di Egidio Picucci
La notizia era sui giornali del 18 aprile scorso: in molti Paesi dell'Africa la spesa per la salute è di 4 dollari l'anno per persona. Peccato che il giornalista non abbia scritto quanto pesano sulla salute dei piccoli - i più esposti alla malattia - la denutrizione, il lavoro in condizioni intollerabili, l'analfabetismo, le guerre, l'abbandono e decine di altre cause legate ai fenomeni naturali, ma più spesso alla cattiveria dell'uomo che ferisce la loro anima. Che qualcuno cerca di salvare.
Nel Benin (come in mille altri Paesi) ci pensano soprattutto i missionari. Ma non da soli. Chi sta in prima linea nell'assistenza di questi infelici, spesso ridotti a vere larve umane, respinti dalle famiglie e dalla società, disattesi dalle strutture governative, ha bisogno di retrovie che mandino "rifornimenti" a tempo debito, e che i missionari del Benin hanno trovato, tra l'altro, nella Rainbow, produttrice di un fortunato cartone animato conosciuto in tutto il mondo.
L'idea di aiuto provvidenziale è partita da Iginio Straffi, l'inventore del cartone, il quale ha dichiarato che i veri valori trasmessi dai personaggi sono l'amicizia, la famiglia, l'onestà e la fiducia in se stessi. Da questi presupposti non gli è stato difficile decidere di dare una famiglia ai bambini che vivono per le strade di Cotonou, costruendo per loro una "Maison d'accueil" a Djèffa.
La scelta del luogo, lontano dalla città, è dipesa dall'impossibilità di trovarne uno più vicino (Djèffa è a oltre venti chilometri da Cotonou, nel comune di Sèmé Kpodji), ma i missionari, che hanno dovuto aprire una strada d'accesso, vi hanno visto un segno particolare, perché in lingua fon Djèffa vuol dire "terra adatta per un buon riposo": luogo più che adatto, quindi, per i cinquanta bambini che vi abitano da qualche mese, assistiti da frère Maximin Haissou e da alcune signore che li amano come figli.
Alla cerimonia di inaugurazione hanno partecipato le autorità civili e quelle religiose nella persona di monsignor René-Marie Ehuzu, vescovo di Porto Novo, capitale del Paese. Mathias Gbèdan, sindaco di Sèmé Kpodji, ha promesso l'allaccio idrico ed elettrico, applaudito non solo dai responsabili della maison, ma anche da Monsieur Augustin Bodjrènou, che rappresentava il Ministro della Famiglia e della Solidarietà Nazionale, Madame Djossoumeba. La quale conosce senza dubbio quanto avviene un po' in tutto il Paese, ma specialmente a Zakpoktá, una cittadina (la più povera della nazione, dicono) a poche decine di chilometri da Djèffa, e cioè l'incredibile mercato dei bambini lavoratori destinati in Nigeria; bastano venticinque euro per acquistarne uno, condannato a lavorare nelle cave di sabbia nella vicina nazione, e precisamente ad Abeokuta, capitale storica dell'etnia yoruba. Reclutati da un akowé (maestro) che tutti conoscono, ma contro il quale pare non possa far nulla neppure il Maejt (Movimento africano dei bambini e dei ragazzi lavoratori), i bambini sono comprati nelle campagne e sono portati in motocicletta oltre confine, costretti a cavar sabbia dodici ore al giorno in un'enclave della foresta in mano ai beninesi. La loro condizione è pessima, anche se migliore di quella dei piccoli impegnati nelle miniere d'oro di altri Paesi del continente: almeno essi lavorano all'aria aperta, riposano la domenica e si sfamano con una manciata di farina di igname (un tubero simile alla nostra barbabietola) che mangiano con pochi grammi di legumi.
Tutti sanno, ma nessuno interviene.
Monsignor Ehuzu ha benedetto i locali: "Si è data - ha detto - una casa a fanciulli che non sempre, purtroppo, hanno un posto nella società. Spesso si nega loro il diritto di vivere o perché uccisi con l'aborto o perché mandati al massacro nelle guerre che dilaniano il continente. Dio - ha aggiunto il vescovo - non mette nessuno sulla strada e non dovrebbe mettercelo neppure l'uomo". Per questo ha raccomandato ai genitori di interessarsi dei figli e ai figli di rispettare i genitori, "perché - ha precisato - molti finiscono sulla strada proprio perché non hanno obbedito".
Situazione diversa a Ina, nel nord del Paese, dove è stato inaugurato il Foyer St. François (anche questo finanziato dalla Rainbow) che ospiterà i ragazzi che arrivano dai villaggi vicini per frequentare la scuola.
"La condizione in cui vivono i ragazzi che dai villaggi vengono a Ina - ha dichiarato Benon Chabi Tonigbéba, re di Ina - ci preoccupava da anni: ammassati in stanze senz'aria e senza luce; costretti a pagarsi la pigione lavorando nella campagna; abbandonati a se stessi, non hanno tempo né per studiare né per pregare. Situazioni risparmiate ai loro coetanei di Bembéréké, di N'dali, di Pèrèré e di Nikki, che da tempo hanno il loro Foyer".
A Ina vivono i Bariba ("infedele" in lingua haoussa), parlano una lingua assolutamente non facile, ma molti - re compreso - parlano francese.
Il Foyer è sotto la protezione di san Francesco e luogo - come dicono le parole scritte sul cancello d'ingresso - di studio, di educazione e di amicizia.
Nessuno ha chiesto ai trentuno ragazzi ospiti (il Foyer ne può accogliere ottanta) se le hanno capite e, soprattutto, se le vivranno. C'è da sperarlo con la fiducia di chi ha lavorato per loro, anche perché nel Bénin, come in altri Paesi africani, c'è ansia del meglio, di avere quello che milioni di uomini già posseggono perché hanno saputo, o potuto, tessere la loro storia in modo diverso.
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