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Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede

Ultimo Aggiornamento: 24/05/2010 20:01
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26/04/2010 14:31

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede ( La Fonte di questo studio è Una Fides)


Vista l’attualità della questione sulla Messa in rito tradizionale, pensiamo di affrontare “di petto” il problema, immergendoci nello studio della questione liturgica.

Tra molti un testo di riferimento prevale per importanza. E’ il libro di un grande autore, Michael Davies, morto nell’anno 2004 a sessantotto anni, di origine gallese, uno dei migliori storici britannici. Tra i molti libri di sua pubblicazione, ce n’è uno, “La riforma liturgica anglicana”, che ha avuto sei edizioni inglesi, e una in francese. Si attende ardentemente che venga pubblicato in Italia. Questo libro è un validissimo aiuto per sacerdoti e laici che vogliono capire tutta l’importanza del problema del rito della Santa Messa.

La tesi sviluppata è questa: il protestantesimo in Inghilterra entrò e si diffuse non innanzitutto attraverso la predicazione e l’insegnamento ma attraverso una riforma liturgica che portò in pochi anni clero e popolo nell’eresia. Riportiamo qui sotto per intero il riassunto di copertina dell’edizione francese del libro di Davies, che bene riassume il contenuto dell’opera: “Quando nel 1509 il re Enrico VIII sale al trono, è ardentemente cattolico e non tarderà d’altronde a ricevere dal papa il titolo di “Difensore della fede”. L’Inghilterra, chiamata tradizionalmente “il dotario di Maria”, conosceva ai tempi un’epoca di rinnovamento religioso, malgrado inevitabili abusi qua o là. Ma nel 1559, sotto il regno di sua figlia Elisabetta, quando fu votata la legge d’uniformità, il cattolicesimo era definitivamente distrutto. Una nuova forma di cristianesimo, l’anglicanesimo, l’aveva rimpiazzato, prima di diffondersi in tutto il mondo anglosassone.

Ora, questo cambiamento imprevisto e in massa di tutto un popolo non ha avuto come causa principale la predicazione di un Riformatore,come fu il caso di Lutero in Germania o di Calvino in Svizzera. Esso fu opera abilissima dell’arcivescovo di Canterbury, Thomas Cranmer.

Quest’ultimo, già segretamente protestante, concepì un disegno audace di modifica radicale della fede del popolo inglese unicamente trasformandone la liturgia. Cranmer stimò che, attraverso la liturgia vissuta ogni giorno, avrebbe raggiunto con più certezza le mentalità che non attraverso qualsivoglia discorso. L’anglicanesimo è frutto di un libro, apparentemente insignificante, il “Book of Common Prayer”(libro della preghiera comune).

La storia della riforma inglese racconta questa straordinaria scommessa, che conobbe successi e sconfitte, avanzamenti e indietreggiamenti, ma che finì per riuscire grazie al carattere prodigiosamente equivoco del testo cranmeriano, che i “conservatori” potevano accettare senza che i “progressisti” lo rigettassero.

                                                                                                                                             (continua)
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Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (2)


Abbiamo visto come la riforma protestante non si sia diffusa solo attraverso la predicazione dei Riformatori come Lutero e Calvino, ma anche attraverso le riforme liturgiche che, con la scusa di tornare ad una “mitica” purezza originaria della preghiera cristiana, hanno di fatto rivoluzionato  a tal punto il culto, da non lasciargli quasi più nulla di cattolico. In Inghilterra addirittura l'eresia protestante, è entrata nel XVI secolo, innanzitutto attraverso una riforma liturgica, quella di Cranmer, così sapientemente ambigua da essere accettata, per amore di compromesso, anche da sacerdoti e fedeli che non avevano intenzione di abbandonare il Cattolicesimo. Sta di fatto che nel giro di pochi anni in Inghilterra il Cattolicesimo praticamente scomparve, sostituito da un nuovo cristianesimo, l'Anglicanesimo (cfr. M. Davies, La Riforma Liturgica Anglicana).
Da dove nasce questa volontà di rivoluzionare la liturgia espressa dai riformatori protestanti? Perché vogliono così accanitamente cambiare la Messa, con la scusa di adattarla alla comprensione del popolo?
Perché rifiutano la messa cattolica rifiutando la fede cattolica. Sbaglierebbe gravemente chi riducesse la questione liturgica a un problema di minore o maggiore sensibilità verso il popolo, a un problema di lingua latina o volgare, quasi che i protestanti siano intervenuti a ritoccare e adattare la messa alle esigenze dei fedeli in un mutato contesto storico e culturale, visto che la Chiesa di Roma restava ancorata ad un rigido passato. Niente di tutto questo! I riformatori protestanti cambiano la messa perché hanno in odio la Messa come Sacrificio Propiziatorio e la Transustanziazione (la presenza sostanziale di Gesù Cristo, Corpo, Sangue, Anima, Divinità, nella Santissima Eucarestia).
Non ci addentriamo ora nella spiegazione di queste due verità di fede, vogliamo solo darvi una documentazione dell'odio protestante verso la messa-sacrificio, lo facciamo citando tre riformatori, Lutero, Calvino e Cranmer (l'arcivescovo di Canterbury riformatore della messa in Inghilterra).
Basta la lettura di questi tre piccoli testi per capire che non fu la Chiesa di Roma a non dialogare con i protestanti per riportarli “a casa”, ma furono i protestanti a rifiutare il cuore stesso del Cattolicesimo.
Lutero: “Dichiaro che tutti i lupanari (che Dio riprova comunque severamente), tutti gli assassini, omicidi, stupri, adulteri, sono meno abominevoli che la messa papista” (Werke, t. XV, p. 774). Le messe sono “la somma dell’idolatria e dell’empietà”. E’ un male introdotto da Satana in persona. “In verità, è ben sulla messa, come su una roccia, che è edificato tutto il sistema papista, con i suoi monasteri, i suoi episcopi, le sue collegiate, i suoi altari, i suoi ministeri, la sua dottrina, vale a dire con tutto il suo ventre. Tutto questo non mancherà di crollare quando cadrà la loro messa abominevole e sacrilega” (Contra Henricum, Regem Angliae, 1522, Wittemberg, Lutero, Werke, t. X, pg. 220).
Calvino: “Satana ha accecato quasi tutto il mondo di questo errore pestilenziale, che si crede la Messa essere un sacrificio e un’oblazione per impetrare la remissione dei peccati … Questa abominazione della Messa essendo stata presentata su un vassoio d’oro (cioè sotto il nome di parola di Dio), ha talmente ubriacato, ha talmente stordito e istupidito tutti i Re e i Popoli della terra, dai più grandi fino ai più piccoli, che essendo più bestie che i bruti, costituiscono l’inizio e la fine della loro salvezza in questa sola esecrazione. Certo Satana non avanzerà mai una macchina più forte per combattere e abbattere il regno di Gesù Cristo” (Calvino, L'institution de la religion chretienne, edit. De la Societé Les belles lettres, Paris 1937, t. IV, pp. 9 e 58).
Cranmer: “Ma a che serve sopprimere rosari, pellegrinaggi, perdoni e tutto il resto del loro papismo, fino a quando non si saranno strappate le due radici principali? Fin tanto che queste sussisteranno, continueranno ad innalzare tutti gli antichi ostacoli alla mietitura del Signore, e provocheranno la corruzione di tutto il suo gregge. Il resto non è che rami e foglie; tagliati questi torneranno a spuntare dall’albero o sfrondarlo o tagliare le erbe cattive, lasciando il tronco in piedi e le radici nel suolo; ma il corpo stesso dell’albero, o piuttosto le radici delle erbe cattive, è la dottrina papista della transustanziazione, della presenza reale della carne e del sangue di Cristo nel sacramento dell’altare (come lo chiamano), e il sacrificio e l’oblazione di Cristo compiuto dal prete, per la salvezza dei viventi e dei morti” (CW, t. I, p. 6).
“Il papa Onorio ha ordinato che di tanto in tanto i preti prendano grande cura di insegnare al popolo a inchinarsi quando elevano il pane, chiamato ostia, e a fare lo stesso quando il prete porta l’ostia ai malati”, Queste sono le regole e le ordinanze di Roma, sotto pretesto di santità, per condurre il popolo all’errore e all’idolatria, conducendolo non attraverso il pane a Cristo, ma da Cristo al pane. Ma tutti coloro che amano il Cristo stesso, che si guardino dal pensare che sia presente corporalmente nel pane; che elevino al contrario il loro cuore fino al cielo e che lo adorino assiso alla destra del Padre. Che lo adorino in se stessi, loro che sono nel tempio, dove vive e dimora spiritualmente, ma che si guardino dall’adorarlo come se fosse presente corporalmente nel pane. Perché non vi è né spiritualmente, come è nell’uomo, né corporalmente, come si può dire di una cosa che è nell’immagine che la rappresenta” (CW., t.I, p. 238).

continua...
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Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (3)

San Giovanni Fisher

Abbiamo visto precedentemente come la riforma protestante si sia diffusa in Inghilterra non attraverso la predicazione dei riformatori (come Lutero in Germania o Calvino in Svizzera), ma attraverso una riforma liturgica di una straordinaria ambiguità. Il re Enrico VIII aveva sì provocato lo Scisma e si era proclamato capo della chiesa Inglese, aveva anche promulgato leggi di soppressione di conventi e incameramento dei beni ecclesiastici, ma non aveva mai permesso che l'eresia entrasse nel suo regno. E' noto che prima dei suoi atti scismatici, era stato insignito dal Papa del titolo di “Defensor fidei”, per i suoi scritti in difesa della dottrina cattolica sull'Eucarestia. È dopo Enrico VIII, sotto il regno di Edoardo VI fanciullo, che i protestanti, approfittando della debolezza della situazione, fecero entrare consistentemente le nuove dottrine in terra d'Inghilterra. L'arcivescovo di Canterbury, Cranmer, fu il grande architetto dell'impresa, protestantizzare la nazione trasformando il culto in senso riformato.
Vi fu così dapprima l'introduzione del “Book of common prayer” (Libro della preghiera comune) che costituiva una prima tappa della trasformazione del cattolicesimo in Anglicanesimo. Una prima tappa prudentemente ambigua, per non scandalizzare i fedeli ancora legati alla tradizione cattolica. Al riguardo ecco cosa spiega Bucer: “Questi elementi non devono essere conservati che durante un certo tempo, per timore che il popolo, non avendo appreso il Cristo, sia sviato dall’abbracciare la sua religione da delle innovazioni troppo importanti. Ecco, invece, cosa ci ha confortati: nelle chiese, tutti gli uffici sono detti o cantati in lingua vernacolare; la dottrina della giustificazione è insegnata pura da ogni errore, e l’eucaristia è distribuita come è stato stabilito dal Cristo, essendo state abolite le messe private” (Original Letters Relative to the English Reformation, Parker Society 1846 e 1847, t. II, pp. 535-536).
Si legge dalla penna del Dr. Darwell Stone: “E’ probabile che il Prayer Book del 1549 costituiva ciò che allora si stimava possibile mettere in opera senza rischi, piuttosto che ciò che desideravano l’arcivescovo Cranmer e coloro che agivano con lui, e che all’epoca in cui l’opera fu pubblicata prevedevano già una revisione che si sarebbe avvicinata maggiormente alla posizione dei riformatori estremisti” (D. Stone, History of the Doctrine of the Eucharist, Londra, 1909, t. II, p.139). A proposito di questo primo Prayer Book, il canonico anglicano E.C. Ratcliff ugualmente osserva: “I suoi autori lo consideravano come una misura intermedia, che preparava una messa in opera ben più fedele alle loro opinioni riformatrici”.
E il padre Clark scrive: “Nel primo periodo, il più delicato, Cranmer e i suoi amici compresero che era più saggio introdurre la riforma per tappe, preparando progressivamente gli spiriti alle decisioni più radicali che dovevano seguire. Se dovettero a volte ricorrere alla violenza e all’intimidazione per ridurre l’opposizione, la loro politica fu più sovente di cominciare col neutralizzare la massa conservatice, col privarla dei suoi capi che avevano lo spirito cattolico, per poi abituarla progressivamente alla nuova situazione religiosa. Cranmer deplorava lo zelo intempestivo di uomini come Hooper, che non potevano che irritare gli spiriti conservatori e di irrigidire l’atteggiamento di quella parte importante della popolazione che, saputa prendere, poteva essere condotta a dare il suo assenso alle misure interimali e ambigue” (F. Clark, Eucharistic Sacrifice and the Reformation, Devon 1980, p.194). Questo modo di procedere dei riformatori inglesi corrisponde d'altronde perfettamente al contegno dello stesso Lutero: “Istituire una liturgia fondamentalmente nuova era un'idea totalmente estranea al pensiero di Lutero...Preferiva servirsi della messa romana, per una ragione ben semplice, che non smette di ricordare: per attenzione ai deboli, cioè per non allontanare inutilmente il popolo dalla nuova chiesa con l'introduzione di novità. Si limitò a eliminare dall'antico rito ogni riferimento al carattere sacrificatorio della messa: il canone, per esempio e l'offertorio che lo precedeva. Pensava così che valesse di più conservare la “parola messa”” (H.Grisar, Luther, Londra 1913.1917, t.V, p. 145). In una opera in difesa della bolla di Papa Leone XIII “Apostolicae curae”, che dichiarava invalide le ordinazioni anglicane, i vescovi cattolici inglesi mettono giustamente l'accento sulle omissioni del Prayer Book riguardo alla santa cena. L'abbiamo ripetutamente ricordato: nel nuovo rito anglicano della messa, quello del Prayer book del 1549, non troveremo affermate delle eresie, ma omesse verità di fede essenziali. Le omissioni , il “taciuto”, in liturgia è sempre grave, perché rinunciare ad affermare con completezza e chiarezza tutte le verità di fede implicate, può portare a un vuoto di dottrina nei sacerdoti e nei fedeli che nel futuro apre il campo all'eresia: in parole semplici oggi sei cattolico con una messa eccessivamente semplificata, domani senza saperlo ti ritrovi protestante perché la forma della tua preghiera non ha nutrito più la tua fede. Ecco cosa dicono i vescovi cattolici inglesi:“Per dire le cose brevemente, se si compara il primo Prayer Book di Edoardo VI con il messale (cattolico), vi si scoprono sedici omissioni, il cui scopo era evidentemente quello di eliminare l’idea di sacrificio” (Il Cardinale arcivescovo e i Vescovi della provincia di Westminster, A Vindication of the Bull Apostolicae Curae, Londra 1898, p. 154).
Naturalmente gli anglicani si sono difesi dall'accusa di aver protestantizzato la messa, dicendo che i loro servizi tendevano alla semplicità e a un ritorno all’uso primitivo (la scusa è sempre quella di un ritorno ad una mitica semplicità delle origini). I vescovi cattolici inglesi intervengono con severità ricordando che mai le chiese locali hanno avuto il potere di togliere dai riti, semmai solo quello di aggiungere, e che l'operaanglicana è una totale innovazione fatta “a tavolino”: “Esse (le chiese locali) non devono omettere o cambiare quel che si vuole rispetto alle forme che ci ha trasmesso la tradizione immemorabile. Perché questo uso immemorabile, che si siano o no incorporate nel corso delle epoche delle aggiunte superflue, non può, agli occhi di coloro che credono in una Chiesa visibile guidata da Dio, non aver conservato almeno tutto ciò che è necessario; in modo che portando al rito che ci è stato trasmesso un’adesione inflessibile proviamo sempre un sentimento di sicurezza; mentre, se noi ne omettiamo o se ne cambiamo quello che si vuole, può essere che abbandoniamo precisamente un elemento essenziale. Questa sana maniera di agire è stata sempre quella della Chiesa cattolica… Si sa che, un tempo, le Chiese locali potevano legittimamente aggiungere nuove preghiere e nuove cerimonie… Ma che avessero avuto il permesso di sopprimere preghiere e cerimonie in uso prima, vuoi di rimaneggiare nel modo più radicale i riti esistenti, è una tesi alla quale noi non riconosciamo alcun fondamento storico, e che ci sembra assolutamente inaudita. Stimiamo di conseguenza, che adottando questa attitudine senza precedenti, Cranmer ha agito con una inconcepibile temerarietà” (Ibid., p. 42).
Tutte cose di una straordinaria attualità come vedremo più avanti...
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26/04/2010 14:39

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (4)

Abbiamo precedentemente visto che la Riforma liturgica inglese fu un'opera di straordinaria ambiguità. Dopo la morte di Enrico VIII, sotto la guida dell'arcivescovo di Canterbury Cranmer, l'Inghilterra fu portata sempre più a tagliare le sue radici cattoliche, per approdare a un nuovo cristianesimo, eretico, l'Anglicanesimo. L'attualità ci mostra a quale tristezza è giunta la chiesa anglicana, seguendo tutte le mode e perdendo progressivamente la fede. Questo taglio con la radice cattolica, lo sappiamo, fu fatto GRADUALMENTE, con prudenza, attraverso una riforma della liturgia lente ma inesorabile nell' eliminare l'aspetto sacrificale della Messa, così come comanda il più puro protestantesimo. La gradualità era necessaria, nel disegno sovversivo e ereticale di Cranmer, per non provocare lo scandalo degli inglesi, sacerdoti e laici, ancora naturalmente cattolici: si sa, chi agisce nell'ombra, non potendo manifestare il proprio disegno rivoluzionario, non vuole gli scandali... che tutto sia tranquillo, purche l'opera di distruzione continui!
Con questa logica vennero approntate delle misure preparatorie alla riforma del messale romano che, considerate attentamente, rivelano tutto il loro carattere protestante. Iniziamo, in questo numero, a considerare la prima di queste misure preparatorie, la sostituzione degli altari con delle tavole: i lettori potranno in tutta facilità farne i dovuti collegamenti con la nostra triste realtà post-conciliare, che per frettolosità e superficialità (ma in alcuni casi per volontà di protestantizzazione) ha seguito l'esempio anglicano.
L'abbazia di Rievaulx in North Yorkshire
La sostituzione degli altari con delle tavole

La sostituzione degli altari con delle tavole fu, anch’essa, una misura conforme alla linea di condotta adottata dai riformatori dell’Europa continentale in materia di liturgia. Ciò che ne risultò finalmente si trova molto esattamente riassunto in una descrizione della santa cena come la si celebrava a Strasburgo dopo il 1530,quando l’influenza di Bucer vi fu divenuta preponderante. (E’ senza dubbio inutile ricordare che Bucer ebbe su Cranmer e dunque sulla sua nuova liturgia, più influenza di qualunque altro riformatore del continente). “La messa, il prete e l’altare sono dunque sostituiti dalla santa cena, il ministro e la tavola della santa cena; al posto di rivolgersi verso l’oriente, il celebrante guarda verso l’occidente” (D.Harrison, The first and second Prayer Books of Edwar VI, Londra 1968, p.VI). Per Calvino, poiché il Cristo ha compiuto il suo sacrificio una volta per tutte, Dio “ci ha donato una tavola per la festa e non un altare per offrirvi una qualsiasi vittima; non ha consacrato dei preti per offrire dei sacrifici, ma dei ministri per condividere con gli altri il banchetto sacro”.

La distruzione in massa degli altari non intervenne in Inghilterra che dopo l’imposizione del Prayer Book del 1549; tuttavia, un primo passo era già stato compiuto dal 1548; riguardava gli altari delle cappelle delle fondazioni mortuarie, di cui Cranmer aveva ordinato la distruzione. A partire dal 1549, gli altari di pietra sui quali, da secoli, si offriva il santo sacrificio, furono sostituiti con dei tavoli di legno collocati nel coro. Il 27 novembre 1548, Jean d’Ulm scriveva a Bullinger: “Tutti gli altari privilegiati sono ora stati abbattuti in buona parte dell’Inghilterra e, con l’accordo generale dell’alta società, sono stati puramente e semplicemente soppressi. Cosa aggiungere a questo? Questi altari idolatri sono ora diventati delle mangiatoie di maiali (arae factae sunt harae), cioè la dimora dei porci e delle bestie” (Original Letters Relative to the English Reformation, Parker Society, Cambridge,1846 e 1847, t. II, pag. 384). Nel 1549, il vescovo di Norvich, William Rugg, che aveva l’animo cattolico, dimissionò per protestare contro il primo Atto di uniformità, che imponeva il nuovo Prayer Book. La sede resterà vacante per un anno; in virtù della sua autorità di primate, Cranmer fece effettuare una visita della diocesi che ebbe come risultato la distruzione della maggioranza degli altari. Il nuovo vescovo, Thomas Thirlby, si era anche lui dichiarato ostile all’Atto di uniformità; lo accettò però quando fu adottato. (Più tardi, sotto il regno di Elisabetta I, fu gettato in prigione per aver rifiutato di prestare il giuramento di supremazia).

Nel 1550, dopo aver preso possesso della sua nuova sede, osservava: “La maggioranza degli altari della mia diocesi sono già stati distrutti per ordine dei visitatori inviati da Sua Grazia Monsignore di Canterbury in occasione dell’ultima visita che ha fatto effettuare, essendo allora la sede episcopale vacante” (F. Gasquet e H.Bishop, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra 1890). In una serie di seminari per la Quaresima che pronunciò davanti al Re e al Consiglio, il vescovo Hooper reclamò con insistenza la distruzione totale degli altari e la loro sostituzione con dei tavoli, perché non ci sono che tre forme di sacrificio che i cristiani possono offrire e non necessitano di altari: il sacrificio di azione di grazia; la bontà e la generosità verso i poveri; e la mortificazione dei nostri corpi e la morte al peccato. “Se noi non ci applichiamo ad offrire ogni giorno questi sacrifici a Dio, non siamo più cristiani. Considerando che i cristiani non hanno altri sacrifici che questi, che si possono e si devono compiere senza altari, non si dovrebbero trovare altari fra i cristiani… Sarebbe dunque a proposito che piacesse ai magistrati sostituire gli altari con dei tavoli, conformemente a ciò che fu istituito dal Cristo, questo al solo scopo di fare scomparire la credenza erronea, diffusa nel popolo, secondo la quale si offrono dei sacrifici sugli altari; perché fino a quando ci saranno gli altari il popolo ignorante e il prete adepto di false dottrine continueranno a sognare dei sacrifici. Sarebbe dunque preferibile che i magistrati facciano scomparire tutti i monumenti e i segni dell’idolatria e della superstizione; questo non farebbe che affrettare lo stabilirsi della vera religione di Dio” (Original Lettres..., t. II, pag. 488). Il 27 marzo 1550, dopo la nomina di Ridley al seggio episcopale di Londra, Hooper scriveva a Bullinger: “Spero che si metta a distruggere gli altari di Baal come ha già fatto nella sua chiesa quando era vescovo di Rochester. Non so come dirvelo, carissimo amico, in mezzo a quali difficoltà e di quali pericoli noi lavoriamo e combattiamo per arrivare ad eliminare questa pratica idolatrica che è la messa” (Original Letters..., t. I, pag.79). E aggiungeva: “Dal mio arrivo qui, molti altari sono stati distrutti in questa città (Londra)”. Le speranze che Hooper metteva in Ridley erano fondate. In meno di tre mesi, questi aveva ordito che gli altari fossero tolti dalle chiese della sua diocesi (F.Clark, Eucharistic Sacrificie and the Reformation, Devon, 1980, pag 188). Gli altari erano dei “monumenti che perpetuavano troppo l’antica credenza del sacrificio della messa. La distruzione degli altari era già un tratto caratteristico della Riforma nell’Europa continentale, dove aveva generalmente accompagnato l’abolizione della messa” (Ibid., pp.187-188). Il 24 novembre 1550, il Consiglio del Re ordinò che questa politica fosse universalmente adottata in Inghilterra, e “che tutti gli altari del regno fossero distrutti. Ormai, ogni volta che si celebrava il rito della santa cena, si doveva farlo su una tavola di legno coperta da una tovaglia di lino” (P. Hughes, The Reformation in England, Londra 1950, t.II, p.121). In una lettera indirizzata in questa data a Ridley dal Consiglio, a nome del Re, e portante, tra l’altro, le firme di Somerset e di Cranmer, si afferma che la sostituzione generale degli altari con dei tavoli in legno eliminerà una causa “di nuovi turbamenti e disordini”: “Reverendissimo Padre in Dio, fedelissimo e amatissimo, vi indirizziamo i nostri buoni saluti. E’ arrivato a nostra conoscenza che, essendo stati abbattuti gli altari nella maggioranza delle chiese del regno per delle buone e sante ragioni, ne esistono ancora, nonostante questo, in diverse altre chiese, cosa che occasiona molte dispute e litigi fra alcuni dei nostri sudditi, e che, se non vi si sta attenti, potrebbe essere causa di grandi mali e dispiaceri; vi facciamo sapere che, preoccupati di eliminare ogni causa di discordie come le originano sovente queste diversità e altre simili, e considerando che fra le altre cose che appartengono alla nostra funzione e carica regale, la più importante è preservare la pace pubblica nel nostro regno, abbiamo giudicato bene, dopo parere del nostro Consiglio, di richiedervi e ancor di più di darvi ordine e comando formale, al fine di evitare ogni soggetto di nuove discordie e violenze a proposito del mantenimento o della soppressione dei detti altari, di dare delle istruzioni precise su tutta l’estensione della vostra diocesi, perché con ogni diligenza siano abbattuti tutti gli altari, in ogni chiesa o cappella di detta diocesi, che sia nei luoghi esenti o non esenti, e che al loro posto sia eretta una tavola, in qualche posto appropriato del coro, destinata, in ogni chiesa o cappella, a servire all’amministrazione della santa comunione. E, preoccupato che questo sia fatto senza offendere coloro tra i nostri affezionati sudditi che non sono ancora su questo punto così convinti come ce lo augureremmo, vi indirizziamo congiuntamente alcune considerazioni raccolte e ordinate ad ogni scopo utile; le quali, come altre che vi sembrerà appropriato avanzare, per persuadere gli esitanti di riunirsi alla nostra azione su questo punto, vi preghiamo di voler volentieri far conoscere al popolo, da qualche predicatore avveduto, nei luoghi che giudicherete appropriati, prima di abbattere i detti altari; in modo che le coscienze mal irrobustite di altri possano essere, anche loro, debitamente istruite e rassicurate, per quanto si possa fare e che il nostro buon piacere ne sia tanto più facilmente eseguito. Perché questo sia fatto al meglio, vi domandiamo di fare innanzitutto conoscere di persona le considerazioni suddette nella nostra chiesa cattedrale, se voi lo potete facilmente, o altrimenti di farlo dall’intermediario del vostro cancelliere, o da qualche altro predicatore serio, in questo luogo e in altri borghi e luoghi più importanti della vostra diocesi, come vi sembrerà più appropriato” (T.Cranmer, Writings on the Lord's Supper, t.II, p.524).

Tra le “considerazioni” che accompagnavano la lettera, sei non permettevano di dubitare, scrive Mons. Hughes, “che negli animi di coloro che ordinavano questo cambiamento , una religione (migliore) era sostituita ad un’altra” (The Reformation in England, t.II, p.121). Questo emerge con una particolare evidenza dalla prima delle "Reasons why the Lord’s Board should rather be after the form of a Table than an Altar" (Ragioni per le quali la tavola del Signore dovrebbe avere la forma di un tavolo piuttosto che quella di un altare): “In primo, la forma di una tavola allontanerà maggiormente la gente semplice dalle idee superstiziose della messa papista, per condurla al buon uso della santa cena. Perché ci si serve di un altare per offrire un sacrificio; ma ci si serve di una tavola per il pasto degli uomini.

Ora, quando noi rinnoviamo la cena del Signore, con che scopo lo facciamo? Forse per sacrificare il Cristo una nuova volta e crocifiggerlo ancora, o per mangiare il suo corpo spiritualmente e bere il suo sangue spiritualmente, cosa che è ben in realtà il senso della vera santa cena?Nessuno potrebbe dunque negare che la forma di una tavola conviene meglio di quella di unaltare alla celebrazione della detta santa cena” (T.Cranmer,Writings on..., pp.524-525).

Si soppressero dunque in tutto il paese tutti gli altari consacrati che servivano al sacrificio cristiano. Il padre T.E. Bridgett sottolinea che il rifiuto del santo sacrificio della messa era tale dalla parte dei “preti apostati che introdussero la Riforma nel XVI secolo o che vi cooperarono” che sussiste “poca sopravvivenza dell’antica pietà”. Poi aggiunge: “Ovunque esistono dei libri di conto dei fabbriceri, troviamo delle iscrizioni simili a quella di Burnham, nel Buckinghamshire: “Payd to tylars for breckynge downe forten aster in the cherche” (“Pagato ai muratori per abbattere quattordici altari nella chiesa”). Non è che attraverso tali briciole di storia che possiamo ricostruire e popolare di nuovo con l’immaginazione l’interno delle vecchie chiese, oggi vuote, ove furono nel passato offerte innumerevoli messe” (T.E.Bridgett, A History of the Eucarist in Great Britain, Londra 1908, p.63).

Il padre Bridgett non forza il tratto quando parla di “odio della messa”; è ciò che emerge dalle istruzioni indirizzate ai fabbriceri nel 1571, sotto il regno di Elisabetta, da Edmund Grindal, arcivescovo di York. Non solamente insisteva sulla distruzione o degradazione di ogni oggetto suscettibile di evocare il ricordo della messa, come sulla eliminazione di tutti gli altari, rialzati sotto il regno di Maria Tudor, ma prescriveva anche che fosse soppressa ogni traccia della loro esistenza: “I fabbriceri veglieranno in modo che, in tutte le chiese e cappelle di cui hanno la responsabilità, tutti gli altari siano interamente abbattuti e distrutti fino alle loro fondamenta e che il posto dove si innalzavano sia pavimentato, e che il muro al quale erano sigillati sia imbiancato e reso perfettamente uniforme, in modo che nessuna differenza o nessuna traccia non possa apparire. E veglieranno anche a che le pietre dell’altare siano spezzate, raschiate e impiegate per qualche uso profano. “I fabbriceri e i ministri del culto veglieranno (anche) al fatto che gli antifonari, messali, graduali, portesses (libro portatile, equivalente del breviario), processionali, manuali, lezionari e tutti gli altri libri che appartenevano un tempo alla loro chiesa o cappella e che erano utilizzati per gli uffici della superstizione in latino, siano resi interamente illeggibili e siano strappati e distrutti. Allo stesso modo, che tutti i paramenti, albe, tuniche, stole, fanoni (manipoli), ciborii, strumenti di pace, campanelle, campane della consacrazione, turiboli, ampolle del crisma,croce, candelieri, recipienti dell’acqua benedetta e aspersori, immagini e tutte le reliquie e monumenti della superstizione e dell’idolatria siano totalmente degradati, spezzati e distrutti. “Due volte all’anno, dovranno comunicare all’ordinario i nomi di tutte le persone favorevoli al potere romano e straniero, i nomi di coloro che ascoltano o dicono la messa od ogni altro ufficio in latino, come i nomi di coloro che danno asilo ai preti papisti vagabondi o agli altri spregiatori notori della vera religione” (Ibid. p.63).

In un buon numero delle venerabili chiese e cattedrali d’Inghilterra, la mensa di pietra dell’altare fu trasformata in una pietra, sovente utilizzata come gradino che i fedeli attraversavano entrando nella chiesa per assistere al nuovo servizio in vernacolare. Nella sola contea di Cambridge, si trovano ancora più di trenta pietre d’altare così collocate per essere calcate dai piedi (Ibid.,p. 65).
In una biografia che ha dedicato al suo antenato riformatore, un discendente del vescovo Ridley scrive che la distruzione degli altari, che la gente del popolo considerava un sacrilegio, li scandalizzò talmente che fece loro chiaramente comprendere l’importanza della rivoluzione che era stata compiuta, sostituendo una religione ad un’altra, come dice Mons. Hughes. Ecco cosa scrive J.-G. Ridley al riguardo: “La distruzione degli altari significò per tuti i sudditi del regno che l’oggetto che, da più di mille anni,si innalzava nel cuore delle loro chiese, e che, dalla loro più tenera infanzia, guardavano ogni Domenica con un timore reverenziale, era considerato come idolatrico e rigettato con disprezzo dagli adepti della nuova religione che era stata loro imposta” (J.G. Ridley, Nicholas Ridley ,Londra 1957, pp. 218-219).

Il fatto che il termine “altare” sia utilizzato in alcune rubriche del Prayer Book del 1549 può sembrare in contraddizione con l’insegnamento dei riformatori. La questione è affrontata nella seconda delle spiegazioni che accompagnano l’ordine del Consiglio del Re prescrivente la distruzione degli altari: “Allo stesso modo, poiché si sente dire che il Libro della Preghiera comune parla di un altare e che non è dunque permesso di sopprimere ciò che questo libro permette, ecco cosa conviene rispondere a questo proposito: Il Libro della Preghiera comune chiama la cosa sulla quale si celebra la santa cena, indifferentemente tavola, altare, tavola del Signore, senza prescrivere al riguardo alcuna forma particolare, che sia quella di una tavola o di un altare: di modo che la tavola del Signore, che abbia la forma di un altare o quella di una tavola, Il Libro della Preghiera comune lo chiama a volte altare e tavola. Perché, come chiama la cosa sulla quale si celebra la santa cena, altare, tavola e tavola del Signore o della santa cena, così chiama altare la tavola dove è distribuita la santa comunione, con lodi e azioni di grazie rese a Dio; perché è lo stesso sacrificio di lode e di azione di grazia che è offerto. Così è chiaro che parlando in questo modo non si dice o non si vuol dire nulla che contraddica Il Libro della Preghiera comune” (Cranmer, Writings...,t.II, p. 525). La parola altare non fu più menzionata nelle rubriche del Prayer Book del 1549; non fu mai reintrodotta in seguito.




Abbiamo preso molto spazio nel citare questo paragrafo della grande opera di M.Davies sulla riforma liturgica inglese, ma crediamo di aver fatto dono ai nostri lettori di una approfondita documentazione, oggi più che mai preziosa per rispondere a coloro che si scandalizzano per il fatto che il sacerdote celebri “spalle ai fedeli”.

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26/04/2010 14:42

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (5)

L'opera di Michael Davies, “La riforma liturgica anglicana”, come si può constatare, è di grande aiuto per capire come i protestanti inglesi, nel secolo XVI, si sono mossi per introdurre l'eresia in una terra che era ancora sostanzialmente cattolica. Lo hanno fatto riformando il culto, soprattutto il rito della messa, con modifiche graduali...per evitare lo scandalo e la dura reazione di rifiuto di coloro che non intendevano cambiare fede. Abbiamo precedentemente visto come i novatori rifiutino l'altare, che richiama la realtà del Sacrificio, e lo sostituiscano con il tavolo, sottolineando della messa unicamente il carattere di Cena, pasto sacro, e questo nella linea della più classica protestantizzazione.
Affrontiamo ora due delle altre modifiche al rito della messa, quella di vietare l'uso della lingua latina e quello di vietare il Canone a bassa voce, prescrivendo che la preghiera di consacrazione sia recitata dal sacerdote ad alta voce, così da essere intesa da tutti i fedeli presenti. D'altronde, l'impatto più difficile per chi, abituato alla nuova messa di Paolo VI, si trovi ad assistere alla messa in rito antico è sì nell'uso della lingua latina, ma sopprattutto è in quel lungo silenzio dal Sanctus al Pater noster; silenzio pesante per chi non è più abituato alla preghiera personale. E poi sembra che il prete sia troppo separato, lassù sull'altare, lui e Dio, “a fare una cosa tutta sua”, “e noi cosa ci stiamo a fare”: sembra di sentirli alcuni fedeli che per la prima volta vengono alla messa antica. La pagina che segue di M. Davies può essere molto utile per dei primi chiarimenti.

Whitby Abbey

Il vernacolare e la celebrazione della liturgia ad alta voce

Certi riformatori iniziarono col fare uso di una liturgia tradizionale modificata celebrata in latino. Tuttavia, una caratteristica del protestantesimo (ad eccezione di qualche luterano) fu ben presto che il culto doveva essere celebrato in lingua vernacolare (nella lingua parlata, ndr).

L’introduzione del vernacolare prima ancora che non fossero imposti i nuovi servizi, fu, in sé, “una vera rivoluzione” (P. Hughes, The Reformation in England, Londra 1950, p. 113). Tutto il carattere della messa ne fu cambiato. Fu anche uno strumento efficace di trasformazione rivoluzionaria, perché il popolo si abituasse che si poteva modificare radicalmente la sua maniera di celebrare il culto. Ora, il tratto dominante della liturgia cattolica era stato la stabilità.

Certo, la maniera di celebrare la messa aveva ben conosciuto degli sviluppi, ma si erano introdotti in modo quasi impercettibile lungo il tempo; da diversi secoli, e ancora di più, i messali in uso in Inghilterra e in tutta l’Europa nel XVI secolonerano rimasti non cambiati. Per i fedeli, una cosa era certa: se il resto poteva cambiare, la messa, lei, non lo poteva. La celebrazione di alcune parti o della totalità della messa in inglese impressionò molto di più i semplici fedeli cattolici che l’imposizione nel 1549 del servizio della santa cena nuovamente composto in vernacolare. Douglas Harrison, decano anglicano di Bristol, riconobbe senza imbarazzo che introducendo la lingua inglese negli uffici tradizionali, “Cranmer preparava apertamente il giorno in cui si sarebbe potuto intraprendere la revisione della liturgia” (D. Harrison, The first and Second Prayer Books of Edward VI, Londra 1968, introduzione p. X). Dall’11 aprile 1547, si cantava compieta in inglese nella cappella reale. L’apertura del primo Parlamento del regno di Edoardo VI fu l’occasione di una innovazione ancora ben più importante, perché colpiva il rituale della stessa messa: accompagnato da tutti i lords spirituali e temporali, il re si recò a cavallo dal palazzo di Westminster alla chiesa di San Pietro (2) per assistere ad una messa nel corso della quale il Gloria, il Credo e l’ Agnus Dei furono cantati in inglese (F. Gasquet e H. Bishop, Edward VI and the Book of Common Prayer, londra 1890, p. 64).

I vescovi più conservatori essi stessi erano ora disposti ad ammettere che se, alla messa, il latino doveva restare la regola generale, in particolare “nei santi misteri, almeno certe preghiere potevano essere dette nella lingua materna per istruire il popolo o ravvivare la sua devozione, se lo si reputava un bene” (Ibid., p.89).

Dal 12 marzo 1548, si poteva sentire a Westminster una messa celebrata interamente in inglese, compresa la consacrazion  (Ibid., p. 102). Lo storico protestante A.L. Rowse scrive: “Chiunque ignora le leggi dell’antropologia coglie male il carattere straordinariamente audace di questa sostituzione con una liturgia in inglese dell’antico rito latino della Cristianità occidentale nel quale, da tempo immemorabile, gli Inglesi erano stati cullati e allevati, e che turbamento profondo un tale atto non poteva non infliggere a quelle zone dell’inconscio sulle quali riposa la vita di una società … Niente saprebbe attenuare l’audacia rivoluzionaria di un simile intervento nell’ordine del costume, del subcosciente e dei riti dell’esistenza" (A. L. Rowse, The England of Elizabeth: the Structure of Society, Londra 1951, p.17). E nello stesso tempo in cui imponevano l’uso del vernacolare, i riformatori esigevano che tutto l’ufficio potesse essere ascoltato dall’assistenza. Una rubrica del Prayer Book del 1549 lo prescrive: il prete “dice, o canta, ad alta ed intelligibile voce, la preghiera che segue”, cioè il canone (D. Harrison, op. cit, p. 221).

E' interessante sapere che il Concilio di Trento interverrà esplicitamente su questa questione, scomunicando chi affermasse che è obbligatorio pronunciare le parole della consacrazione, il Canone, ad alta voce, così come chi obbligasse alla messa in lingua parlata abbandonando il latino. Nel corso della sua XXII sessione, il 22 settembre 1562, il concilio di Trento dichiarò anatema chiunque sostenesse la proposizione seguente: “Il rito della Chiesa romana, dove si pronuncia a voce bassa una parte del canone e le parole della consacrazione, deve essere condannato; la messa non deve essere celebrata che in lingua volgare”. (Denzinger, 1759). A questo riguardo sembra interessante citare il testo del concilio di Trento che giustifica e spiega la preferenza secolare della Chiesa e la sua attitudine a proposito di questa questione, preferenza che aveva allora secoli di esistenza e che fu confermata solennemente da questo concilio. Il concilio di Trento spiega che “è tale la natura dell’uomo che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle realtà divine senza degli aiuti esteriori. E’ per questo che la Chiesa, madre pia, ha istituito certi riti nella messa: delle parole pronunciate sotto voce, altre a voce più alta. Essa fa uso anche di cerimonie: benedizioni mistiche, luci, incensazioni, vesti e altre cose della stessa natura, ricevute dall’autorità e dalla tradizione apostolica. Così sarà messa in valore la maestà di un così grande sacrificio, e gli spiriti dei fedeli saranno stimolati, per mezzo di questi segni visibili di religione e di pietà, alla contemplazione delle realtà invisibili nascoste in questo sacrifico”.

Come è utile sapere il perché di certi riti e usi nella Chiesa, per evitare di compiere gli stessi errori e di applicare criteri estranei alla fede cattolica, in qualsiasi riforma... cose più che mai attualissime. Continua....
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26/04/2010 14:52

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (6)

Proseguiamo nell'analisi della riforma liturgica anglicana del secolo XVI, lasciandoci aiutare dall'opera di M. Davies, La Riforma Liturgica Anglicana, che attende ancora una pubblicazione in lingua italiana, dopo le sei edizioni in lingua inglese e quella in lingua francese. Tale opera è fondamentale se si vuole documentare come il Protestantesimo e l'eresia siano entrati nel cattolicesimo inglese non innanzitutto con una predicazione esplicita, ma attraverso una serie di modifiche della liturgia, soprattutto della santa Messa, che da principio non avevano un aspetto formalmente eretico, cioè contrario alla retta fede cattolica, ma che tacendo volutamente su aspetti essenziali della fede (la Messa come Sacrificio propiziatorio, la Transustanziazione, ecc...) di fatto favoriva la nascita di una nuova religione, l'anglicanesimo. La furbizia con cui si procedette ad un lento e progressivo smantellamento del cattolicesimo nei suoi riti, ingannò molti (più sacerdoti che laici)... pensavano di rimanere sostanzialmente cattolici, pur cambiando qualcosa nella Messa, e si ritrovarono alla sera della vita protestanti. Tutto questo deve certamente farci riflettere e mantenerci vigilanti... per non accogliere mai nella liturgia qualcosa di dubbioso, anche se accompagnato dalla scusa di un adattamento ai tempi. Ci furono delle misure preparatorie alla modifica del rito della messa, alcune le abbiamo già accennate: la sostituzione degli altari con delle tavole, l'abbandono della lingua latina, il vietare la preghiera del canone sottovoce. Proseguiamo considerando un'altra di queste misure preparatorie…
Nostra Signora di Walsingham


La distruzione delle immagini

Nel 1536 e 1538, sotto il regno di Enrico VIII, Cranmer era riuscito ad ottenere la promulgazione di ingiunzioni tendenti a tagliare corto con ciò che considerava “superstizione e ipocrisia”. Il suo desiderio era di proscrivere interamente le immagini; ma siccome sapeva che questo non poteva essere ottenuto fin quando Enrico fosse stato re, dovette accontentarsi di sottolineare che le immagini non erano legittime che in quanto richiamo ai santi che rappresentavano, cosa che è perfettamente conforme alla sana dottrina cattolica.

Con le ingiunzioni del 1538, giunse a fare un nuovo passo e dichiarò che là dove le devozioni erano occasione di superstizione, le casse, statue, quadri e reliquie dovevano essere distrutte puramente e semplicemente, questo, ben inteso, in nome del re, che, “vegliando con bontà al bene delle anime e dei suoi sudditi, ha già acconsentito alla distruzione di una parte di queste immagini, e che vi si consacrerà ancora più in futuro, perché esse potrebbero essere l’occasione di una gravissima offesa fatta a Dio e di un gravissimo danno per le anime dei suoi affezionati sudditi” (P. Hughes, The Reformation in England, Londra 1950, t. I. p. 361).

“Il governo reale fece comprendere più chiaramente possibile il senso di questa ingiunzione facendo distruggere, in quell’estate, dei santuari che costituivano da secoli dei luoghi di pellegrinaggio “internazionali”; fu il caso, per esempio, di Nostra Signora di Walsingham, nella diocesi di Norfolk, e di San Tommaso a Canterbury. Si portarono via da quest’ultimo delle carrettate intere piene di oro, argento, gioielli, drappi preziosi, che presero la direzione del Tesoro reale, mentre si bruciavano le reliquie del santo. Il più magnifico gioiello allora conosciuto, il grande rubino di Francia, era stato donato al santuario dal re di Francia contemporaneo di San Tommaso (Luigi VII). Enrico VIII se ne impadronì; incastonato in un anello, ornò da allora la sua mano sacrilega” (P. Hughes, The Reformation: A Popular History, Londra 1957, p. 211). Le ingiunzioni non vietavano solo i pellegrinaggi, ma anche una delle manifestazioni più diffuse della pietà popolare: l’usanza di fare bruciare delle candele di devozione davanti alle statue. Le candele furono ancora autorizzate al jubé, davanti al SS. Sacramento e al Sepolcro di Pasqua.

A dispetto della distruzione dei principali santuari, le ingiunzioni non furono affatto rispettate, in particolare nell’Ovest del paese, dove, è riportato, “all’ovest di Sarum (Salisbury), non si tiene conto alcuno delle ingiunzioni “ (E. Duffy, The Stripping of the Altars, New Haven, Connecticut, 1992, p. 410). Nel novembre 1538, Enrico pubblicò un proclama che fu a colpo sicuro un incoraggiamento per i preti che desideravano conservare le immagini e le statue nelle loro chiese: questo proclama condannava coloro che tentavano di abolire le usanze e le cerimonie religiose tradizionali “senza attendere il momento in cui Sua Maestà le modificherà o le abrogherà” (Ibid., p. 411). Ecco cosa spiega perché la maggioranza delle immagini, che si trattasse di statue, di vetrate, di pitture murali, erano ancora al proprio posto all’avvento di Edoardo VI. Era qualcosa che Cranmer non poteva tollerare. Il suo obiettivo e quello dei suoi soci riformatori del Consiglio e dell’episcopato è molto bene riassunto dal Dr. Eamon Duffy: “Nel cuore della riforma del re Edoardo, c’era la necessità di distruggere, di rompere, di martellare, di grattare o di fondere in un oblìo ampiamente meritato i monumenti del papismo, in modo che fossero dimenticate le dottrine di cui erano l’espressione.

L’iconoclastia fu il principale sacramento della Riforma, e come, tra il 1547 e il 1553, il programma dei suoi capi si fece più radicale, si sforzarono con una accresciuta insistenza di fare celebrare questo sacramento dell’oblìo in ciascuna delle parrocchie del paese. I resoconti dei fabbriceri dell’epoca si fecero l’eco di una eliminazione generale delle immagini, degli ornamenti liturgici, dei vasi sacri che avevano suscitato la meraviglia dei visitatori stranieri, e nei quali era, nel senso letterale della parola, incastonata la memoria collettiva delle parrocchie” (Ibid., p. 480).

Nel luglio 1547 è promulgata una serie di ingiunzioni sulle questioni religiose, redatte “conformemente al parere di diversi vescovi e altri, uomini i più istruiti del regno” (F. Gasquet e H. Bishop, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra 1890, p. 52). Sembravano non essere che una semplice ripetizione delle ingiunzioni imposte nel 1536 e 1538 sotto il regno di Enrico VIII, ma esse le sorpassavano vietando tutti i pellegrinaggi, senza limitarsi a quelli che “erano dei centri ei eccessi superstiziosi.
Le immagini che erano oggetto di deviazioni superstiziose dovevano essere tolte ed era vietato accendere le candele davanti a qualunque statua, cosa che lascia supporre che lo stesso ordine, già espresso nelle ingiunzioni del 1538, era stato larghissimamente ignorato. Alla messa grande, bisognava leggere l’epistola e il vangelo in inglese; la recita del rosario era condannata e tutte le processioni erano vietate, fossero all’interno o all’esterno della chiesa, compresa la processione del Corpus Domini e quella dei tre giorni delle Rogazioni. “Proscrivendo le processioni della domenica, questa ingiunzione colpiva al cuore una delle principali espressioni della religione delle comunità medioevali e uno dei tratti più caratteristici del culto parrocchiale in Inghilterra” (E. Duffy, p. 452).

Una visita destinata a fare applicare queste ingiunzioni iniziò nel settembre 1547, e non terminò che l’anno seguente. Nel febbraio 1548, il Consiglio notò che si era vista sollevarsi una viva resistenza ed una forte opposizione all’ingiunzione che prescriveva l’eliminazione delle “immagini disonorate con dei pellegrinaggi, delle offerte, delle incensazioni”. Il Consiglio affermava “che non esiste quasi nessuna parte del regno dove la tranquillità sia assicurata, ad eccezione dei luoghi dove le immagini sono state già interamente tolte e distrutte” (F. Gasquet e H. Bishop, p. 101). Il Consiglio ordinava la distruzione completa di tutti i reliquiari, quadri, vetrate evocanti episodi della vita dei santi, della Scrittura o della storia religiosa, “in modo che non ne resti alcuno ricordo sulle pareti, le finestre né in alcun altro luogo, che sia nelle loro chiese o nelle loro case; e (il clero) vigilerà ad esortare tutti i parrocchiani a fare lo stesso ciascuno nella propria abitazione” (P.Hughes, The Reformation in England, t. II, p. 94). Distruggendo a tal punto il patrimonio non rimpiazzabile e di un valore inestimabile di vetreria medioevale, gli iconoclasti inglesi superarono anche il fanatismo dei loro omologhi nella Zurigo di Zwingli, che autorizzarono la conservazione delle vetrate (E. Duffy, p.451).

Pensiamo a certe architetture moderne di chiese, dove c'è posto per un'infinità di sedie (per fare comunità), dove le vetrate sono ammesse solo per dare “sciabolate di luce” senza portare alcuna immagine, dove la struttura architettonica non sopporta alcuna immagine di santi, dove la statua della Vergine Maria, se c'è, è collocata a fatica... è come se ci fosse un rifiuto implicito dell'Incarnazione, della Rivelazione: Dio si è rivelato, Dio si è fatto uomo, Dio si è manifestato; e la Chiesa prolunga nel tempo questa manifestazione anche nella sua arte sacra, con il culto delle immagini.

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26/04/2010 14:56

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (7)

Sappiamo che nella riforma anglicana si procedette per lo più con decreti miranti a graduali modificazioni del rito della Messa, così da renderla sempre più accettabile alla mentalità protestante. Abbiamo ripetutamente ricordato che tutto ciò avvenne in maniera tale che non tutti i fedeli e sacerdoti si resero subito conto del pericolo di tali cambiamenti...accettando per amore di pace e di obbedienza misure che sembravano secondarie, in pochi anni molti cattolici si ritrovarono protestanti: la mentalità tende ad adattarsi al modo di agire, anche nei riti della chiesa. Inizi ad assumere gesti e preghiere che non esprimono in tutta pienezza la fede cattolica (ma che non le sono apertamente contro!), e finisci con il tempo a dimenticare completamente le verità di fede taciute da tempo. Detto questo qualcuno potrebbe pensare che si insista troppo contro il Protestantesimo: “in fondo”, qualcuno penserà, “sono pur sempre fratelli cristiani, che credono in Gesù Cristo,dobbiamo cercare ciò che ci unisce e non ciò che ci divide!”. Niente di più utile, per rispondere a questa obiezione, di andare ai testi originali di questi “fratelli cristiani”: in essi si vedrà una violenta opposizione al Cattolicesimo, una negazione aperta di verità di fede, portata avanti con una violenza verbale che sconvolge. Riportiamo qui un paragrafo dell'opera di M. Davies sulla Riforma Anglicana, che tratta di un'altra delle misure preparatorie della riforma: l'utilizzo della STAMPA, come mezzo per cambiare la mentalità cattolica e prepararla al definitivo passaggio al Protestantesimo.

La stampa

I riformatori capivano che i semplici fedeli erano così attaccati alla messa che un attacco aperto e immediato sarebbe stato suscettibile di ritorcersi contro di loro. Ebbero la fortuna di trovare un sostegno potente nel gentry, nei negozianti e presso una buona parte della nobiltà; avendo acquistato a basso prezzo i beni della Chiesa sotto il regno di Enrico VIII, tutta questa gente trovava un vantaggio finanziario nella Riforma. Per preparare l’abolizione della messa, si ebbe l’abilità di utilizzare la stampa. Spesso importate dal continente, le pubblicazioni che attaccavano la dottrina cattolica dell’eucaristia avevano incominciato a fare la loro apparizione dal regno di Enrico VIII.

La morte del re, sopraggiunta nel 1547, segnò subito l’inizio di una campagna diretta contro la messa; si affermava, tra le altre cose, per citare John Hooper, che “la messa è una bestemmia nei riguardi di Dio; perché coloro che onorano come Dio il pane presente sull’altare non commettono una minore idolatria di coloro che divinizzano il sole o le stelle”. (J. Hooper, Early Writings, PS, Cambridge, 1843, p. 139) Stephen Gardiner, vescovo di Winchester, che aveva conservato l’anima cattolica, aveva comunque capitolato davanti a Enrico VIII sulla questione della supremazia reale; ma sotto il regno di Edoardo, rifiutò di abbandonare la messa. Fu imprigionato nella Torre di Londra e deposto (sotto il regno di Maria Tudor, doveva riconciliarsi con la Chiesa e diventare Gran Cancelliere). All’inizio del regno di Edoardo, protestò perché “certi tipografi, commedianti o predicatori fanno finta di interrogarsi; come se noi non sapessimo ancora come siamo giustificati, né di quali sacramenti abbiamo bisogno”. (F. Gasquet, Edward VI and the Book of Common Prayer, Londra, 1890, p. 120) In pubblico, le autorità disapprovavano queste campagne; ma, astenendosi dal prendere misure contro questi libri, mostravano chiaramente da che parte andava la loro simpatia. Alla fine del’anno 1547, le porte furono aperte e cominciarono a comparire dei libri, pieni di insulti nei confronti di tutto ciò che era acattolico; si arrivava fino a dedicare queste pubblicazioni al re in persona e al Protettore Edward Seymour, duca di Somerset, fratello di Jane Seymour, terza donna di Enrico VIII e madre di Edoardo VI. Somerset era risoluto nell’imporre il protestantesimo al popolo inglese. In alcuni scritti polemici, il santo sacramento è descritto come “una creatura che diventa Creatore, una volgare torta confezionata per diventare Dio e uomo”; la messa è “l’adorazione di un Dio confezionato con fiore di frumento” (Ibid., p. 123). Molte di queste opere avevano per autori dei riformatori dell’Europa continentale, fra i quali Lutero, Zwingli, Calvino, Melantone, Bullinger, Urbanus Regius Osiander, Hegendorp e Bodius (Ibid. , p. 125). Queste opere scandalizzavano e rivoltavano i semplici fedeli e il clero parrocchiale, ma facevano grande impressione su coloro che amavano considerarsi come appartenenti ad una élite istruita ed illuminata, adepta del nuovo pensiero e che erano quasi sempre gente influente nel loro ambiente.

Coloro che volevano farsi i difensori della messa non avevano il compito facile, essendo riusciti i riformatori ad assicurarsi il controllo assoluto dei “mezzi di comunicazione”: “Un libro compariva bene qua e là, portando il nome di un autore o di un tipografo poco di casa presso Cranmer o il Consiglio, ma nessun dubbio è permesso: queste pubblicazioni si facevano a rischio e pericolo dei loro autori. In effetti, quando si esamina la bibliografia di quegli anni, si è colpiti nel constatare che non vi si trova neanche un solo opuscolo o un solo libro uscito dalle tipografie inglesi che prenda le difese delle antiche dottrine. Dei trattati come quelli di Gardiner o di Tunstall sul Santo Sacramento dovettero essere stampate in segreto all’estero.

“Di contro, il paese era inondato di opere, traduzioni di lavori di riformatori stranieri o composizioni originali, che attaccavano le pratiche cattoliche, in particolare la messa. Queste opere portavano il nome dell’autore o del tipografo: si trattava più sovente di opuscoli venduti a qualche pence e apertamente destinati ad una larga diffusione nel popolo. Non c’è alcun dubbio che in ragione delle circostanze questa letteratura, così abbondantemente diffusa, non avrebbe potuto circolare senza la connivenza o la benevolenza delle autorità; essa corrispondeva manifestamente alle loro intenzioni e rispondeva ai loro voti. Inoltre, la diffusione di tali scritti, che avevano un carattere blasfemo e osceno, non era né vietato né frenato dalle innumerevoli proclamazioni dell’epoca; ben al contrario, espressa licenza era data ai tipografi di queste opere di pubblicarle” (Ibid. , p. 118-119).

Richard Smith, che fu il primo regius professor di teologia a Oxford, e che doveva diventare più tardi il primo rettore del seminario di Douai, scrisse un’apologia dell’insegnamento cattolico sull’Eucaristia, nella quale denunciava in termini vigorosi la letteratura scandalosa che attaccava questa dottrina: “Nel passato … mai si tollerava che ricchi e pezzenti , colti e ignoranti, vecchi e giovani, saggi e folli, ragazzi e ragazze, padrone e servo, stagnini e conciatetti, minatori e ciabattini e altra gente di bassa estrazione, potessero a piacere schernire e canzonare … non risparmiando nessun sacramento della Chiesa … mentre per la predicazione e l’insegnamento (possono fintanto che si possono impiegare questi termini in questo caso), per il gioco scenico, la scrittura e la stampa, le canzoni e (oh mio Dio!) cento altre maniere, alcuni oggi , che non hanno altro maestro che se stessi, a meno che non siano i sapienti del diavolo, non si privano né hanno timore di parlare o di scrivere contro l’eccellentissimo e santissimo sacramento dell’altare, dichiarando che è nient’altro che una volgare figura e che nel detto sacramento non si trova il corpo e il sangue del nostro santissimo Salvatore e Redentore Gesù Cristo, ma solamente un puro e semplice segno, un pegno, un memoriale del detto Salvatore; ammesso che vadano fin là e che non lo chiamino puramente e semplicemente (cosa che capita sovente) idolo o idolatria”. (Knox, p. 58)

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26/04/2010 15:03

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (8)

Continuiamo ad esaminare le misure preparatorie alla riforma anglicana, secondo lo studio fatto dal grande storico inglese Michael Davies.
Uno dei cambiamenti introdotti, prima del passaggio definitivo all'abbandono del Cattolicesimo per quella nuova forma di cristianesimo che è l'Anglicanesimo (cambiamenti graduali per abituare i fedeli ad abbandonare il Cattolicesimo Romano), è stato quello della distribuzione della santa comunione sulla mano. È impressionante vedere le motivazioni avanzate per questa modifica: tornare ad un uso antico perché non sussiste il pericolo di profanazione da parte dei fedeli. In verità si voleva attaccare il sacerdozio ordinato (il dare la comunione in bocca ai fedeli è, per i riformatori, un'ingiusta pretesa di superiorità del clero, perché dice di avere le mani consacrate) e la presenza reale di Gesù Cristo nelle specie eucaristiche (per i riformatori questa è una superstizione da abbattere!). Leggendo questo studio non si può non andare con la mente a molti cattolici, anche sacerdoti, che negli anni passati hanno avanzato le stesse motivazioni protestanti per obbligare (molte volte è stato così) i fedeli ad adeguarsi al nuovo ordine: comunione in piedi e sulla mano!

Con estenuanti insegnamenti sul “balletto” da farsi per riceverla con dignità! Oggi, Dio sia ringraziato, nelle messe papali il Santo Padre distribuisce la santa comunione solo ai fedeli in ginocchio e sulla bocca: è un esempio che i sacerdoti dovrebbero subito seguire. Peccato che a fianco del Papa, anche in S. Pietro, schiere di sacerdoti continuino a distribuire imperterriti la comunione in mano.

Leggendo il brano che segue forse ci chiariremo le idee sulle vere ragioni che spingono il Papa al ritorno alla forma tradizionale: la difesa del Sacerdozio cattolico e della verità della Transustanziazione, della presenza sostanziale del Corpo, Sangue, Anima e Divinità di Nostro Signore Gesù Cristo nella SS. Eucarestia.

La comunione nella mano

E’ interessante notare che, nel rito del 1549, il popolo riceveva la santa comunione in ginocchio dalle mani del prete. Ecco ciò che dice una rubrica che si trova alla fine del Servizio di Comunione: “Benché si legga negli antichi autori che i fedeli ricevevano un tempo il sacramento del corpo di Cristo dalle mani del prete nelle loro e che non si trovi alcun ordine di Cristo che prescriva di agire diversamente, però, visto che ben sovente la si teneva segretamente e la si conservava in proprio possesso per oltraggiarla utilizzandola per dei fini superstiziosi e perversi, per paura che si tenti di usarne allo stesso modo in avvenire e allo scopo che si agisca in modo uniforme in tutto il regno, è stato giudicato opportuno che il popolo riceva ordinariamente il sacramento del corpo di Cristo in bocca, dalle mani del prete” (D. Harrison, The First and Second Prayer Books of Edward VI, Londra 1968, p. 230).

Il Prayer Book del 1552 modifica questa pratica tradizionale e prescrive: “Allora il ministro riceverà per primo la comunione sotto le due specie, poi la darà anche ai vescovi, preti e diaconi (se sono presenti); dopo la darà anche in ordine nelle mani del popolo, essendo ciascuno umilmente in ginocchio”. I fatti e le influenze che accompagnarono questo cambiamento sono particolarmente degni d’interesse. Nella Apostolicae curae, per giudicare l’intenzione che animava i riformatori d’Inghilterra nella loro impresa di elaborazione dei nuovi libri liturgici, il papa Leone XIII insistette in modo del tutto speciale sul ruolo degli associati eterodossi di cui i riformatori anglicani avevano sollecitato il concorso. Di questi, il più influente fu l’ex –domenicano Martin Bucer. Bucer negava ogni presenza di Cristo in o sotto le apparenze del pane e del vino. Era in lui una vera ossessione quella di vegliare a che nessuna liturgia riformata conservasse una sola parola, un solo gesto, una sola rubrica, suscettibile di essere interpretati come dei segni di fede in una tale presenza.

Avendo ricevuto da Cranmer un invito pressante, Bucer arrivò in Inghilterra in aprile e soggiornò dal suo ospitante a Lambeth e a Croydon. I due uomini divennero dei compagni inseparabili (F. Clark, Eucharistic Sacrifice and the Reformation, Devon 1980, p. 122). Bucer fu nominato regius professor di teologia a Cambridge, dove sostenne delle controversie contro la presenza reale e la messa. Preparò un trattato sull’ordinazione, a partire dal rito di ordinazione che aveva composto a Strasburgo dieci anni prima. Fu il riferimento principale dell’ordinario di Cranmer nel 1550 (Ibid.). Cranmer invitò il suo amico a procedere all’esame del Prayer Book del 1549, pregandolo di formulare le sue critiche e di suggerire delle migliorazioni.
La risposta di Bucer fu la sua lunga Censura dove fulminò contro “questo sacrificio della messa, tutto pieno di abominazioni, che non si aborrirà mai abbastanza e questa adorazione del pane (artolatreia), che non è che un insulto fatto a Dio”. (Bucer, p. 58) I due terzi dei suoi scritti, almeno, furono accolti e applicati nella compilazione del Prayer Book del 1552, confermando così la sua influenza su Cranmer (F. Clark, Eucharistic Sacrifice and the Reformation, Devon 1980, p. 123).
Bucer censurava diversi punti del rito di comunione che, temeva, potevano condurre a interpretarlo in senso cattolico. E’ così, per esempio, che faceva delle obiezioni al mantenimento dell’uso delle ostie, anche quando assomigliassero a del pane, uso prescritto nel rito del 1549; la revisione del 1552 ordinò dunque che si utilizzasse d’ora in avanti del pane ordinario: “E per combattere ogni occasione di dibattito e di superstizione che si potrà avere toccando il pane e il vino, sarà sufficiente che il pane sia come quello che si mangia ordinariamente in tavola con gli altri cibi, previsto che sia del migliore pane di frumento che si possa comodamente trovare. E se accade che resti del pane e del vino, il ministro li porterà via per il suo uso personale” (D. Harrison, The First and Second Prayer Books of Edward VI, Londra 1968, p. 392). Bucer teneva particolarmente che il pane non fosse posato nella bocca del comunicante ma nella sua mano: “Non arrivo a comprendere come si possa trovare logica la settima sezione, che esige che il pane del Signore sia posato non nella mano, ma in bocca di colui che lo riceve. Sicuramente, la ragione che si dà in questa sezione, vale a dire la paura che coloro che ricevono il pane del Signore non lo mangino ma che lo portino segretamente con loro per farne un cattivo uso per superstizione o malvagità, non mi pare convincente; in effetti, quando il ministro depone il pane nella mano, gli è facile vedere se lo si mangi o no. “In realtà, non dubito che l’uso di non deporre le sante specie nelle mani dei fedeli sia stato introdotto a causa di una duplice superstizione: prima di tutto il falso onore che si intendeva rendere a questo sacramento in seguito, l’arroganza colpevole dei preti, che rivendicano una santità superiore a quella del popolo cristiano in ragione dell’olio della loro consacrazione. Non c’è alcun dubbio che il Signore ha rimesso i suoi segni sacri nelle mani degli apostoli e chiunque ha letto i testi degli antichi non potrà dubitare che tale fu l’uso osservato dalle Chiese fino all’avvento della tirannia dell’Anticristo romano (il Papa per i protestanti era l'anticristo, n.d. r.).

“Dunque, come dobbiamo avere in odio tutte le superstizioni dell’Anticristo romano e ritornare alla semplicità di Cristo, degli apostoli e delle Chiese antiche, amerei che si prescrivesse ai pastori e a coloro che hanno missione di insegnare al popolo che ognuno insegni loro fedelmente che è una superstizione e un errore pensare che le mani di coloro che credono sinceramente a Cristo siano meno pure delle loro bocche; o che le mani dei ministri siano più sante che le mani dei laici; tanto e così bene che sarebbe colpevole, o meno corretto, come il popolo ha falsamente creduto, che si posino le sante specie nelle mani dei laici. Che si facciano dunque scomparire i segni di questa falsa credenza, come, per esempio, l’idea che i ministri possano toccare le sante specie, ma non possono permettere ai laici di farlo e che le posino al contrario nella bocca, cosa che non è solo estranea all’istituzione del Signore, ma offensiva per la ragione umana.
“Così, sarà facile condurre tutti i fedeli a ricevere i segni sacri nella mano; tutti li riceveranno allo stesso modo e si vigilerà per evitare ogni profanazione segreta delle sante specie. Che, ammettendo che si possa fare per un certo tempo delle concessioni a coloro la cui fede è fragile donando loro, quando lo desiderino, la comunione in bocca, se si prende cura di istruirli, non tarderanno a comportarsi come gli altri membri della Chiesa e si comunicheranno nella mano”.
L’obiezione di Bucer contro il modo tradizionale di dare la santa comunione è dunque doppia: questa maniera di fare racchiude la credenza secondo la quale esiste una differenza essenziale fra prete e laico e tra il pane distribuito alla comunione e il pane ordinario . La soluzione di Bucer fu di imporre la comunione nella mano, dapprima come opzione, ma accompagnando questa maniera di procedere con una campagna di propaganda destinata a provocare rapidamente l’uniformità. Nella sua opera Missarum sollemnia, il padre Joseph Jungmann spiega che è il rispetto crescente verso il santo sacramento, ben più che il timore delle profanazioni, che fu la principale ragione della sostituzione della comunione sulla mano con la comunione sulla lingua (J. Jungmann, The Mass of the Roman Rite, Londra 1959, p. 510). E’ qui uno sviluppo logico, quasi ineluttabile, pienamente conforme della lex orandi, lex credendi. Sotto la guida dello Spirito Santo, una intelligenza sempre più crescente della natura dell’eucaristia ricevette un’espressione dottrinale più precisa; questa, a sua volta, si espresse nella liturgia con un rispetto ed una venerazione accrescente verso il santo Sacramento. Così, tornando ad una pratica in uso anteriormente, con l’intenzione esplicita di manifestare un rifiuto dell’insegnamento cattolico sull’eucaristia, i riformatori diedero a questo uso della comunione sulla mano un senso anticattolico. Ormai, comunicarsi nella bocca voleva dire che si riceveva nella fede il sacerdozio ministeriale e la presenza reale, e comunicarsi sulla mano significava che li si rifiutava.

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26/04/2010 15:07

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (9)

Da tempo, guidati da Michael Davies e dalla sua opera “La riforma liturgica anglicana”, stiamo considerando come siano pericolosissime tutte quelle operazioni che, volendo semplificare la Messa Cattolica, di fatto la trasformano in qualcosa di diverso: la cena protestante non è più la vera Messa. Questo è avvenuto nella riforma anglicana attraverso una serie di omissioni pericolose.
Ma è giunto il momento di considerare come “toccare la Messa” voglia dire “toccare il Sacerdozio”. Sacrificio della Messa e Sacerdozio cattolico sono intimamente uniti. Alla protestantizzazione della Messa corrisponde la protestantizzazione del sacerdozio: non pìù il prete cattolico che ha come scopo principale l'offrire il Santo Sacrificio della Messa, ma il pastore protestante, ministro designato per predicare e dirigere il culto.
La protestantizzazione invadente della Chiesa ha toccato ormai a livello popolare anche le nostre parrocchie. Provate a chiedere alla gente chi è il prete, quale è il suo compito, e dovrete constatare che si è più vicini alla nozione anglicana protestante di pastore che a quella cattolica di sacerdote. Come non pensare che l'attuale crisi di vocazioni sacerdotali – drammaticamente gli anni che verranno vedranno la scomparsa dei preti dai nostri paesi – sia dovuta a un spaventoso allontanamento dalla fede cattolica: Dio non manderà vocazioni per un culto protestante impregnato di preoccupazioni sociologiche, Dio darà vocazioni a un popolo che domanda la grazia della Messa e dei Sacramenti.

La negazione del carattere sacrificale della messa, che era esplicitamente formulato nell’insegnamento dei riformatori e contenuto implicitamente nel Prayer Book del 1549, ebbe per conseguenza logica come spiega il padre Messenger, “l’abolizione dell’antica nozione cattolica di sacerdozio con i suoi sette gradi e la sua sostituzione con un ministero protestante comprendente tre gradi”: vescovi, preti e diaconi (E. C. Messenger, The Reformation, The Mass, and The Priesthood, tomo I, Londra, 1936, pag. 564). (...) Secondo i protestanti, non esiste un vero stato sacerdotale al quale si accederebbe con il sacramento dell’ordine. Nei loro scritti, la fede non ci è comunicata da una società visibile che ha il compito di insegnare; la Chiesa non è governata da un’autorità istituita dal Cristo e la grazia non è trasmessa all’uomo per mezzo di segni esteriori, ma attraverso la fede fiduciale.
Di conseguenza, i riformatori non riconoscevano uno stato particolare istituito dal Cristo per il ministero di questa grazia. Poiché non riconoscevano il sacrificio della messa, non avevano nessun bisogno, nemmeno, di un sacerdozio legato al sacrificio. Tutti gli attacchi diretti contro il sacerdozio cattolico hanno dunque per origine il rifiuto di riconoscere nella messa un vero sacrificio, affidato dal Cristo alla sua Chiesa e, in ultima conseguenza, il rifiuto puro e semplice di una Chiesa visibile alla quale il Cristo avrebbe affidato la sua missione di Mediatore e di redentore.
Contro i Riformatori, il concilio di Trento insegna, nella sua XXIII sessione, che... “sacrificio e sacerdozio sono stati così legati insieme dalla disposizione di Dio che l’uno e l’altro sono esistiti sotto le due Leggi. Come, nel Nuovo Testamento, la Chiesa cattolica ha ricevuto dall’istituzione del Signore il santo sacrificio visibile dell’Eucaristia, si deve anche riconoscere che vi è in essa un sacerdozio nuovo, visibile ed esteriore, nel quale il sacerdozio antico è stato “cambiato”. (Denzinger-Schonmetzer, Enchiridion symbolorum 1764). L’anatema era pronunciato contro chiunque rigettava questa dottrina (ibidem 1771).
Il rifiuto della concezione cattolica del sacerdozio fu chiaramente manifesto con la sostituzione del pontificale cattolico “con un nuovo ordinale, costruito dal rito luterano in Germania e impregnato pezzo dopo pezzo dello spirito del protestantesimo” (E.C. Messenger, The Reformation, The Mass, and The Priesthood, tomo I, Londra, 1936, pp. 564-565). Martin Bucer influenzò profondamente la composizione di numerose parti di questo ordinale (The Oxford Dictionary of the Christian Church, Oxford, 1977, pag. 206).

All’esame delle testimonianze, nessun lettore imparziale potrebbe dubitare un istante che il nuovo ordinale non avesse certamente per intenzione l’ordinazione di preti destinati a offrire un sacrificio e investiti del potere di consacrare e di offrire il corpo e sangue di Cristo nel sacrificio della messa. Ancora oggi, la più parte dei ministri anglicani ne convengono senza esitare: non si considerano come preti ordinati per offrire un sacrificio nel senso cattolico di questo termine; essi affermano che non esiste alcun fondamento scritturistico a una tale concezione del sacerdozio. I limiti di questo studio non ci permettono di intraprendere l’esame, anche superficiale, degli errori e delle lacune dell’ordinale anglicano. Dobbiamo accontentarci di citare qualcuno dei giudizi che sono stati formulati a suo riguardo. Al lettore desideroso di intraprendere uno studio più approfondito di questa questione, suggeriamo di cominciare con la lettura della Apostolicae curae di Papa Leone XIII. Si troverà anche uno studio dettagliato di questa questione nella nostra opera The Order of Melchisedech. Ecco in che termini lo storico protestante S.T. Bindoff giudica l’ordinale di Cranmer: “Il cambiamento più marcante fu la trasformazione del prete, investito dalla grazia divina del potere di offrire il sacrificio, in un ministro designato per predicare, insegnare e dirigere il culto.
Ben inteso, fu la conseguenza della trasformazione della messa in un servizio di comunione, o santa cena” (S.T. Bindoff, Tudor England, Londra, 1952, pag. 162).
Ecco a questo proposito ciò che dichiarano i vescovi cattolici nella loro apologia della Apostolicae Curae: “Poiché gli autori di questo ordinale non hanno mai menzionato chiaramente il sacerdozio, ma al contrario si sono premurati grandemente di far scomparire delle preghiere che avevano ripreso dall’antico rito ogni riferimento concernente; poiché, inoltre, sappiamo dai loro scritti, e da quelli di una serie ininterrotta dei vostri principali teologi (anglicani), fino alla seconda parte di questo secolo, che queste soppressioni e queste omissioni furono effettuate secondo un disegno, in ragione dell’odio caratterizzato da queste dottrine che è stata la caratteristica costante della vostra Chiesa, cosa possiamo rimproverare alla conclusione di Leone XIII , secondo la quale il vostro ordinale non può essere considerato come un rito che implica nettamente la trasmissione del sacerdozio ordinato al sacrificio e che non si possa dunque trattare di un rito istituito per attendere validamente a questo scopo?” (Il Cardinal arcivescovo e i Vescovi della Provincia di Westminster, A Vindication of the Bull Apostolicae Curae, Londra, 1898, pag. 78).

Un gesuita, il padre Francis Woodlock, porta sul nuovo ordinale e il servizio di comunione del 1552 un giudizio che riassume eccellentemente ciò che fu il fine ultimo del processo rivoluzionario di cui abbiamo schizzato le grandi linee nel corso dei capitoli precedenti: “Comparate la messa e l’ordinale cattolico con il servizio di comunione e l’ordinale anglicano e voi vi troverete quaranta passaggi comportanti una soppressione; queste soppressioni concernenti sempre la presenza reale o il sacrificio della messa. Prendeteli tutti e due e comparateli voi stessi: non potrete non vedere ciò che è accaduto. La dottrina cattolica della presenza reale e del sacrificio è stata eliminata con un’attenzione grande come quella con cui nel corso di una operazione chirurgica il chirurgo estirpa un tessuto canceroso. Cranmer compie cosi’ bene il suo dovere che il suo ordinale si presenta, nel suo contesto storico, come un ordinale mutilato con uno scopo preciso: eliminare dalla Chiesa riformata d’Inghilterra il sacerdozio istituito per il sacrificio. Eliminandolo, era la funzione prima del sacerdozio che sopprimeva in questa Chiesa; di conseguenza, a giudizio della Chiesa cattolica, i ministri anglicani di oggi non sono dei veri preti.
“Il vescovo Ryle, vescovo (anglicano) di Liverpool, esprimeva l’esatta verità quando dichiarava: “Nella nostra Chiesa, i riformatori trovarono il sacrificio della messa. Lo rigettarono come favola blasfema e pericolosa superstizione, e diedero alla cena del Signore il nome di servizio di comunione. Nella nostra Chiesa i riformatori trovarono gli altari; ne ordinarono la distruzione, fecero scomparire completamente la parola altare dal nostro Prayer Book e non parlarono più che della tavola del Signore e della cena del Signore.
“Nel nostro clero, i riformatori trovarono dei preti che offrivano il sacrificio; ne fecero dei ministri incaricati della preghiera e della predicazione, dei ministri della parola di Dio e dei sacramenti.
Nella nostra Chiesa, i riformatori trovarono la dottrina di una presenza reale e corporale di Cristo nella cena del Signore sotto le apparenze del pane e del vino; diedero la loro vita per opporvisi. Non lasciarono nemmeno sussistere nel nostro Prayer Book l’espressione di presenza reale” (F. Woodlock, The Reformation and the Eucharist, Londra, 1927, pp. 50-51).

Ecco ciò che scriveva il vescovo anglicano Knox: “Alla lettura dell’ordinale romano, nessuno può dubitare che sia impregnato dell’intenzione di ordinare dei preti destinati ad offrire un sacrificio.
Nessuno, alla lettura dell’ordinale anglicano, può immaginare di avere un simile obiettivo.
Dalla prima all’ultima riga, non contiene una sola parola che evochi il sacrificio. Allo stesso modo, nel rito della consacrazione di un vescovo, non si trova una sola parola che lasci intendere che i vescovi debbano ordinare dei preti incaricati di offrire un sacrificio” (ibid., pag. 51).
Quando l’Inghilterra si trovò di nuovo unita alla Santa Sede sotto il regno di Maria Tudor e che il cardinal Pole venne in questo paese in qualità di legato del papa, dovette occuparsi del problema pastorale urgente che ponevano i vescovi e i preti ordinati nello scisma e che desideravano esserne assolti ed esercitare il loro ministero in qualità di vescovi o preti cattolici. Il problema cruciale era sapere se gli ordini che avevano ricevuto fossero o no validi. Il papa Paolo IV regolò la questione nella sua bolla Preclara carissimi (1555) e in un breve pubblicato nello stesso anno. Il papa decise che coloro che erano stati ordinati preti o vescovi con il pontificale di Sarum, fosse ciò da vescovi scismatici, lo erano stati validamente e che bastava assolverli dallo scisma. Coloro che erano stati ordinati con l’ordinale di Cranmer erano sempre dei laici e se, dopo averi assolti dallo scisma, si doveva permettere loro di esercitare un ministero sacerdotale o episcopale bisognava conferire loro l’ordinazione. Il giudizio del papa Paolo IV fu confermato dal papa Leone XIII nel 1896, dopo un’indagine prolungata e imparziale nel corso della quale gli anglicani che credevano alla validità dei loro ordini intesi nel senso cattolico del termine ebbero tutta la possibilità di esporre il loro punto di vista presso la commissione pontificia.
Il giudizio del papa secondo cui “le ordinazioni conferite secondo il rito anglicano sono state e sono assolutamente vane e veramente nulle”, è irrevocabile, così come il papa fece sapere in una lettera indirizzata al cardinal Richard, arcivescovo di Parigi, lettera nella quale diceva che la questione era stata “definitivamente regolata e che la conclusione era senza appello”. Questo giudizio possiede la qualità di fatto dogmatico, ed è dunque infallibile.

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Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (10)

La Riforma liturgica inglese, quella di Cranmer, volta a rendere protestante l'Inghilterra, fu condotta con la motivazione di rendere la Messa più comprensibile e accettabile ai fedeli, di renderla “più partecipata” (è sempre questa la scusa!), peccato che i fedeli, il popolo non ne volle sapere! Non vollero cambiare la Messa e si opposero con una forza di convinzione impressionante. Fu il popolo ad obbligare anche i sacerdoti a resistere, e non viceversa; fu l'insistenza dei fedeli a far ritornare alla vera Messa i preti che obbedienti alle direttive del governo avevano già iniziato a celebrare nel nuovo rito. Iniziamo una serie di citazioni dal libro di M.Davies che ben documenta la resistenza popolare alla riforma della Messa, che arriverà fino al martirio.



La nuova messa, o servizio della santa cena, divenne obbligatoria il 9 giugno 1549, domenica di Pentecoste. “Nella contea di Oxford, il clero rifiutò di adottare il nuovo libro di preghiera e, nel corso dei disordini che segnarono questo periodo, molti dei suoi membri furono messi a morte per ribellione” (M. Powicke, The Reformation in England, Oxford, 1953, p. 81).
Questa nuova messa in inglese aveva per obiettivo il promuovere la partecipazione attiva dei fedeli alla liturgia; ma il genere di attività che suscitò dalla parte della detta assemblea non fu esattamente quella che attendeva Cranmer; questo fu particolarmente vero nel villaggio sperduto di Sampford Courtenay, non lontano da Okehampton, sulle pendici dello Dartmoor, nel Devon. Ancora oggi, con una popolazione che non supera le cinquecento anime che contava già nel 1549, il villaggio sembra essere stato dimenticato dal tempo.
La chiesa parrocchiale, dedicata a Sant’Andrea, è molto bella; le alte campanelle della sua torre sono attaccate da un licheno arancione che dona sempre al suo colore una certa luminosità. Benché la chiesa sia situata in un vallone, la sua torre maestosa si vede pressoché da tutti i punti della parrocchia.
La domenica di Pentecoste, obbedendo all’autorità, il parroco del luogo, William Harper, di settant’anni, utilizzò il nuovo rito. I preti erano passibili di severa pena se rifiutavano di fare uso del libro.
“Il 21 gennaio 1549, il Prayer Book era stato adottato dalle due camere del Parlamento. Il 4 marzo, era approvato dal re. Ormai, ogni prete che avesse rifiutato di adottare il libro sarebbe stato condannato a pagare una multa corrispondente alla rendita del suo beneficio per un anno; la seconda volta avrebbe perso definitivamente tutte le sue rendite beneficiali e sarebbe stato condannato ad un anno di prigione; la terza infrazione sarebbe stata punita con l’ergastolo.
Quanto ai laici, chiunque avesse criticato il libro o avesse trovato un prete per celebrare un’altra forma di culto avrebbe pagato una multa fissata secondo una tariffa progressiva; alla terza infrazione, tutti i suoi beni sarebbero stati confiscati” (P. Caraman, The Western Rising – 1549,Devon 1994, pp. 24-25 ).
Sir Maurice Powicke ha riassunto molto bene in una frase quali furono le conseguenze della legge: “Mentre l’Atto dei Sei Articoli prevedeva di perseguire i novatori, sotto il regime dell’Atto del 1549 sarebbero stati perseguitati coloro che resistevano alle innovazioni e restavano ostinatamente fedeli ai libri e alle pratiche in uso da tempo immemorabile” (Powick, p. 86).

Come cattolici obbedienti, i parrocchiani di Messer Harper erano presenti alla chiesa di Sant’Andrea la prima volta che fu celebrato in questo luogo santo un altro rito eucaristico al posto della messa latina immemorabile. I fedeli ascoltarono il nuovo servizio; ne parlarono tra di loro e, nel corso della loro discussione, constatarono che non piaceva loro. Il lunedì di Pentecoste, sotto la guida del sarto del villaggio, Thomas Underhill, un certo numero di parrocchiani fecero la loro entrata nella sacrestia dove il curato era occupato a rivestirsi dei paramenti; gli domandarono in quale rito stava per celebrare: Per obbedire alla legge in vigore, devo utilizzare il nuovo servizio, rispose: Voi non farete nulla! gridò Underhill (F. Rose- Troup, The Western Rebellion, Londra 1913, p.133).

E gli uomini di Sampford Courtenay per impedire a Messer Harper di utilizzare una seconda volta il nuovo ufficio, gli fecero sapere che erano risoluti nel conservare la fede dei loro padri. Su questo, arrivarono altri paesani, che insistettero tutti perché il prete si servisse dell’antico messale, “e dica la messa a cui erano stati abituati per tutta la loro vita” (J. Cornwall, Revolt of Peasantry-1549, Londra 1977, p.65). Messer Harper “si inchinò davanti alla loro volontà; ed ecco che si riveste subito dei suoi vecchi fronzoli papisti e dice la messa e tutti gli uffici come era abituato a fare prima” (Rose-Troup, p.134).

L’insurrezione dell’Ovest fu ciò che si chiamerebbe oggi una “reazione della base” contro la nuova messa in inglese. Quando si scopre con quale sollecitudine Messer Harper, come la più gran parte del clero, adottò il nuovo rito, la reazione del Consiglio del re non può che suscitare l’ironia: essa incolpa ai preti la responsabilità dell’insurrezione delle regioni dell’Ovest, e parla dello “spirito e delle intenzioni demoniache” con le quali incitavano il popolo, “in confessione e con altri mezzi , a disobbedire con ostinazione alle decisioni del re in materia di religione” (P. Caraman, p.19) . La notizia del ritorno dell’antica messa si diffuse come un fulmine nelle parrocchie vicine, dove gli uomini cominciarono a unirsi a Sampford Courtenay. Pieno di buone intenzioni, un gentiluomo del luogo, Sir Hugh Pollard, di King’s Nympton, se ne venne a cavallo fino al villaggio nella speranza di persuadere i parrocchiani nell’accettare il nuovo servizio prima che la loro protesta arrivasse ad un punto tale da rendere inevitabile l’intervento dei difensori della legge. Ma i paesani non erano dell’umore di accettare un compromesso: “Indovinarono senza problemi ciò che Pollard aveva in testa: richiamarli a restare calmi e ad evitare ogni azione inconsiderata, a dare fiducia ai “signori”, ai gentlemen, e al governo che, nella sua saggezza, aveva prescritto una forma del culto più adatta allo spirito dei tempi che l’antico rito in latino; essendo uomini di buon senso, avrebbero finito per accettare, se solamente avessero voluto veramente farne prova leale; voleva ricordare loro infine il loro vassallaggio al re e le terribili conseguenze che avrebbe portato la ribellione. Ma i paesani avevano già preso il loro partito ed erano decisi a non lasciarsi incantare da belle parole” (J. Cornwall, p. 66).

I giudici di pace del luogo vennero a fare delle rimostranze ai paesani; senza successo.
Sapendo del loro arrivo, i capi dei paesani si consultarono; erano “così impegnati e completamente ancorati nella loro folle posizione che decisero senza esitare di perseverare nella loro impresa colpevole” (Rose-Troup, p. 134). Un gentiluomo di nome William Hellyons mancò talmente di tatto che nel momento in cui lasciò la canonica, mentre era ancora sulle scale, un fattore di nome Lithibridge lo colpì al collo con la sua roncola; “ed ecco che subito, senza ascoltare le sue suppliche e i suoi lamenti, diversi altri si precipitano su di lui, lo uccidono e lo fanno a pezzi”. Fu il primo sangue versato nel Devon.
Messer Harper fece seppellire le spoglie mortali di Hellyons, ma diede ordine di inumarle non alla maniera tradizionale, est-ovest, ma nella posizione nord-sud, per significare bene che era eretico e dunque bandito dalla Chiesa (1Rose-Troup, pp.135-136). La gente dell’Ovest non era affatto dell’umore per discutere; a dire il vero, non avevano affatto la competenza necessaria per farlo. Nel più profondo di loro stessi, sapevano che ciò che difendevano era buono e che quello toccava le loro radici più profonde e il loro destino eterno. Le persone istruite potevano sminuirle e loro non se ne privavano.
Cranmer poteva schernirli; non vi mancò affatto. Ma non sono sempre coloro che possono avanzare gli argomenti più eloquenti per difendere la loro causa che hanno ragione.
La notizia si diffuse “come nuvola spinta da un vento violento e come un colpo di tuono che si sarebbe sparso in tutto il paese; e il popolo ne fu così contento e lasciò così libero corso alla sua gioia, che lo si applaudì e che, con un’anima sola, si decise di agire allo stesso modo in ognuna delle diverse parrocchie” (Rose-Troup, p.136). Essi “agirono allo stesso modo”, in effetti e la messa tradizionale fu ristabilita nelle parrocchie del vicinato.
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24/05/2010 20:01

Michael Davies: cambiare il rito per cambiare la fede (11)

Continuiamo a riferire della rivolta popolare scoppiata in Inghilterra in seguito alla riforma liturgica. M. Davies, uno dei più grandi storici inglesi, nel suo “La riforma liturgica anglicana”, poggiandosi a documenti inoppugnabili, spiega come la rivolta fu popolare, e per motivi puramente religiosi. I fedeli chiedevano che fosse lasciata intatta la loro fede cattolica, che non si procedesse a novità che la snaturavano in campo liturgico, e solo a questa condizione avrebbero rispettato l'autorità stabilita. I rappresentanti della corona, primo fra tutti Cranmer e poi Somerset e altri, non potevano sopportare che una riforma, che a loro dire era stata fatta per “liberare” il popolo da uno stato di inferiorità nel culto, fosse proprio rifiutata dal popolo stesso. Per questo si procedette con la reazione violenta: se il popolo non accetta la riforma liturgica volentieri, dovremo obbligarlo con la minaccia. É uno schema ricorrente in ogni rivoluzione: parlare in nome del popolo, senza il popolo... I fedeli che si opposero a questo regime di terrore capirono bene che era in gioco la fede cattolica e dunque la salvezza eterna... per questo esposero la vita al pericolo... lo capirono prima i fedeli e meglio di molti ecclesiastici e nobili...


La prima reazione del Protettore, Somerset, fu di tentare una soluzione pacifica: nello stesso tempo sia perché era più incline alla conciliazione che al conflitto, sia perché riconosceva che se ci fosse stata una rivolta armata, che costituiva una minaccia per il potere reale, avrebbe portato un colpo severo alla sua credibilità. “Aveva creduto che una insurrezione religiosa era impossibile, spiega J. A. Froude. Era persuaso che, nella loro stragrande maggioranza, le persone sarebbero state favorevoli ai cambiamenti che introduceva” (J.A.Froude, The Reign of Edward VI, Londra 1926, p. 102). Sir Gawen Carew e suo nipote, Sir Peter, che apparteneva ad una delle più antiche famiglie del Devon, furono inviati sul posto, portanti delle istruzioni redatte da Somerset in persona; queste istruzioni davano loro come missione di ricercare la conciliazione. Sir Peter aveva acquisito una grande esperienza nel corso delle sue campagne militari in Europa. In un proclama redatto da Somerset, ma fatto in nome del re, si doveva dire ai ribelli: “Vogliamo ben considerare che ciò che è stato fatto fin qui lo è stato fatto per ignoranza più che per malizia e per l’istigazione di alcune persone irriflessive e indisciplinate più che per una cattiva volontà dei nostri sudditi affezionati a nostro riguardo e nei confronti degli atti che noi abbiamo compiuto. Di conseguenza, alla domanda di diversi gentiluomini, che hanno presentato un’umile richiesta in loro favore e conformemente all’opinione espressa qui sopra, abbiamo perdonato e per il presente perdoniamo tutti i detti spregi ed errori commessi fino ad ora. Così, i detti offensori non saranno mai né infastiditi, né cacciati, in seguito, per le offese già commesse e passate, a condizione che, d’ora in avanti, si comportino a nostro riguardo come conviene a sudditi affezionati e obbedienti, sottomettendosi alle leggi e ordinanze in materia di religione adottate nel nostro Parlamento e, dalla nostra autorità, promulgate e pubblicate. Ciò che noi desideriamo che voi promulghiate e facciate sapere in conseguenza, mandanti e ingiungenti, a tutti e a ciascuno tra voi, che ogni persona che tenterà incontinente di opporsi o di resistere alle nostre disposizioni in materia di religione nelle leggi affermate da noi e dal nostro Parlamento, che sia assembrandosi o riunendosi in compagnie o altrimenti, voi la comunichiate e che vegliate a che le nostre leggi siano debitamente e strettamente eseguite verso e contro tutt igli oppositori, come si deve” (F. Rose-Troup, The Western Rebellion, Londra 1913, pp. 140-141). Il 21 giugno, i ribelli avevano occupato la piccola città di Crediton, situata a circa otto miglia da Exeter; era chiaro che si rafforzavano, nell’intenzione di marciare sulla città. Carew andò loro incontro, a cavallo, accompagnato da circa duecento uomini, “per conferire e parlare con questi plebei … supponendo e convinto, alla volta, che con delle buone parole e degli amabili colloqui avrebbe potuto ammansire e persuadere i detti plebei” (J. Cornwall, Revolt of Peasantry-1549, Londra 1977, p. 74). Ma “buone parole e amabili colloqui” erano contrari all’inclinazione naturale di Carew quando aveva a che fare con dei paesani.
“Protestante di convinzioni estreme, era incapace di rendersi conto della profondità del loro attaccamento alla fede papista e non erano per lui che degli zoticoni” (Ibid, p. 75). Furioso del rifiuto dei ribelli, che non acconsentivano nemmeno ad ascoltarlo, si lanciò su di loro senza più aspettare e, dopo aver cominciato ad indietreggiare, li obbligò ad uscire dalla città dando fuoco alla paglia dei granai da dove avevano aperto il fuoco sulla sua truppa. La vittoria di Carew fu una falsa vittoria. Aveva preso una città; ma era una città deserta, dove non restava che un pugno di anziani.
“Certo, la battaglia era stata vinta, ma poiché non restava più nessuno a cui parlare, non aveva niente d’altro da fare che ritornarsene a Exeter “senza aver guadagnato nulla … lasciando tutto, almeno lui pensava, quasi calmo”. Non si lanciò alcun inseguimento, in parte perché arrivava la notte, in parte anche perché si pensava che dopo quello i paesani sarebbero rientrati nelle loro case tutti mogi e che non avrebbero osato tornare a battersi con i gentlemen. Carew non poteva sbagliarsi più di così. Gli insorti erano stati dispersi; non erano stati calmati o puniti. Le fiamme di Crediton appiccarono il fuoco a tutta la contea. La notizia fu “al gran galoppo, in un istante, si potrebbe dire, propagata e ripercossa in tutta la regione” (Ibid, p. 76.)

Quel giorno era giorno di festa e Sir Walter Raleigh, di Budleigh Salterton, il padre del celebre cavaliere con lo stesso nome, andava a cavallo attraverso il piccolo villaggio di Clyst Saint Mary, a due miglia da Exeter, quando incontrò una donna anziana che recitava il suo rosario recandosi alla messa. La ammonì severamente, dicendole che non doveva più lasciarsi andare a simili scemenze;i tempi cambiavano; la legge era cambiata, ella doveva vivere come una cristiana, se no se ne sarebbe potuta pentire. La povera vecchia fu atterrita e, quando arrivò alla chiesa, interruppe la messa, urlando che il rosario e tutte le altre tradizioni antiche dovevano essere ora abbandonate: “Tutto questo, è finito per noi, o bisogna che finisca, oppure questi signori verranno a bruciare le vostre case al di sopra delle vostre teste” (J.A.Froude, p.105). La notizia dei granai bruciati di Crediton donò alla sua storia tutta la voluta credibilità.
I paesani si precipitarono fuori della Chiesa. Alcuni tagliarono degli alberi e drizzarono una barricata sulla strada di Exeter; altri corsero fino a Topsham per andare a cercare dei cannoni sui vascelli che erano ormeggiati. In cammino, incontrarono Raleigh, lo catturarono, lo picchiarono a sangue e, se non fosse stato per l’intervento di alcuni marinai lo avrebbero messo a morte.
La notizia di ciò che era accaduto a Clyst giunse rapidamente ai Carew a Exeter; il giorno dopo, che era una domenica, si recarono sul posto con una loro truppa e trovarono il ponte occupato da un cannone che sarebbe stato “sparato su Sir Peter in rappresaglia per la religione e per i granai di Crediton”, se l’addetto al pezzo non fosse stato trattenuto dai suoi compagni. I paesani non avevano alcuna fiducia nei Carew, ma autorizzarono un magistrato municipale di Exeter ad entrare nel villaggio per ascoltare le loro lamentele.
Questi spiegò loro la proposta di grazia, concessa con la sola condizione che accettassero di utilizzare il Prayer Book; le negoziazioni proseguirono tutto il giorno, senza che i ribelli facessero una sola concessione. I paesani promisero di mettere fine alla loro ribellione a condizione che “il re e il Consiglio non modifichino la loro religione, ma la lascino esistere, immodificata, nello stato in cui l’aveva lasciata il re Enrico e fino a quando il re stesso sia giunto alla sua maggiore età” (F. Rose-Troup, p.150), significando così chiaramente che il solo motivo della loro ribellione era la difesa della fede tradizionale. A Exeter, Sir Peter attese tutta la giornata, soffocando l’indignazione e pestando i piedi per l’impazienza; la sera, raddoppiò di furore quando si venne ad informarlo che non ci sarebbe stata pace nel Devon se la religione non fosse stata lasciata nello stato in cui si trovava alla morte di Enrico VIII.
“Folle dalla rabbia, Sir Peter trattò gli abitanti della città da traditori e vigliacchi. Sarebbe andato a prendere l’esercito della contea, diceva, a chiamare a combattere con lui ogni gentiluomo leale e a correggere questi cani di ribelli per ricondurli alla ragione. Venuta la mattina, si rese conto che la cosa era più facile a dirsi che a farsi. Dal Tamar arrivarono diecimila convogli schierati in ordine di marcia. Le strade intorno a Exeter erano interrotte, Walter Raleigh era di nuovo prigioniero e dappertutto i membri della gentry, temendo per la loro vita, correvano a nascondersi “nei boschi o nelle grotte”. Non gli restava altro che fuggirsene e avvisare Russell. Il Sindaco e i suoi magistrati municipali,pur detestando vivamente quanto i ribelli i cambiamenti che colpivano la religione, promisero di conservare la città al re fino a quando avessero di che assicurare la sopravvivenza degli abitanti. Prendendo dei cammini nascosti e dei sentieri, Carew guadagnò il Somerset” ( J.A. Froude, p. 105).

continua...
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