Giovanni Crisostomo De sacerdotio

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Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:27

Esempi di Saul, Eli, Mosè

II. Quel Saul figlio di Cis, non diventò re per esservisi adoperato, ma muovendo in cerca delle asine, si recò dal profeta per chiederne novelle e quegli allora gli fece parola del regno; e nemmeno così egli si spinse avanti, pur avendone udito parlare da un profeta, ma se ne ritraeva e vi s’opponeva dicendo: "Chi sono io, e quale é la casa di mio padre?" (1Re 9,21). Ma che? avendo egli malamente usato dell’onore accordatogli da Dio, valsero forse quelle sue parole a sottrarlo allo sdegno di colui che gli aveva conferito la regia potestà? E ben poteva egli dire a Samuele quando lo rimproverava: "Forse accorsi io spontaneamente alla dignità regia? o forse da me stesso mi vi spinsi sopra? io volevo pur vivere la vita inerte e quieta dei privati, tu invece mi trascinasti a questo onore; ma Se io mi fossi rimasto in quell’umile stato, avrei agevolmente evitate queste colpe, ché essendo io uno del volgo e oscuro, non sarei stato mandato a quest’impresa, né Dio m’avrebbe affidata la guerra contro gli Amaleciti; non essendone incaricato, non sarei mai caduto in questa colpa". Ma tutto ciò é insufficiente alla difesa, né solo è insufficiente, ma anche pericoloso, e tale da sempre più accendere lo sdegno di Dio. Colui che fu onorato oltre il suo merito, non deve già addurre la grandezza dell’onore a discolpa dei suoi falli, ma invece valersi della sollecitudine di Dio a suo riguardo come d’uno stimolo a maggior perfezione. Chi crede a sé lecito peccare per aver toccato in sorte un onore più grande, altro non fa se non additare la benignità di Dio come cagione delle proprie colpe, come hanno costume di dire sempre gli empi e quelli che sogliono governare trascuratamente la propria vita.

Noi non dobbiamo comportarci così, né dobbiamo cadere nella loro pazzia, ma dobbiamo in tutto aggiungere l’opera nostra secondo le nostre forze, e retta serbare la lingua e il pensiero. Neppure Eli (per venire ora al nostro argomento, cioè al sacerdozio, lasciando da parte il principato) si adoperò per acquistare il potere, ma che gli giovò questo, quand’ebbe prevaricato? Che dico acquistare? per la necessità della legge, non avrebbe nemmeno potuto sfuggirlo se avesse voluto; poiché egli apparteneva alla tribù di Levi e gli era gioco forza assumere la potestà che gli veniva dall’alto per via degli antenati; eppure anch’egli subì non piccola pena per le crapule dei suoi figli. Ma che? quegli stesso che fu il primo sacerdote degli Ebrei e del quale tante cose disse il Signore a Mosè, poiché non fu capace di resistere da solo contro la stoltezza di tanta moltitudine, non andò forse vicino alla rovina, se la protezione del fratello non avesse rimosso lo sdegno di Dio? E dacché ho ricordato Mosè, é opportuno mostrare la verità del mio assetto anche dalle vicende a quello occorse.

Quello stesso beato Mosè era tanto lungi dall’usurpare il dominio sugli Ebrei, che lo ricusò anche quando gli fu conferito; e imponendogli Dio di accettarlo, si oppose a tal segno da muovere all’ira chi ne lo investiva; né solo allora, ma anche in seguito mentre esercitava il potere, sarebbe morto volentieri per esserne esonerato: "Fammi morire, dice infatti, se vuoi fare a me in tal guisa" (Nm. 11,15). Ebbene? Quando egli ebbe peccato all’acqua, valsero forse questi reiterati rifiuti a difenderlo e a muovere Dio a perdonargli? e per qual altro motivo fu privato della terra promessa? per nessun altro motivo, come tutti sappiamo, che per questo peccato, per il quale quel mirabile uomo non poté ottenere ciò che ottennero i suoi sudditi, ma dopo le molte fatiche e angustie, dopo quell’indicibile errare, le guerre e i trofei, morì fuori dalla terra per la quale aveva durato tutti quei travagli; e dopo aver sostenuto i pericoli del pelago, non godette i vantaggi del porto. Vedi come non solo a quelli che usurpano questo potere, ma anche a quanti vi giungono per opera altrui, non. rimane alcuna difesa dei falli in cui sono caduti? E per vero, mentre costoro, che sebbene investiti da Dio della dignità vi si rifiutarono ripetutamente, nondimeno subirono sì grave pena, e nulla valse a sottrarre da tale pericolo né Aronne, né Eli, né quell’uomo beato, quel santo, quel profeta, quel mirabile e mansueto fra tutti gli uomini della terra e che parlava a Dio come a un amico; difficilmente a me che tanto sono lungi dalla virtù di quello, potrà servire di difesa la consapevolezza di non aver per nulla sollecitato questa carica; tanto più quando molte di queste ordinazioni avvengono non per impulso della grazia di Dio, ma per l’opera di uomini.

Dio aveva pur scelto Giuda, l’aveva collocato in quella santa schiera e gli aveva conferita insieme cogli altri la dignità apostolica, anzi, a lui aveva dato qualcosa di più che agli altri, cioè l’amministrazione del denaro. Ebbene? poi ch’ebbe usato di queste due prerogative contrariamente allo scopo, tradendo Colui ch’era stato incaricato di predicare e rovinando malamente i beni di cui gli s’era affidata l’amministrazione, forse che sfuggi alla pena? anzi, per ciò appunto si procurò un castigo maggiore; e ben a ragione.

Ché non si deve usare degli onori che Dio conferisce, per offenderlo, sebbene per maggiormente compiacerlo. Che se altri, per essere stato maggiormente onorato, stimasse giusto per questo di sfuggire la pena quando gli fosse dovuta, farebbe lo stesso di qualcuno degl’infedeli Giudei, il quale udendo Cristo che dice: Se non fossi venuto né avessi parlato loro, non sarebbero colpevoli, e: "Se non avessi operato fra loro tali prodigi quali nessun altro operò, non sarebbero colpevoli" (Gv. 12,6), rimproverasse il Salvatore e Benefattore dicendo: "E perché sei tu venuto e hai parlato? perché compiesti quei prodigi, per aver poi a punirci più fortemente?". Queste sarebbero certamente parole da pazzo e da delirante furioso; ché il medico non venne già per condannarti ma piuttosto per curarti e liberarti completamente dalla tua infermità: tu invece spontaneamente ti sottraesti alle sue mani; or dunque abbiti più aspra la pena. A quel modo che cedendo alla cura ti saresti liberato anche dai malanni anteriori, così se tu fuggi il medico quando ti s’avvicina, non potrai più detergerti da questi, e non potendolo subirai la pena di essi e dell’aver resa vana la sua cura, per quanto dipendeva da te.

Onde non sosteniamo eguale giudizio da Dio prima di essere onorati e dopo aver ricevuto gli onori, ma molto più severo dopo, ché colui che non diventò migliore in seguito ai benefici ricevuti, é giusto che sia più duramente punito. Or dunque, poi che a me appare insufficiente questa difesa e tale non solo da non salvare coloro che vi cercano rifugio, ma da esporli a maggior pericolo, fa d’uopo che tu mi mostri un altro scampo.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:33

Se uno sa di essere inetto al ministero, deve sottrarsene, senza badare a riguardi personali

III. "E quale mai? poiché io non sono ormai in grado di governare me stesso, tanto m’hai reso trepidante e atterrito con queste tue parole".

"No, dissi io, te ne prego e te ne scongiuro, non voler tanto abbatterti; c’è senza dubbio lo scampo sicuro: per me debole esso consiste nel non mettermivi affatto; per te che sei forte invece, nel riporre la speranza in null’altro che, dopo la grazia di Dio, nel non fare nulla che sia indegno di questo dono né di Dio che lo largisce. Ché per certo sono meritevoli della massima punizione coloro che dopo aver raggiunta questa potestà dopo di averla sollecitata, ne fanno poi cattivo uso o per negligenza, o per malignità, o anche per inesperienza; ma non per questo é riservato alcun perdono a coloro che non trafficarono per conseguirla, ma anch’essi restano privi di qualsiasi difesa. Poiché fa d’uopo, mi pare, quand’anche moltissimi chiamino e sforzino d’accedervi, non badare a loro, ma saggiando anzitutto l’anima propria e ogni cosa diligentemente indagando, così poi acconsentire a quelli che spingono.

Nessuno oserebbe assumersi l’amministrazione di una casa senz’essere amministratore; né alcuno s’accingerebbe a trattare i corpi malati essendo ignaro dell’arte medica; ma se pur fossero molti che lo spingessero a forza, vi s’opporrebbe, né arrossirebbe di palesare la propria incapacità; e chi ha da essere incaricato della cura di tante anime, non esaminerà prima se stesso, ma se pur sia il più inetto di tutti, accetterà il ministero, perché il tale glielo impone, o il tale ve lo sforza, o per non offendere il tale altro? E come non precipiterà se stesso insieme con quelli in un danno palese? potendo egli salvarsi da se stesso, rovina gli altri insieme con lui; donde potrà dunque sperare salvezza? donde ricevere perdono? chi intercederà allora per noi? forse quelli che ora vi ci sforzano e a forza ci trascinano? ma costoro stessi chi li salverà in quell’ora? anch’essi hanno bisogno d’altri per poter sfuggire al fuoco. E per persuaderti che ora dico ciò non per incuterti spavento ma al tutto secondo verità, ascolta ciò che dice il beato Paolo a Timoteo suo figlio adottivo e diletto: "Non ti fare fretta d’imporre le mani ad alcuno e non prendere parte ai peccati degli altri" (1Tim. 5,22); vedi da qual biasimo non solo, ma anche da qual castigo ho liberato, per quanto stava da me, quelli che volevano spingermi a questa carica? Però che, come agli eletti non servirà di sufficiente difesa il dire: non venni di mio arbitrio, ho accettato senza prevedere la mia mala riuscita; così neppure agli elettori può giovare qualche cosa, se dicano di non aver conosciuto l’eletto; ma appunto per questo diviene maggiore l’accusa, perché promossero chi non conoscevano, onde quello che si stimava servire di difesa, viene ad aggravare l’imputazione.

Come non sarebbe strano infatti, che quelli che vogliono comperare uno schiavo, lo mostrino ai medici e richiedano persone garanti della compera, e interroghino i vicini, né si assicurino dopo tutto ciò, ma esigano un lungo tempo per farne la prova; mentre coloro che hanno da iscrivere alcuno a tanto ministero, senza fare alcun altro esame, ve lo aggiudichino agevolmente e senza badare, purché a taluno sembri bene designarvelo in grazia del favore o del disfavore altrui, tralasciando ogni altra ricerca? Chi intercederà allora per noi, quando gli stessi che dovrebbero perorare la nostra causa avranno essi pure bisogno d’intercessori?

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:36

Tanto l’elettore quanto il candidato devono ponderare con molta cura prima di scegliere o di lasciarsi eleggere.

Il giudizio di Dio sarà severo per gli uni e per gli altri se avranno agito con leggerezza.


IV. Bisogna dunque che anche chi ha da imporre le mani, premetta accurata indagine, e ancor più deve farlo il consacrando; ché se egli avrà gli elettori partecipi del castigo, per le colpe in cui sarà caduto; non vi sfuggirà per altro egli stesso, bensì ne subirà uno maggiore: a meno che coloro che lo promossero abbiano così agito per qualche motivo personale, contrariamente a quanto sembrava loro retto. Perché se saranno colti in fallo per questo lato, e conoscendo un candidato come indegno, lo promossero per qualche pretesto, le proporzioni della pena saranno eguali anche per loro, e anzi, maggiori saranno a quelli che investirono del potere un indegno; ché se uno conferisce la potestà a chi s’accinge a rovinare la Chiesa, sarà egli colpevole dei danni da quello perpetrati.

Se poi egli non avrà da rendere conto ad alcuno per queste colpe, ma dica d’essere stato ingannato dall’opinione del volgo, neppure in tal caso resta impunito, tuttavia subirà una pena alquanto minore di quella dell’eletto; e Perché? Perché é bensì probabile che gli elettori siano indotti a ciò ingannati dalla falsa opinione pubblica, ma l’eletto non potrebbe già dire: "Io non conoscevo me stesso" come altri potrebbero dire di non aver conosciuto lui; pertanto, siccome egli va incontro a più aspra punizione che quelli i quali ve lo promossero, così deve far l’esame di se stesso con maggior cura di loro, e quand’anche essi per ignoranza ve lo trascinassero, facendosi avanti deve esporre diligentemente le ragioni con le quali dissipi il loro inganno, e così, dimostrando se stesso indegno della promozione, sfuggirà l’incarico di sì gravi incombenze. Per qual motivo infatti, trattandosi di strategia o di navigazione o d’agricoltura o di altre professioni, il contadino non sceglierebbe di navigare, né il soldato di lavorare la terra, né il pilota di esercitare la milizia, quando pure si minacciassero di mille morti? certamente perché ciascun d’essi prevede il pericolo derivante dalla propria inesperienza; e frattanto useremo tanta previdenza là ove il danno versa intorno a interessi piccoli, né cederemo all’imposizione di chi ci sforza, e dove invece a quelli che mancando di capacità assumono il sacerdozio é serbata la pena eterna, trascuratamente e a casaccio ci sobbarcheremo al rischio, adducendo poi a scusa la violenza altrui?

Per certo non lo sopporterà Colui che allora ci avrà da giudicare: giacché bisognava mostrare maggior fermezza riguardo alle cose spirituali che a quelle materiali; or invece saremo trovati a non aver nemmeno mostrata l’eguale. Dimmi infatti: se prendendo noi un tale per architetto mentre non lo fosse, lo chiamassimo all’opera, e quegli venendo e ponendo mano al materiale radunato per la fabbrica, mandasse in malora e legname e pietre, e costruisse l’edificio in guisa tale che presto rovini, basterà forse a sua difesa l’esservisi accinto per comando d’altri e non essersi proposto spontaneamente? Non basterà affatto, e ben a ragione e giustamente; ché ben doveva egli ricusare, non ostante che altri lo chiamassero. Or dunque, mentre niuna speranza di sfuggire la pena rimane a chi mandò in malora il legname e le pietre, colui che rovina le anime e governa malamente, crederà giovargli per essere assolto, l’esservi stato obbligato da altri? E come non sarebbe ciò molto ingenuo? e lascio che nessuno potrebbe venire obbligato, qualora non volesse. Ma soggiaccia pure egli a quanta violenza si voglia e a molteplici raggiri per esser fatto cadere; forse ciò lo libererà da pena? no, te ne prego, non inganniamoci fino a tal segno, né simuliamo di ignorare ciò che é palese persino ai piccoli fanciulli; ché non ci potrà giovare questa simulazione d’ignoranza, quando saremo chiamati a giudizio.

Tu non brigasti per ottenere questa carica, conscio com’eri di tua debolezza: benissimo, ma bisognava che con la stessa intenzione t’opponessi a coloro che vi ti chiamavano; o forse tu eri debole e inetto solo fintantoché niuno ti chiamava, e come si trovò chi era disposto a conferirti l’onore, d’un tratto diventasti forte? ciò é ridicolo e insulso, e degno di gravissimo castigo. Per questo appunto il Signore esorta "colui che vuole edificare una torre, a non porre il fondamento prima d’aver computato le proprie sostanze, per non offrire ai presenti infiniti pretesti di scherno contro di lui" (Lc. 14,28). Per quello il danno si riduce alla derisione, qui invece la pena é il "fuoco inestinguibile, il verme imperituro, lo stridore dei denti, la tenebra esteriore e l’essere separato e collocato insieme con gli ipocriti" (Mt. 25,30).

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:37

La Chiesa é il corpo mistico di Cristo.

Ma i miei accusatori non vogliono saper nulla di tutto questo, ché diversamente avrebbero senza dubbio cessato di biasimare chi non vuol porsi inutilmente a rovina. Non ci é proposto l’esame circa l’amministrazione di frumento, né di biade, né di bovi e pecore, né di alcun’altra simile cosa, ma circa lo stesso corpo di Gesù. Poiché la Chiesa di Cristo, secondo il beato Paolo, é il corpo di Cristo; onde bisogna che quegli a cui esso é affidato, lo serbi in sanità e bellezza grandissima, d’ogni parte badando che né macchia né ruga né altra deformità abbia mai a distruggere quella bellezza e maestà: e che altro é ciò, se non far si che quel corpo appaia, per quanto può conseguirlo l’umana virtù, degno del purissimo e beato capo che vi sta sopra? Ché se quelli che bramano acquistare il vigore atletico hanno bisogno di medici e di maestri di ginnastica, di dieta accurata, di continuo esercizio e d’altre infinite cautele, potendo l’omissione, anche di piccole attenzioni, frustrare e rovinare ogni altra cura: quelli che sono sortiti a servire questo corpo, il quale deve scendere in giostra non contro altri corpi, ma con le potenze invisibili, come potranno serbarlo intatto e sano, se non superano di molto l’umana virtù e non conoscono perfettamente la cura adatta per l’anima?

Fine dell’intermezzo. II. Ripresa dell’argomento intorno alle virtù sacerdotali. Eloquenza e magistero della parola.
Necessità della parola per confondere gli eretici (nemici esterni) e le vane superstizioni (nemici interni).

V. O forse ignori che questo corpo soggiace a più malattie e insidie che la nostra carne, e che più presto di essa va in rovina e più difficilmente viene risanato? A quelli che curano gli altri corpi si offre varietà di medicine, diversi apparecchi meccanici e nutrimenti adattati agli infermi; spesso anche la natura del clima bastò da sola a ricondurre i malati a sanità; altra volta il sonno intervenendo a tempo debito, liberò il medico da ogni fatica. Qui invece non c’è da contare su alcuna di queste cose; una sola via e un sol mezzo di cura si offre, oltre le opere, quello cioè che é fornito dal magistero della parola. Questo é lo strumento, il cibo, la temperatura di clima più perfetta; questo fa le veci di medicina, di cauterio, di ferro; se occorra bruciacchiare o tagliare, di questo bisogna valersi, e ove esso manchi, farà pur difetto ogni altro rimedio. Con esso risvegliamo anche l’anima assopita e la ricomponiamo se diviene tumescente, tagliamo via il superfluo, riempiamo le lacune e compiamo ogni altra operazione opportuna per il benessere dell’anima. Per conseguire la miglior direzione della vita, giova la vita d’un altro che stimoli a emularla; ma qualora l’anima sia offesa per opera di falsi dogmi, v’è gran bisogno della parola, non solo per la sicurezza di quei di casa, ma anche per le guerre provenienti dal di fuori. Poiché se alcuno avesse la spada dello spirito e lo scudo della fede, tanto da poter compiere prodigi, e mediante i portenti chiudere la bocca agli sfrontati, forse non avrebbe alcun bisogno dell’aiuto della parola; o piuttosto, nemmeno allora tornerebbe inutile la virtù di essa, ma anzi molto necessaria; e per vero il beato Paolo se ne valse, sebbene dappertutto egli fosse ammirato per i suoi miracoli. E anche un altro dei membri di quel coro, raccomanda di adoperarsi a conseguire questa facoltà, dicendo: "Pronti sempre a dar soddisfazione a chiunque vi domandi ragione della speranza che avete dentro di voi" (1Pt. 3,15); tutti poi essi affidarono il governo delle vedove a Stefano ed a’ suoi compagni per nessuno altro motivo che per attendere al "ministero della parola" (At. 6,2).

Certamente non con la stessa sollecitudine andremmo in cerca della parola se avessimo la potenza che deriva dai miracoli; ma se di quella potenza non rimane neppure la traccia, mentre da ogni parte insorgono molti e assidui nemici, non ci rimane che armarci di quella, sia per non esser colpiti dagli strali degli avversari, sia per colpirli alla nostra volta.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:39

La Chiesa è come città mistica oppugnata da molti nemici

VI. Bisogna pertanto usare molta diligenza affinché la parola di Gesù Cristo abiti in noi abbondantemente; non dobbiamo star preparati per una sola specie di battaglia, ma questa guerra é molteplice e combattuta da differenti nemici; essi non usano tutti le stesse armi, né a uno stesso modo fanno forza contro di noi. Onde chi s’accinge a sostenere la guerra contro di tutti, deve conoscere le arti di tutti: essere al tempo stesso arciere e fromboliere, generale e capitano, soldato e comandante, pedone e cavaliere, combattente di flotta e di fortezza.

Nelle guerre gli eserciti, attendendo ciascuno a una data operazione, respinge con questa gli assalitori; qui invece non accade così, ma se chi vuol vincere non conosce tutte le specie dell’arte, il diavolo é capace, anche per una parte sola che rimanga a caso trascurata, d’introdurre i suoi predoni e far strage delle pecore; ma non vi riesce, qualora sappia esservi un pastore fornito di ogni conoscenza e pienamente istruito delle sue insidie; bisogna pertanto ben munirsi da ogni parte. Fino a che una città si trova ben fortificata tutt’intorno, può ridersi dei suoi assedianti, rimanendosi in grande sicurezza, ma se si riesca ad aprire nel muro una breccia anche soltanto come una porticina, non le sarà più d’altro giovamento la sua cinta, sebbene in tutto il resto ancor intatta e forte.

Così é della città di Dio: fin che la ricinge da ogni parte invece di muro la sagacia e la prudenza del pastore, ogni artificio dei nemici ridonderà a loro scorno e derisione, mentre gli abitanti se ne staranno dentro al sicuro; ma se alcuno riesca a farla cessare in qualche parte, pur non distruggendola interamente, rovina per così dire tutto il resto per causa di quella parte. E che sarà, se mentre [il pastore] sa destramente combattere contro i Gentili, facciano strazio di essa i Giudei? o se vinti questi due nemici, la saccheggino i Manichei; o se dopo aver superato anche costoro, i partigiani del fato uccidano le pecore dentro raccolte? Occorre forse numerare tutte le eresie del diavolo, alle quali se non sappia resistere accortamente il pastore, potrà il lupo anche con una sola di esse divorare la maggior parte delle pecore? Inoltre, i soldati d’un esercito debbono sempre attendersi la vittoria o la sconfitta da parte di oppositori e combattenti; qui invece succede molto diversamente; spesso infatti la battaglia rivolta contro altri, diede la vittoria a tali che non vennero a pugna al primo scontro, né durarono fatica alcuna, ma se ne stavano inerti e seduti. Accade anche talora, che uno non molto addestrato a simile gioco, trafitto dalla sua stessa spada, divenga ridicolo agli amici ed ai nemici. Per esempio cercherò di renderti palese anche con un caso particolare ciò che dico coloro che accolgono la follia, di Valentino e Marcione e quanti sono affetti dalla stessa infermità di quelli, rigettano la legge data da Dio a Mosè dal catalogo delle divine Scritture; i Giudei all’opposto la venerano a tal segno da ostinarsi a osservarla interamente, anche se l’età più non lo comporta e contrariamente all’insegnamento divino; la Chiesa di Dio invece, evitando l’eccesso degli uni e degli altri, s’attiene al giusto mezzo e non permette di soggiacere al giogo di essa, né soffre che sia disprezzata, ma ancorché abrogata la approva, per aver essa giovato a suo tempo. Or chi ha da opporsi agli uni e agli altri deve conoscere questa giusta misura; ché se volendo ammaestrare i Giudei mostrando loro che s’attengono intempestivamente alla legge antica, comincerà ad attaccarla smodatamente, porge non piccola presa a quegli eretici che vorrebbero lacerarla; se poi volendo chiudere la bocca a questi, prenda ad esaltarla oltre misura, ammirandola come se fosse necessaria anche al presente, eccoti che apre la bocca ai Giudei.

Così pure quelli che sono presi dalla pazzia di Sabellio e quelli che partecipano la furia di Ario, per eccesso tanto gli uni che gli altri si dipartirono dalla sana fede; essi tutti sono detti Cristiani, ma chi ricerchi i loro dogmi troverà gli uni per nulla migliori dei Giudei, se non in quanto hanno diverso nome; gli altri molto somiglianti all’eresia di Paolo di Samosata, e lontani tutti dalla verità. Anche qui v’è gran pericolo, e la via é stretta e intricata, isolata d’ambo i lati da precipizi; e v’è non piccolo timore che mentre [il pastore] vuol sottomettere l’uno, non resti offeso dall’altro. Ché se uno proclama una sola divinità, tosto Sabellio trae la parola al suo perverso concetto; se poi la separa, dicendo il Padre distinto dal Figlio e dallo Spirito Santo, si fa innanzi Ario per ridurre a una diversità di sostanza la distinzione delle persone; bisogna invece evitare e fuggire tanto l’ampia confusione di quello, come la pazzesca separazione di costui, proclamando un’unica sostanza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e facendo rilevare le tre ipostasi distinte: così potremo bloccare le uscite agli uni e agli altri. Potrei dirti di molte altre difficoltà, contro le quali se uno non lotta con vigore e sagacia, se n’andrà coperto d’innumerevoli ferite.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:40

Insidie provenienti dai membri stessi della comunità. Superstizioni e malignità

VII. Chi potrebbe poi enumerare i pettegolezzi di questi, di casa? essi non sono minori degli assalti di quei di fuori anzi danno maggior briga a chi ha l’incarico d’ammaestrare. Gli uni spinti da zelo indiscreto, si occupano senza criterio e inutilmente di ciò che non reca alcun vantaggio a chi l’apprende, né é d’altra parte possibile apprenderlo; altri chiedono ragione a Dio dei suoi giudizi, sforzandosi come di scandagliare un grande abisso; però che "i tuoi giudizi, dice, sono un abisso grande" (Sl. 36,6). Pochi poi troveresti che siano solleciti della fede e del retto vivere, la maggior parte invece occupati nel fare e ricercare quello che non si può trovare e trovato muove Dio a sdegno. Ché quando ci sforziamo d’apprendere ciò che Egli non ha voluto che noi conoscessimo, non riusciremo a saperlo (e come potremmo se Dio non lo vuole?) e ci sovrasterà unicamente il pericolo derivante dall’essere andati investigandolo. Ma pur stando così le cose, quando uno riesca con l’autorità a chiudere la bocca a quelli che cercano tali arcani impossibili a conoscersi, si buscherà la taccia d’arrogante e ignorante; onde anche qui bisogna andar molto cauti, sì che il reggitore si sottragga a questioni fuor di luogo, e nello stesso tempo sfugga alle sopraddette accuse. Per tutte queste difficoltà non c’è offerto altro aiuto che quello che viene dalla parola; se taluno é privo di questa forza, le anime degli uomini a lui soggetti saranno in condizioni non migliori di navicelle continuamente sbattute da tempesta, dico degli uomini più infermi e più curiosi; onde il sacerdote ha da porre in opera ogni mezzo per acquistarsi tale potenza.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:42

Elogio di S. Paolo

VIII. "Or dunque, disse Basilio, perché Paolo non si curò di eccellere in questa virtù? egli non si vergogna della povertà di parola, ma confessa apertamente di essere idiota, e ciò scrivendo ai Corinzi, che erano ammirati per abilità di eloquio e ne andavano molto superbi".

"Questo, risposi, questo é ciò che rovinò molti e li rese più inerti nel magistero di verità; ché incapaci di indagare accuratamente la profondità dei concetti dell’Apostolo, e di penetrare il senso delle parole, consumarono tutto il loro tempo in letargo e fra sbadigli, coltivando questa idiozia: non già quella per cui Paolo chiama se stesso idiota, bensì un’altra da cui egli era tanto lontano quanto nessuno altro uomo che é sotto il cielo. Ma questo discorso ci aspetti al momento opportuno; frattanto io dico questo: poniamo pure ch’egli fosse per questo riguardo idiota, com’esci vogliono; orbene, che cosa importerebbe ciò per noi? Egli invero possedeva una forza molto più possente della parola e capace di operare molto maggior bene; ché al solo suo apparire, senza pur che parlasse, era tremendo per demoni; quelli d’adesso già non varrebbero a effettuare ciò che altra volta fecero i "semicinzi" (At. 19,12) di Paolo, quand’anche s’unissero insieme con infinite preci e lacrime. Col pregare, Paolo risuscitò i morti e operava tali altri portenti da essere creduto dai pagani una divinità; inoltre prima di uscire da questa vita fu fatto degno d’essere rapito fino al terzo cielo e intendere parole che alla natura umana non è permesso di udire. Quelli d’adesso invece (non posso dir nulla di disgustoso e offensivo, ché non parlo per inveire contro di loro, bensì per esprimere la mia ammirazione) come non rabbrividiscono paragonando se stessi ad un tale uomo? E se lasciando da parte i prodigi veniamo a considerare la vita di quel beato, e investighiamo la sua condotta angelica, in questa più ancora che nei miracoli, vedrai l’atleta di Cristo riportare la palma. Chi può degnamente dire del suo zelo e della sua moderazione, dei continui pericoli, delle cure costanti, degli incessanti affanni per le Chiese, del partecipare le infermità altrui, delle molte premure, delle straordinarie persecuzioni, e del morire ogni giorno? Qual parte del mondo, qual continente, qual mare non conobbe le fatiche di quel giusto? persino le lande disabitate lo conobbero e l’accolsero frequentemente in pericolo. Egli sofferse ogni sorte di insidie e riportò ogni genere di vittoria, né mai cessò di combattere e di riportare corone. Ma non so come m’indussi a vituperare quell’uomo: poiché i suoi pregi superano ogni parola, la mia poi di tanto, quanto i valenti parlatori mi vincono in eloquenza. Tuttavia anche così, ché quel beato non mi giudicherà dal risultato ma dall’intenzione, non mi tratterrò dal dire anche quello che supera di tanto il già detto, quanto egli supera tutti gli altri uomini. Che è ciò? dopo tante virtù dopo le innumerevoli corone, egli pregava di poter andare nella geenna e d’essere condannato alla pena eterna, perché si salvassero e si unissero con Cristo quei Giudei, che lo lapidarono e lo avrebbero anche ucciso se avessero potuto; chi amò Cristo fino a tal segno? seppure deve questo chiamarsi amore, o non forse qualcosa d’altro più grande che l’amore. E noi ci paragoneremo ancora a lui, dopo tanta grazia ch’egli ricevette dall’alto, dopo sì gran virtù da lui manifestata in se stesso? e qual maggiore audacia di questa?"

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:46

Eloquenza di S. Paolo

IX. E ora mi studierò anche di dimostrare che egli non era così idiota come quelli pensano. Essi invero chiamano idiota non solo chi non possiede la forbitezza dell’eloquenza pagana, ma chi neppure sa combattere per i dogmi della verità, e stimano rettamente: ma Paolo non disse già d’essere idiota sotto tutti e due questi aspetti, bensì sotto uno soltanto, e per confermarlo stabilisce chiaramente la distinzione, dicendo d’essere idiota nella parola, ma non nella conoscenza. Se io cercassi la levigatezza di Socrate, la maestà di Demostene, la gravità di Tucidide o la sublimità di Platone, in tal caso s’avrebbe da addurre quella testimonianza di Paolo; ma ora lascio da parte tutte quelle doti e tutto il superfluo adornamento dei pagani, né m’importa nulla della dicitura né dello stile: sia pur concesso d’aver povertà di frase e una combinazione di parole semplice e senza ricercatezza; soltanto nessuno sia idiota quanto a dottrina e a precisione di dogmi; né per palliare la propria indolenza sottragga a quel beato la maggiore fra le sue doti e quello che gli merita maggior lode.

S. Paolo cominciò il suo apostolato predicando e per mezzo della eloquenza ottenne i primi risultati

Con qual mezzo infatti, dimmi, confuse egli i Giudei che abitavano in Damasco, mentre non aveva ancora incominciato a operare prodigi? con quale vinse gli Ellenisti? Perché fu mandato a Tarso? Non forse perché egli fu vittorioso con la parola e tanto gl’incalzava da provocarli persino a toglierlo di vita, non potendo sopportare in pace la sconfitta? eppure colà non aveva ancor cominciato a compiere miracoli; né alcuno potrebbe dire che la maggior parte lo ammirassero per la fama dei suoi portenti e che quelli che lo prendevano di mira fossero sgominati dalla riputazione ch’egli godeva, ché fino a quel punto egli vinceva unicamente con la forza della sua parola. Con qual mezzo combatté e venne a discussione in Antiochia contro i giudaizzanti? e quell’Areopagita originario di quella superstiziosissima città, non divenne forse suo seguace egli e sua moglie attratto unicamente dal suo discorso? ed Eutico, come cadde dalla finestra? non forse per aver egli atteso a udire fino a notte inoltrata l’insegnamento della parola di lui? E a Tessalonica e a Corinto? e a Efeso e nella stessa Roma? non passava interi giorni e notti continuamente inteso a esporre le Scritture? chi potrebbe ripetere i suoi discorsi agli Epicurei e agli Stoici? Andrei ben per le lunghe, se volessi ricordare ogni cosa! Se dunque e prima dei miracoli e contemporaneamente a questi, appare aver egli fatto grande uso della parola, come oseranno ancora dire idiota colui che fu da tutti massimamente ammirato per la valentia nel discutere e nel concionare? Per qual motivo infatti i Licaoni lo credettero Ermes? l’essere essi ritenuti come dei deriva dai miracoli; ma che lui fosse preso per Ermes non fu già per i miracoli, bensì per la sua parola. Ed in che cosa quel beato sorpassò gli altri Apostoli e per qual ragione egli è molto celebrato da tutti nel mondo? come mai è ammirato sopra tutti non solo da noi, ma altresì dai Giudei e dagli Elleni? non è forse per l’efficacia delle sue epistole, colla quale edificò non solo i fedeli di quel tempo, ma ancora quelli che furono d’allora fino al presente e che saranno fino al giorno della parusia di Cristo, né cesserà di farlo finché duri l’umana stirpe? Queste sue scritture sono di baluardo come muro d’acciaio per tutte le Chiese del mondo, di guisa che [l’Apostolo] come un valorosissimo campione è tuttora fra noi "conducendo in servaggio ogni intelletto all’ubbidienza di Cristo, distruggendo le macchi nazioni e qualunque altura che si innalza contro la scienza di Dio" (1Cor. 10,5).

Tutto ciò egli compie per mezzo di quelle epistole che ci ha lasciate, meravigliose e piene di sapienza divina. Le sue scritture poi non valgono soltanto a distruggere i dogmi fallaci e confermare i veri, ma anche per ben vivere ci sono di non piccolo aiuto. Valendosi di esse infatti i capi delle Chiese, governano, edificano e innalzano a spirituale bellezza quella pura vergine che egli impalmò a Cristo, allontanano le infermità che cadono su di lei e le conservano la sanità acquistata. Tali medicine e di tanta efficacia ci ha lasciato quell’idiota, e le conoscono per prova coloro che incessantemente se ne valgono. Da ciò adunque appare manifesto che egli dedicò grande cura all’acquisto di questa dote.

X. Odi anche quello che dice scrivendo al suo discepolo: "Attendi alla lettura, all’esortare e all’insegnare" (1Tim. 4,13); indi aggiunge il frutto che ne deriva, dicendo: "Così facendo salverai te stesso e quelli che ti ascoltano" (1Tim. 4,16b). E ancora: "Al servo del Signore non si conviene di litigare: ma di essere mansueto con tutti, pronto a istruire, paziente" (1Tim. 4,13); e proseguendo soggiunge: "Ma tu attendi a quello che hai imparato e a quello che ti é stato affidato, sapendo da chi l’hai appreso, e che dalla fanciullezza conoscesti le sacre lettere le quali possono istruirti" (2Tim. 3,14); e inoltre: "Tutta la Scrittura é divinamente ispirata, dice, e utile a insegnare, a redarguire, a correggere, a formare alla giustizia, affinché l’uomo di Dio sia perfetto" (2Tim. 3,16-17).

Ascolta ancora ciò che egli prescrive a Tito parlando dell’elezione dei vescovi: "Però che il vescovo dev’essere dedito a quella parola fedele che é secondo la dottrina, affinché sia capace di convincere i contraddittori" (Tt. 1,9). Come mai uno essendo idiota, com’essi dicono, potrà convincere i contraddittori e ridurli al silenzio? e qual bisogno c’è di attendere alla lettura e alle Scritture, se s’ha da far buon viso a questa idiozia? ma queste cose sono pretesti e scuse, e nient’altro che un tentativo per dissimulare l’inerzia e la pigrizia. "Ma, essi dicono, tali precetti sono dati ai sacerdoti"; certo dei sacerdoti appunto noi ora parliamo; ma per convincerti che sono rivolti anche ai sudditi, odi ancora ciò ch’egli con altre parole in altra epistola raccomanda: "La parola di Cristo abiti in voi con pienezza in ogni sapienza" Col. 3,16); e ancora: "Il vostro discorso sia sempre con grazia asperso di sale, in guisa da distinguere come abbiate a rispondere a ciascheduno" (Col. 4,11); ora questa esortazione, d’esser pronti alla difesa, è rivolta a tutti; scrivendo poi ai Tessalonicesi: "siate, dice, di edificazione l’uno all’altro, come pur fate" (Tess. 5,11).

E quando discorre dei sacerdoti: "I presbiteri che governano bene sian riputati meritevoli di doppio onore; massimamente quelli che si affaticano nel parlare e nell’insegnare" (1Tim. 5,17). Poiché il termine più perfetto dell’insegnamento si raggiunge quando [i maestri] riescano a trarre i discepoli alla santa vita ordinata da Cristo, sia con le loro parole, sia con le loro opere; ché il fare non basta da solo per esercitare il magistero; né la sentenza è mia, bensì del Salvatore stesso: "Chi avrà e operato e insegnato, questi sarà chiamato grande" (Mt. 5,19). Or se l’operare equivalesse all’insegnare, la seconda parte era superflua, e sarebbe bastato dire: "Chi avrà operato"; ma col distinguere l’una cosa dall’altra, dimostra che una parte [del magistero] consiste nelle opere, un’altra nella parola, e che hanno bisogno reciproco l’una dell’altra per la perfetta edificazione. O non odi ciò che dice quel vaso eletto di Cristo ai presbiteri degli Efesini: "Per la qual cosa siate vigilanti, rammentandovi come per tre anni non cessai giorno e notte d’ammonire con lacrime ciascuno di voi?" (At. 20,31). Che bisogno c’era allora di lacrime o d’ammonizione di parole, mentre la sua vita apostolica splendeva di tanta luce?

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:57

L’esempio apostolico non basta da solo. Bisogna che vi si unisca, come dimostra lo stesso S. Paolo, l’efficacia della parola

XI. Questa [sua vita] può bensì essere in gran parte d’impulso per l’adempimento dei precetti, né direi che anche per quello scopo basti da sola a esercitare ogni efficacia, ma quando ci si muove guerra intorno ai dogmi e tutti ci combattono appoggiandosi sulle Scritture stesse, quale forza potrà mostrare in tal caso l’esempio della vita di lui? Qual frutto si ricaverà dall’esempio dei tanti sudori di lui, se non ostante quelle fatiche taluno per la sua grande incapacità cadendo nell’eresia venga scisso dal corpo della Chiesa, cosa ch’io ho pur visto accadere a molti? Qual vantaggio verrà a lui dalla fortezza (dell’Apostolo)? nessuno, come nessun vantaggio verrebbe dal serbare retta la fede, qualora la vita diventi corrotta. Per questi motivi appunto bisogna che chi deve ammaestrare gli altri abbia grande perizia di queste battaglie; ché se anche egli rimanga al sicuro senza subire danno da’ suoi contraddittori, tuttavia la moltitudine dei meno istruiti che è a lui soggetta, vedendo il capo ridotto al silenzio senz’aver di che rispondere agli avversari, attribuirà la sconfitta non alla debolezza di lui, ma all’essere egli intaccato nel dogma; onde per l’incapacità d’uno solo, gran parte del popolo viene tratta a rovina. Ché se pure non si schierino interamente dalla parte degli avversari, tuttavia sono condotti per forza a dubitare di ciò che dovrebbero credere con sicurezza, né possono più aderire con la medesima fermezza a quanto per l’innanzi accoglievano con fede incrollabile; ma per la sconfitta del maestro, sorge nelle loro anime tale tempesta, da finire anche con un funesto naufragio; or qual rovina e qual fuoco s’accumuli sul capo di quel misero per ciascuno di questi perduti, non c’è bisogno che tu l’apprenda da me, sapendolo tu pure perfettamente. E dunque dovrà chiamarsi arroganza e vanagloria il non voler esser cagione della rovina di tanti, né procurare a me stesso un maggior castigo di quello che ora mi è serbato colà? chi potrebbe dir ciò? nessuno per certo, tranne chi voglia inutilmente biasimare o sfoggiare senno sui casi altrui.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:58

Libro quinto

Il vescovo come maestro e oratore. Contegno e esigenze dell’uditorio

I. Ho dimostrato a sufficienza di quanta abilità dev’essere fornito il maestro per potere far fronte agli assalti contro la verità; debbo ora parlare di un’altra incombenza oltre quelle accennate, che è causa di infiniti pericoli; o piuttosto, direi che non essa lo sia, ma coloro che non sanno adempierla come si conviene; poiché l’opera per se stessa può essere strumento di salvezza e pegno di molti beni, quando trovi per ministri uomini diligenti e virtuosi. Qual è quest’incombenza? la gran fatica consacrata ai discorsi che si tengono pubblicamente al popolo. Anzitutto la maggior parte dei sudditi non vogliono comportarsi di fronte agli oratori come dinanzi a maestri, ma trapassando il livello di discepoli, assumono l’atteggiamento degli spettatori che assistono agli spettacoli profani; e come il popolo là si divide, e gli uni si dichiarano per questo, gli altri per l’altro, così anche qui, fra loro divisi, parte sostengono un tale, parte un tal altro, e ascoltano le cose predicate solo per applaudire o per biasimare. Né questo è il solo male, ma ve n’è un altro non minore: se accade che un oratore inserisca nel suo discorso qualche brano di fattura altrui, è fatto segno a dileggio più che un ladro volgare; spesso anche senza che plagio vi sia, ma solo per un sospetto, lo trattano come chi è colto con le mani nel sacco. Ma che dico brani di fattura altrui? Non è neppure lecito a uno di valersi più volte delle sue stesse opere; poiché non per trarne vantaggio, ma unicamente per diletto sogliono ascoltare la maggior parte, sedendo come fossero giudici di citarèdi e di tragèdi così la facoltà dell’eloquenza che poco fa sottoposi a censura, diventa qui tanto desiderabile quanto nemmeno lo è ai sofisti obbligati a discutere fra di loro. Anche in queste circostanze pertanto c’è bisogno di un’anima generosa e molto al disopra della mia piccolezza, per reprimere la disordinata e perniciosa voluttà della moltitudine e indirizzare l’uditorio verso una meta. più vantaggiosa, di modo che il popolo gli vada dietro docilmente e non sia egli trascinato dalle loro velleità. Ciò non è dato ottenere se non con questo duplice mezzo: disprezzo delle lodi e efficacia di parola.

Non bisogna dar troppo peso alle approvazioni e ai biasimi dell’uditorio

Il. Ove l’uno manchi, l’altro torna inutile, per la separazione dal primo; se uno pur nutrendo disprezzo per la lode, non esponga un insegnamento con grazia e asperso di sale, diviene facilmente oggetto di scherno per la maggior parte, nulla guadagnando da quella sua superiorità d’animo; se poi si diporti bene per questo lato e si lasci soggiogare dall’opinione che s’esprime con applausi fragorosi, ne verrà eguale danno a lui e alla moltitudine, poiché egli, preso dal desiderio della lode, si dedicherà al ministero della parola più per acquistare favore che per recare vantaggio. Onde, come colui che non avendo brama di gloria né sapendo parlare affatto, non cede alla voluttà del popolo, ma nemmeno può recargli qualche notevole giovamento, così pure chi è trascinato dal desiderio di elogi, mentre avrebbe da dire quello che può rendere migliore il popolo, invece di ciò espone quello che meglio serve a dilettarlo, traendone in compenso lo strepito degli applausi.

L’ottimo capo ha da esser quindi ben munito da ambe le parti, onde non rovinare l’una per mezzo dell’altra.

Quando egli sorgendo in mezzo dice cose adatte a scuotere gli inerti, ma poi incespica, s’interrompe ed è costretto a vergognarsi per incapacità, tosto si disperde il frutto delle cose dette; ché quelli che furono ripresi, rattristati per le parole loro indirizzate e non potendo altrimenti resistergli, lo colpiscono schernendo la sua ignoranza, e credono così di nascondere i rimproveri da lui ricevuti. Conviene pertanto che come un ottimo auriga, spinga se stesso alla perfezione di questi due pregi in guisa da poterne far uso secondo il bisogno: quando sarà irreprensibile di fronte a tutti, allora potrà con quanta autorità gli piaccia punire o perdonare secondo il caso tutti i suoi sudditi: ma prima d’aver raggiunto questo termine non gli sarà facile agire in tal guisa. Si deve poi estendere la magnanimità non solo fino al disprezzo delle lodi, ma più oltre, affinché il frutto non rimanga incompleto.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 11:59

Mentre si sprezza il capriccio mutevole della folla, bisogna però troncare i maligni sospetti e le insinuazioni calunniose

III. Qual altra cosa pertanto bisogna disprezzare? La gelosia e l’invidia: non è bene temere e paventare oltre misura le intempestive calunnie (poiché il capo necessariamente deve sopportare biasimi irragionevoli) né il passarvi sopra con troppa bonarietà; ma anche se sono false e scagliate da gente volgare, bisogna studiarsi di soffocarle repentinamente. Nulla infatti contribuisce più della folla a creare una fama buona o cattiva; avvezza ad ascoltare e parlare senza criterio, ripete a casaccio tutto quanto le viene all’orecchio, senza preoccuparsi affatto se sia vero o falso. Non bisogna quindi stare noncuranti della folla, ma troncare al più presto i maligni sospetti, sforzandosi di convincere i maldicenti quand’anche fossero dei più irragionevoli, né lasciare alcun mezzo intentato per distruggere la cattiva opinione. Se poi, pur avendo noi posto in opera ogni mezzo, i calunniatori non vogliano persuadersi, allora conviene disprezzarli; ché se taluno si lascerà abbattere per simili vicende, non potrà mai far nulla di nobile e degno d’ammirazione; l’abbattimento e le continue ansie hanno funesta efficacia per spegnere l’energia dello spirito e piombarlo in estrema sfinitezza. Il vescovo ha da comportarsi coi suoi sudditi come un padre coi figli ancor molto piccini; come non ci conturbiamo qualora questi ci insultino o ci percuotano, o se piangano, né molto diamo loro retta quando ridono e ci fanno festa, così non bisogna lasciarci soggiogare dalle lodi della folla né essere oppressi per i suoi biasimi, quando sono mossi senza motivo. Ma ciò è difficile, o caro, e forse anche, credo, impossibile; non so se ad alcun uomo riesca di non gioire delle lodi; or chi ne gioisce è naturale che nutrisca desiderio di riceverne, e chi desidera di riceverne è giocoforza che sia rattristato, sfiduciato, agitato e afflitto quando gli venga negata la lode.

Come quelli che godono della ricchezza, qualora cadano in miseria restano oppressi, e assuefatti com’erano alle mollezze non possono adattarsi a vivere grossolanamente, così anche i bramosi di elogi, non solo se vengano ingiustamente biasimati, ma anche se non sono costantemente acclamati, si sentono l’anima sfinita come per farne, specialmente quando per avventura ne fossero stati [prima] lautamente pasciuti, o quando per soprappiù sentono che altri riscuote applausi. Quali brighe e quali affanni credi tu non abbia pertanto a incontrare chi si espone al cimento del magistero con lo stimolo di questa bramosia? L’anima sua non sarà mai libera da ansie e tormenti, come non può essere il mare libero da marosi.

L’eloquenza esige un costante esercizio per conservare la sua efficacia

IV. Ma non potrà sottrarsi a un assiduo travaglio neppure quando possieda gran potenza di parola, cosa che non è facile trovare se non in pochi; poiché, essendo l’eloquenza frutto di studio anziché dono di natura, quando pure alcuno ne abbia raggiunto il culmine, ne perde affatto l’esercizio se non alimenta questa sua facoltà con costante diligenza e fatica; onde il travaglio diviene maggiore per i più istruiti che per i più idioti; non è infatti eguale a questi e a quelli il danno della trascuratezza, ma è di tanto maggiore, di quanto diverso è il corredo di cultura degli uni e degli altri. A questi ultimi nessuno muoverebbe rimprovero se parlando espongono solo inezie; quelli invece se non mettono in mostra cose sempre superiori alla fama in che tutti li tengono, subito sono fatti segno a critiche; inoltre agli altri si prodigano grandi elogi anche per piccolo merito, ma se i pregi di quelli non sono molto meravigliosi e abbaglianti, non soltanto si nega loro la lode, ma anche si scagliano loro contro numerosi vituperi; già, gli uditori siedono giudici non tanto delle cose dette, quanto del dicitore, onde quanto più uno supera tutti gli altri nell’eloquenza, tanto più gli è d’uopo di laboriosa cura. A lui invero non è lecito soggiacere nemmeno a ciò che è comune alla natura umana, cioè al non fare perfettamente ogni cosa, ma se i suoi discorsi non sono proporzionati all’altezza della sua rinomanza, ne esce carico degli scherni e delle critiche innumerevoli di tutti. Nessuno considera che un abbattimento sopravvenuto, le lotte e le preoccupazioni, spesso anche l’irritazione, possono oscurare la limpidezza del pensiero e impedire che i concetti vengano espressi con chiarezza, né che essendo egli in tutto uomo, non gli è possibile mantenersi sempre dello stesso umore e sempre col vento in poppa, ma naturalmente deve talvolta venire meno e mostrarsi al disotto del proprio livello; nulla, come dico, di tutto questo vogliono considerare, ma gli fan colpa di tutto come se giudicassero d’un angelo. È poi particolarmente proprio dell’uomo il far poco caso di grandi e numerosi pregi che si trovino in persona vicina; se invece in essa appaia una colpa, per quanto piccola e d’antica data, ognuno se ne accorge tosto, se ne fa severo censore e a ogni occasione vi ritorna sopra; onde spesso un difetto piccolo e comune sminuì la fama di molti e grandi uomini.

V. Vedi, o ottimo, che v’è bisogno di operosità sopra tutto per chi è fornito d’eloquenza; e oltre all’operosità gli occorre anche tanta tolleranza quanta non ne occorre a tutti quelli di cui ti ho parlato sopra. Molti infatti gli si oppongono di continuo senza ragionare, nulla avendo da rinfacciargli, ma solo eccitati dall’essere egli in fama presso tutti: bisogna ch’egli sappia sopportare la fastidiosa gelosia di costoro. Non riuscendo essi a celare quest’odio loro maledetto, che ingiustamente nutrono, vengono a ingiurie, a maligne critiche, calunniando di nascosto e imperversando a faccia aperta; onde un’anima che cominciasse ad affliggersi e irritarsi per ciascuno di questi incontri, morrebbe anzi tempo di crepacuore. Non solo da se stessi gli fanno guerra, ma s’adoperano anche per avere l’aiuto di altri; e spesso scelto qualcuno che non sa affatto ben parlare, cominciano a levarlo a cielo con lodi, e vanno magnificandolo oltre il suo merito, gli uni facendo ciò per ignoranza, gli. altri per ignoranza ed invidia al tempo stesso, più per togliere la fama a quell’altro, che per far apparire mirabile chi in realtà non è tale. Ma quel generoso non ha da combattere soltanto contro costoro, bensì spesso anche contro la rozzezza di tutto il popolo. Poiché il pubblico non è composto tutto di uomini eccellenti, ma la maggior parte dell’assemblea sono gente volgare, mentre gli altri poi, pur essendo più istruiti dei primi, tuttavia sono lontani dal poter apprezzare l’eloquenza molto più di quanto il volgo sia al disotto di loro; sicché rimangono a stento uno o due che possiedano tale capacità. Quindi accade necessariamente che chi meglio parla, spesso raccoglie minori applausi e talvolta persino ne rimane privo affatto. Anche di fronte a questi ingiusti apprezzamenti deve comportarsi con fortezza e perdonare a quelli che ciò fanno per ignoranza, e quelli che invece vi sono spinti da invidia, compiangerli come miserabili e degni di pietà; né deve stimare che il suo valore venga menomato per i giudizi sì degli uni che degli altri.

Ché anche un eccellente pittore e superiore nell’arte a tutti gli altri, qualora vedesse un quadro dipinto da lui con ogni cura censurato da profani, non avrebbe per certo da avvilirsi e riputare cattiva l’opera sua in forza del giudizio di quelli; come nemmeno dovrebbe giudicare meravigliosa e affascinante un’opera in sé cattiva, sol perché desta l’ammirazione degli idioti. L’artefice ottimo dev’essere anche giudice lui solo delle opere sue, e queste s’hanno a ritenere buone o cattive quando l’intelletto che le ha prodotte avrà dato questi suffragi, senza neppur badare all’opinione degli estranei, soggetta a errore e incompetente. Ora chi affronta il cimento del magistero non deve badare agli elogi degli estranei, né l’anima sua deve essere abbattuta qualora gli siano negati, ma componendo i suoi discorsi in guisa da piacere a Dio (questo dev’essere per lui il criterio supremo per giudicare dell’ottima fattura d’essi, non gli applausi, né gli elogi), se verrà lodato anche dagli uomini, non rifiuti i loro encomi, ma se gli uditori non glie ne concedono, non ne vada in cerca né se ne affligga. Sufficiente sollievo delle fatiche, e maggiore di ogni altro sarà per lui la coscienza del suo sforzo di indirizzare e disporre il suo insegnamento in modo da incontrare l’approvazione divina.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 12:00

L’oratore sacro ha bisogno di grande fede e fortezza d’animo

VI. Se egli invece viene ad essere soggiogato dal desiderio di lodi irragionevoli, nessuno vantaggio ricaverà dalle sue molte fatiche né dalla sua bravura nel parlare, perché l’anima non potendo poi sopportare i biasimi inconsiderati del volgo, rallenta nell’ardore e cessa di applicarsi con cura al magistero della parola; bisogna perciò esercitarsi soprattutto nel disprezzo delle lodi., ché se non si unisce questo, non basta il saper ben parlare per serbare in vigore questa facoltà. Ma se alcuno consideri bene anche la condizione di chi non è riccamente fornito di questa dote, troverà che anch’egli non ha minor bisogno di sprezzare l’applauso; egli infatti sarà nella necessità di commettere molti falli, trovandosi al disotto dell’opinione comune; incapace di rivaleggiare coi predicatori famosi, non si periterà di tendere loro insidie, nutrire invidia contro di essi, di biasimarli ingiustamente e di macchiarsi di molte simili colpe, tutto osando quand’anche avesse da perderci l’anima, pur di riuscire ad abbassare la fama di quelli fino al livello della propria nullità. Inoltre rifuggirà dai sudori necessari per l’opera sua, come se l’anima gli fosse gravata da torpore; e invero il molto travagliarsi per ottenere una scarsa messe di applausi, basta per abbattere e avvolgere in profondo letargo colui che non sa sprezzare la lode; anche l’agricoltore quando lavora un terreno poco produttivo e deve coltivare la ghiaia, presto abbandona la fatica, se non sia sostenuto da grande tenacia nel continuare la sua impresa, o se non tema il sovrastare della carestia.

Se coloro che pur sanno parlare con molta autorità hanno bisogno di tanta cura per conservarsi questa loro dote, colui che non ha messo nulla in serbo, ma deve tuttavia porsi in grado di potersi presentare al pubblico, a quali difficoltà, turbamenti e angustie non dovrà sottostare, per raccogliere da grande fatica qualche piccolo frutto? Che se poi uno di quelli che stanno più in basso di lui e occupano una carica inferiore, riesca ad acquistarsi per questo lato una maggior rinomanza, allora ci vuol proprio un’anima quasi celeste, per non cadere in preda all’invidia né lasciarsi abbattere dallo scoramento; perché l’essere egli superato nel successo per opera d’un suo subalterno, mentre egli è posto in maggior dignità di grado, e sopportare ciò generosamente, non è virtù comune, ma propria di un’anima d’acciaio. Quando il più favorito sia persona affabile e moderata assai, allora il rammarico diventa in qualche modo sopportabile; ma se è un tipo arrogante, borioso e avido di gloria, sarebbe a quell’altro più desiderabile la morte ogni giorno, tanto questi gli renderà amara l’esistenza, censurandolo apertamente, schernendolo di nascosto, sottraendogli gran parte dell’autorità, bramoso di tutta usurparsela.

E in tutto ciò ha come appoggio sicuro l’audacia nel parlare e il favore della plebe a suo riguardo e l’essere nelle grazie di tutti i sudditi. E non vedi tu quanta brama di discorsi si è ora infiltrata nelle anime dei Cristiani e come quelli che vi danno opera sono in onore non solo presso i pagani, ma anche tra i fedeli? E chi sopporterebbe questa confusione, che mentre egli predica, tutti se ne stiano zitti e stimino di essere importunati, sospirando la fine del discorso come liberazione da un tormento; mentre invece l’altro anche se parla a lungo, l’ascoltano con entusiasmo, e accennando egli a finire si conturbano, e se fa di tacere, si adontano?

Sono cose che se anche ora ti sembrano piccole e disprezzabili, per non averle tu ancora provate, bastano però a spegnere l’entusiasmo e paralizzare le energie dello spirito, se uno levandosi al disopra di ogni umano affetto non si studi di comportarsi come le potenze incorporee, le quali non soggiacciono né a invidia né a vanagloria, né ad altra simile infermità. Se dunque v’ha un uomo di tale tempra che sappia mettere sotto i piedi questa belva inafferrabile, invincibile e selvaggia che è la pubblica opinione e troncarne le numerose teste, anzi da non lasciarle né anche da principio spuntare, quegli potrà agevolmente respingere i frequenti assalti e godere come di un porto tranquillo; ma finché non ne sarà liberato, egli imporrà all’anima sua una guerra molteplice, continuo affanno, e il peso dello scoramento e d’ogni altra angustia. E a che enumerare le rimanenti difficoltà? Nessuno può né dirle né comprenderle, se non si sia trovato egli stesso in mezzo a queste brighe.


Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:17

Libro sesto

Riepilogo. Difficoltà del ministero e virtù necessarie. Conclusione della difesa.
Il pensiero di dover rendere conto al Giudice supremo della salute spirituale dei sudditi, incute grande timore.


I. Così stanno le cose quaggiù, come hai udito; quelle poi che riguardano l’altra vita, come potremo sopportarle, essendo noi costretti a rendere ragione di ciascuno di coloro che ci furono affidati? Il danno non si limiterà allora alla vergogna, ma trarrà seco una punizione eterna. Se già l’ho ricordato, non tralascerò ora di ripetere il detto: "Siate ubbidienti ai vostri prelati e siate ad essi soggetti, poiché essi vegliano come dovendo rendere conto delle anime vostre" (Eb. 18,17); ché il timore di questa minaccia mi agita continuamente lo spirito. Se per chi scandalizza minimamente uno solo "conviene che gli sia sospesa al collo una pietra da mulino e venga precipitato nel mare" (Mt. 18,6) e se "quanti offendono la coscienza dei fratelli, peccano contro lo stesso Cristo" (1Cor. 8,12), chi infligge tanta rovina non a uno, o due, o tre, ma a un popolo intero, che cosa non dovrà soffrire in pena e quale castigo non avrà da riceverne? Né si può incolpare l’inesperienza, né rifugiarsi nella scusa dell’ignoranza, né addurre come pretesto la violenza e la costrizione subita: tale pretesto potrebbe farlo valere chiunque fra i sudditi, qualora fosse il caso, riguardo alle proprie colpe, più facilmente di quello che un capo possa addurlo a scusa delle colpe altrui. E perché mai? perché chi é incaricato di correggere l’ignoranza degli altri e porre in guardia contro la guerra diabolica quando s’avvicina, non potrà certo pretessere l’ignoranza propria, né dire: "Non ho udito la tromba, né ho potuto prevedere la battaglia". Poiché, per questo, come dice Ezechiele, t’ha fatto sedere, per suonare la tromba anche per gli altri e preannunziare le calamità future. Onde la pena sarà inesorabile, anche se uno solo andasse perduto. Ché "se all’avvicinarsi della spada, dice, la sentinella non suoni la tromba al popolo, per annunziarla, e la spada venendo prenda un uomo, questi veramente per colpa sua é rapito, ma del sangue di lui domanderò conto alla sentinella" (Ez. 33,6).

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:18

Custodia dei sensi e purezza angelica necessaria al sacerdote

Cessa pertanto di spingermi verso una pena tanto inesorabile: non si tratta né di comando militare né di dignità regia, ma di un’istituzione tale che richiede una virtù angelica. L’anima del Sacerdote dev’essere più pura dei raggi del sole, affinché lo Spirito Santo non lo abbandoni e affinché possa dire: "Vivo non già io, ma vive in me Cristo" (Gal. 2,20). Ché se gli anacoreti del deserto, lontani, dalla città e dai pubblici ritrovi e da ogni strepito proprio di quei luoghi, godendo interamente il porto e la bonaccia, non s’inducono a confidare nella sicurezza di quella loro vita, ma aggiungono infinite altre attenzioni, munendosi da ogni parte e studiandosi di fare o dire ogni cosa con grande diligenza, per potersi presentare al cospetto di Dio con fiducia e intatta purezza, per quanto é possibile alle umane facoltà; qual forza e violenza ti pare che farà d’uopo al vescovo, per sottrarre l’anima sua da ogni macchia e serbarne intatta la spirituale beltà? A lui occorre per certo maggior purezza che a quelli, e frattanto, proprio lui che ne ha maggior bisogno è esposto a maggiori occasioni necessarie, nelle quali può essere contaminato, se con assidua sobrietà e vigilanza non renda l’anima sua inaccessibile a quelle insidie.

La grazia della persona, le movenze affettate, il camminare ricercato, l’esilità della voce, gli occhi imbellettati, la tintura delle gote, la disposizione delle trecce, le chiome impatinate, lo sfarzo delle vesti e la varietà dei monili, la bellezza delle gemme, il profumo degli unguenti e tutte le attrattive di cui va in cerca il sesso femminile, bastano a turbare l’anima qualora non sia bene inaridita con rigorosa temperanza. Del resto nulla di strano che uno sia inquietato da simili cose, ma ciò che riempie di stupore e di sgomento é che il diavolo può percuotere e trafiggere le anime degli uomini mediante oggetti affatto contrari a quelli.

II. Taluni infatti essendo sfuggiti a quelle trappole, caddero in altre assai diverse. Lo sguardo trascurato, la capigliatura ispida, il vestito sudicio, l’aspetto dimesso, i modi semplici, il parlar naturale, l’incesso comune, la voce piana, il vivere in povertà, l’essere oggetto di disprezzo senza appoggio e in abbandono, dopo aver mosso a compassione l’osservatore, finirono per trascinarlo a estrema rovina: onde molti, scampando dalle prime reti tese dai monili, unguenti, abiti sfarzosi, e tutto il resto sopra ricordato, caddero con tutta facilità in queste altre così diverse da quelle, e vi soccombettero. Se dunque mediante la povertà e la ricchezza l’ornamento e l’aspetto dimesso, i modi affettati e quelli trascurati, in una parola mediante tutti gli oggetti sopra enumerati si accende la guerra contro l’anima dello spettatore, e d’ogni intorno gli tendono insidie, come potrà egli respirare, stretto nel cerchio di tanti scogli? quale scampo potrà trovare, non dico per non soccombere alla violenza, ché ciò non é molto difficile, ma per serbare l’anima sua tranquilla e libera da immondi pensieri?

Lascio da parte gli onori che sono cagione di mali infiniti; quelli che provengono dalle donne sbolliscono bensì con l’assiduità della modestia, ma possono anche far cadere chi non sa mantenersi sempre vigilante contro tali insidie; quanto poi a quelli offerti dagli uomini, se uno non li accoglie con molta superiorità di spirito, soggiace a due affezioni contrarie, quali la servile

adulazione e la stolta iattanza, costretto a inchinarsi a quelli che dovrebbero stare a’ suoi cenni, reso aspro contro i minori dal favore accordatogli e spinto così nel baratro della presunzione. Queste cose dico io; ma il danno che da ciò proviene nessuno potrebbe pienamente comprenderlo, senz’averne fatto esperienza, ché a chi si trova all’atto pratico é giocoforza che ne accadano di peggiori e più rovinose.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:18

Il ministero dedicato al popolo é più difficile che il governo di comunità monastiche

Colui che preferisce la quiete si trova libero da ogni peso: onde se talora un pensiero vano gli suggerisce qualcosa di simile, la fantasia é debole e facile a spegnersi, non somministrandosi dall’esterno per mezzo della visione, materia all’incendio. Inoltre il monaco teme solo per se stesso; se mai é costretto a stare in angustia anche per altri, si tratta d’un numero piccolissimo; e se fossero più numerosi, lo sono sempre meno di quelli che sono nelle chiese, e procurano al prelato cure assai più lievi, non solo per il piccolo numero, ma anche perché tutti sono liberi dalle faccende mondane e non hanno da preoccuparsi né per i figli né per la moglie né per null’altro di simile. Questo li fa più docili ai superiori, ed anche l’aver essi in comune l’abitazione, in guisa che le loro mancanze si possono diligentemente avvertire e correggere, il che é di non piccola importanza per il progresso nella virtù.

Invece la maggior parte di quelli che sono soggetti al vescovo é occupata nelle cure materiali, il che li rende più indolenti per quanto si riferisce alle opere spirituali, onde il maestro deve, per così dire, seminare quotidianamente, affinché la parola del magistero possa con l’assiduità essere finalmente afferrata dagli uditori. La sfondata ricchezza, la posizione elevata, la pigrizia derivante dal lusso, e molte altre cause oltre a queste, soffocano i semi deposti; spesso poi la fitta delle spine non lascia neppur cadere la sementa fino a poter germogliare; anche l’eccesso della tribolazione e le strette dell’indigenza, i soprusi continui e altre cause contrarie alle prime, possono ritrarre dalla sollecitudine per le cose di Dio. Delle loro colpe poi non può venire in chiaro al vescovo neppur la minima parte; e come potrebbe essere diversamente se non conosce nemmeno di vista il maggior numero de’ sudditi?

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:19

La responsabilità dinanzi a Dio. Grandezza del rito eucaristico

III. Tali difficoltà offrono al vescovo i suoi rapporti col popolo; ma se alcuno investiga i suoi rapporti con Dio, troverà che le altre sono al confronto un nulla, tanto maggiore e più complessa é la cura che questi richiedono. Colui il quale é mallevadore di tutta una città, ma che dico città? di tutto il mondo, e che deve propiziare Iddio per le colpe di tutti, non solo de’ vivi ma anche de’ trapassati, di quale virtù non dev’essere egli fornito? Io non stimo possa bastare per tale intercessione né la fiducia di Mosè, né quella di Elia. E per vero [il vescovo], come custode di tutto il mondo e padre di tutti, si presenta a Dio supplicandolo di sedare le guerre e comporre i disordini, implorando pace, prosperità e privatamente e pubblicamente la pronta liberazione di tutte le calamità da cui ciascuno é afflitto; perciò egli deve tanto superare tutti coloro per i quali intercede, quanto é ragionevole che il prelato superi [in dignità] i suoi subalterni. Quando poi invoca lo Spirito Santo e compie il tremendo sacrificio e viene in assiduo contatto col comune Signore di tutte le cose, in qual grado, dimmi, lo porremo noi? e qual purezza e austerità non richiederemo da lui? pensa quali hanno da essere le mani che si gran cose amministrano, quale la lingua che pronunzia quelle parole, e come dev’essere più immacolata e santa che mai l’anima che deve accogliere un tanto Spirito? Allora assistono al sacerdote anche gli angeli, onde il Santuario e lo spazio intorno all’altare si riempie di potenze celesti, in omaggio [al Signore] presente. Ciò si può asseverare anche da quanto é altra volta accaduto; io stesso ho udito da un tale raccontare che un certo vecchio, uomo meraviglioso e favorito da rivelazioni, gli aveva confidato d’essergli stata una volta concessa una simile visione, e che durante quel tempo aveva scorto d’improvviso una moltitudine di angeli, com’egli li poteva vedere, cinti di fulgide vesti, facenti corona all’altare e starsene inchinati, in atto simile a’ guerrieri in presenza del re; e io lo credo. Un altro pure mi raccontò, non riferitogli da chicchessia, ma lui stesso esser stato degnato di vedere e udire che coloro i quali stanno per dipartirsi da questa vita, se abbiano partecipato. ai misteri con intatta coscienza, al loro spirare gli angeli in guardia d’onore ne li conducono, per riverenza al sacramento da loro ricevuto. Tu invece non rabbrividisci nello spingere a sì santa azione un’anima come la mia, e nel sollevare alla dignità de’ sacerdoti uno avvolto in sordide vesti e che Cristo respinse anche dal ceto degli altri convitati!

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:20

Il sacerdote é sale della terra e luce del mondo

L’anima del sacerdote deve splendere come luce che illumina tutta la terra, mentre la mia é ravvolta dalla perversa coscienza in si fitta tenebra, che sempre vi sta sommersa né può mai con fiducia volger lo sguardo al suo Signore. I sacerdoti sono il sale della terra, mentre invece la mia insipienza e totale inesperienza, chi le tollererebbe di buon grado, se non voi altri, per la consuetudine d’eccessivo affetto? Ché [il sacerdote] dev’essere non soltanto puro come lo richiede un tanto ministero, ma anche molto prudente e pratico di molte faccende; non deve conoscer gli affari materiali meno di quelli che vi si trovano in mezzo, e tuttavia deve esserne distaccato non meno dei monaci che abitano i monti. Egli deve essere versatile, perché ha da far con uomini che hanno moglie, figli, servitù, sono circondati da grandi ricchezze, trattano la cosa pubblica e occupano alte cariche: versatile, dico, non subdolo, né adulatore né ipocrita, ma pieno di libertà e di franchezza, sapendo però accondiscendere docilmente qualora le circostanze lo richiedano, mostrandosi a un tempo affabile e austero. Non bisogna infatti comportarsi allo stesso modo con tutti i sudditi, come non sarebbe opportuno ai medici procedere con uno stesso criterio con tutti gli ammalati, né al pilota conoscere una sola manovra per combattere contro i marosi. E per vero anche questa nave é premuta da continue tempeste; tempeste che non solo assalgono dall’esterno, ma sorgono anche dall’interno, onde v’è d’uopo di grande accondiscendenza, ma insieme di grande attenzione. Tutte queste cose, sebbene fra loro diverse, cospirano a un fine unico: la gloria di Dio e l’edificazione della Chiesa.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:20

Confronto tra il monaco e il sacerdote

IV. Grande é la professione monastica e costa molta fatica; ma chi paragoni quei travagli al conveniente disimpegno dell’episcopato, troverà tanta differenza quanta ve n’ha fra un uomo del volgo e un re. Sebbene là sia grande la fatica, tuttavia la lotta é sostenuta in comune dal corpo e dall’anima, anzi nella maggior parte essa dipende dalla costituzione del corpo; se questo non é vigoroso la passione rimane assopita, né può effondersi nell’azione; onde anche gli assidui digiuni, il dormire su nuda terra, le veglie protratte, il non lavarsi, la dura fatica e tutti gli altri esercizi che servono a mortificare il corpo, sono messi in disparte, essendo privo di vigore quello che dovrebbe venire represso. Qui invece l’arte è puramente dell’anima, né ha d’uopo del benessere del corpo per dimostrare la sua virtù. Infatti, a che gioverebbe la forza del corpo per evitare l’arroganza, l’irascibilità, la precipitazione, ed essere invece sobri, prudenti, ordinati, e mostrare tutte le altre doti con cui il beato Paolo ci descrive in tutte le sue parti l’immagine del perfetto vescovo? Non si potrebbe dir ciò riguardo alle virtù proprie dei monaci.

Ma come ai prestigiatori occorrono molti ordigni e ruote e corde e coltelli, mentre il filosofo ha l’arte sua riposta tutta nell’anima senza bisogno di strumenti esterni, così anche nel nostro caso, il monaco ha bisogno della buona costituzione corporale e di luoghi adatti al suo esercizio, che non siano troppo lontani dal consorzio degli uomini, che abbiano la quiete propria delle regioni disabitate e che inoltre non difettino di un’ottima temperatura dell’atmosfera; però che nulla riesce più intollerabile delle intemperie per chi é già estenuato dai digiuni; non parlo poi delle brighe che essi hanno necessariamente per prepararsi le vesti e il vitto, dovendo ogni cosa fare da se stessi. Il vescovo invece non dovrà occuparsi di tutto ciò per servire alle proprie necessità, ma esente da tali lavori, egli partecipa a tutte le manifestazioni della vita che non recano danno, custodendo tutta la sua scienza in serbo nel ripostiglio dell’anima. Che se taluno ammira quelli che se ne stanno in disparte, anch’io direi che ciò è segno di fortezza, non però un saggio sufficiente di tutta

la virtù che è nell’anima: chi siede al timone standosene chiuso nel porto, non offre adeguata prova dell’arte sua, ma se uno riesca a salvare la nave in mezzo al pelago e alla procella, nessuno oserà negare ch’egli sia un ottimo pilota.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:21

La vita solitaria non porge molte occasioni di provare la virtù.

V. Pertanto non ci dovrebbe destare un’ammirazione esageratamente grande il monaco, che standosene solo non soffre turbamenti né commette grandi e numerose colpe: egli non ha le occasioni che stimolano e risvegliano l’anima. Invece, quando uno dedicandosi a intere moltitudini e costretto a sopportare i disordini di tutti, sa mantenersi diritto e forte, guidando l’anima fra le tempeste come se fosse in bonaccia, questi sarebbe degno d’essere acclamato e ammirato da tutti, ché ha offerto una prova sufficiente della sua fortezza. Non devi pertanto meravigliarti se io, fuggendo i ritrovi e le compagnie numerose, non vado incontro a molti biasimi, come non sarebbe degno di ammirazione che io dormendo evitassi le colpe, o fuggendo la lotta non m’occorresse di cadere, o astenendomi dal combattere non fossi vinto. Ma chi, dimmi, chi può denunziare e smascherare la mia perversità? questo tetto e questa cella? ma essi non sanno articolare parola. O forse mia madre che più d’ogni altro conosce le mie tendenze? ma fra me e lei non c’è nulla di comune né mai siamo venuti a qualche contrasto, e se anche ciò fosse avvenuto, non c’è madre tanto disamorata e ostile verso la sua prole, da accusare e perseguitare in faccia a tutti senza che alcun motivo ne la costringa, quello che essa ha generato, partorito ed allevato. E tu pure, che più di tutti sei solito a levarmi a cielo con lodi presso chiunque, non ignori che se si sottoponesse a rigorosa prova l’anima mia, la si troverebbe in molte parti viziata; se vuoi persuaderti che io non parlo così per modestia, ricordati quante volte, discorrendosi fra noi di tali faccende, ebbi a dirti che se mi si proponesse di significare in quale condizione vorrei ottenere lode, se nel governo della Chiesa oppure nella vita monastica, io avrei dato coi pieni voti la preferenza alla prima. Né mai ho cessato di esaltare [parlando] con te quelli che sapevano egregiamente disimpegnare quel ministero: or dunque nessuno potrebbe negare che io non avrei fuggito quell’[ufficio] che tanto ammiravo, se ne fossi stato all’altezza. Ma che? nulla é più dannoso nel governo della Chiesa, di questa certa inerzia e trascuratezza, che altri stimano una specie d’ascesi, mentre io penso ch’ella non sia altro se non un velarne della mia propria inettitudine, col quale io posso celare la maggior parte delle mie mancanze, impedendo che siano conosciute. Chi é avvezzo a godere di questa inoperosità e vivere in grande quiete, anche se é dotato di grandi qualità viene conturbato e disorientato dall’inerzia, e la mancanza d’esercizio tronca una parte non piccola delle sue energie: che se poi oltre al tenersi lontano da tali cimenti, é anche di carattere indolente, come appunto é il caso mio, qualora abbia assunto questo ministero non farà più di quanto farebbe una statua di marmo. Ecco la ragione per cui anche di quanti vengono da quel genere di palestra a questi cimenti, pochi ottengono buon esito; la maggior parte di loro vanno incontro al comune biasimo, perdono le staffe e soggiacciono a vicende disgustose e tristi; e nulla di straordinario in questo, che quando gli esercizi e le palestre non sono proporzionati allo stesso genere di cimenti, per nulla differisce uno che sia allenato, da un altro che non sia tale. Infatti colui che scende in questo stadio deve spregiare la gloria, dominare l’irascibilità ed essere pieno di grande prudenza; ora chi preferisce la solitudine non ha occasione di esercitarsi in queste virtù, perché non ha molti che lo molestino, onde sia condotto a reprimere l’impeto dell’animo; non ha ammiratori né acclamatori che lo ammaestrino a tenere a vile gli applausi della moltitudine; né d’altra parte possono [i monaci] darsi piena ragione della grande prudenza che si richiede nel ministero ecclesiastico. Pertanto, quando essi vengono al cimento di lotte delle quali non hanno curato l’esercizio, si turbano, danno nelle vertigini, sono ridotti all’impotenza, e accade spesso che molti, oltre che non ne acquistano, vi perdono anche le virtù che prima possedevano.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:21

Il ministero offre molte occasioni pericolose. Difficile cura del ceto femminile

VI. "Allora Basilio: E che? disse, dovremo noi porre allora al governo della Chiesa persone avvolte negli affari mondani, preoccupate da interessi materiali, impigliate in contese e ingiurie e ripiene di innumerevoli perversità?"

"Calmati, risposi, o mio caro; ché quando si tratta della scelta dei sacerdoti non s’ha nemmeno da pensare a tali soggetti; dico che a quei solitari si deve preferire uno che mentre tratta e pratica con tutti, possa conservare intatta e inalterata la purezza, la calma, la santità, la fortezza, la sobrietà e tutte le altre doti che splendono nei monaci; perché colui il quale avendo molti difetti, pure riesce con la solitudine a celarli e renderli innocui, astenendosi dal trattare con alcuno, posto che sia nel mezzo della bisogna, altro non otterrà se non di rendersi ridicolo, con rischio di peggio.

Ciò appunto sarebbe per poco capitato a me, se la misericordia di Dio non avesse in fretta ritirato il fuoco dal mio capo; chi ha sortito un’indole tale, non può celarla quando venga messo in vista, ma allora tutto viene smascherato; e come il fuoco prova i metalli, così la prova del ministero esamina le anime degli uomini; onde se uno é iracondo, o pusillanime, o vanaglorioso, o millantatore, o se abbia qualsiasi altra pecca, tosto ne discopre e svela i difetti. Né soltanto li rivela, ma li rende più forti e perniciosi: le piaghe del corpo stropicciate, più difficilmente guariscono, e così pure le passioni dell’anima stimolate e irritate imperversano maggiormente, spingendo a maggiori colpe quelli che ne sono agitati. [L’esercizio del ministero] accende in chi non sta’ in guardia la bramosia di gloria, lo rende presuntuoso e avido di ricchezza; lo trascina al lusso, alla rilassatezza, all’indifferenza e a poco a poco ad altri vizi che da questi derivano.

Molte sono là in mezzo le circostanze che possono distruggere il temperamento dell’anima e troncare il retto cammino, e anzitutto le conversazioni con le donne; non lice invero al capo della comunità ecclesiastica e a cui spetta la cura di tutto il gregge, occuparsi soltanto del sesso maschile e trascurare le donne, le quali hanno bisogno di maggiore assistenza essendo esse più facilmente cedevoli alle mancanze; ma chi occupa la carica di vescovo deve prendersi a cuore l’integrità loro, se non in maggiore, almeno in eguale proporzione. Bisogna pertanto visitarle quando sono inferme, consolarle quando sono tribolate, redarguire quelle che si mostrano indolenti e prestare aiuto a quelle che sono oppresse. Ora, nell’esercizio di queste opere, il maligno trova molti accessi, se uno non si munisce con gran cura; lo sguardo colpisce e turba lo spirito, né soltanto quello delle svergognate, ma anche quello delle pudiche; le loro adulazioni soggiogano e i loro favori rendono schiavi, di guisa che la carità ardente, che per se stessa é fonte d’ogni bene, pub divenire fonte d’ogni male per quelli che non l’esercitano con le debite precauzioni. Già di per sé le cure assidue ottundono l’acume del pensiero e da agile lo rendono più pesante del piombo, mentre poi d’altra parte l’irascibile invadendo ravvolge a guisa di fumo tutto l’interno)".

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:22

L’insidia della calunnia e la necessità di guardarsene.

VII. Chi potrebbe poi enumerare i danni rimanenti, cioè le ingiurie, le calunnie, le censure mosse dai superiori e dai sudditi, dai saggi e dagli insipienti? Quest’ultima genia specialmente, destituita di retto criterio, é incontentabile e difficilmente ascolta ragioni; ora il buon prelato non deve disinteressarsi neanche di costoro, ma presso tutti deve studiarsi di togliere di mezzo le cagioni delle loro querele, usando molta affabilità e dolcezza, perdonando le accuse ingiustificate anziché adontarsene e montare in ira. Se il beato Paolo temeva di destare sospetto di frode nei suoi discepoli, e perciò si assunse altri nell’amministrazione delle entrate "affinché alcuno non ci abbia da vituperare per questa abbondanza di cui siamo dispensatori" (2Cor. 8,20), come non dovremmo noi adoperarci in ogni maniera per allontanare i cattivi sospetti anche se falsi, privi di qualsiasi fondamento e lontanissimi dalla nostra riputazione? Invero da nessun vizio noi siamo tanto lontani quanto lo era Paolo dal furto: e sebbene egli tanto distasse da questa mala azione, non trascurò tuttavia l’eventuale sospetto della moltitudine, per quanto irragionevole e folle esso fosse; e certo era una follia sospettare qualcosa di simile per quella beata e mirabile anima; ma nondimeno egli molto per tempo toglie di mezzo le cause d’un sospetto tanto stolto e quale niuno poteva concepirlo, tranne che avesse perduto la testa. Non pose in non cale la stoltezza del volgo, né disse: "A chi mai potrebbe venire in animo un tale dubbio a mio riguardo, mentre tutti mi onorano e ammirano sia per i miracoli, sia per l’equità onde la mia vita risplende?" ma tutto al contrario, egli previde e s’aspettò tale maligna supposizione e l’estirpò dalla radice, anzi non permise neppur che cominciasse a formarsi; e per qual motivo? "Perciò, dice, provvediamo al bene non solo dinanzi al Signore, ma anche dinanzi agli uomini" (2Cor. 8,21).

Tale cura, anzi maggiore, si deve usare, non solo per togliere di mezzo e impedire le cattive dicerie quando sono sorte, ma per prevedere da lontano da qual parte possano sorgere e togliere i pretesti che possono provocarle, né aspettare che esse prendano corpo e vadano aggirandosi di bocca in bocca, poiché allora non sarà facile soffocarle, ma molto difficile e presso che impossibile; ciò poi non é privo di danno perché non può accadere senza scandalo di molti. Ma fino a quando seguiterò ad andar in traccia dell’introvabile? ché l’enumerare tutte le difficoltà che qui s’incontrano, sarebbe la stessa cosa che misurare l’acqua del mare. Se anche uno si sia purificato da ogni passione, il ché é impossibile, per giungere a correggere i falli altrui deve sopportare infiniti disagi: se poi s’aggiungono le proprie deficienze, pensa quale abisso di angustie e di affanni non deve patire quegli che voglia vincere i vizi suoi e degli altri!

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:23

Bisogna far fruttare i talenti

VIII. Ma tu, disse Basilio, non devi sopportare fatiche e non hai forse affanni anche standotene solo?

"Ne ho per certo, risposi, anche così; come é possibile infatti, essendo uomo e vivendo questa tribolata vita, starsene affatto libero da pene e lotte? Ma come non é eguale cosa il cadere in un pelago sterminato e il traghettare un fiume, così pure differiscono le pene di questo stato e

quelle dell’altro. Certamente anch’io desidererei, potendolo, essere di aiuto ad altri e ciò é per me oggetto di molto desiderio; ma se non è possibile recare giovamento ad altri, purché almeno mi riesca di porre in salvo me stesso e sottrarmi al naufragio, me ne starò contento anche solo di. Questo".

"E tu credi, disse, che ciò sia gran cosa? e pensi davvero di poterti salvare senza occuparti del vantaggio di altri?".

"Tu dici bene e giustamente, risposi; poiché neppure io posso credere che abbia a salvarsi chi non sopporta alcuna fatica per procurare la salute altrui; neppure quel miserabile infatti, guadagnò nulla col non sminuire il talento, ma appunto il non averlo aumentato ricavandone il doppio, fu la sua rovina. Tuttavia io stimo che all’accusa di non aver salvato altri, seguirà una punizione più mite che all’altra, d’aver io rovinato e me ed altri, essendomi fatto peggiore dopo conseguita sì gran dignità. Ora io reputo che tale sarà la pena quale richiede la grandezza delle colpe; ma assunta che avessi la carica, non solo doppia e tripla, ma d’assai volte maggiore, per averne scandalizzato un numero più grande, e per aver, dopo un maggior onore, offeso Dio che me l’aveva conferito".

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:23

Più si richiede da Dio a chi fu elevato a maggior dignità

Per ciò appunto [Iddio] accusando più fortemente gli Israeliti, dimostra ch’essi sono degni di maggior castigo, per esser caduti in colpa dopo tanto onore loro accordato, dicendo una volta: "Voi soli ho io conosciuti di tutte le famiglie della terra; per questo vi punirò di tutte le vostre iniquità" (Am. 3,2). E altra volta: "E de’ vostri figlioli scelsi i profeti, e dalla vostra gioventù quelli da consacrarsi" (Am. 2,11). E prima de’ profeti, volendo dimostrare che le colpe ricevono molto maggior castigo quando sian commesse da’ sacerdoti che non quando lo sono dai privati, impone di offrire per i sacerdoti un sacrificio corrispondente a quello offerto per tutto il popolo, volendo dimostrare che le piaghe del sacerdote richiedono maggior cura, e tanta quanta se ne richiede per il popolo intero; non vi sarebbe bisogno certo di più grande cura se esse non fossero per se stesse più maligne: e tali esse sono appunto, non già per natura, ma perché rese più gravi dalla dignità rivestita dal sacerdote che le ha contratte. E che dico gli uomini che rivestono la dignità? le figlie stesse dei sacerdoti, benché nessun rapporto diretto abbiano col sacerdozio, soggiacciono a più aspro castigo pe’ loro peccati, a causa della dignità paterna; eppure la colpa era eguale in loro e nelle figlie dei privati, sì le une che le altre essendo ree di fornicazione; ma a queste ultime fa più dura la punizione la superiorità d’onore. Vedi con quanta copia d’esempi Iddio ti dimostra che esige maggior pena dal capo che non dai sudditi; però che [Dio] il quale inflisse più grande punizione alla figlia per causa del padre: da questo, che fu ad essa cagione di aumentarle i tormenti, non richiederà per certo eguale pena che dagli altri, ma assai più grande. E ben a ragione; ché il danno non si arresta in lui, ma rovina anche le anime dei più deboli che a lui tengono volto lo sguardo: ciò volendo insegnare Ezechiele distingue il giudizio degli arieti da quello delle pecore.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:24

La vita ritirata protegge un animo debole

IX. Ti par dunque ch’io tema d’un ragionevole timore? E oltre a quanto ho detto [aggiungi] che ora ho pur d’uopo di fatica per non essere totalmente sopraffatto dalle passioni dell’anima, ma nondimeno riesco a tollerare tale travaglio e non mi ritraggo dal combattimento. E per vero anche al presente sono soggiogato dalla vanagloria, ma spesso m’è pur dato di rialzarmi, e conosco le cause della caduta; talora anche faccio severo rimprovero all’anima per essersene resa schiava. Anche al presente sorgono in me desideri viziosi, ma essi accendono una più languida fiamma, non avendo gli occhi esteriori alcun mezzo di porgere esca al fuoco: non mi occorre punto di parlar male d’alcuno o d’intendere altri a parlarne, non avendo io conversazione con alcuno; né potrebbero invero queste pareti dire anche una sola parola. Non mi riesce però egualmente di sottrarmi all’irascibilità, sebbene non vi sia chi mi vi ecciti; ché spesso assalendomi il ricordo d’uomini perversi e delle loro malvagità, mi sommuove lo spirito; per altro quest’agitazione non va fino agli eccessi, ché ben presto l’anima accesa si ricompone, e la persuado a calmarsi, dicendo esser cosa inutile ed estremamente stolta l’affannarsi de’ fatti altrui trascurando le cose proprie. Ma se io andassi fra la moltitudine e cadessi in preda d’infiniti turbamenti, non potrei certamente rivolgermi simili ammonimenti, né trovare le riflessioni che possano esercitare su di me una tale disciplina. Ma come chi è travolto in un precipizio da una corrente o da altra forza, può bensì prevedere la rovina in cui andrà a finire, ma non è dato a lui di escogitare alcuno scampo, così pure io qualora cadessi in si gran turbine di passioni, potrei scorgere la punizione aumentarmisi di giorno in giorno, ma non mi sarebbe agevole come ora serbare il dominio di me stesso: il reprimere in ogni caso queste turbolente malattie [dello spirito] non mi riuscirebbe così facilmente come prima. Ho un’anima inferma e piccina, facile preda non solo di queste passioni ma d’una di tutte più fiera: l’invidia; essa poi non sa sostenere con moderazione né le contumelie né gli onori, ma in modo eccessivo rimane incitata da quelle, da questi soggiogata.

Come le fiere terribili quando sono ben tarchiate e vigorose abbattono quelli che si fanno a pugnare con loro, specialmente se questi sono deboli e inesperti; se invece alcuno le smunga con la fame, addormenta i loro impeti e spegne la maggior parte di loro forza, di guisa che anche chi non è molto valente può cimentarsi con loro in lotta e in caccia, così è anche delle passioni dell’anima: chi le indebolisce riesce a sottoporle a sani ragionamenti; chi invece le nutrisce lautamente rende a se stesso più fiera la lotta contro di esse e se le rende tanto terribili da aver poi a passare tutta la vita in loro schiavitù e sotto il loro incubo.

Or qual è il nutrimento di queste fiere? della vanagloria sono gli onori e le lodi; dell’arroganza, la grande autorità e potestà; dell’invidia, i buoni esiti dei propri colleghi; dell’avarizia, l’ambizione di quelli che possono largire denaro; dell’intemperanza, il lusso e i continui trattenimenti colle donne e via dicendo. Tutte queste passioni, se io esco all’aperto, mi assaliranno e strazieranno l’anima spaventose, e impegneranno meco una guerra più feroce. Mentre invece fin che me ne sto qui ritirato, ci vorrà bensì grande sforzo per soggiogarle, ma pur le soggiogherò con la grazia di Dio e non avranno più altra forza che di latrare. Per ciò io sto attaccato a questa stanzetta, senza uscirne, senza conversazioni né compagnie, e sopporterò di udire infinite altre accuse simili, e me ne purgherei di buon grado, pur dolendomi e rammaricandomi di non poter farlo. Io non potrei agevolmente essere uomo di società e nello stesso tempo serbare intatta la sicurezza presente; onde prego di compatire piuttosto che accusare chi ha voluto sottrarsi a tale cimento.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:24

Grande timore di Giovanni al pensiero di recare danno alla Chiesa

X. Ma non ti persuado ancora: è dunque tempo di rivelarti anche quello che unicamente tenevo celato e che forse sembrerà a molti incredibile; ma ciò non ostante io non arrossirò di metterlo in pubblico. Che se le cose dette da me saranno prova di coscienza contaminata e d’innumerevoli colpe, poi che Dio, il quale ha da giudicarmi, conosce esattamente tutto, che cosa potrà venirmene di più dalla ignoranza degli uomini? Or qual è dunque il secreto? Da quel giorno in cui facesti nascere in me questo sospetto [di essere mio malgrado consacrato], più volte il mio corpo corse pericolo d’essere totalmente paralizzato, tanto era il timore e l’abbattimento che s’era impadronito dell’anima mia. Considerando io l’eccellenza, la santità, la spirituale bellezza, l’ordine e il decoro della Sposa di Cristo, e d’altra parte pensando ai miei vizi, non cessavo di rimpiangere e quella e me stesso, e continuamente fra gemiti e sgomento andavo dicendo tra me: "Chi dunque poté dare un simile consiglio? o qual gran peccato ha commesso la Chiesa di Dio? come ha ella mosso siffattamente a sdegno il suo Signore, da essere data in balìa di me vilissimo fra tutti, e subire una tal confusione?". Tali cose rivolgendo fra me medesimo, né potendo sopportare pur il pensiero di un fatto così assurdo, io me ne stavo muto come gli epilettici, impotente a nulla vedere o ascoltare. Cessato poi quello sgomento, ché venne pur il tempo in cui cominciò a dileguarsi, vi succedevano le lacrime e lo scoramento; saziatomi di lacrime sottentrava di nuovo il timore conturbandomi, sconvolgendomi e sovvertendomi l’intelletto. In tal tempesta vissi tutto questo tempo, mentre tu ciò ignoravi e credevi che io godessi tranquillità; ma ora tenterò di scoprirti il turbine dell’anima mia, ché anche in vista di ciò ben presto mi darai venia, cessando di muovermi accuse. Or come farò io a svelarti me stesso? ché se tu volessi averne una chiara conoscenza, ciò non potrebbe altrimenti farsi che mettendo a nudo il mio stesso cuore; ma poiché ciò è impossibile, cercherò almeno, come mi sarà dato, di mostrarti con tenue sembianza la caligine del mio sbigottimento, di modo che tu possa averne anche solo un’idea.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:25

Allegoria finale. La fidanzata mistica

Supponiamo che a un uomo sia promessa sposa la figlia del re di tutta la terra che è sotto il sole, e questa fanciulla sia bella d’ineffabile bellezza, tale da sorpassare anche l’umana natura e superare di gran lunga in bellezza le altre donne tutte quante; che oltre a ciò essa possieda tali doti di spirito da lasciarsi indietro assai la schiatta intera degli uomini che furono e che saranno; che per leggiadria di costumi sorpassi tutti i confini della saggezza e faccia impallidire con lo splendore del proprio aspetto la beltà corporale; supponiamo che il promesso sposo sia acceso per questa vergine non solo a cagione di queste doti, ma oltre a ciò senta verso di lei una particolare tendenza, una passione di tal forza da eclissare al confronto anche gli amatori più deliranti che mai siano stati. Poniamo poi che mentre è bruciato da un tal fuoco, venga a sapere che quella sua meravigliosa amata è in procinto di essere sposata da uomo da nulla, ignobile di stirpe, deforme di corpo e più meschino di ogni altro. Ti ho io così rappresentato qualche piccola parte del mio affanno? ti basta ch’io mi limiti a questa immagine? certo credo che basti per rappresentarti il mio sbigottimento, e appunto per darti un’idea di quello, te l’ho esposta. Ma ora verrò ad un’altra rappresentazione, per dimostrarti la grandezza del mio timore e della mia trepidazione.

L’esercito e l’armata navale affidati a un contadinello

XI. Sia dunque un esercito composto di pedoni, di cavalieri e d’uomini di mare; e copra il mare la moltitudine delle triremi, e coprano le campagne e le vette dei monti le falangi dei fanti e dei cavalieri. E riverberi al sole il suo splendore il rame delle armi, mentre contro i raggi di lassù mandati, vibri il fulgore degli elmi e degli scudi: lo strepito delle aste e il nitrito de’ cavalli si levi fino al cielo, né si veda più mare o terra, ma rame e ferro appaia da ogni parte.

Incontro a questi si schierino i nemici, uomini fieri e spietati e sia imminente ormai il momento della battaglia. Indi alcuno preso ad un tratto un garzoncello di quelli che sono allevati nei campi e nulla sanno all’infuori del zufolo e del bastone da pastore, lo rivesta delle armi di rame; lo conduca quindi a torno tutto quanto l’esercito e gli mostri le varie compagnie con i loro comandanti, gli arcieri, i frombolieri, i capitani, i generali, i fanti di grave armatura, i cavalieri, i lanciatori, le triremi e i trierarchi, gli armati che sopra quelle stanno, la moltitudine delle macchine poste sulle navi; gli mostri poi

anche tutte quante le schiere dei nemici e certe facce spaventevoli, la strana foggia delle armi, l’infinita loro moltitudine; i precipizi, i profondi burroni e i dirupi dei monti. Poi gli mostri ancora dalla parte dei nemici e cavalli volanti per via d’incantesimi, e fanti portati per l’aria e ogni opera e specie di magia. Gli venga poi anche enumerando i casi della guerra: nubi di saette, nembi di dardi, quell’immensa caligine, oscurità e tenebrosissima notte prodotta dal nembo degli strali, sì da impedire con la sua densità i raggi del sole, la polvere che non meno della tenebra acceca gli occhi, i torrenti di sangue, i gemiti dei cadenti, le urla di chi sta ancor in piedi, i cumuli dei distesi a terra, le ruote asperse di sangue, i cavalli con i loro cavalieri stramazzati bocconi per la moltitudine dei cadaveri giacenti, la terra di tutto ciò confusamente coperta, e sangue e dardi e frecce e zoccoli di cavalli e teste d’uomini insieme, e braccia e ruote e schinieri e petti trapassati, cervella cosparse sul filo delle spade, punte di saette infrante, e, nelle punte, occhi infilzati. Gli enumeri anche i casi dell’armata navale: delle triremi, quali incendiate in mezzo alle acque, quali affondate in un con i soldati; il mugolio dell’onde, il tumulto dei marinai, il grido delle ciurme, la spuma dei flutti mescolata col sangue che piove su tutte le navi; e cadaveri, altri sui tavolati, altri sommersi, altri galleggianti, altri sbalzati sul lido, altri avvolti dall’onde sì da chiudere alle navi la strada. Indi, mostrati a lui diligentemente tutti

questi luttuosi casi di guerra, vi aggiunga ancora i mali della prigionia e la schiavitù peggiore d’ogni morte; e ciò detto gli imponga senz’altro di salire subito a cavallo e assumere il comando di tutto l’esercito. Or credi tu forse che a quel comando potrà bastare quel garzoncello, o piuttosto al primo aspetto non rimarrà egli subito senza respiro.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:26

Le forze infernali schierate contro la Chiesa di Cristo e i suoi sacerdoti.

Le ferite dell’anima. Confronto fra la pugna materiale e la lotta spirituale


XII. Né credere che io esageri la cosa con le mie parole, né reputarle [troppo] grandi, perché noi chiusi nel corpo come in una prigione nulla possiamo vedere di ciò che è invisibile; poiché se tu potessi mai scorgere con questi occhi [materiali] la tenebrosissima oste e la furibonda accozzaglia del diavolo, vedresti un apparato di guerra molto maggiore e terribile di questo. Là non v’è rame né ferro, né vi sono cavalli o carri o ruote; non fuoco né strali né alcun ordigno bellico di quelli visibili, ma altre molto più spaventose macchine. A quei nemici non occorre né corazza, né scudo, né spada, né asta; e tuttavia la sola vista di quell’infinito esercito basta a tramortire l’anima che non sia molto ardita e oltre la propria forza non sia favorita copiosamente dalla provvidenza di Dio. E se fosse possibile, sciogliendosi da questo corpo, poter osservare liberamente e senza timore tutta l’oste schierata di quello, e scorgere visibilmente la guerra apprestata contro di noi, potresti vedere non già rivi di sangue, né cadaveri, ma tale strage di anime e tanto aspre ferite, che la descrizione guerresca fatta da me più sopra, sarebbe stimata da chiunque in paragone nient’altro che un giochetto da fanciulli, un trastullo anziché una guerra, tanti sono quelli che ogni giorno vengono colpiti. Le ferite poi non infliggono una eguale morte, ma quella [morte] differisce tanto da questa quanto l’anima differisce dal corpo; poiché quando l’anima tocca una ferita e cade, non giace insensibile come il corpo [morto] ma viene quindi tormentata immediatamente dallo struggimento della mala coscienza; e dopo il trapasso da questa vita, nell’ora del giudizio viene consegnata alla pena eterna.

Che se taluno poi rimanesse insensibile alle ferite del diavolo, il danno per lui si accresce appunto per quell’insensibilità; infatti, chi dopo una prima ferita non prova rimorso, facilmente ne toccherà una seconda e dopo questa un’altra; ché quell’immondo, qualora incontri un’anima intorpidita e noncurante delle prime ferite, non cessa di colpirla fino all’ultimo respiro. E se volessi esaminare il genere di battaglia, la troveresti molto più violenta e svariata; ché nessuno conosce tanta specie di frode e d’inganno quante colui; quel maledetto infatti trae da esse la sua maggior potenza; né alcuno potrebbe nutrire sì implacabile inimicizia contro i suoi più feroci avversari, quale il maligno nutre contro l’umana natura. Se poi alcuno esamini l’accanimento con cui quegli combatte, troverà cosa ridicola il paragonarvi [quello consueto] fra uomini; e se scegliendo le più rabbiose e feroci belve, vorrà contrapporle alla furia di quello, le troverà al confronto mansuetissime e docilissime, tanto furore quegli esala nell’assalire le nostre anime. La durata poi della battaglia qui [fra noi] è breve, e pur nella sua brevità occorrono frequenti intervalli: il sopravvenire della notte, la stanchezza della strage, il tempo di prendere cibo e molte altre circostanze permettono al soldato di riposare, di svestire l’armatura e respirare alcun poco, rifocillarsi con cibo e bevanda e con molti altri mezzi riacquistare il pristino vigore. Ma col maligno, non è dato mai deporre le armi né prendere sonno a chi voglia serbarsi affatto incolume; è forza che l’una o l’altra accada di queste due cose: o cadere e soccombere se si spoglia [delle armi], o rimanere continuamente in piedi armato e vigilante.

Ché quegli senza tregua insiste con tutto il suo campo, spiando le nostre disattenzioni, adoperando egli maggior diligenza alla nostra rovina, che noi stessi alla nostra salvezza. Inoltre il non esser egli da noi veduto e il sopraggiungerci di sorpresa, cose che più d’ogni altra sono causa di infiniti danni per chi non è in continua vigilanza, presentano questa lotta come assai più scabrosa di quella.

Cattolico_Romano
00lunedì 14 settembre 2009 15:27

Commiato, augurio finale e promessa di amichevole assistenza e di conforto reciproco

XIII. Qui adunque tu volevi che io assumessi il comando dei soldati di Cristo? ma ciò sarebbe stato un guidare l’esercito in pro del diavolo: quando colui che deve porre in

ordine e tenere in disciplina gli altri, è privo d’ogni esperienza e debolissimo, tradendo con la sua incapacità quelli che gli furono affidati, farà da capitano per il diavolo più che per Cristo.

Ma perché gemi? perché versi lacrime? non è degna di compianto la mia sorte, ma di letizia e giubilo.

"Non però la mia, disse, ch’è invece degna d’infinito rammarico! ora soltanto ho potuto comprendere in quale [abisso] di mali mi hai condotto lo sono venuto da te per sapere che cosa potessi rispondere in difesa ai nostri accusatori; tu mi rimandi dopo aver aggiunto affanno ad affanno; già non mi preoccupo più ormai di ciò che risponderò a quelli in difesa, ma piuttosto di ciò che risponderò a Dio riguardo a me stesso e alle mie colpe. Ma ti prego e scongiuro, se alcuna sollecitudine hai delle mie vicende, se alcuna consolazione in Cristo, se alcun conforto della carità, se viscere di compassione; ben sai che tu più di tutti m’hai spinto a questo cimento: porgimi la mano, e non cessare un istante di dire e operare quanto giovi a indirizzarmi, ma più ancora che pee il passato intratteniamo la nostra intima conversazione".

"E io sorridendo: e che potrò io darti, quale aiuto ti potrò fornire per sopportare il peso di tanto ufficio? ma pur se ciò ti è caro, fa’ animo, o diletto; nel tempo in cui ti sarà dato respirare da quelle cure, io ti sarò vicino per confortarti, né alcuna cosa tralascerò di quanto è in mio potere.

A questo punto quegli più dirottamente piangendo si alzò; io abbracciatolo e baciatolo in fronte, lo rimandai confortandolo a sopportare fortemente la sua sorte. Credo, dissi, fidando in Cristo che ti ha chiamato e t’ha preposto alle sue pecorelle, che da questo ministero ti verrà tanta fiducia, che in quel giorno accoglierai pur me pericolante nell’eterno tuo tabernacolo.

NOTA: le citazioni sono spesso riportate, dallo stesso Crisostomo, a memoria, lievemente modificate o abbreviate per motivi stilistici, nei casi in cui sono testuali è utilizzata la LXX o la Volgata

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