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Cordoglio e Omelia del Papa nella Cappella Papale per le esequie del Cardinale Paul Augustin Mayer

Ultimo Aggiornamento: 04/05/2010 12:05
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A maggio avrebbe compiuto novantanove anni

Il cordoglio del Pontefice per la morte del cardinale Mayer




Il cardinale benedettino tedesco Paul Augustin Mayer è morto venerdì mattina, 30 aprile, a Roma. Appresa la notizia il Papa si è raccolto in preghiera. Quindi ha inviato il seguente telegramma di cordoglio all'abate primate dei Benedettini confederati Notker Wolf.

La notizia della pia dipartita del venerato cardinale Paul Augustin Mayer suscita nel mio animo affettuoso rimpianto e desidero esprimere sentimenti di vivo cordoglio a lei all'intera famiglia benedettina ed ai congiunti del caro porporato che lascia il ricordo indelebile di una operosa esistenza spesa con mitezza e rettitudine nell'adesione coerente alla propria vocazione di monaco e di pastore pieno di zelo per il vangelo e sempre fedele alla Chiesa. Nel ricordarne il qualificato impegno nell'ambito liturgico e in quello delle università e dei seminari e specialmente l'apprezzato servizio alla Santa Sede prima nella commissione preparatoria del concilio Vaticano secondo poi in diversi dicasteri della curia romana innalzo fervide preghiere di suffragio perché il Signore accolga questo benemerito fratello nel gaudio e nella pace eterna. Con tali sentimenti invio a lei ai confratelli ed a quanti piangono la scomparsa di così generoso discepolo di Cristo la confortatrice Benedizione Apostolica.

BENEDICTUS PP. XVI

Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha inviato analogo telegramma di cordoglio.
 

(©L'Osservatore Romano - 1 ° maggio 2010)
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CAPPELLA PAPALE PER LE ESEQUIE DELL’EM.MO CARD. PAUL AUGUSTIN MAYER, O.S.B., 03.05.2010

OMELIA DEL SANTO PADRE

Venerati Fratelli,
illustri Signori e Signore,
cari fratelli e sorelle!

Anche per il nostro amato Fratello Cardinale Paul Augustin Mayer è giunta l’ora di partire da questo mondo. Egli era nato, quasi un secolo fa, nella mia stessa terra, precisamente ad Altötting, dove sorge il celebre Santuario mariano a cui sono legati tanti affetti e ricordi di noi bavaresi. Così è il destino dell’esistenza umana: fiorisce dalla terra – in un punto preciso del mondo – ed è chiamata al Cielo, alla patria da cui misteriosamente proviene. “Desiderat anima mea ad te, Deus” (Sal 41/42,2). In questo verbo “desiderat” c’è tutto l’uomo, il suo essere carne e spirito, terra e cielo. E’ il mistero originario dell’immagine di Dio nell’uomo. Il giovane Paul – che poi da monaco di chiamerà Augustin Mayer – studiò questo tema negli scritti di Clemente Alessandrino, per il dottorato in teologia. E’ il mistero della vita eterna, deposto in noi come un seme fin dal Battesimo, e che chiede di essere accolto lungo il viaggio della nostra vita, fino al giorno in cui riconsegniamo lo spirito a Dio Padre.

“Pater, in manus tuas commendo spiritum meum” (Lc 23,46). Le ultime parole di Gesù sulla croce ci guidano nella preghiera e nella meditazione, mentre siamo raccolti attorno all’altare per dare l’estremo saluto al nostro compianto Fratello. Ogni nostra celebrazione esequiale si colloca sotto il segno della speranza: nell’ultimo respiro di Gesù sulla croce (cfr Lc 23,46; Gv 19,30), Dio si è donato interamente all’umanità, colmando il vuoto aperto dal peccato e ristabilendo la vittoria della vita sulla morte. Per questo, ogni uomo che muore nel Signore partecipa per la fede a questo atto di amore infinito, in qualche modo rende lo spirito insieme con Cristo, nella sicura speranza che la mano del Padre lo risusciterà dai morti e lo introdurrà nel Regno della vita.

“La speranza poi non delude – afferma l’apostolo Paolo scrivendo ai cristiani di Roma –, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). La grande e indefettibile speranza, fondata sulla solida roccia dell’amore di Dio, ci assicura che la vita di coloro che muoiono in Cristo “non è tolta, ma trasformata”; e che “mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo” (Prefazio dei Defunti I).

In un’epoca come la nostra, nella quale la paura della morte getta molte persone nella disperazione e nella ricerca di consolazioni illusorie, il cristiano si distingue per il fatto che pone la sua sicurezza in Dio, in un Amore così grande da poter rinnovare il mondo intero. “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5), dichiara – verso la fine del Libro dell’Apocalisse – Colui che siede sul trono. La visione della nuova Gerusalemme esprime il realizzarsi del desiderio più profondo dell’umanità: quello di vivere insieme nella pace, senza più la minaccia della morte, ma godendo della piena comunione con Dio e tra di noi.

La Chiesa e, in particolare, la comunità monastica, costituiscono una prefigurazione sulla terra di questa meta finale.
E’ un anticipo imperfetto, segnato dai limiti e dai peccati, e dunque bisognoso sempre di conversione e purificazione; e, tuttavia, nella comunità eucaristica si pregusta la vittoria dell’amore di Cristo su ciò che divide e mortifica. “Congregavit nos in unum Christi amor” – “L’amore di Cristo ci ha raccolti nell’unità”: questo è il motto episcopale del nostro venerato Fratello che ci ha lasciato. Come figlio di san Benedetto, egli ha sperimentato la promessa del Signore: “Chi sarà vincitore erediterà questi beni; / io sarò suo Dio ed egli sarà mio figlio” (Ap 21,7).

Formatosi alla scuola dei Padri Benedettini dell’Abbazia di San Michele a Metten, nel 1931 emise la professione monastica. Per tutta la sua esistenza, egli ha cercato di realizzare quanto san Benedetto dice nella Regola: “Nulla si anteponga all’amore di Cristo”. Dopo gli studi a Salisburgo e a Roma, intraprese una lunga e apprezzata attività di insegnamento nel Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, dove divenne Rettore nel 1949 ricoprendo questa carica per 17 anni. Proprio in quel periodo venne fondato il Pontificio Istituto Liturgico, che è diventato un punto di riferimento fondamentale per la preparazione dei formatori nel campo della Liturgia. Eletto, dopo il Concilio, Abate della sua amata Abbazia di Metten, ha ricoperto tale incarico per 5 anni, ma già nel 1972 il Servo di Dio Papa Paolo VI lo nominò Segretario della Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari e volle personalmente consacrarlo Vescovo il 13 febbraio 1972.

Durante gli anni di servizio in questo Dicastero, promosse la progressiva attuazione delle disposizioni del Concilio Vaticano II riguardo alle famiglie religiose. In questo particolare ambito, nella sua qualità di religioso, ebbe modo di dimostrare una spiccata sensibilità ecclesiale e umana. Nel 1984 il Venerabile Giovanni Paolo II gli affidò l’incarico di Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, creandolo poi Cardinale nel Concistoro del 25 maggio 1985 e assegnandogli il Titolo di sant’Anselmo all’Aventino. In seguito, lo nominò primo Presidente della Pontificia Commissione “Ecclesia Dei“; ed anche in questo nuovo e delicato incarico il Cardinale Mayer si confermò zelante e fedele servitore, cercando di applicare il contenuto del suo motto: “L’amore di Cristo ci ha raccolti nell’unità“.

Cari Fratelli, la nostra vita è in ogni istante nelle mani del Signore, soprattutto nel momento della morte. Per questo, con la confidente invocazione di Gesù sulla croce: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”, vogliamo accompagnare il nostro Fratello Paul Augustin, mentre compie il suo passaggio da questo mondo al Padre. In questo momento il mio pensiero non può non andare al Santuario della Madre delle grazie di Altötting. Spiritualmente rivolti a quel luogo di pellegrinaggio, affidiamo alla Vergine Santa la nostra preghiera di suffragio per il compianto Cardinale Mayer. Egli nacque presso quel Santuario, ha conformato la sua vita a Cristo secondo la Regola benedettina, ed è morto all’ombra di questa Basilica Vaticana.

La Madonna, san Pietro e san Benedetto accompagnino questo fedele discepolo del Signore nel suo Regno di luce e di pace. Amen.

© Copyright 2010 – Libreria Editrice Vaticana

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Pope Benedict XVI (R) prays during the funerals of Bavarian Cardinal Augustin Mayer on May 3, 2010 at St Peter's basilica at The Vatican. Mayer, who was the oldest living cardinal died on April 30 at the age of 98.
Pope Benedict XVI (R) prays behind the coffin during the funerals of Bavarian Cardinal Augustin Mayer on May 3, 2010 at St Peter's basilica at The Vatican. Mayer, who was the oldest living cardinal died on April 30 at the age of 98.
Pope Benedict XVI (C) arrives for the funerals of Bavarian Cardinal Augustin Mayer on May 3, 2010 at St Peter's basilica at The Vatican. Mayer, who was the oldest living cardinal died on April 30 at the age of 98.
Pope Benedict XVI (C) stands behind the coffin during the funerals of Bavarian Cardinal Augustin Mayer on May 3, 2010 at St Peter's basilica at The Vatican. Mayer, who was the oldest living cardinal died on April 30 at the age of 98.
Pope Benedict XVI (C) blesses the coffin during the funerals of Bavarian Cardinal Augustin Mayer on May 3, 2010 at St Peter's basilica at The Vatican. Mayer, who was the oldest living cardinal died on April 30 at the age of 98.
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E nel 2000 il porporato si raccontò in un'intervista mai pubblicata

Il destino cambiato da un viaggio


di Andrea Monda


Ho incontrato il cardinale Paul Augustin Mayer dieci anni fa, l'11 settembre del 2000 e ricordo benissimo ancor oggi l'austerità della sua figura che trasmetteva fisicamente un senso forte di ieraticità, spiritualità. La sua stessa corporatura magra, affusolata, elegante si stagliava per oltre un metro e novanta e, grazie anche a un volto scarno e due occhi celesti, severi, finiva inevitabilmente con l'incutere un forte senso di rispetto e di timore. In realtà era un uomo dolce e disponibilissimo che riceveva gli ospiti con una gentilezza e cortesia di altri tempi. E di altri tempi erano anche i suoi primi ricordi...

Iniziamo dai ricordi.

Dal 1913 al 1915 abitavamo a Salisburgo. Una delle prime cose che ricordo è l'agitazione che regnava in casa nostra il giorno del mio terzo onomastico, il 29 giugno 1914:  il giorno prima era stato assassinato l'arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo. Nei momenti difficili della guerra, qualche volta mia madre ci diceva, a me e ai miei fratelli:  "Poveri bambini! Non avrete mai quello che noi abbiamo avuto!". Si riferiva alla pace e alla prosperità che noi, cresciuti sotto la guerra, non avevamo potuto conoscere. Quando ero piccolo in Baviera c'era ancora il Re. Ricordo ancora la casa dei miei e quando, d'estate, andavamo a Konigsee, il "Lago del Re", la "perla" della Baviera, un bellissimo lago al confine con l'Austria. A quell'epoca c'era una grande senso della famiglia, del rispetto per i più grandi. C'era un forte senso della gratitudine. E le feste liturgiche erano molto vissute. Il mondo era diverso, pochissimi avevano l'automobile e la bicicletta era il mezzo più diffuso. Ricordo passeggiate bellissime sulle Alpi, poi, quando ero nel collegio dell'abbazia di Metten, nella foresta bavarese, alla frontiera con l'allora Cecoslovacchia; nel Danubio nelle domeniche pomeriggio, andavamo a nuotare. C'era un'isola nel fiume che raggiungevamo in canoa per poi fare delle solenni merende. Mio padre, ufficiale dell'esercito bavarese, avrebbe desiderato un figlio ufficiale ma né io né mio fratello lo esaudimmo (e mio padre non ce lo chiese mai direttamente). Anzi, quando morì, nel gennaio del 1927 (io avevo 15 anni e avevo già fatto capire le mie intenzioni:  ero solo indeciso tra i benedettini e i gesuiti), sul letto di morte mi disse:  "Entra tra i benedettini".

 Lei ha vissuto la sua giovinezza nella Germania tra le due guerre:  come ricorda quel periodo?

All'inizio degli anni venti l'inflazione arrivò a livelli altissimi:  ricordo che affrancai una lettera con un francobollo da 20 miliardi di marchi, il valore del denaro era polverizzato, lo Stato pagava il suo debito emettendo titoli e cambiali che non poteva onorare. Ricordo che i miei genitori vendevano l'argento e le posate più preziose:  con la pensione mio padre non arrivava a metà del mese. A metà degli anni venti sembrò esserci un certo risveglio economico, però presto distrutto dalla crisi finanziaria del venerdì nero della borsa di New York dell'ottobre 1929. La vita era molto più povera di adesso. Anche la disoccupazione era una piaga ancora peggiore di oggi:  nel dicembre 1932, a pochi mesi dall'avvento di Hitler, in Germania, rispetto ai quasi 60 milioni di abitanti, c'erano ben sei milioni di disoccupati e non esistevano all'epoca gli ammortizzatori sociali oggi esistenti. Durante la guerra 1914-1918 e anche nel primo dopoguerra tutto, dai viveri ai beni primari, veniva acquistato con le tessere annonarie. Il latte si poteva comprare direttamente dai contadini, ma già le uova dovevano essere consegnate dai contadini agli uffici annonari. Ricordo infatti che da piccolo una volta riuscii a prendere delle uova dai contadini ma per non farmi scoprire da un poliziotto incontrato sulla strada di ritorno nascosi le uova nel latte!

Ritorniamo alla sua vocazione...

Nel maggio del 1931, dunque avevo fatto la mia prima professione, nell'abbazia di san Michele a Metten. Nel dicembre del 1929 ero già venuto la prima volta a Roma per il cinquantesimo anniversario dell'ordinazione sacerdotale del Papa, Pio xi. Papa Ratti è stato un grande Papa, colto, intrepido e deciso, molto missionario:  ricordo che parlava anche il tedesco, anche se meno bene di Pacelli. A proposito di quella prima visita a Roma, c'è un episodio che mi è rimasto impresso nitidamente nella memoria. Era il 3 gennaio del 1930. Eravamo quattro giovani studenti del collegio di Metten:  Goessl, Kneissl, Engelmann ed io. Con il nostro ultimo denaro affittammo un taxi che da Roma ci portò a Montecassino. E le strade all'epoca non erano le stesse di oggi! Il viaggio fu lungo, pieno di tappe molto accidentate. Arrivammo all'abbazia e pregammo sulla tomba di san Benedetto. Come era bella l'abbazia prima della sua distruzione! Arrivati a Roma prendemmo un treno della notte e tornammo in Baviera, al collegio di Metten. Fu una "bravata" da ragazzi, ma forse cambiò il nostro destino:  tutti e quattro divenimmo benedettini, i chierici, nell'ordine, Placido, Corbiniano, Egberto e Augustin.

Nel volto impassibile dell'Abate Paul Augustin appare un piccolo (e contagioso) segno di commozione.

A Roma studiai teologia al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo sull'Aventino. All'epoca Roma era splendida, più piccola, senza le grandi periferie di oggi. La campagna era molto più vicina al centro rispetto a oggi. Ricordo che il 30 gennaio 1933, tornando a S. Anselmo da una escursione in campagna, al rientro in città vedemmo i volantini "Hitler Cancelliere!":  la nostra gioia si spense di colpo. L'Ateneo era un po' un'oasi dentro la città. Ricordo in particolare il clima teologico fortemente impregnato del ricorso continuo alla Sacra Scrittura, alla teologia dei Padri della Chiesa e dell'uso della liturgia come fonte per la teologia e la vita della Chiesa. La teologia di san Tommaso manteneva la sua importanza ma arricchita dalle dimensioni ora ricordate. Conoscemmo allora Jacques Maritain, Erik Peterson, Agostino Bea, Carlo Balic, Réginald Garrigou-Lagrange, Agostino Gemelli, Yves Congar, Hans Urs von Balthasar, Henri de Lubac, Jean Daniélou ed altri.

Ha conosciuto di persona questi grandi teologi?

Sì, in misura e in maniera assai varia. Ricordo in particolare la finezza di padre Garrigou-Lagrange, il suo modo di parlare in italiano e latino ma con lo spiccato accento francese. Ricordo poi un incontro, veramente insolito, con Erik Peterson. Era l'11 settembre 1943, la città di Roma la sera era stata occupata dalle truppe tedesche. Regnava una grande tensione, ovviamente. Quella mattina da Sant'Anselmo scesi al quartiere Testaccio in direzione di via Galvani, dove c'era l'istituto delle Suore presso il quale dicevo messa durante le vacanze estive. Ricordo un paracadutista tedesco che cercava di controllare la strada. Più tardi seguendo una marea di gente entrai nei Mercati Generali malmessi dal conflitto armato. Vicino a un mucchio di patate carbonizzate vidi una persona rovistare per cercare le patate ancora commestibili:  riconobbi il professore Peterson, che, nella fame di quel periodo voleva portare un po' d'aiuto alla sua famiglia.

Lei ha partecipato attivamente al concilio Vaticano ii?

Sì, ho lavorato come segretario della Commissione preparatoria, conciliare e post conciliare. La nomina mi pervenne come un fulmine dal ciel sereno nel luglio 1960 tramite una telefonata del cardinale Giuseppe Pizzardo, allora prefetto della Congregazione per i Seminari e le Università. La recentissima beatificazione ha ravvivato il ricordo del "Papa buono" che coraggiosamente annunciò la convocazione del concilio Ecumenico il 25 gennaio 1959 a San Paolo fuori le mura. Egli seguiva i lavori preparatori con grande interesse e incoraggiamento. Indimenticabile mi è rimasto un suo intervento personale in una sessione della nostra Commissione preparatoria, in cui si trattava della vocazione sacerdotale. Il Papa sottolineò che la sua vocazione era stata tutta personale, non influenzata da nessuno; ma d'altra parte essa era così trasparente che tutti dicevano di lui "Giovannino - pretino". "Ma non pensate perciò - egli aggiunse sorridente - che non avessi anch'io sentito delle difficoltà contro quella scelta. Il Talare da portare già nel Seminario minore avrebbe chiesto di manipolare trenta bottoni la mattina e trenta bottoni la sera. Che impresa!". Alquanto ottimista il Papa aveva pensato che il programma del Concilio si potesse assolvere in un'unica sessione dall'11 ottobre all'8 dicembre 1962. L'abbandono di questa speranza nell'estate 1962 era come il "fiat" con cui lasciò al suo successore la continuazione e conclusione della grande opera da lui iniziata.

Il cardinale si sofferma sulla questione della cosiddetta "ermeneutica del concilio".

Si è spesso parlato del concilio come significante una divisione netta tra un periodo buio, quello precedente, e la rifioritura successiva. Ma è uno schema fuori dalla storia. In realtà anche prima non è che fosse tutto "nero". Si è poi spesso sottolineato la presenza di grandi conflitti all'interno della assemblea conciliare. Certamente ci furono delle tensioni. C'erano diversità di opinioni ma si cercava sempre di trovare una sintesi valevole tra i tesori più preziosi della vita ecclesiastica passata e gli stimoli fondati da un'apertura non cieca ma ragionata ai segni dei tempi. Il documento "Optatam totius" fu approvato dai Padri conciliari alla prima lettura con una maggioranza superiore ai due terzi dei componenti. La sua definitiva approvazione plebiscitaria fu per me e per tutta la Commissione una grandissima gioia e ricordo che incontrandomi vicino alla piazza San Pietro con un Vescovo nostro membro ci abbracciammo e fermammo il traffico! La nostra un po' ingenua euforia ci aveva fatto dimenticare che la sorte di un testo conciliare dipende fortemente dalla serietà con la quale esso viene letto, assimilato e messo in pratica.

E che ricordo ha di Paolo VI?

Era un uomo profondamente spirituale, dotato di uno spirito di preghiera impressionante. Era interamente dedito, senza alcun risparmio, al proprio compito. Visse e governò la Chiesa in anni difficili. Dal punto di vista ecclesiale Montini era molto aperto a tutti gli sviluppi teologici, ecumenici e politici; quelli promettenti e quelli minacciosi. Lui che felicemente aveva concluso il concilio e che lo considerava un "grande dono", relativamente presto ebbe molto da soffrire per la mancata assimilazione all'interno della Chiesa. Cominciava allora il periodo dell'appello al cosiddetto "spirito del concilio", in forza del quale si evitava la vera cognizione, interpretazione ed attuazione  dei principi conciliari. Paolo VI, con "il cuore riempito d'amarezza", dovette constatare che dopo il concilio, invece dell'attesa giornata di sole è venuta una giornata di nuvole e di tempesta; fatto tanto più doloroso quanto i mali che affliggono la Chiesa, in gran parte non vengono da fuori ma dal di dentro".
Il cardinale si interrompe:  la televisione riprende in questo momento Giovanni Paolo II in diretta da Fátima. Chiedendomi scusa sua eminenza si accomoda davanti al video e rimane lì, assorto, nell'ascolto delle parole del Papa. Accanto a lui si siedono le due suore americane, materializzatesi silenziosamente così come erano scomparse un paio d'ore prima. Le tre figure sembrano non tanto guardare la televisione quanto pregare insieme al Papa. Mi rendo conto che la nostra discussione finisce qui e, sussurrando anch'io un impacciato "Buona sera", lascio l'austera abitazione del cardinale Paul Augustin Mayer e mentre saluto mi viene in mente una frase che qualche giorno prima mi aveva detto mio cugino Maurizio:  "Oggi la cosa più trasgressiva al mondo è recitare una preghiera".


(©L'Osservatore Romano - 3-4 maggio 2010)
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