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Le paure degli italiani

Ultimo Aggiornamento: 05/05/2010 23:15
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05/05/2010 19:55

La paura dello straniero e del diverso
"NOI" OCCIDENTALI IN VIAGGIO
FUORI DAL NOSTRO "IO"
In tutte le lingue indoeuropee, il termine che designa lo straniero racchiude contemporaneamente in sé l`intero repertorio delle accezioni semantiche dell`alterità, e cioè il forestiero, l`estraneo, lo strano, lo spaesato, il nemico e, come tutte le alterità, suscita un’ambivalenza di sentimenti che vanno dall’attrazione alla paura.

Nell’antica Grecia, ad esempio, si applicava una chiara distinzione categoriale tra lo straniero greco, lo xènos, e lo straniero non greco, il barbaros. L’estraneità del primo rispetto alla comunità di appartenenza era politica ma non etnico-culturale; anzi, il termine stesso designava sia lo straniero, sia l’ospite, un membro accolto e protetto dalla comunità, mentre quella del barbaros era un’estraneità totale (a partire dalla lingua, elemento discriminante per eccellenza).
Nella cultura latina, la parola che indicava in origine lo straniero era hostis (da cui anche hospes, il nostro ospite), persona a cui si riservava un rapporto di ospitalità doverosa, segnata da precisi riti di accoglienza; l’evoluzione della lingua ha però lasciato spazio ad un nuovo e diverso significato del termine, nel senso di straniero pericoloso, nemico (da cui il nostro “ostile”) della comunità.

Il concetto di straniero nella sua portata discriminatoria ha quindi da sempre accompagnato le civiltà occidentali, covando sotto la cenere della democrazia, per riaffermarsi con violenza e brutalità nel corso dei regimi totalitari dello scorso secolo. Dal punto di vista formale, è stata la “Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo” del 1948, che, affermando il concetto che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti” portava anche ad eliminare qualsiasi accezione negativa dalla parola.

Tutto bene, dunque? La parola straniero è oggi libera da qualsiasi pregiudizio? Non proprio, e anzi, per quanto sembri paradossale, in una società sempre più globalizzata, la paura e la diffidenza verso chi è straniero riaffiorano immediatamente, insieme alla tentazione di negare i più elementari diritti a chi ha come unica “colpa” quella di aver lasciato il proprio Paese in cerca di un futuro migliore.

Se proviamo infatti per una volta a guardare la questione dal punto di vista di coloro che emigrano, non ci è difficile immaginare quanta fatica essi possano fare a riconoscersi in quella famiglia umana di cui parlano le convenzioni internazionali, anche se la trappola terminologica oggi si è fatta più sofisticata, e ha coniato un’inedita contrapposizione: quella tra “regolare” e “irregolare”. Si tratta di una trappola perché, se è vero che tutto ciò che è irregolare dovrebbe, per definizione, trovare nell’applicazione delle regole il suo antidoto, nel caso dei migranti sembra quasi che le normative attuali piuttosto che ricondurre alla norma, amplifichino, promuovano, incoraggino la condizione di irregolarità, forse perché questa è funzionale al mantenimento di una società diseguale e iniqua, di cui noi siamo la parte forte. Se non ci fosse l`irregolarità, non ci sarebbe – o sarebbe molto meno diffuso – il racket sull`esistenza di tante persone che rischiano, e spesso perdono, la vita sotto i tir, nelle stive di navi, sui gommoni alla deriva; non ci sarebbe quella nuova schiavitù che con un eufemismo ci ostiniamo a chiamare “lavoro nero”, né la facile possibilità di trasformare persone venute alla ricerca di un lavoro onesto in criminali e prostitute.

Tanto più che marchiare, stigmatizzare, criminalizzare, non arresterà questo enorme flusso di persone che, come in una sorta di gigantesco contrappasso, tornano a chiederci conto del saccheggio di un Nord che ancora consuma oltre l’80% delle ricchezze del pianeta, e che sopravvive proprio grazie al fatto che gran parte della popolazione mondiale è privata delle proprie risorse.
Che fare, dunque? Forse è necessario che anche noi occidentali ci mettiamo in viaggio, un viaggio fuori da un io rinchiuso in una visione miope di sé e del mondo, alla scoperta di ciò che non è noto, senza il pregiudizio di sapere già cosa si potrà trovare, ma nella convinzione di dover lasciare le nostre certezze, che spesso confinano con i nostri pregiudizi, e nella consapevolezza che la salvezza non può mai trovarsi “a casa”, ma “altrove”, fuori dal conosciuto e dallo sperimentato, là dove si incontra l’altro.
Ci riuscirà allora più facile, scoprendo che anche noi siamo sempre stranieri rispetto a qualcuno, comprendere che non esiste lo straniero assoluto, che non esiste una terra in cui nascano soltanto stranieri, e lavorare per costruire un luogo nel quale, invece che stranieri, nemici, si diventa ospiti nella reciproca accoglienza.
Aldo Morrone

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