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Il "Lògos" nella tradizione classica e nelle Scritture

Ultimo Aggiornamento: 28/01/2010 19:17
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Il "Lògos" nella tradizione classica e nelle Scritture

La parola che mette d'accordo il messaggio e il pensiero


di Moreno Morani
Università di Genova

Lògos è una parola chiave, è uno di quei termini che da soli potrebbero riassumere sinteticamente l'esperienza culturale degli antichi Greci. Lògos significa parola, pensiero, razionalità, capacità dell'essere umano di connettere e sviluppare i propri pensieri:  è ciò che caratterizza l'uomo rispetto agli animali, detti appunto àloga, irrazionali. Questa ricchezza semantica rende problematica una traduzione che esprima tutte le sfumature della parola. C'è un brano del Faust di Goethe in cui il protagonista, volendo tradurre l'inizio del Vangelo di Giovanni ("in principio era il Lògos"), nota quanto siano inadeguate le rese con "parola" o "pensiero" o "forza", e infine opta per "azione". Soluzioni tutte insoddisfacenti, perché ognuna di esse dice qualcosa di troppo e insieme lascia in ombra qualcos'altro. Del resto sarebbe temerario cercare il significato di lògos partendo dal prologo di Giovanni, passo famoso ma irto di difficoltà che potrebbe essere il punto di arrivo, non di partenza.

Il nucleo centrale di lògos si situa nell'ambito del "dire":  qualsiasi vocabolario ci indica come primo ed essenziale valore di lògos la comunicazione verbale, l'attività del parlare, il discorrere. E poiché il comunicare coi nostri simili implica la facoltà di intessere discorsi dotati di senso, lògos assume altri valori correlati con la razionalità umana, e viene a significare "criterio" e "ragione". In quanto parola e pensiero, lògos si contrappone a èrgon:  la semplice affermazione rispetto alla realtà, la riflessione rispetto all'azione. Nel greco di oggi molti dei valori antichi di lògos sono conservati, a dimostrazione di come, nonostante tanti cambiamenti, un unico filo percorra la Grecità linguistica.

La storia della parola può dare indicazioni illuminanti. Il termine è formato sulla radice indoeuropea leg'-, di cui sono attestate continuazioni in tre aree:  latina, greca, albanese. Alla radice possiamo associare il significato originario di "raccogliere". Mentre in albanese la radice ha mantenuto questo valore (mbledh, "mettere insieme"), in latino e in greco molte delle sue derivazioni hanno acquisito un significato diverso. In latino il valore antico rimane sia in testi arcaici sia in derivazioni e composti (come lex, la legge in quanto codice che raccoglie e concretizza i principi generali dello ius; o lignum, il pezzetto di albero staccato e raccolto). Nel verbo fondamentale legere si sviluppa invece, attraverso il valore di "radunare, mettere insieme, intrecciare", il senso di "scegliere", per arrivare infine a quello che diventa il valore normale:  "leggere", cioè raccogliere e mettere insieme con gli occhi i segni scritti. Un trapasso del genere non sorprende:  anche in altre aree linguistiche si hanno passaggi analoghi:  il tedesco lesen "leggere" si collega con parole germaniche che in origine significano "mettere insieme" (e nel tedesco stesso troviamo Lese "raccolta").

La vicenda di lègein in greco ha molti punti in comune con quella di legere, ma l'esito finale è diverso. Si passa dal significato primario di "raccogliere" (per esempio le ossa del morto arso sulla pira), a quello di "radunare" e quindi "scegliere", e poi, con passaggi ulteriori, "contare", "enumerare" e infine, in senso figurato, "passare in rassegna, esporre". In Omero lègein suggerisce di solito l'idea di un racconto ampio e diffuso, di una rassegna che si protrae per lunghi lassi di tempo. Solo dopo Omero lègein attenua questo significato e diviene il verbo comune per "dire", mettendo in ombra altri verbi di analogo significato che il greco aveva ereditato dall'indoeuropeo. In alcuni composti si mantiene il valore originario:  per esempio katalègein "elencare", eklègein "scegliere", syllègein "radunare".

Come s'inserisce lògos in questa evoluzione? Il sostantivo è formazione recente, realizzata quando lègein aveva il valore di "esporre". Infatti non vi è traccia in lògos dei significati di "raccogliere" o "contare". Il valore primario della radice è conservato in altre formazioni, ma non in lògos.

In Omero lògos si trova solo due volte e contiene essenzialmente l'idea del resoconto circostanziato. Lògos non è la semplice parola:  sono altri termini quelli che Omero usa in questo senso:  èpos (le "parole alate":  una qualunque espressione orale, la preghiera o l'invito, l'ordine o il racconto, e anche un discorso indistinto, di cui si percepisce solo il carattere fausto o infausto) e mythos (la parola con un significato). Nell'Iliade Patroclo entra nella tenda dell'amico Euripilo ferito e ne lenisce "con racconti (lògois)" il dolore:  Euripilo prova diletto alle sue parole, perché la forza del lògos è tale da fare dimenticare persino la sofferenza fisica. Il lògos è efficace e potente, e agisce, nel bene e nel male, su chi ascolta. Nel primo canto dell'Odissea è la dea Atena a chiedere l'intervento del padre Zeus in favore di Odisseo:  la ninfa Calipso trattiene lo sventurato eroe nella sua isola e "continuamente con discorsi (lògois) teneri e tortuosi lo ammalia, perché dimentichi Itaca":  l'incanto di parole suadenti è l'arma di cui Calipso dispone nel suo disperato tentativo di tenere con sé Odisseo:  solo i lògoi possono superare la sua nostalgia per la patria e gli affetti lontani. Dotato di questi poteri, il lògos è anche strumento d'inganno e traviamento:  Esiodo fa di questa idea un manifesto programmatico, collocando il lògos tra le molte disgrazie figlie di Eris:  "Litigi e falsità e discorsi (lògoi) e doppiezze e malgoverno e Ate, compagne tra loro".

Dopo Omero le cose cambiano sensibilmente:  èpos si specializza a indicare la parola dei poeti, e nell'opposizione tra mythos e lògos si ha un rovesciamento di piani:  il primo assume un valore tendenzialmente negativo, designando una parola che si ammanta di verità senza esserlo:  vi sono miti "avvolti da variopinte menzogne" che ingannano gli uomini prevalendo sulla verità, avverte Pindaro:  dunque il lògos portatore di verità contrapposto al mythos come possibile inganno:  un'opposizione che diverrà canonica. Lògos non è la parola singola, ma il discorso risultante dal concatenarsi di parole. La parola singola nella sua concretezza è designata piuttosto da rhèma. Nella tradizione grammaticale per indicare gli elementi della frase si usa ònoma (il sostantivo, la parola che designa) o rhèma (il verbo, la parola che agisce):  la parola come voce del vocabolario è la lèxis. Lògos può essere la parola, ma come principio classificatore della realtà, il segno linguistico diremmo oggi. Lògos è anche l'opinione, la fama, la tradizione. In quanto concatenazione di parole frutto di un procedimento razionale, lògos è anche la razionalità. Si oscilla così tra la pura astrazione e il criterio di giudizio, tra il semplice enunciato e il procedimento logico. La contrapposizione tra discorso (lògos) e realtà (érgon) accentua il carattere astratto del termine.

Trascuriamo gli ulteriori sviluppi di lògos nella Grecità, e veniamo al greco biblico. L'incontro con la cultura semitica fa assumere a lògos nuovi significati. Nella versione dei Settanta il termine semitico sottostante è in genere dabar, che a sua volta viene reso ora con lògos ora con rhèma:  la scelta dipende dal gusto dei traduttori, varia a seconda dei libri e non comporta sostanziali differenze semantiche. Diversamente da quanto abbiamo visto in greco, la parola ebraica ha un aspetto dinamico:  alla parola concreta (dâbâr) si contrappone lo spirito (ruah) e dabar vale "parola" e "fatto":  è la parola che si realizza e diviene realtà. La parola per eccellenza è quella di Dio, parola creatrice, parola di promessa, parola di Rivelazione, parola che diviene atto nel momento stesso in cui è proferita. Ma dabar contiene anche un aspetto noetico:  la parola come tramite tra l'uomo e la realtà, come segno che rimanda oltre la parola stessa.

L'uso di lògos nel Nuovo Testamento risente sia dell'evoluzione linguistica che abbiamo visto in ambito greco, sia dei nuovi significati che l'interferenza con le lingue semitiche procura. Lògos è spesso accompagnato da genitivi che ne indicano il contenuto (parola di verità, di salvezza, di grazia) o l'appartenenza (parola del Signore, di Cristo). Rispetto a lògos, l'altro termine, rhèma, ha meno spazio, e in genere si usa per riferirsi a parole specifiche. In Luca, 2, 15 - ove rhèma viene a significare "avvenimento" - si riflette bene l'uso semitico di dabar. L'ambivalenza di lògos nel Nuovo Testamento è documentata dai passi in cui lògos è utilizzato nel senso tradizionale, con accentuazioni anche negative:  la polemica di Paolo contro la sophìa del mondo (in 1 Corinzi) coinvolge anche l'uso di lògos. Ma vi è un lògos radicalmente diverso a cui Paolo fa riferimento, un lògos che non discende dalla semplice razionalità umana, ed è il lògos della Croce.

Il Nuovo Testamento propone dunque un cambiamento, o piuttosto un arricchimento, nei valori di lògos, con un salto che sarebbe difficile colmare senza tenere conto degli aspetti anche linguistici qui delineati. Un ulteriore salto si ha nell'uso di lògos che appare nel Prologo di Giovanni:  "In principio era il Lògos e il Lògos era presso Dio, e il Lògos era Dio. Questi era in principio presso Dio. Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste".

In questo difficile passaggio Lògos non è più un principio astratto:  è il Verbo che crea e dà la vita. Nel seguito del Vangelo non si trova più Lògos con questo significato:  esso però  è  riecheggiato  all'inizio  della i Epistola di Giovanni (il "Lògos di vita" di cui è testimone) e nell'Apocalisse (19, 14 "è chiamato il suo nome Lògos di Dio"). Gli influssi semitici sembrano forti in questo prologo, al punto che alcuni hanno proposto (senza necessità) l'ipotesi di una traduzione da un originale aramaico:  soluzione non convincente, perché il fatto che l'autore fosse di madre lingua semitica basta e avanza per giustificare interferenze, anche notevoli. Le prime parole (en archè) sono identiche all'inizio della Genesi:  ma subito dopo i due testi divergono:  la Genesi procede con un aoristo (epòiesen "creò"), mentre Giovanni prosegue con un imperfetto (en "era"):  l'autore fa ricorso a tutti i mezzi espressivi di cui dispone per presentare con assoluta nitidezza tre diverse prospettive cronologiche, usando imperfetti, aoristi, perfetti. Se la Genesi ci riportava all'inizio del tempo e della storia, qui l'autore ci riporta a un inizio ancora più profondo, a un tempo che non è ancora tempo e che già vede la presenza del Lògos, presentato come principio creatore, in un rapporto misterioso di prossimità e di identificazione col Dio che preesiste al tempo e che crea il tempo. Il prologo di Giovanni è un momento di sintesi e mediazione che offre alla successiva riflessione dei Padri materiale per ulteriori approfondimenti. Come dice sinteticamente Benedetto XVI nell'intervento di Ratisbona:  "Giovanni con ciò ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi. In principio era il lògos, e il lògos è Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco non era un semplice caso".



(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2010)
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28/01/2010 19:17

Il "lògos" dal materialismo stoico al cristianesimo

Quando l'allegoria è una malattia


di Roberto Radice
Università Cattolica del Sacro Cuore

Èsingolare che alcuni termini fondamentali della spiritualità e della teologia cristiana vengano dal linguaggio del materialismo stoico, pur rappresentando fin dall'origine concetti prossimi alla filosofia platonica, collocati nel soprasensibile e nella sfera trascendente. Si pensi, ad esempio, al termine lògos, allo "spirito" (pnèuma in greco), alla "provvidenza" (prònoia), alle "potenze" (dynàmeis) divine, e anche, per certi aspetti al concetto di creazione.
La storia del pensiero antico ci aiuta a comprendere questa anomalia, ma non solo sulla traccia della tradizione filosofica, ma anche su quella dell'allegoria. Se, dunque, per allegoria intendiamo l'esegesi filosofico-razionale di un testo sacro - o comunque di un testo di grande valore - e con allegoresi designiamo un'allegoria sistematica, per coglierne l'origine dobbiamo senza dubbio risalire fino a Crisippo (iii secolo prima dell'era cristiana), il più grande degli stoici, e a tutta la tradizione di allegoristi classici che allo stoicismo si ispirarono, mettendone in pratica le regole nella interpretazione dei miti.
Se invece ci interessa la particolare sintesi fra la terminologia stoica e i significati platonici, la nostra ricerca deve fermarsi a Filone di Alessandria (i secolo) perché a lui risale l'identificazione del mondo intelligibile con il Lògos creatore (De opificio mundi, 24).
Fin qui si è trattato di filosofia, ma a questo punto entra in gioco l'allegoria. Bisogna tenere conto che nel primo capitolo della Genesi (che Filone commenta con particolare cura) Dio crea il mondo semplicemente parlando, cioè per mezzo della parola:  e "parola" in greco si dice (anche) lògos. Inoltre lògos - questa volta nel senso di "ragione" - è il nome che gli stoici davano al loro principio creatore. Ecco allora, per il nostro alessandrino il significato vero (ben più di quello letterale) dell'affermazione biblica ripetuta ad abundantiam "e Dio disse (...) e così avvenne":  Dio, per Mosè, è il Lògos creatore, la parola creatrice.
È questo un grande guadagno anche per la storia della teologia, perché Dio smette le vesti platoniche dell'artista imitatore delle Idee (il Demiurgo del Timeo) e diventa architetto:  e come gli architetti sono creatori (dal nulla) del progetto della città, così Dio è creatore (dal nulla) del progetto ideale del mondo, quello che per Platone era il mondo delle Idee. Le Idee pertanto non sono più esseri eterni e sterili, ma diventano pensieri di Dio, sue creature, ed esse stesse a loro volta creatrici (parole creatrici).
Il racconto della settimana cosmogonica della Genesi è scandito anche dalla frequente espressione "e Dio vide che quello che aveva fatto era buono", la quale allegoricamente venne tradotta nella tesi che il mondo è Bene, e che pure il Bene è creato da Dio insieme al cosmo.
Anche una tale idea si accorda col pensiero degli stoici per i quali il Lògos è a un tempo principio ontologico delle cose e principio normativo della morale, così da rendere del tutto accettabile il concetto che la morale sia a un tempo teonoma e a un tempo naturale.
Molte altre novità filosofiche venivano da una siffatta traduzione della Bibbia, la quale alla fine della trasposizione filoniana diventava assai simile a un trattato di filosofia, espressione del pensiero mosaico.
Ma il sacro testo non si lascia maneggiare impunemente, e per questa coraggiosa mediazione Filone pagò pegno. La dimensione storica e reale degli eventi che la Bibbia descrive si perse insieme al senso letterale; i personaggi e i fatti, trasformati in simboli, divennero inconsistenti, e quanto l'allegoresi aggiunse alla teologia (al thèion impersonale, avrebbero detto i Greci) tolse alla religione (al theòs personale).
Sembrerebbe insomma che nell'allegoria fin dall'origine fosse latente una forma patologica - chiamiamola "allegorite" - e cioè la stessa forma che ancor oggi va consumando l'escatologia cristiana.



(©L'Osservatore Romano - 29 gennaio 2010)
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