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Importanti nuove nomine nei dicasteri della S. Sede. Te Deum!

Ultimo Aggiornamento: 02/07/2010 15:33
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02/07/2010 15:33

Auf wiedersehen, Kardinal Kasper.


La stagione delle grandi nomine è nel pieno ed è stato ieri il turno del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, il dicastero che si occupa del 'dialogo' con le altre confessioni cristiane e con gli Ebrei (per le altre religioni, c'è il Pontificio Consiglio per il Dialogo inter-religioso).

I Pontifici Consigli sono enti di importanza minore rispetto alle Congregazioni; ma quello per l'Unità dei Cristiani è stato di fatto, e in parte è tuttora, uno dei 'ministeri' centrali della Curia romana degli ultimi decenni, vista l'importanza, ideologica ben prima che pratica, del 'dialogo ecumenico' nella scala di priorità ecclesiastica e nell'immagine mediatica che la Chiesa tiene a dare di se stessa.

E' finito il regno del cardinale Kasper, le cui dimissioni da presidente, per avere ampiamente superato la soglia d'età, sono state ieri accettate. Gli succede l'arcivescovo di Basilea, Kurt Koch (del quale promette abbastanza bene una sua
dichiarazione dell'anno scorso, in cui chiedeva ai suoi preti un po' di onestà visto che, se da un lato intimavano ai lefebvriani l'accettazione acritica del Concilio, dall'altro si guardavano bene dall'ubbidire a molti precetti di quello stesso Concilio; ad esempio sulla lingua latina).

Il cardinale Kasper, che è su posizioni assai progressiste, aveva avuto un pubblico scambio di opinioni dissenzienti con l'autore della famigerata (per gli ecumanìaci) dichiarazione Dominus Iesus, ossia l'allora cardinale Ratzinger. Il quale, da buon accademico, ama le garbate disputationes ed il franco scambio di argomenti: si è quindi ben accomodato, una volta eletto, a mantenere al suo posto l'ex contraddittore; anzi, a tenervelo ben oltre l'età pensionistica.

Al tempo stesso, però, l'ecumenismo è divenuto un tema talmente centrale (e talmente lubrico e scivoloso verso i pericoli della 'teologia delle religioni', dell'indifferentismo e del sincretismo) che Benedetto XVI, nei fatti, ha spesso e volentieri esautorato il povero Kasper, avocando a sé i fascicoli più importanti e relegando il cardinale all'ordinaria amministrazione degl'inconcludenti convenevoli interconfessionali. Così, quando ci fu l'ultima Lambeth Conference (la grande assise decennale degli anglicani) il buon Kasper fece il suo diligente discorsetto, ma il vero messaggio fu portato dal card. Dias, che in modo assai poco ecumenically correct accusò gli scioccati anglicani di alzheimer spirituale e di parkinson ecclesiale.

Ancor peggio avvenne con la decisione di accogliere i tradizionalisti anglicani: l'episodio ecumenico più importante dai tempi degli accordi con le chiese uniati orientali. Ebbene, fu reso impietosamente evidente quanto tutto questo si fosse svolto senza (per non dire contro) Kasper, allorché la presentazione del progetto di un ordinariato per gli anglicani avvenne senza nemmeno attendere il suo ritorno da un viaggio. Al Presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani, che pur avrebbe dovuto avere la sua da dire su un progetto di... riunificazione con altri cristiani, fu lasciato il mero compito di consolare l'esterrefatto arcivescovo di Canterbury.

La verità è che tra Kasper e Ratzinger si giocano due visioni radicalmente differenti, anzi confliggenti, di ecumenismo. Per il primo, il concetto si riassume in una parola totem: dialogo. Come ha spiegato egli stesso nella conferenza stampa di commiato, lo scorso 25 giugno


per quanto fondamentali i vari documenti di dialogo non sono l’essenziale. Essi rimarrebbero infatti lettera morta se non trovassero riscontri nei rapporti personali, nei rapporti di rispetto, di stima, di fiducia e di amicizia. Laddove non esistono tali relazioni non può esistere neppure un dialogo proficuo che è sempre un dialogo della vita. L’ecumenismo non si fa alla scrivania. Dialogo è vita. Dialogo è parte integrante della vita della Chiesa. [..] una solida rete di rapporti umani con cristiani che, sono sicuro, potrà resistere anche a eventi meno favorevoli e sono una base sicura per ulteriori passi in avanti. Questa è la vera novità ecumenica

Dietro questa concezione un pochino da cocktail party, riposa il concetto che il dialogo serva a conoscere meglio e stimare non soltanto le persone, ma anche le fedi, accettandole per come sono, e rinunziando al proselitismo nei confronti dei loro affiliati; gesto, quest'ultimo, che sarebbe quanto mai screanzato, quasi come sottrarre all'altro ospite il cappotto lasciato al vestiario del party. Lo slogan che guida questo tipo di dialogo è pur sempre quello di guardare ciò che ci unisce, non ciò che divide, secondo la formula fortunata coniata da Giovanni XXIII. I'm good, you're good, everybody's good!

Ma questa ipostatizzazione del dialogo eleva al rango di fine quanto dovrebb'essere soltanto un mezzo, giacché il fine è diverso, è quello iscritto nel Vangelo: ut unum sint. Non: ut dialogent. Ed essere uniti implica la necessità di superare le attuali divergenze, non fingere ipocritamente che le divergenze non esistano o siano senza importanza, restando tutti come si è.

Ratzinger ha precisamente questa visione ben più concreta e sa lucidamente quel che qualsiasi mediatore, qualsiasi avvocato, qualsiasi negoziatore conosce per istinto; ossia che la formula giovannea è, absit iniuria, una fesseria, se il dialogo deve servire a qualcosa. Per cercare un accordo, per comprendersi meglio, per dirimere le controversie, si lascia completamente da parte quello che ci unisce: sui punti già condivisi, a che pro perdere tempo? Sarebbe roba da teatro dell'assurdo: nella Cantatrice Calva di Ionescu, un uomo e una donna sul treno, tra frasi fatte e convenevoli, scoprono di abitare nella stessa città, di avere lo stesso numero di figli, di essersi sposati lo stesso anno, di avere mille cose in comune, su cui soffermarsi. Quelle coïncidence! Scopriranno alfine di essere marito e moglie.

Si deve guardare, dunque, ciò che ci divide, non quanto ci unisce; ci si concentri sugli aspetti problematici e disputati: son quelli che si devono studiare e approfondire e, per farlo, occorre che ciascuno preliminarmente sia molto netto nel definire la propria posizione. La chiarezza su se stessi e sui propri obbiettivi è lo strumento chiave di ogni proficua interrelazione.

Il Papa lo sa, e lo sta mettendo in atto con risultati spettacolari: pensiamo agli anglocattolici e agli ortodossi. Ma perfino con i musulmani ha ottenuto esiti che parevano insperati nell'era dei baci al Corano: questo perché la chiarezza su di sé implica anche porsi obbiettivi magari limitati, ma ragionevoli e, quindi, condivisibili dagli altri.
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