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LG 8b: punctum dolens dell'ermeneutica conciliare

Ultimo Aggiornamento: 01/07/2010 17:25
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01/07/2010 17:24

LG 8b: punctum dolens dell'ermeneutica conciliare

Tre anni or sono, il 29 giugno 2007, la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicava sotto forma di Responsa alcuni chiarimenti relativi all’interpretazione di un passaggio “dolente” – è proprio il caso di dirlo – della Lumen Gentium, ossia il famigerato “subsistit in”. Per provare a comprendere l’importanza e i limiti di quest’intervento compiamo una ricostruzione dei passaggi redazionali che condussero al testo definitivo di LG 8b e un tentativo seppur sommario di ricognizione storica circa la recezione dello stesso; in tutto ciò proponiamo alcuni spunti di riflessione critica.

Il 1 dicembre 1962 la Commissione Teologica Preparatoria (CTP), presieduta dal Cardinal Ottaviani, presenta in aula conciliare lo Schema Aeternus Unigeniti, la cui estensione era durata circa due anni. In corrispondenza del passaggio che sarebbe in seguito divenuto LG 8b, si afferma:

Ideoque sola iure Catholica Romana nuncupatur Ecclesia.
(Perciò la sola Cattolica Romana è di diritto chiamata Chiesa)

Questo Schema, elaborato da P.Tromp s.j., segretario della CTP, riecheggiava il Magistero tradizionale, recentemente riaffermato da Pio XII nella Mystici Corporis (1943) e nella Humani Generis (1950). Il Cardinal Ottaviani, che aveva già vissuto con molto turbamento il rigetto dello Schema De fontibus Revelationis e ben prevedeva che anche in questo caso le cose non sarebbero andate molto diversamente, presentò il testo con amara ironia, presago della litania di accuse che si sarebbe sollevata da parte dei progressisti, e concluse con l’espressione lapidaria: «Igitur ante praevisa mertia iam iudicatum est!». Fu buon profeta. Lo Schema venne duramente criticato e fu designata una Sottocommissione per l’elaborazione un nuovo testo; essa assunse come base il lavoro di Mons. Philips, sebbene furono tenuti presenti anche gli elaborati di Mons. Parente e dei vescovi Tedeschi, Francesi e Cileni. Il nuovo testo, presentato in Aula il 30 settembre 1963, nel punto che ci interessa, recitava così:

Haec igitur Ecclesia, vera omnium Mater et Magistra, in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, est Ecclesia catholica.
(Perciò questa Chiesa, vera Madre e Maestra di tutti, costituita e ordinata in questo mondo come una società, è la Chiesa cattolica)

Notiamo come l’insegnamento tradizionale veniva conservato, giacché si affermava qui un’identità ontologica esclusiva mediante l’impiego della copula est. Ma notiamo anche che la vera novità era racchiusa nelle parole susseguenti di nuova intoduzione: «licet extra totalem compaginem elementa plura sanctificationis inveniri possint quae, ut res Ecclesiae Christi propriae, ad unitatem catholicam impellunt» (sebbene al di fuori della totale compagine possano trovarsi molteplici elementi di santificazione che, come cose proprie della Chiesa di Cristo, spingono all’unità cattolica). In tal modo l’istanza dei novatori, cioè la volontà di affermare l’esistenza di «molteplici elementi di santificazione» al di fuori della compagine visibile della Chiesa cattolica, veniva definitivamente integrata nel testo. Questo breve inciso, sebbene a prima vista possa non destare particolare stupore, costituiva in realtà una novità senza precedenti. Non si diceva semplicemente che fuori dai confini visibili della Chiesa l’uomo, raggiunto dalla grazia nelle proprie disposizioni soggettive (votum inscium), potesse salvarsi; ciò infatti sarebbe stato una semplice riproposizione dell’insegnamento tradizionale secondo il quale ad ogni uomo è data la grazia sufficiente per la salvezza. Si affermava piuttosto l’esistenza di elementi salvifici oggettivi esterni alla compagine ecclesiale. Fu precisamente tale introduzione a determinare l’esigenza di mutare la copula verbale, come si legge negli Acta del Concilio (ActSyn 3/1, 177); agli estensori del testo parve infatti poco consequenziale affermare l’identità esclusiva tra la Chiesa cattolica e la Chiesa di Cristo e, la riga successiva, introdurre l’inciso summenzionato che in qualche misura attenua la categoricità dell’ enunciato precedente. Alcuni proposero di utilizzare adest, ma ciò parve troppo debole; uno propose consistit in; infine, su proposta di Tromp, si convenne su subsistit in, cosicché il testo fu mutato nel seguente modo:

Haec Ecclesia, in hoc mundo ut societas constituta et ordinata, subsistit in Ecclesia catholica […] licet extra eius compaginem elementa plura sanctificationis et veritatis inveniantur quae ut dona Ecclesiae Christi propria ad unitatem catholicam impellunt.
(Questa Chiesa, costituita e ordinata in questo mondo come una società, sussiste nella Chiesa cattolica … sebbene al di fuori della sua compagine si trovino molteplici elementi di santificazione e di verità che, come doni propri della Chiesa di Cristo, spingono all’unità cattolica)

Notiamo nella seconda parte, il mutamento di “res” in “dona” e l’aggiunta della specificazione “veritatis”, con una sottolineatura ancor più positiva dei “plura elementa” esterni alla Chiesa cattolica, i quali non solo “si possono trovare” (inveniri possint), ma di fatto “si trovano” (inveniantur). Il testo continuò ad essere oggetto di discussione, senza tuttavia ulteriori mutamenti relativamente al passo che stiamo analizzando.
Il 21 novembre 1964 Paolo VI promulgava la Costituzione Lumen Gentium con le seguenti parole:

E migliore commento sembra non potersi fare che dicendo che questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo noi pure. Ciò che era, resta. Ciò che la Chiesa per secoli insegnò, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto, ora è espresso; ciò che era incerto, è chiarito; ciò che era meditato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione.

Non è irriguardoso osservare come il Pontefice davvero non fu profeta; basta uno sguardo rapido alla teologia degli ultimi quarant’anni per accorgersi come LG 8b sia tutto fuorché una “serena formulazione” della dottrina cattolica sulla Chiesa. Le interpretazioni di questo difficile passaggio hanno fatto scorrere, secondo il vaticinio dello stesso Mons. Philips, fiumi di inchiostro.
Si è andata affermando la teoria secondo la quale la Chiesa di Cristo sarebbe un’entità metafisica, una sorta di idea platonica, moltiplicata in distinte sussistenze e partecipabile secondo un più e un meno: la Chiesa cattolica, tra le diverse sussistenze, parteciperebbe in modo più perfetto a quell’unica Chiesa di Cristo, ma ciò non escluderebbe il darsi di altre sussistenze, meno perfette ma non per questo meno reali. Tale teoria, certamente molto promettente in chiave ecumenica, si fonda in radice su un’interpretazione metafisica del verbo “subsistere”; curiosamente i novatori, che non cessano di rilevare come il Vaticano II abbia rinunciato ad un linguaggio scolastico, e per ciò stesso metafisico, ammettono in questo caso un’eccezione degna di nota! (Peraltro non è superfluo notare come il concetto di sussistenza non fosse per nulla pacifico tra gli stessi teologi Scolastici). Tale interpretazione nega l’identificazione della Chiesa romana con la Chiesa di Cristo e ammette un’ “apertura” (ma sarebbe più corretto dire una “liquidazione”) dell’ecclesiologia e dell’insegnamento tradizionale.
Per confermare l’effettiva problematicità del passo in questione è sufficiente scorrere la lista degli interventi magisteriali che contengono, più o meno esplicitamente, una risposta ai problemi ermeneutici e teologici sollevati dall’espressione incriminata: la Dichiarazione Mysterium Ecclesiae (1973), la Notificazione sul volume «Chiesa: carisma e potere» del P. Leonardo Boff (1985), la Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica Communionis notio (1992), la Nota sull’espressione «Chiese sorelle» (2000), la Dichiarazione Dominus Iesus (2000), tutte pubblicate dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. Il Magistero romano tende globalmente ad un’ interpretazione restrittiva, al contrario dell’ermeneutica progressista che si può ricondurre, almeno nel suo nucleo essenziale, alla teoria sopra esposta, sebbene assuma differenti sottolineature nel pensiero dei vari teologi novatori. Di particolare interesse per l’interpretazione ufficiale di LG 8b è la nota 56 della Dominus Iesus: «È perciò contraria al significato autentico del testo conciliare l’interpretazione di coloro che dalla formula subsistit in ricavano la tesi secondo la quale l’unica Chiesa di Cristo potrebbe pure sussistere in Chiese e comunità ecclesiali non cattoliche».
Naturalmente nessuno dei succitati interventi è mai riuscito a smorzare definitivamente l’intraprendenza dei teologi progressisti; alcuni si spingono tanto oltre da descrivere il Magistero romano come una forza restrittiva dell’autentico pensiero conciliare (si potrebbe ad esempio citare il recentissimo articolo di E. Schockenhoff dal titolo «Riconciliazione? Il conflitto sull’interpretazione autentica del Concilio Vaticano II», apparso in traduzione italiana sul quindicinale cattolico Il Regno 10/2010, pp.297-301).

I Responsa, dai quali siamo partiti, si inseriscono nel solco della linea interpretativa romana, apportando due ulteriori chiarimenti.
La risposta al primo quesito presenta la chiave di lettura di tutto il documento: «Il Concilio Ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato tale dottrina (la “dottrina precedente”, cioè la dottrina tradizionale, n.d.r.), ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente». In vero tale affermazione non dice nulla di particolare, giacché dovrebbe apparire chiaro a chiunque ragioni con mente cattolica che la Chiesa non può essersi né scoperta né mutata nella propria essenza nel 1964! Resta totalmente esclusa ogni “palingenesi ecclesiologica”, con buona pace di coloro che parlano di nuova Pentecoste: desta tuttavia preoccupazione anche il solo fatto che qualcuno possa dubitare di ciò.
Si noti l’importanza della nota 4: «Il Concilio ha voluto esprimere l’identità della Chiesa di Cristo con la Chiesa Cattolica». Tale affermazione significa che l’unica Chiesa di Cristo è certamente la Chiesa cattolica; ciò viene comprovato con numerose citazioni dell’Expensio modorum relativa alla discussione sul decreto Unitatis Redintegratio. Ci si può tuttavia interrogare circa l’attitudine degli odierni documenti magisteriali che affidano le affermazioni più tonde alle “note” invece di integrarle nel testo del documento stesso (si veda anche supra relativamente a Dominus Iesus); un tempo, al contrario, i documenti possedevano di norma una parte espositiva (positiva) della dottrina e una parte proscrittiva (negativa, cioè i canoni), così da fugare ogni possibile dubbio circa i limiti esatti dell’insegnamento proposto.
La risposta al secondo quesito chiarisce il significato del verbo “subsistere”; esso non ha valore metafisico, bensì storico: « la sussistenza è questa perenne continuità storica e la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo nella Chiesa cattolica, nella quale concretamente si trova la Chiesa di Cristo su questa terra». In buona sostanza “sussistere” significa “permanere”. Inoltre si afferma che «la parola "sussiste" può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede (Credo…la Chiesa "una"); e questa Chiesa "una" sussiste nella Chiesa cattolica»; tutti coloro che sostengono la tesi secondo la quale sarebbero possibili altre “sussistenze” della Chiesa al di fuori della Chiesa cattolica trovano qui autorevole smentita.

Certamente tali precisazioni sono importanti e dovrebbero essere in grado di porre fine all’altalenarsi delle opinioni, almeno per quanto concerne il significato esatto del verbo “subsistere” (anche se di fatto, come comprova il succitato articolo di E. Schockenhoff, non è così; tuttavia qui entrerebbe in gioco il concetto stesso di insegnamento magisteriale e di ossequio ad esso dovuto, un discorso che non possiamo ora affrontare). Resta però a nostro avviso vero che il problema, sanato in un punto, riemerge in un altro: il documento riafferma l’esistenza e il valore di molteplici elementi di santificazione e di verità al di fuori della compagine visibile della Chiesa, senza ulteriori specificazioni; anche Dominus Iesus si muoveva nella medesima direzione e interpellava i teologi affinché si interrogassero in tal senso. Occorrerebbe far luce sull’effettiva portata di tali “elementi” e, ancor prima, domandarsi se tale dottrina sia effettivamente compatibile con l’insegnamento di sempre. In che misura è possibile riconoscere una valore oggettivamente salvifico a quegli elementi di verità esterni alla compagine visibile della Chiesa cattolica ed evidentemente frammisti ad una moltitudine di errori? Come mai la Chiesa avrebbe impiegato tanto tempo a comprendere che anche una confessione parziale della dottrina cristiana è un atto veramente soprannaturale di fede e perciò oggettivamente salvifico? Perché la Chiesa non ha mai elevato alla gloria degli altari quanti, ortodossie e protestanti, sono stati uccisi in odium fidei? Questi e molti altri interrogtivi attendono di essere chiariti in vista di una comprensione realmente tradizionale del Magistero dell’ultimo Concilio.

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