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Le paure degli italiani

Ultimo Aggiornamento: 05/05/2010 23:15
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05/05/2010 19:58

La paura della secessione del Nord dal Sud
DA ICONA POLITICA
A DURA REALTA` STATISTICA
C’era una volta la secessione: gridata, minacciata, ripetuta nelle irriverenti liturgie di una politica che aveva individuato un territorio “nuovo” quanto ricco e indistinto come l’Eldorado cinquecentesco: la Padania. Era la secessione mitopoietica, creata proprio per generare identità di territorio, una identità come sempre basata sull’opposizione binaria noi-loro, Padania versus Borbonia (o “Roma ladrona”, è lo stesso…).
Il mito secessionista è oggi appannato, anzi accantonato: il disegno federalista l’ha superato. Tuttavia, come un fiume carsico, la secessione da icona politica si è svelata realtà socioeconomica. Realtà dura, quantificabile statisticamente, innegabile. Per ironia della storia, il ricordo celebrativo del secolo e mezzo dell’Unità del paese precipita in un momento di passioni tristi disunitarie e disunitariste.
La disunità non è solo un sentimento emotivo crescente e palpabile, che arriva sempre più a smontare e contestare lo stesso Risorgimento (e perfino tutto ciò che è “italiano”), ma anche un’evidente frantumazione territoriale. Lo dimostra – con un meticoloso lavoro scientifico – il sociologo Ricolfi nel suo libro dal titolo evidente: “Il sacco del Nord”, edito qualche mese fa.
Cercando di andare al di là di ciò che i dati della contabilità nazionale non vedono, Ricolfi elabora “quattro numeretti” – così li chiama – che costruiscono un set di indici di parassitismo (dato dal rapporto tra spesa pubblica e la ricchezza prodotta dalle imprese), di evasione fiscale e contributiva, di sottoproduzione e spreco (è il problema dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni), del livello dei prezzi (cioè il diverso potere di acquisto in zone diverse del paese).
Tenendo allora conto di questi quattro indicatori, ne esce un’Italia fratturata da faglie territoriali profonde che vanno ben al di là del classico divario tra Nord e Sud, un divario che negli ultimi cinquant’anni si è stabilizzato attorno al 40 per cento.
Circa il parassitismo, tre regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – reggono in pratica i disavanzi di tutte le altre, specie di Sicilia e Campania, che hanno il poco encomiabile record dei disavanzi più elevati.
Sull’evasione il discorso si ripete: Lombardia, Emilia e Veneto sono le regioni più virtuose (cioè con la minore intensità di sommerso), mentre le aree più viziose sono in particolare Calabria, Sicilia e Campania, le tre regioni ad economia mafiosa. Di più: sette regioni, tutte del centro-nord, pagano più tasse del dovuto, mentre tre in particolare (quelle prima citate) hanno i debiti fiscali più alti.
Gli sprechi sono certamente più contenuti al Nord, anche se ciò non vale per tutte le relative regioni; calcola Ricolfi che una politica di riequilibrio della spesa pubblica dovrebbe comunque restituire al Nord tra i 12,1 e i 44,9 miliardi di euro.
Brutalmente parlando, a chi converrebbe “rimanere” in Italia, a credere nella sua unità politica e ideale, alla sua eredità risorgimentale? Secondo i numeri conviene di sicuro a quelle tredici regioni (specie Sardegna, Sicilia e Calabria, ma ce n’è anche qualcuna del nord) che sono debitrici nei confronti del paese. Non converrebbe invece a Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte, regioni dove si evade, si spreca e si spende (soldi pubblici) meno della media nazionale.
A questo punto ci si può chiedere se si può andare avanti così, e a quali costi. Quanto può reggere il senso unitario in un paese in cui la povertà oscilla tra il 4,4% della Lombardia ed il 28,8 di Sicilia e Basilicata e la disoccupazione giovanile tra il 10,1 del Trentino ed il 44,7% della Sardegna? Senza evocare scenari estremi (alla jugoslava, per intenderci), ci aspetta – è la pacata tesi di Ricolfi – un declino che in realtà è già in corso da sette anni e che non risparmierà nemmeno i territori virtuosi. Un declino che potrebbe far detonare rancori sociali, soluzioni localistiche, ideologie separatiste. Con pulsioni post- risorgimentali, post-italiane. Una secessione non più mitopoietica, ma terribilmente fattuale: anche per i territori ed i loro umori vale la logica del “si salvi chi può”.
Vittorio Filippi

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