecipano all'azione di Cristo Capo rappresentati dal sacerdote ministro. Il Papa Pio XII, nella sua Enciclica Mediator Dei, afferma che anche i fedeli «offrono la Vittima divina, sebbene in un senso diverso» rispetto a come la offre il sacerdote ministro. Questo insegnamento è confermato da riferimenti agli scritti sulla Messa di Papa Innocenzo III e di san Roberto Bellarmino. Pio XII richiama l'attenzione anche sul fatto che le preghiere liturgiche di offerta sono spesso alla prima persona plurale, come avviene anche in diverse parti del Canone della Messa[16]. Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Sacra Liturgia, segue la Mediator Dei quando proclama che i fedeli, al partecipare al Mistero della Fede, ossia alla Santa Eucaristia, «rendano grazie a Dio, offrendo la Vittima immacolata non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, e imparino ad offrire se stessi»[17]. Come insegna poi la Costituzione Dogmatica conciliare sulla Chiesa, «i fedeli, in virtù del loro regale sacerdozio, concorrono all'offerta dell'Eucaristia»[18]. Attraverso il carattere indelebile che hanno ricevuto nel Battesimo, i fedeli partecipano al sacerdozio di Cristo e pertanto anche all'offerta sacrificale che Egli fa di sé al Padre nello Spirito Santo.

Questo insegnamento del Magistero della Chiesa offre anche il fondamento per una rinnovata e più profonda comprensione della participatio actuosa (partecipazione attiva) dei fedeli alla liturgia, partecipazione che non è solo esteriore, ma anche e soprattutto interiore. Da questa prospettiva si capisce anche meglio perché sin dall'epoca carolingia fino alla riforma del Vaticano II, e anche oggi nella forma straordinaria del Rito Romano, il sacerdote celebrante prega il Canone in silenzio. Come ha spiegato l'allora Cardinale Joseph Ratzinger, così facendo non si nega la comunione davanti a Dio:

«Non è affatto vero che la recitazione ad alta voce, ininterrotta, della Preghiera Eucaristica sia la condizione per la partecipazione di tutti a questo atto centrale della Celebrazione eucaristica. La mia proposta di allora era: da una parte l'educazione liturgica deve far sì che i fedeli conoscano il significato essenziale e l'indirizzo fondamentale del canone; dall'altra, le prime parole delle singole preghiere dovrebbero essere pronunciate a voce alta come un invito a tutta la comunità, così che, poi, la preghiera silenziosa di ciascuno faccia propria l'intonazione e possa portare la dimensione personale in quella comunitaria, quella comunitaria nella dimensione personale. Chi ha personalmente vissuto l'unità della Chiesa nel silenzio della Preghiera Eucaristica ha sperimentato che cos'è il silenzio davvero pieno, che rappresenta insieme un forte e penetrante grido rivolto a Dio, una preghiera colma di spirito. Qui noi preghiamo davvero tutti insieme il Canone, sia pure nel legame con l'incarico particolare del servizio sacerdotale»[19].

Per i sacerdoti, la Celebrazione dell'Eucaristia è il momento più importante della giornata. Tutte le altre attività, ogni altro aspetto della loro esistenza sacerdotale deve essere intimamente connesso all'offerta del Santo Sacrificio. Qui troviamo il cuore del sacerdozio e anzi di tutta la natura sacramentale della Chiesa, come l'allora teologo Joseph Ratzinger ha detto così bene:

«Affinché l'evento avvenuto in un tempo passato si faccia presente, devono dunque essere pronunciate le parole: Questo è il mio Corpo - Questo è il mio Sangue. Ma in queste parole si suppone che parli l'Io di Gesù Cristo. Solo Lui può dire queste cose; sono le Sue parole. Nessun uomo può pretendere di dichiarare l'Io di Gesù Cristo come proprio. Nessuno può qui dire in modo appropriato "Io" e "Mio". Eppure ciò deve essere detto, se il mistero salvifico non è più un lontano passato. Perciò questo si può dire a partire da un munus [Vollmacht] che nessuno può darsi da sé - un munus che neppure una comunità o molte comunità possono trasmettere, bensì solo può fondarsi sull'autorizzazione "sacramentale" data all'intera Chiesa da Gesù Cristo stesso. [...] E questo è esattamente l'"Ordinazione sacerdotale" e il "Sacerdozio"»[20].

Note

[1] Catechismo della Chiesa Cattolica [= CCC], n. 1352.

[2] Papa Vigilio, Ep. ad Profuturum, 5: PL 69,18

[3] Cipriano di Cartagine, Ep. 63,16-17: CSEL 3,714-715.

[4] Benedetto XVI, Omelia durante la Celebrazione Eucaristica all'Esplanade des Invalides, Paris (13 settembre 2008).

[5] Cf. Joseph Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pp. 155-166.

[6] CCC, n. 1352.

[7] CCC, n. 1353

[8] Ibid.

[9] CCC, n. 1354.

[10] Ibid.

[11] Ambrogio di Milano, De Sacramentis, IV, 5,21-22; 6,26-27: CSEL 73,55 e 57.

[12] Nella sua Lettera ai Vescovi di tutto il mondo per presentare il "Motu Proprio" sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 (7 luglio 2007), Papa Benedetto XVI indica che il Messale antico potrebbe essere arricchito dall'inserimento di «nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi».

[13] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Dominicae Cenae (24 febbraio 1980), n. 2.

[14] Concilio Vaticano II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, n. 10.

[15] Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003), n. 28.

[16] Pio XII, Lettera Enciclica Mediator Dei (20 novembre 1947), nn. 85-87.

[17] Concilio Vaticano II, Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 48.

[18] Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, n. 10.

[19] J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 211.

[20] J. Ratzinger, Das Fest des Glaubens. Versuche zur Theologie des Gottesdienstes, Johannes, Einsiedeln 1993 (III ediz.), pp. 84-85 (= J. Ratzinger, Theologie der Liturgie. Die sakramentale Begründung christlicher Existenz, Gesammelte Schriften 11, Freiburg, Herder 2008, p. 626).


[Traduzione dall'inglese e dal tedesco di don Mauro Gagliardi]

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11/03/2010 10:49

Il sacerdote nei Riti di Comunione della Santa Messa
Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

ROMA, mercoledì, 10 marzo 2010 (ZENIT.org).-
 
Padre Paul Gunter, professore presso il Pontificio Istituto Liturgico e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice, ci offre in questo articolo una panoramica sui Riti di Comunione della Santa Messa (forma ordinaria e straordinaria), concentrando l'attenzione sul sacerdote celebrante. Dalla sua esposizione, emerge il significato liturgico e spirituale di questi riti, che dispongono sacerdote e fedeli a ricevere il Corpo e Sangue di Cristo con le dovute disposizioni dell'animo, in modo che la Comunione eucaristica rechi frutti di conversione e di santità nelle loro vite (don Mauro Gagliardi).



 

***

Paul Gunter, O.S.B.

Il sacerdote che si prepara ai riti di Comunione nella Messa è predisposto dalla Preghiera Eucaristica, che egli ha appena completato, a riconoscere che «nel racconto dell'istituzione, l'efficacia delle parole e dell'azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le specie del pane e del vino il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte»[1]. D'altro canto, quando giunge il momento in cui il sacerdote e i fedeli ricevono la Santa Eucaristia, ossia quando si preparano a mangiare il Corpo del Signore e a bere il suo Sangue, bisogna ricordarsi del discorso di Gesù a Cafarnao, che rappresenta la ricezione della Santa Eucaristia sia come una venuta che come un incontro[2].

Per quanto riguarda il tema della venuta, il Vangelo di san Giovanni dice: «Il pane di Dio è colui che scende dal cielo e dà la vita al mondo»[3]. Circa l'incontro, l'Eucaristia viene addirittura concepita come espressione della relazione interna alla Santissima Trinità, testimoniata nella relazione filiale di Gesù con il suo Padre celeste. Gesù la spiega con le parole: «Non che alcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna. Io sono il pane della vita»[4]. «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me»[5]. Di conseguenza, la preparazione personale e pubblica a ricevere la Santa Eucaristia, che i Riti di Comunione favoriscono in modo così intenso, sia nella forma ordinaria che in quella straordinaria della Messa, non preparano il sacerdote e i fedeli a ricevere una cosa, bensì una Persona. Come riassume Romano Guardini: «Non esso, bensì Egli, la Persona suprema lodata in tutta l'eternità»[6].

La forma ordinaria del Rito Romano

Nella forma ordinaria (o Messa di Paolo VI), all'inizio dei Riti di Comunione, guidati dal sacerdote, il popolo sta in piedi. A livello simbolico, l'immagine del sacerdote che sta al centro dell'altare, circondato dall'assemblea in piedi, rappresenta un'anticipazione della Chiesa che starà con Cristo in cielo alla fine dei tempi. Il sacerdote introduce il Pater Noster utilizzando una delle formule previste, prima che si reciti o si canti insieme la preghiera del Signore. Le parole che Gesù ci ha insegnato perché pregassimo con fiducia, e che noi usiamo prima di accostarci alla Santa Eucaristia, sono state commentate da numerosi autori. Ad esempio, alcuni testi presi dal commento di san Cipriano di Cartagine sulla preghiera del Signore sono stati inseriti nell'Ufficio delle Letture della Lituurgia delle Ore, all'undicesima settimana del Tempo Ordinario, per educarci ad un maggior apprezzamento del significato di tali parole[7]. I testi di san Cipriano ricordano al sacerdote che ogni recita del Pater Noster è un atto ecclesiale, che porta conseguenze nella vita degli altri. San Cipriano ha scritto:

«Prima di tutto, il Maestro della pace e dell'unità non volle che pregassimo per conto nostro ed in privato, in maniera tale che ognuno pregasse solo per sé. Perciò non diciamo "Padre mio che sei nei cieli", oppure "Dammi oggi il mio pane" [...]. La nostra preghiera è pubblica e per tutti e, quando preghiamo, lo facciamo non per una persona soltanto, ma per tutte, perché noi tutti siamo uno»[8].

La preghiera Libera nos continua a diffondere dolcemente le risonanze del Pater Noster e descrive l'umana indegnità e il bisogno di liberazione dal male con cui ci accostiamo all'Eucaristia. Il sacerdote, che prega in favore di ciascuno, riconosce, da un lato, le vicende che incidono sulla nostra pace, in vite macchiate da peccati e angustie; e, dall'altra, la gioiosa speranza che arreca la venuta del Signore. Il popolo completa la preghiera con una dossologia, che esprime l'aspettativa che il Signore compirà la sua promessa di essere glorificato in noi. La preghiera Domine Iesu Christe si concentra sui nostri peccati ed angustie e riposa sulla fede della Chiesa che attende la pace e l'unità del regno, come compimento della volontà di Dio. Dopo, il sacerdote stende le mani e scambia il saluto con l'assemblea: Pax Domini sit semper vobiscum. Si risponde: Et cum spiritu tuo.

L'effettivo scambiarsi la pace non rappresenta una componente obbligatoria della liturgia: il diacono o il sacerdote possono, se è opportuno, invitare i presenti a scambiarsi il segno della pace. Le discussioni a riguardo del momento più appropriato per scambiarsi la pace all'interno della liturgia restano distinte da quelle che riguardano il modo di scambiarsela. Il Messale mantiene le dovute distinzioni ecclesiologiche. Certamente, lo scambio della pace non è un momento nel quale da un'attitudine formale si passa ad una più informale, bensì un momento in cui i rapporti umani, che sono parte intrinseca dell'ordine delle cose, si rivelano nelle giuste proporzioni. «Si tratta di un rito di scambio, non di un saluto alla buona»[9]. San Tommaso d'Aquino ha espresso questa relazione tra i rapporti umani e il buon ordine nel suo bell'inno al Santissimo Sacramento dal titolo Pange Lingua, cantato il Giovedì Santo e nel giorno del Corpus Domini nella liturgia romana[10]. La terza strofa recita: «Nella notte della Cena, / sedendo a mensa con i suoi fratelli, / dopo aver osservato pienamente le prescrizioni della legge...»[11].

Il sacerdote scambia la pace con il diacono o con il ministro assistente. Non è previsto che egli lasci il presbiterio per salutare i fedeli nella navata. Costoro si scambiano la pace solo con coloro che sono più vicini. La rubrica distingue questi due gesti (del celebrante, cioè, e dei fedeli), il che impedisce che vi sia un fraintendimento ecclesiologico, che potrebbe scaturire da una visione puramente orizzontale.

La frazione del pane, che segue, possiede un aspetto pratico ed uno simbolico. Dal punto di vista rituale, in molti casi il celebrante spezza l'Ostia grande, che egli consuma in prima persona. D'altro canto, questo rito permette che si usi anche un'Ostia più grande rispetto al solito, che sia fatta in pezzi da distribuire ai fedeli. Una particola di essa viene inserita nel calice mentre il sacerdote dice in segreto: «Il Corpo e il Sangue di Cristo, uniti in questo calice, siano per noi cibo di vita eterna».

L'Agnus Dei che accompagna questa azione domanda perdono e si rivolge a Gesù che è l'Agnello pasquale, il cui corpo sacrificato ha versato il sangue per la remissione dei peccati. L'immagine di Gesù come Agnello è rappresentata in modo straordinario da una pala d'altare della Cattedrale di san Bavone a Gand, nella quale si vede un agnello ritto in piedi sull'altare, che versa il suo sangue in un calice[12]. L'Agnus Dei si richiama al Libro dell'Apocalisse, che proclama la dignità dell'Agnello che è stato immolato[13] e la benedizione di coloro che sono invitati al banchetto di nozze dell'Agnello[14]. L'antichità dell'Agnus Dei nel Rito Romano è tale che molti studiosi ritengono che sia stato Papa Sergio I (687-701) ad introdurlo nella Messa. La terza invocazione dell'Agnus Dei domanda la pace perché la Santissima Eucaristia è Sacramento di Pace, in quanto è il mezzo attraverso cui tutti coloro che lo ricevono sono stretti in un vincolo di unità e di pace[15].

Il sacerdote prega in segreto una preghiera preparatoria personale alla Santa Comunione, tra le due che sono proposte nel Messale. Nella prima, egli chiede di essere liberato dalle sue iniquità e da ogni altro male, attraverso il Corpo e Sangue di Cristo, e domanda la grazia di rimanere nei comandamenti del Signore sicché nulla possa mai separarlo da lui. Nella seconda, il sacerdote prega che la sua ricezione del Corpo e Sangue di Cristo non porti su di lui un giudizio di condanna, ma al contrario rappresenti una difesa e una cura per l'anima e per il corpo. La Comunione del sacerdote, che sempre precede quella dei fedeli, si fa sotto le due specie, per completare l'azione liturgica della Messa. Egli prega che il Corpo e Sangue di Cristo lo conducano alla vita eterna. Invece, alla purificazione dei vasi sacri, egli prega in favore di coloro che hanno comunicato (incluso, quindi, se stesso), affinché ciò che hanno ricevuto con le labbra sia ricevuto da un cuore puro, e anche affinché da semplice dono fatto nel tempo, la Comunione eucaristica diventi un rimedio che dura per la vita eterna. L'insieme di queste parole ed azioni rivela che qui è stato celebrato un grande mistero: la Celebrazione eucaristica è un kairos - tempo favorevole del Signore - che ha intercettato il chronos, ossia il tempo che è semplice successione di eventi che si svolgono attorno a noi. Perciò qui, dinanzi a Dio, il silenzio rappresenta in fondo l'unica risposta personale appropriata che proviene dalla parte più intima del nostro essere per esprimere fede, riverenza e comunione d'amore con Colui che abbiamo ricevuto.

Questo momento di silenzio dovrebbe essere salvaguardato con attenzione. Dovrebbe durare dei minuti e non dei secondi, per fornire uno spazio di preghiera chiaramente definito. Nella preghiera dopo la Comunione, che pure prevede una pausa di silenzio dopo l'Oremus, soprattutto se essa non è stata osservata in precedenza, il sacerdote guida il ringraziamento della Chiesa e prega perché il dono della Comunione, che è stato distribuito, possa portare frutto in noi. L'Amen con il quale i fedeli rispondono a questa preghiera conclude i Riti di Comunione, che erano iniziati con l'invito del sacerdote a pregare il Pater Noster.

La forma straordinaria

Il sacerdote nei Riti di Comunione della forma straordinaria (o Messa di san Pio V) compie gesti più complessi, che indicano l'identità e la funzione sacerdotali, in preparazione alla Santa Comunione. Seguendo lo stesso ordine usato per esporre i riti della forma ordinaria, consideriamo ora quella straordinaria, cominciando dall'introduzione al Pater Noster fino alla conclusione della preghiera dopo la Comunione. Si notano certamente delle differenze tra le due forme che compongono il Rito Romano. Siccome il Messale Tridentino prevede celebrazioni con distinti gradi di solennità, in questi casi i ministri assistenti svolgono delle azioni che invece sono operate dallo stesso sacerdote quando celebra la Messa Bassa (non solenne). Il sacerdote recita il Pater Noster da solo e il ministro assistente risponde: sed libera nos a malo. Il Libera quaesumus include le intercessioni di tutti i santi, e oltre a menzionare la Vergine Maria e i santi Pietro e Paolo, include anche sant'Andrea, probabilmente come segno di particolare devozione verso l'apostolo.

Quando il sacerdote prega per ottenere la pace ai nostri giorni[16], fa il segno di croce su se stesso con la patena e la bacia sull'orlo superiore, prima di sottoporla all'Ostia, in modo da preparare lo svolgimento della frazione del pane. Nella sua spiegazione delle preghiere e cerimonie della Santa Messa, Guéranger offre un commento che descrive lo scopo della formula Haec Commixtio, che si dice al momento di inserire la particola dell'Ostia nel calice - commento che al tempo stesso rivela la tendenza di questo autore verso l'allegorismo:

«Il sacerdote poi lascia cadere la particola che aveva nella mano all'interno del calice, mescolando così il Corpo e il Sangue del Signore, dicendo allo stesso tempo: Haec commixtio et consecratio Corporis et Sanguinis Domini nostri Iesu Christi fiat accipientibus nobis in vitam aeternam. Amen. Qual è il significato di questo rito? Che cosa è significato nella mescolanza della Particola con il Sangue che è nel calice? Questo rito non è dei più antichi, sebbene abbia circa mille anni. Suo fine è di mostrare che, al momento della risurrezione di Nostro Signore, il suo Sangue fu unito di nuovo al suo Corpo, scorrendo nelle sue vene come prima. Non sarebbe stato sufficiente che si fosse riunita al suo Corpo soltanto la sua Anima; doveva avvenire lo stesso per il suo Sangue, in modo che il Signore fosse integro e completo. Il nostro Salvatore, perciò, nella risurrezione riprese il suo Sangue che era stato in precedenza versato sul Calvario, nel Pretorio e nell'Orto degli ulivi»[17].

Dopo l'Agnus Dei, ci sono tre preghiere che il sacerdote dice prima della Santa Comunione, con gli occhi fissi sulla sacra Ostia e il cui contenuto si ritrova largamente nei Riti di Comunione della forma ordinaria. Dopo, tenendo l'Ostia egli dice la formula Domine, non sum dignus per tre volte e simultaneamente si batte il petto. Quando purifica la patena nel calice prima di consumare il prezioso Sangue, egli cita il Salmo 115: «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore», e vi aggiunge: «Lodando invocherò il Signore e sarò salvato dai miei nemici»[18]. Durante la purificazione del calice, dopo il Quod ore sumpsimus, il sacerdote prega che non rimanga in lui alcuna macchia dei suoi misfatti e che il Corpo e Sangue di Cristo che ha ricevuto trasformino il suo intero essere.

Si vede che l'enfasi riposta sul carattere sacedotale e sulle azioni liturgiche del sacerdote nei Riti di Comunione sono estremamente incoraggianti. Mentre non nascondono la consapevolezza che il sacerdote possiede della propria indegnità, sottolineano tuttavia la sua dignità unica e gli ricordano di come egli debba lottare per diventare puro e santo come Cristo. Perciò questi riti invitano - e invitano in modo immediato - il sacerdote che compie il sacrificio ad entrare in una più stretta unione con Gesù Cristo, Sommo Sacerdote e Vittima. Inoltre invitano i fedeli a riconoscere con gioia il ministero del sacerdozio, il cui mistero è essenziale per l'Eucaristia, quale «Fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa»[19]. In questi aspetti distinti dello stesso invito, la Chiesa intravede le meraviglie dell'amore di Dio, che ha umiliato se stesso per condividere la nostra umanità; amore che rinnova il suo invito ogni volta che la sua alleanza di amore si fa presente sull'altare, quando Cristo trascina la nostra esistenza umana sempre più profondamente nella sua vita risorta. Come testimonia l'autore dell'Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me»[20].
 

[Traduzione dall'inglese di don Mauro Gagliardi]


Note

[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1353.

[2] Gv 6.

[3] Gv 6,33.

[4] Gv 6,46-48.

[5] Gv 6,57.

[6] R. GUARDINI, Meditations Before Mass, tr. ingl. E. CASTENDYK, Sophia Institute, Manchester (NH) 1993 (rist.), 174.

[7] Cipriano di Cartagine, De Oratione dominica, 4-30, PL 3A, 91-113.

[8] Cipriano di Cartagine, De Oratione dominica, 8.

[9] J. DRISCOLL, What happens at Mass, Gracewing, Leominster 2005, 123.

[10] Durante la solenne traslazione del Santissimo Sacramento del Giovedì Santo e come Inno ai Vespri del Corpus Domini.

[11] «In supremae nocte caenae recumbens cum fratribus, observata lege plene...».

[12] J. VAN EYCK, Adorazione dell'Agnello, particolare della pala d'altare, 1432, Cattedrale di San Bavone, Gand, Belgio.

[13] Ap 5,11-12.

[14] Ap 19,7.9. Il sacerdote introduce il Domine, non sum dignus, formula basata su Mt 8,8 e Lc 7,6-7 cui, nel Messale di Paolo VI, è stata aggiunta l'immagine della festa dell'Agnello.

[15] «O segno di unità, o vincolo di carità»: Agostino di Ippona, In Joannis evangelium tractatus, 26, 13: PL 35, 1613; cf. Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, n. 47.

[16] «Da propitius pacem in diebus nostris».

[17] P. Guéranger, Explanation of the Prayers and Ceremonies of Holy Mass, tr. ingl. L. Shepherd, Stanbrook Abbey, Worcestershire 1885, 61.

[18] «Laudans invocabo Dominum et ab inimicis meis salvus ero».

[19] Benedetto XVI, Sacramentum Caritatis, n. 3.

[20] Ap 3,19-20.

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