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MONS. GHERARDINI STRONCA LA CRISTOLOGIA LIBERALE E LA TEOLOGICA DI MONS. BRUNO FORTE

Ultimo Aggiornamento: 24/02/2010 11:39
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15/02/2010 11:37

IL PENSIERO DEBOLE DEL TEOLOGO FORTE

Proponiamo una prima analisi critica di alcuni tra i punti perspicui della teologia di Mons. Bruno Forte (nella foto), Arcivescovo di Chieti, il quale, secondo le ultime indiscrezioni “rischierebbe” (il rischio è della Chiesa!) una vistosa promozione. Quanto segue trova la sua ispirazione in un possente articolo di Mons. Prof. Giuseppe De Rosa («Analisi critica di un singolare Saggio di Cristologia», in Divus Thomas, 1986/198, pp.3-133), predecessore di Forte sulla cattedra di Dogmatica della Pontificia Facoltà teologica dell’Italia Meridionale e suo maestro; intervento notevolissimo per la densità dei contenuti e l’ampiezza della documentazione. Il giudizio complessivo pronunziato da Mons. De Rosa relativamente alla teologia di Forte è ben sintetizzato in queste righe del citato articolo: «Il contenuto dottrinale del libro […] dal punto di vista dell’ortodossia cattolica si rivela assai discutibile e non certamente innocuo» con «errori e deviazioni […] interpretazioni […] temerariamente personali e antitradizionali dei principali misteri cristiani» (p.4).

Iniziamo ascoltando alcune parole di Forte, tratte da Gesù di Nazaret, Storia di Dio, Dio della Storia:

Che senso ha l’evento della Croce per la sofferenza del mondo? Che cosa è avvenuto in quel Venerdì Santo per la storia del mondo? Il Vangelo di Marco, che riferisce probabilmente la tradizione più fedele alla cronaca dei fatti, riporta come parole di Gesù morente il grido del Salmo 22: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». È la “derelictio Jesu”…che ha costituito sempre una pietra di scandalo nella interpretazione cristiana del “Mysterium Crucis”, ed oggi è al centro delle “Teologie della sofferenza di Dio”, che cercano in una più profonda intelligenza del Crocifisso il senso ultimo della passione del mondo. […] La domanda è carica del tormento che attraversa la sofferenza, il travaglio di non comprenderne il senso. Nell’interrogativo del Figlio risuona l’angoscia di tutti i sofferenti della storia: anche per il Crocefisso la sofferenza è un mistero! L’interrogativo nasce dall’esperienza di un reale abbandono, dall’assenza e dal silenzio di Colui, del quale il Nazareno più avrebbe atteso la presenza nell’ora della Croce, a garanzia della sua attestazione messianica…All’abbandono doloroso, però, egli risponde con l’offerta; è l’abbandonato, non il disperato. […] In realtà, il Figlio è stato mandato dal Padre: già in questo invio c’è un distacco doloroso per il Padre…Se il Figlio soffre è perché il Padre soffre, precedendolo sulla via dolorosa…Alla sofferenza del Figlio…fa dunque riscontro una sofferenza del Padre: Dio soffre sulla Croce come Padre che offre, come Figlio che si offre, come Spirito, che è amore promanante dal loro amore sofferente. (pp.28-30, sott. ns.).

Attraverso un linguaggio che, più che “fluido”, non esiteremmo a definire “scivoloso”, Forte insinua un coacervo di dottrine eterodosse:


1. L’ignoranza di Cristo relativamente al senso ultimo della sofferenza.
Tale affermazione presuppone l’ignoranza umana di Cristo ed esclude che Egli abbia avuto sulla terra la “scienza dei beati”; un’ipostesi simile, anche se potrebbe apparire affascinante, nasconde in realtà una comprensione inadeguata dell’unione ipostatica. Forte sostiene che la dottrina tradizionale della perfetta conoscenza umana di Cristo è una “parodia di umanità”, un “monofisismo psicologico” (pp. 200-201). Egli sostiene invece che «sarebbe possibile recepire la “visione immediata di Dio” nell’uomo Gesù interpretandola però nei termini della coscienza preconcettuale irriflessa: in tal modo la “visione di Dio” nel Nazareno verrebbe anzitutto spogliata del carattere di beatitudine, che contrasta in maniera evidente con la sua vera umanità»(pp.204-207). In conseguenza di ciò Forte ammette che Cristo ebbe le virtù teologali di fede e di speranza (p.209).
La strana tesi di una “visione di Dio non beatificante e irriflessa” proposta da Forte genera dei gravi inconvenienti. Come è possibile che la visione di Dio non sia per se stessa beatificante? In che modo una facoltà naturale, cioè il subconscio umano (sede di ogni conoscenza irriflessa), potrebbe avere in sé un oggetto di conoscenza soprannaturale (quale è l’Incarnazione del Verbo) senza essere elevato dalla grazia? In che modo la scienza di visione potrebbe contrastare con la vera umanità di Cristo (S. Ireneo insegna che vita hominis est visio Dei)? All’origine di questi paradossi sta essenzialmente una comprensione scorretta del rapporto tra ordine naturale e ordine naturale.
D’altra parte il Magistero della Chiesa, relativamente alla scienza umana di Cristo, ha sempre insegnato diversamente da Forte (Decreto Lamentabili, 3 luglio 1907, DH 3432-3434; Decreto S. Uffizio, 5 giugno 1918, DH 3645-3647).

2. Il reale abbandono dell’uomo (Nazareno) da parte di Dio sulla Croce.
Presuppone la separabilità delle due nature di Cristo. È contrario alla Definizione di Calcedonia (DH 302).

3. Il distacco avvenuto in Dio in seguito alla Missione del Figlio.
Manda in frantumi l’unità dell’Essenza divina e spazza via il concetto di Missione così come insegnato dall’unanime tradizione teologica. Ammettere un distacco tra le ipostasi divine significa non accettarne la consustanzialità e rinnovare l’errore di Ario.

4. La sofferenza in Dio.
“[Questo Concilio] esclude dall’ordine clericale coloro che osano affermare soggetta a sofferenza la divinità dell’Unigenito”: così insegna il Calcedonese (DH 300). Nessuno vorrà negare che le citazioni magisteriali in questo senso sono abbondantissime e unanimi.

Quest’ultimo punto merita qualche riflessione, giacché oggi si è generalmente inclini a ritenere troppo severo il giudizio di coloro che escludono la possibilità della sofferenza di Dio. La dottrina della sofferenza di Dio ha le proprie radici nell’idealismo tedesco; non però nel sistema panlogistico di Hegel, ma nell’ultima filosofia di Schelling (filosofia della Rivelazione). Proviamo a sintetizzarne il contenuto. Nel mondo esiste il male e la sofferenza; essi sono essenzialmente incompatibili con la bontà di Dio che è amore e dunque appaiono ingiustificabili; l’unico modo per poterne ammettere la possibilità è affermare che il dolore e la sofferenza sono “originariamente” in Dio; l’uomo soffre perché Dio in sé soffre. Questa dottrina nega l’immutabilità e l’impassibilità divine e con ciò rifiuta il concetto stesso di Dio così come è stato da Lui rivelato e proposto infallibilmente dalla Chiesa (Concilio Vaticano I, Dei Filius, DH 3001:“Dio è una sostanza spirituale unica e singolare, assolutamente semplice e immutabile”).
Notiamo, per inciso, che secondo la teologia cattolica la sofferenza è entrata nel mondo come conseguenza del peccato dell’uomo. Ammettere la possibilità della sofferenza in Dio, significa mutarne l’origine e fondare in Dio la possibilità nonché l’attualità del male: il che è evidentemente assurdo.
La dottrina della mutabilità di Dio è precisamente il cuore della teologia di Forte: Dio non è l’Ipsum Esse subsistens, bensì il Fieri. Dio è divenire. L’immutabilità divina va intesa “storicamente” come fedeltà di Dio alle proprie promesse e non “metafisicamente” come una perfezione ontologica.

Il Dio cristiano è un Dio che ha storia, che diviene: è il Signore che si fa servo e servo che diviene Signore […] Letto nell’evento di Pasqua, il Dio cristiano non potrà mai essere interpretato come l’Altissimo immobile e immutabile. È stato il pensiero greco che ha insinuato il sospetto di impurità in un Dio che divenga […] Dio non muta nella fedeltà alle libere promesse che ha fatto all’uomo. (pp. 185-186).

Il pensiero di Forte è paradossale. Egli accusa la metafisica tradizionale di aver tradito il Dio biblico e di averlo tramutato in un dio greco. Poi, nel rocambolesco sforzo di fluidificare l’asfissiante immobilismo del “Dio metafisico”, afferma che il Dio biblico è «il Dio dell’alleanza e dell’incontro nuziale: un Dio che sa amare e ripudiare, gioire e soffrire, decidersi e pentirsi, un Dio geloso, che si adira, prova disgusto e conosce tenerezza. La pateticità è una sua caratteristica» (p.71): ed ecco che egli stesso ha trasformato il Dio biblico in una “volubile divinità greca” che può recitare una bella parte nell’Iliade, ma che certamente non sta a proprio agio nella Rivelazione biblica del Roveto ardente (Ex. 3,14). È noto che la Sacra Scrittura attribuisca a Dio degli atteggiamenti umani: certamente non l’ha scoperto Forte. Tuttavia bisogna rifuggire da un’interpretazione letterale e reale, pena l’ “antropomorfizzazione di Dio”: tali espressioni sono dovute all’insufficienza del linguaggio umano che, essendo essenzialmente discorsivo, resta costitutivamente inadeguato di fronte al mistero di Dio.

Ora, se Dio diviene, è chiaro che di Lui non si potrà avere una “Rivelazione definitiva”:

Sta qui la ragione profonda della struttura tensionale dell’atto di fede. Se il termine ultimo di esso è sempre Dio che si rivela nell’insondabilità del suo mistero, la mediazione dell’assenso è la Parola cui si acconsente, necessariamente precaria ed insufficiente. Ne consegue la tensione della fede ad andare al di là della formula, dell’immagine, del concetto della rivelazione e del dogma, verso una percezione meno imperfetta del suo Dio. (pp.38-39).

Dunque la Parola di Gesù Cristo – nel quale la Rivelazione è compiuta – alla quale l’intelligenza creata obbedisce nell’atto di fede sarebbe in realtà solo un momento precario e insufficiente che prelude ad una percezione meno imperfetta.
Non così però insegnano la Sacra Scrittura e il Magistero, per esempio nella Costituzione Dei Verbum 4 del Vaticano II. La Chiesa ha sempre ammesso la possibilità, anzi la necessità di progredire nella comprensione della divina Rivelazione, ma ha costantemente e categoricamente escluso un progresso nella Rivelazione stessa.

Ovviamente se Dio diviene, se la Rivelazione diviene (dunque muta e si accresce con la storia) segue che la Sacra Scrittura non contiene verità “intemporali”, come dice Forte (o “eterne”, come preferiamo noi in termini più famigliari!) e, dunque, è necessario ripudiare il modo tradizionale di concepire il rapporto tra Antico e Nuovo Testamento (pp.67-77), cioè il metodo allegorico o tipologico. Notiamo per inciso che tale metodo, utilizzato già da San Paolo (es. Gesù-Adamo, Rm 5,12), coessenziale alla teologia dei Padri e dei Dottori, pacificamente ammesso da tutti i teologi cattolici, è altresì l’asse portante di tutta la Liturgia cattolica.

La preparazione veterotestamentaria al Nuovo Testamento va cercata…non nel senso dell’allegoria (come ritiene la tendenza dominante nella tradizione cristiana), ma in quello della storia; di un divenire cioè della rivelazione, di una storia della Parola, che non prescinde dalla concreta e contraddittoria progressività del cammino d’Israele, ma si compie in e attraverso di essa, non secondo armoniche anticipazioni del futuro, ma secondo le dure leggi dell’esodo quotidiano verso l’avvenire […] Le Scritture non sono simboli o allegorie di ciò che poi avverrà nell’opera e nel destino di Gesù […] non contengono verità “intemporali”. (69-70).

Più chiaro di così! La parentesi in cui Forte confessa il proprio strappo con la tradizione (non crediate sia un’ interpolazione nostra!) è un passaggio testuale disarmante. Certo, Forte legittima la propria idea ridimensionando il valore dell’interpretazione allegorica della Scrittura: essa sarebbe solo una “tendenza dominante nella tradizione cristiana”, dunque non necessariamente stringente. Sembra che egli non abbia mai letto Dei Verbum 15: “L’economia del Vecchio Testamento era soprattutto ordinata a preparare, ad annunziare e a significare con vari tipi (ecco l’interpretazione allegorica! n.d.r.) l’avvento di Cristo redentore dell’universo e del Regno Messianico”.

Possibile che un teologo così “avveduto” non si renda conto dell’enormità delle proprie affermazioni? Pare proprio che la lactea ubertas del suo pensiero esondi senza limite alcuno in una facondia tanto prorompente quanto devastante:

(Il presupposto dell’interpretazione allegorico-tipologica) Sta nel ritenere che lo sviluppo storico non possa toccare le verità “intemporali” contenute nella rivelazione: questo presupposto però è insostenibile per chi prenda sul serio il divenire uomo del Verbo e non confonda la verità-fedeltà del Dio biblico con la verità immutabile ed intemporale del dio greco. (p.69)

Lo strappo con la tradizione teologica è una vera ossessione per il nostro Forte, una sorta di imperativo morale. Se quanto avete appena letto non è il “manifesto del pensiero relativista”, diteci voi che cos’ è! Duemila anni di teologia liquidati in cinque battute. Anche a Sant’Agostino e a San Tommaso non resta che ritirarsi umilmente o fra i “confusi” o fra i “burloni”, cioè tra coloro che non hanno "preso sul serio" la Verità dell’Incarnazione: questo sì che si chiama “sentire cum Ecclesia”! D’altra parte non c’è di che stupirsi. È caratteristica comune a tutti gli idealisti considerare il proprio sistema filosofico-teologico come la fase culminante del pensiero umano, la luce che squarcia secoli di caligine intellettuale.
Molti nei secoli hanno creduto che fede e ragione fossero due ali necessarie per elevare l’uomo alla conoscenza di Dio; il magistero recente (Giovanni Paolo II e Benedetto XVI) ha insistito e insiste particolarmente sull’aspetto razionale della fede. Ma ecco che Forte, attraverso un’esegesi di sapore protestante della Confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (egli accoglie come autentica la versione di Marco rifiutando, in linea con i pensatori riformati, l’autenticità storica della versione di Matteo che contiene la formulazione del primato petrino), nega la possibilità stessa della teologia naturale.

Il Dio-umano, il Signore Gesù dei Vangeli sovverte l’immagine di un Messia che obbedisce all’idea che è possibile farsi razionalmente di Dio, di un Cristo cioè incontaminato nelle sue perfezioni divine, rivelatore di un Dio che non soffre e non spera (come era nei manuali tradizionali di cristologia) (162-167)

Su che cosa dunque potrà fondarsi la fede del Cristiano se non sulla propria intelligenza illuminata dalla fede? L’intelletto umano appare qui come un inciampo alla fede, piuttosto che un sostrato necessario (qual è veramente, giacché la grazia presuppone sempre la natura!). Se l’intelletto non può giungere alla conoscenza di Dio, tanto meno i concetti filosofici sono utili alla teologia, essendo in fondo delle vuote astrazioni. Ascoltate il lirismo con il quale Forte lancia la proposta di tornare a parlare di Dio nei termini semplici e immediati del dialetto di Gesù:

La migliore disposizione critica e obbedienziale del credente è quella di affidarsi al “patois de Canaan”, a quel linguaggio, cioè della rivelazione, dove stranamente uomini di tutti i tempi e di tutti gli spazi riescono a stabilire “giovani legami” con quanto viene proclamato. Nel “dialetto di Canaan” vengono messi in risalto categorie e termini sensati, non ancora resi aporetici dall’indefinizione con una cultura o con una filosofia. (p.179)

È paradossale come la proposta di ritornare alla “freschezza di espressione” del dialetto di Canaan venga da uno che è imbevuto fino al midollo di filosofia idealista e che certo non rifulge per la semplicità del proprio confuso ed involuto argomentare! Che poi il linguaggio della Rivelazione, lungi dall’essere pacificamente accolto da “uomini di tutti i tempi e tutti gli spazi”, crei al contrario gravi difficoltà di interpretazione è un dato di fatto che sta alla base dell’insorgere di tutte le eresie della storia del cristianesimo, nonché degli innumerevoli ed esasperanti problemi di esegesi resi ancor più vividi presso i moderni.

Forte propugna senza ritegno la necessità di “deellennizzare” il Cristianesimo tanto nel linguaggio teologico quanto nei concetti stessi, che a quel linguaggio sono irrinunciabilmente veicolati. A questo proposito non possono non tornarci alla mente le parole pronunziate da Papa Benedetto XVI nel corso della Lectio magistralis tenuta all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006:

Il vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. […] Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della deellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della deellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una dall'altra […] La deellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati della Riforma del XVI secolo. […] La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda nel programma della deellenizzazione: di essa rappresentante eminente è Adolf von Harnack. […] Come pensiero centrale appare, in Harnack, il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità.
In considerazione dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture. Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento.

Sembra che Papa Benedetto XVI stia parlando precisamente del nostro Autore! “Il ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice”, idea che funge da perno di tutto il discorso di Forte, è stata avanzata per la prima volta da Harnack, ci dice Papa Benedetto. Tale idea non è solo sbagliata, bensì anche grossolana e imprecisa.
A questo punto viene spontaneo domandarci perché Forte sostenga con tanta risolutezza una proposta che, non solo appare erronea, ma financo scientificamente infondata e grossolana. Due sono le risposte possibili: o egli è totalmente inavvertito a riguardo o egli è animato da un’intentio prima che gli preme a tale punto da permettergli di ignorare ogni evidenza.
Noi propendiamo per la seconda. L’eliminazione del patrimonio concettuale metafisico della teologia, così come è stato trasmesso da due millenni di Cristianità, permetterebbe infatti di appianare una serie infinita di ostacoli teologici che si oppongono al “dialogo ecumenico e interreligioso”, nonché al “dialogo con il mondo”, e di avanzare ignitis rotibus verso quella riconciliazione con le altre confessioni religiose e, in ultima analisi con la modernità, che costituisce l’obbiettivo ultimo di ogni “spirito progressista”, intaccato di modernismo. Il dazio da pagare, patet per se ipsum, è naturalmente la dissoluzione della Verità del Cristianesimo.

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