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Anno Paolino

Ultimo Aggiornamento: 12/11/2008 20:16
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12/11/2008 20:02

Paolo e la consapevolezza

ROMA, martedì, 8 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di Roberto Roveran e Tosca Ferrante apparso sul primo numero della rivista “Paulus” .

 

* * *

Il filosofo Ebner, riferendosi al contesto relazionale, afferma: «La strada dell’uomo a Dio passa attraverso l’uomo». Ci piace pensare così queste nostre riflessioni su Paolo: leggere dal punto di
vista psicologico la sua esperienza di Dio per scorgere in essa come tutto della propria persona è dono, grazia; tutto – se accolto adeguatamente – può essere trasformato per l’annuncio del Regno.

In questa prospettiva ci fermiamo a riflettere sul tema della consapevolezza di sé. Esplorando i termini psicologici presenti nella lettera ai Romani troviamo che Paolo usa la parola greca psyche con diverse accezioni: come sensibilità morale dell’individuo, come vita quotidiana cosciente e percettiva dell’Apostolo che soffre ed è perseguitato a motivo della sua missione, come persona che sa discernere l’origine e la funzione dell’autorità, come vita fisica, ecc.

Inoltre, accanto a questo termine ne troviamo altri che si riferiscono alla persona umana, quali coscienza, consapevolezza, cuore; con essi Paolo, in maniera molto acuta, rileva come la persona, quando incontra se stessa in profondità, nello spirito, nella propria coscienza o nel cuore, incontra davvero la volontà di Dio creatore.

Paolo uomo concreto

Tutto questo ci porta a considerare Paolo come un uomo profondamente concreto, al quale Cristo ha cambiato totalmente la vita, in tutte le sue dimensioni, un uomo che, a partire dall’ascolto di sé, è cresciuto nella consapevolezza della propria chiamata fino ad averne una chiarezza totale. È interessante notare come sia la lettera ai Romani che gli avvii delle altre 12 lettere, di cui si compone l’epistolario paolino, fanno emergere la figura di un uomo tutto d’un pezzo – attenzione non “rigido” ma “integro” –, il quale nel suo presentarsi ai destinatari elenca le caratteristiche fondamentali, i capisaldi della propria identità esprimendo una chiara consapevolezza e conoscenza di sé: «Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio...» (Rm 1,1).

Pur salvaguardando l’impostazione tipica delle epistole e missive del suo tempo, Paolo riesce a trasformare la presentazione di sé, cioè del mittente, in questo caso anche del cittadino romano, in una preziosa e autentica testimonianza degli elementi qualificanti il suo vivere e operare nel mondo. Da tutto affiora la fotografia di un uomo che sa quello che vuole dalla vita e che con costanza e fedeltà riflette ed elabora, si confronta con forza e passione con gli altri e le diverse situazioni, sempre, però, a partire da una chiarezza di fondo circa la sua identità di chiamato e inviato da Dio.

Forte della sua consapevolezza, egli rivela ai lettori romani i propri sentimenti in relazione a un sempre più difficile rapporto con il popolo di origine, e che non intende in alcun modo abbandonare: «Ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua». Coscienza e cuore interagiscono necessariamente, come la mente e la volontà, dimensione di uno stesso io; tale interazione, però, non è “compromesso”, ma nasce da una chiarezza su chi si è stato – dunque senza rinnegamenti – e chi è chiamato a diventare sempre meglio.

Dove Paolo ha trovato la forza e la capacità di restare se stesso, di non cedere a compromessi e anzi di proseguire a diffondere attorno a sé il vangelo di Gesù? Come e in forza di cosa gli è stato possibile entrare in tutti gli ambienti e le culture senza restarne sopraffatto? Indubbiamente il suo segreto sta nella determinazione con cui ha saputo rimanere ben consapevole della sua identità. Non vi è dubbio che in lui la grazia divina ha trovato un terreno preparato dalla valorizzazione delle sue energie al fine di restare «afferrato da Cristo» (Fil 3,12) e consegnato alla sua persona.

Storia rielaborata in Cristo

Paolo deve aver elaborato continuamente le vicende della propria storia poiché a più riprese nelle sue lettere troviamo riferimenti personali, descrizioni del suo passato, sintesi dei risultati della sua missione. Dunque una storia riconosciuta, accolta, rielaborata in Cristo: passato e futuro integrati nell’oggi della sua storia in una totale conformazione al Maestro Gesù.

Tale cammino nasce dalla consapevolezza dell’amore di Dio presente nel suo cuore, e nel cuore di ciascuno, che permette allo Spirito di coinvolgerlo totalmente: spirito-cuore-coscienza-psiche, cioè tutto il suo io, totalmente assimilato a Gesù. Allora in lui non ci sono paure, insicurezze o difficoltà che gli impediscano di portare a termine la sua missione. Anzi le difficoltà, una volta riconosciute, vengono trasformate in occasioni di fiducia nella forza della grazia divina: «Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?... Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati» (Rm 8,35-37). La consapevolezza di sé e dell’amore ricevuto fa crescere, camminare, correre verso la meta.

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12/11/2008 20:03

Secondo gli esperti, San Paolo è stato in Spagna

Conclusioni del Congresso Internazionale “Paolo, Fruttuoso e il cristianesimo primitivo”

di Miriam Díez i Bosch

TARRAGONA, martedì, 8 luglio 2008 (ZENIT.org).- Trenta teologi e storici di Europa e America si sono riuniti recentemente a Tarragona (www.arquebisbattarragona.org) per valutare se l'apostolo Paolo si sia recato o meno in Spagna, concretamente nell'antica Tarraco dell'Ispania, oggi Tarragona.

Il Congresso Internazionale si è svolto dal 19 al 21 giugno nella città catalana sul tema “Paolo, Fruttuoso e il cristianesimo primitivo a Tarragona (secoli I-VIII)”.

I partecipanti all'incontro hanno basato la storicità della predicazione di San Paolo nella città, la più importante dell'Ispania romana, a partire dalla prima testimonianza scritta della comunità cristiana di Tarraco: gli Atti del martirio di San Fruttuoso, il più antico documento di questo tipo prodotto dal cristianesimo nella Penisola iberica.

Sono state affrontate anche le argomentazioni di coloro che si mostrano scettici di fronte a questo viaggio dell'apostolo. Una delle chiavi per chiarire la questione è la Legge penale romana.

Secondo la legislazione dell'epoca, l'imperatore poteva condannare un accusato alla pena dell'esilio mediante la formula della “deportatio” o della “relegatio”. In ogni caso, la persona esiliata perdeva i propri beni e, se era cittadino romano, poteva perdere anche la cittadinanza.

La Prima lettera di Clemente, la fonte più antica su un viaggio di Paolo “al limite dell'Occidente”, vale a dire in Ispania, afferma che Paolo fu esiliato.

Le altre fonti dei secoli I e II (Seconda lettera di Timoteo, Atti di Pietro e Canone di Muratori) si limitano a suggerire o ad affermare direttamente che Paolo visitò l'Ispania.

I precedenti dei due figli di Erode, Archelao e Antipa, che vennero esiliati in Gallia e in Ispania, rafforzano la possibilità che anche Paolo sia stato condannato all'esilio in un luogo delle province ispaniche.

La Tarraco romana, per la sua condizione di capitale di provincia e di città commerciale e amministrativa e per il fatto di essere il porto naturale di collegamento dell'Ispania con Roma, “ha molte possibilità di essere il luogo in cui Paolo venne esiliato”, si legge nelle conclusioni del Congresso.

Il professor Rainer Riesner (dell'Università di Dortmund, Germania) riassume il dibattito in questo modo: “E' molto probabile che Paolo si sia recato in Ispania alla fine della sua vita ed è possibile che Tarragona fosse il luogo del suo soggiorno, visto che è la città che ha più elementi a suo favore. Altri luoghi dell'Ispania sono molto ipotetici”.

Non mancano inoltre ragioni teologiche a favore della missione di Paolo in Ispania: nel capitolo 15 della Lettera ai Romani, Paolo si presenta come colui che deve compiere la sua missione in base alle profezie di Isaia, soprattutto quella che viene riferita in Isaia 66,19 (l'arrivo della salvezza alle isole lontane). Qui si dice anche che Paolo considera terminata la sua missione in Oriente e che quella in Ispania, la più lontana delle terre d'Occidente, sarà il compimento definitivo del disegno divino.

Dall'altro lato, lo stesso San Paolo (in 2 Timoteo 4, 6-8.17-18) afferma: “Il Signore (...) mi ha dato forza, perché per mio mezzo si compisse la proclamazione del messaggio e potessero sentirlo tutti i Gentili”, affermazione che, tenendo conto della peculiare idiosincrasia dell'apostolo, non avrebbe osato formulare se non avesse raggiunto tutti i suoi obiettivi, incluso il famoso viaggio in Ispania.

Il cristianesimo sembra pienamente consolidato a Tarragona nel 259, a causa della selettiva persecuzione decretata al tempo degli imperatori Valeriano e Galliano. Come il Vescovo di Roma, Papa Sisto, e il Vescovo di Cartagine, San Cipriano, Fruttuoso, Vescovo di Tarragona, cadde vittima del decreto imperiale.

Fruttuoso e i suoi due diaconi Augurio ed Eulogio sono i protomartiri ispanici. Gli Atti del loro martirio danno fede all'esistenza di una comunità ben strutturata, con impulso missionario e ben accetta dalle varie classi sociali di Tarraco.

Il martirio di Fruttuoso sarà riflesso in un'omelia di Sant'Agostino di Ippona e in un inno del poeta ispanico Prudencio. La testimonianza del suo martirio segna un punto decisivo nella crescita della Chiesa di Tarragona, osservabile soprattutto nei secoli IV e V.

Le basiliche e le necropoli paleocristiane, insieme al mausoleo di Centcelles (IV secolo), mostrano come la fede cristiana fosse penetrata nel tessuto cittadino e stesse diventando il credo maggioritario. Anche la sede romana riconoscerà – con la prima bolla papale conosciuta – la funzione primaziale dell'Arcivescovo di Tarragona. La Chiesa della città elaborerà inoltre durante l'epoca visigota libri liturgici propri, come il cosiddetto Oracional de Verona.

La ricerca sul viaggio dell'apostolo Paolo in Ispania permette di affermare che, “probabilmente, è una Chiesa apostolica”, com'è stato constatato.

Il Congresso si inserisce nell'Anno Giubilare di San Fruttuoso, che terminerà il 21 gennaio 2009.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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12/11/2008 20:04

Come «guadagnare Cristo» nella visione paolina

Se pensate di essere arrivati
continuate a correre


di Carlo Ghidelli

"Guadagnare Cristo":  anche questa espressione, come quella di "imparare Cristo" - che abbiamo recentemente analizzato in queste pagine - presenta qualche stranezza. In genere si dice di guadagnare qualcosa, o anche guadagnare un traguardo, ma non una persona. Se prestiamo attenzione al verbo greco katalambàno possiamo forse riconoscere in esso una nota di aggressività, quasi di prepotenza. Tant'è che alcuni traducono:  "Continuo la mia corsa per tentare di afferrare il premio, perché anch'io sono stato afferrato da Cristo Gesù" (Filippesi, 3, 12).
Ad essere sincero devo dire che non mi dispiace affatto questa interpretazione del verbo scelto da Paolo, per il semplice motivo che vi riconosco qualcosa della sua psicologia:  la violenza che egli ha sfogato contro i cristiani e contro Cristo prima della sua conversione ora Paolo la mette a servizio della verità. Non è forse vero che anche Gesù ebbe a dire:  "Dai giorni di Giovanni il Battista il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Matteo, 11, 12)?
È ovvio che qui Paolo allude al grande evento della sua conversione sulla via di Damasco, allorquando egli ha subito violenza da parte di Cristo e ha dovuto dichiararsi vinto dalla potenza di Dio. Sappiamo che da quell'evento dipende tutta la vita, tutta la teologia, tutta la spiritualità di Paolo. Da esso pertanto dipende anche la sua pedagogia, sia nei contenuti sia nel metodo.
Per valutare esattamente il punto di arrivo di questo sorprendente cammino di conversione Paolo ci invita anzitutto a considerare quello che egli chiama "il guadagno di ieri". Ascoltiamo la sua testimonianza:  "Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura".
Dunque Paolo riconosce di essere caduto in un tremendo errore; si rende conto di aver sposato una causa sbagliata. Ora egli, illuminato da quella stessa luce che in un primo momento lo aveva accecato, confessa candidamente che quello era un falso guadagno, anzi un guadagno dannoso, alludendo ovviamente ad ogni privilegio di nascita e di educazione, ad ogni sforzo religioso e morale. Ogni volta che Paolo si scaglia contro quelli che stigmatizza come "i nemici della croce di Cristo" (Filippesi, 3, 18), lo fa sempre e solo per affermare questo tratto - solo apparentemente negativo - del suo metodo pedagogico, senza del quale ogni sforzo umano genererebbe illusione e sconforto.
Non si può non vedere in questa "rilettura" o "revisione di vita" il frutto della grazia sanante, quella che si sprigiona dall'evento della passione e morte di Gesù; ma possiamo anche riconoscere l'azione della grazia illuminante che può venire solo dall'evento della risurrezione di Cristo, dalla persona di Cristo risorto. Interpellati come siamo oggi dagli immani problemi annessi al compito educativo non guasta affatto richiamare quello che Paolo ha compreso a partire dalla sua esperienza personale:  l'essere stato violentemente scaraventato da cavallo a terra è solo un pallido segno della vittoria pasquale che Gesù ha riportato su di lui.
Il giudizio di Paolo sul suo passato è estremamente lucido:  Cristo Signore lo ha portato a formulare una nuova scala di valori, sovvertendo quella che precedentemente aveva caratterizzato la sua vita:  ciò che sembrava guadagno ora è diventato perdita, quello che sembrava ricchezza ora è diventato spazzatura, quello che sembrava giusto ora è diventato ingiusto. Ovviamente questo sovvertimento di valori ha influito decisamente anche sul metodo pedagogico di Paolo, che si fa coraggio a chiedere agli altri ciò che Cristo ha chiesto a lui:  una conoscenza di Gesù non generica ma esperienziale, a seguito di un incontro non fortuito ma provvidenziale. Dentro questo orizzonte interpretativo possiamo far convergere e comprendere tutte le indicazioni pratiche che costellano la pedagogia paolina.
Ma quello che più conta è definire "il guadagno di oggi", quello che ora a Paolo preme salvaguardare ad ogni costo. Lo afferma con estrema chiarezza:  "al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo". Rileviamo:  "guadagnare Cristo" ed "essere trovato il lui":  un verbo attivo e l'altro passivo, certamente per indicare sia l'azione dell'amore preveniente e incondizionato di Dio, sia la corrispondenza dell'uomo. "Conoscere Cristo", "guadagnare Cristo", "essere trovato in Cristo" vuol dire essere introdotto negli eventi passati la cui presenza rimane attiva anche oggi. Solo a partire da questa certezza si può dare vita ad un progetto educativo serio e valido, capace cioè di produrre ciò per cui è ipotizzato e realizzato.
Il richiamo al passato giudaico dell'apostolo offre l'occasione per una definizione delle due giustizie:  una che deriva dalla legge e genera nell'uomo un senso di autosufficienza e di superbia dinanzi a Dio; e l'altra che è dono di Dio "per la fede di Cristo". Come interpretare questo genitivo "di Cristo"? È importante saperlo non solo per un motivo di retta interpretazione del pensiero di Paolo e quindi per una ragione teologica, ma anche per definire meglio il suo metodo pedagogico.
Sono almeno tre i significati possibili:  si può intendere la fede in Cristo Gesù (genitivo oggettivo):  in questo caso Gesù è l'oggetto della fede. Ma può voler dire anche che la fede ha Gesù Cristo come sua origine (genitivo di origine):  Gesù allora è inteso come la sorgente della nostra fede; egli ci dà il credere. Infine si può pensare a un genitivo soggettivo:  allora la fede è un atteggiamento di Gesù verso il Padre suo, una fede totale, nel senso che Gesù si affida a lui, gli obbedisce filialmente:  con questa fede Gesù ci rende giusti dinanzi al Padre suo e nostro. Per questa sua fede Gesù può essere considerato come il modello della nostra fede. Non è affatto difficile vedere l'incidenza di questi tre significati sul metodo pedagogico di Paolo e la loro ricaduta sul cammino di conversione e di piena adesione di ogni credente a Cristo, oggetto, causa e modello della nostra fede.
All'esperienza di Paolo possiamo certamente accostare anche la nostra. Tutti siamo sollecitati dalla parola di Dio ad entrare in questo dinamismo della fede che salva:  essa è anzitutto dono che scaturisce dal cuore di Dio e dal costato di Cristo. Ma la fede è anche riconoscimento dell'opera salvifica operata da Dio mediante la totale e incondizionata obbedienza di Cristo alla volontà del Padre. Infine la fede è atto umano libero e consapevole con il quale ogni uomo si lascia attrarre dall'amore di Dio che si è manifestato a noi pienamente in Cristo Gesù. Nessun educatore potrà mai prescindere da questi dati incontrovertibili, pena la totale inefficacia del suo metodo pedagogico.
Infine Paolo indica a chiare lettere "il guadagno di domani":  quale sarà questo guadagno? Ascoltiamo ancora le parole di Paolo:  "Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch'io sono stato conquistato da Gesù Cristo". Paolo è cosciente di essere stato oggetto della grazia divina, ma sa anche che questo non deve diventare un pretesto per evitare ogni sforzo. E se lui, Paolo, non ha ancora raggiunto la mèta, neppure i cristiani di Filippi devono illudersi (e neppure noi!); perciò Paolo invita loro e noi a camminare in avanti come lui. La maturità cristiana - è sempre un pensiero di Paolo (3, 15-16) - non consiste affatto nella definitiva acquisizione di una presunta perfezione, ma nell'essere fedeli alla parola data, nel perseverare nella corsa intrapresa.
Il passaggio che qui Paolo opera va dal "già" al "non-ancora":  Paolo è già proprietà di Cristo perché Cristo si è impadronito di lui sulla via di Damasco, ma non può ancora dire di aver realizzato in pienezza la vocazione alla quale è stato chiamato. Paolo sta già correndo verso la mèta, ma non può ancora dire di essere arrivato al traguardo. Paolo vive già la vita nuova in Cristo, ma non può ancora dire di viverla nella pienezza di luce che lo renderà perfettamente somigliante al Figlio di Dio (vedi anche Colossesi, 3, 3-4 e 1 Giovanni, 3, 1-2). Questa tensione vitale è nota caratteristica di ogni cammino di fede:  con essa devono misurarsi tutti coloro che di Cristo vogliono essere non solo discepoli ma anche testimoni.
Con maggior precisione Paolo si augura di poter approfondire la sua personale "conoscenza di Gesù e la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti". Ricordiamo che il termine "forma" (morphè) non va preso come una semplice metafora; esso sta ad indicare qualcosa di più di una apparenza:  è la figura visibile che manifesta una realtà invisibile. Nel nostro caso Paolo vuol dire che alla morte di Cristo il credente partecipa realmente (altre traduzioni sono "divenuto della stessa forma della morte di lui" oppure "per diventare simile a lui nella sua morte"). Si direbbe che un cristiano, per poter dire di essere tale fino in fondo, per poter dire di essersi formato alla scuola di Gesù, deve riprodurre in se stesso le fattezze di Cristo crocifisso, addirittura deve assomigliare a Gesù morto.
Ricordiamo che quando Paolo si presenta ai cristiani di Corinto avanza un'unica pretesa:  "Avevo infatti deciso di non insegnarvi altro che Cristo e Cristo crocifisso". E per non predicare a vuoto aggiunge:  "Mi presentai a voi debole, pieno di timore e di preoccupazione" (1 Corinzi, 2, 2-3). Ancora una volta dobbiamo rilevare che Paolo, da ottimo pedagogo quale è, propone agli altri ciò che prima ha sperimentato su se stesso. Ogni educatore sa di non potersi sottrarre a questa regola che lo vincola fino al dono totale di se stesso.
Una sintesi stupenda di tutto questo itinerario Paolo la offre al termine di questa sua testimonianza:  "Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so:  dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere in Cristo Gesù" (3, 13-14). Passato, presente e futuro per Paolo costituiscono solo tre tappe di un unico itinerario che, nel piano di Dio, ha una sua profonda unità.



(©L'Osservatore Romano - 27 luglio 2008)

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A Tarso, sulle orme di Saulo

La città delle quattro culture


di Mario Spinelli

Eccoci a Tarso. Fra tutte le mete del pellegrinaggio paolino in Turchia - magari più "blasonate", come la grecoromana Efeso o la biblica Antiochia di Siria - Tarso dà una emozione particolare a chi vi arriva dopo aver lasciato alle spalle la catena costiera del Tauro, perché questa città è legata più intimamente di altre alla vita e alla persona di Paolo. Infatti è qui che l'apostolo è nato - duemila anni fa, fra il 5 e il 10, secondo una tradizione antica - ed è qui che ha passato i primi trent'anni della sua vita, studiando i sacri testi e lavorando come artigiano tessile. Sia pure con qualche lungo soggiorno a Gerusalemme, per completare la sua educazione rabbinica e farisaica nella rinomata scuola di Gamaliele (cfr Atti 22, 3).
Anche se è stata una famosa metropoli ellenistica e romana la Tarso di oggi non ha un parco archeologico esteso, come Gerapoli, Afrodisia o altri centri della Turchia. È una città moderna, industriale, sui duecentomila abitanti, piena di moschee, negozi, edifici pubblici, con tante donne velate ma ancora di più vestite all'occidentale, e con un traffico automobilistico intenso e vivace. Il mare dista pochissimo, per cui si può considerare una città mediterranea a tutti gli effetti, con il clima e la luminosità delle località costiere.
Muovendoci in questo scenario tipico della Turchia di oggi, che tende a europeizzarsi e occidentalizzarsi sempre di più, nonostante certe "resistenze" conservatrici, andiamo in cerca dei luoghi e delle memorie paoline, incoraggiati pure da alcuni manifesti e striscioni in turco che ricordano il bimillenario di san Paolo, da poco inaugurato proprio qui nella chiesa-museo a lui intitolata.
Nelle sue lettere l'apostolo non parla mai della città che gli aveva dato i natali, come del resto è sempre avaro di notizie sulla sua famiglia, infanzia, giovinezza. Solo in Filippesi 3, 5-6 ricorda la sua identità giudaica, l'appartenenza alla tribù di Beniamino e la sua condizione di fariseo. Ma pure qui neanche una parola su Tarso, che invece è presentata più di una volta come la città di Paolo negli Atti degli apostoli.
Al tribuno romano che lo aveva arrestato dopo i disordini nel tempio di Gerusalemme alla fine del terzo viaggio missionario in Anatolia e in Grecia (53-58 dell'era cristiana) Paolo dichiara:  "Io sono giudeo, cittadino di Tarso in Cilicia", e aggiunge:  "una città che non è certo priva di importanza", alludendo all'antichità e alla vitalità politica, religiosa e culturale della capitale di quella provincia romana (Atti, 21, 39). Saulo ricorda di nuovo di essere nato a Tarso parlando alla folla di Gerusalemme, anche se si preoccupa di precisare il carattere gerosolimitano "doc" della sua formazione (cfr Atti, 22, 3).
Ma gli Atti degli apostoli ci dicono pure che Tarso non fu solo il luogo della nascita e della giovinezza di Paolo. È invece una città e una presenza ricorrente nella sua vita e nei suoi viaggi apostolici. Egli torna a Tarso dopo la conversione e vi si trattiene (cfr 9, 30). Infatti è là che va a cercarlo Barnaba per riportarlo con sé ad Antiochia, che ormai era diventata il centro dell'azione cristiana assieme a Gerusalemme (cfr 11, 25). E finalmente, dopo la partenza da Antiochia, sarà proprio Tarso la prima tappa sia del secondo che del terzo viaggio missionario, dal 50 al 52 e dal 53 al 58.
Come si fa durante il pellegrinaggio in Terra Santa, pure in quello paolino si possono introdurre le visite ai vari luoghi e santuari con le testimonianze bibliche mirate. Così, sulla scorta della lettura dei passi ricordati degli Atti degli apostoli, ci portiamo sulle memorie di Paolo. La sua vicenda ci fa pensare a come era importante la diaspora giudaica di Tarso, città dalle tre culture, ellenistica, romana e giudaica, a cui poi si sarebbe aggiunto il cristianesimo. Ebbene, proprio nell'area cittadina abitata nell'antichità dagli ebrei c'è il sito di quella che la tradizione indica come "casa di san Paolo".
Sono muri antichi, scabri, solidi, dove gli archeologi hanno lavorato bene, riportando recentemente alla luce alcune fondamenta e costruzioni, ben conservate e visibili sotto una moderna protezione trasparente. È qui una sorta di Nazaret o di Betlemme della missione e dell'evangelizzazione paolina, e nella sua semplicità, fra i turisti e i pellegrini che si aggirano attenti e compresi, il luogo fa riflettere sugli inizi piccoli e poveri di tanti eventi e sviluppi anche grandiosi.
In quello che appare come il cortile della casa sorge il "pozzo di San Paolo", largo più di un metro e profondo quasi quaranta. È una meta antica e cara ai pellegrini, che si alternano ad attingere l'acqua con un secchiello di rame e la bevono per devozione.
L'altra memoria è la chiesa di San Paolo, un monumento austero ma elegante in calcare biondo, di stile vagamente gotico, nell'angolo di un cortile ombreggiato. Ricostruita nel xix secolo e abbandonata agli inizi del Novecento dopo la partenza degli ortodossi, l'antica chiesa è diventata un museo negli anni Venti. Pure questo simbolo paolino è stato restaurato di recente, in vista del bimillenario. Ma l'auspicio, come ci aveva detto a Iskenderun il vicario apostolico di Anatolia, monsignor Luigi Padovese, è che l'edificio sacro sia restituito stabilmente al culto cattolico.
E dopo i siti paolini visitiamo quelli romani, che ci ricordano la capitale della Cilicia, la provincia imperiale dove visse Saulo, e che un secolo prima era stata governata da Cicerone. Incontriamo una prima memoria sulla strada diretta al vicino litorale:  è la cosiddetta Porta di Antonio e Cleopatra, perché secondo la leggenda la regina egiziana e il triumviro romano si incontrarono vicino a questo monumento, negli anni Quaranta del i secolo prima dell'era cristiana.
Il vestigio è noto pure come Porta di San Paolo. In effetti, chissà quante volte l'apostolo sarà passato sotto quell'arcata durante i suoi viaggi. Sulla via opposta, verso il Tauro, non resta invece nulla delle tombe di Massimino Daia e di Giuliano l'apostata, l'ultimo persecutore dei cristiani, che volle riposare accanto all'imperatore che lo aveva preceduto nelle sue scelte neopagane. Giuliano sepolto a Tarso! E pensare che il cristiano da lui più odiato e combattuto - con la parola, il pensiero, gli scritti, le leggi - era stato proprio Paolo.
Ma gli scavi più interessanti, liberati e sistemati alla vigilia dell'Anno paolino, si raccolgono attorno a un bel tratto di strada romana, con il tipico basolato e le colonne corinzie che si ergono tutt'intorno. Memoria classica, o memoria paolina? In realtà, cosa può simboleggiare l'apostolato itinerante e universale di Paolo meglio di una strada romana? Se poi si tratta, come qui, di una via verso un porto del Mediterraneo, navigato in lungo e in largo dall'apostolo, il simbolo si concretizza in documento, in testimonianza storica.



(©L'Osservatore Romano - 27 luglio 2008)

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Intervista al nunzio apostolico

A Damasco si conosce il vero Paolo


Camminare sulle orme di san Paolo ci dà l'opportunità di vivere l'esperienza della fede cristiana, di scoprire nuovamente la Chiesa, di trovare le culture nel contesto della conversione di Saulo, di apprendere nuovi orizzonti di dialogo. Un itinerario di questa natura passa necessariamente per Damasco, come spiega il nunzio apostolico in Siria, l'arcivescovo Giovanni Battista Morandini in questa intervista concessa a "L'Osservatore Romano" e alla Radio Vaticana.

Qual è l'importanza dell'Anno paolino per la Siria?

Direi che è scontato che quando si parla di Paolo automaticamente si parla di Damasco, perché segna il luogo e il momento nel quale Saulo, per la grazia di Dio, diventa Paolo. Lo diventa a Damasco colpito da questo Cristo che dice:  "Perché mi perseguiti? Sono io chi tu cerchi". Direi che proprio Damasco è essenziale per la storia stessa della nostra Chiesa:  le due colonne della Chiesa sono Pietro e Paolo. Paolo riceve la conversione direttamente da Cristo, quando lui va in estasi; senza avere vissuto con Cristo, diventa uno fra i più importanti degli apostoli. E direi che l'importanza dell'Anno paolino per la Siria è anche sul piano proprio culturale. Mi piace molto questo segno dei tempi, cioè, vedere che quest'anno Damasco è la capitale della cultura araba. Bisogna trovare la ricchezza grandiosa di Paolo combinata con l'ecumenismo, perché lui è l'apostolo delle Genti. Damasco è la città dove si è realizzato quel mistero di risto che è diventato poi la Chiesa di Roma, una, santa, cattolica e apostolica.

Che impatto ha l'Anno paolino sul dialogo tra le religioni in Siria?

Non lo vedo ancora. Cioè, lo vedo in termini tecnici, se si vuol dire così. Poi in termini reali è diverso:  c'è una ricerca direi non di fondo, però c'è questa comunione tra le Chiese. Qui siamo cattolici - sei Chiese - e ci sono gli ortodossi:  greco-ortodossi, siro-ortodossi. Quindi è un dialogo non a distanza ma direi che forse si dovrebbe spingerlo un po' più in là. Adesso stiamo cominciando l'Anno di Paolo, quindi anche sul piano ecumenico c'è una ricerca comune, una volontà che speriamo diventi sempre più profonda.

In Siria osserviamo la tolleranza tra le diverse religioni; sembrerebbe che proprio il sigillo paolino si vede un po' dappertutto...

La cultura siriana è una cultura millenaria sulla quale si innesta un po' della cultura cristiana di Paolo. Come l'ha definita il Santo Padre, la Siria è la culla delle religioni e delle culture, e mi pare che qui s'incentra l'Anno paolino come ha voluto il Papa:  conoscere sempre di più il vero Paolo con accanto poi lo sforzo ecumenico. La cultura mussulmana e cristiana sono state il fondamento di quello che si vive oggi; qui veramente si può vivere - parlo di religioni, non di fede -, in armonia e in serenità.

Vorrebbe accennare ad altre spinte dall'Anno paolino?

Credo che l'Anno paolino sia stato una grande intuizione. Per me ci sono già frutti che erano impossibili da immaginare solo quattro o cinque mesi fa. Ci sono segni della Provvidenza che sta aprendo cammini che a noi spetta di proteggere.



(©L'Osservatore Romano - 3 agosto 2008)

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12/11/2008 20:05

Intervista al nunzio apostolico

A Damasco si conosce il vero Paolo


Camminare sulle orme di san Paolo ci dà l'opportunità di vivere l'esperienza della fede cristiana, di scoprire nuovamente la Chiesa, di trovare le culture nel contesto della conversione di Saulo, di apprendere nuovi orizzonti di dialogo. Un itinerario di questa natura passa necessariamente per Damasco, come spiega il nunzio apostolico in Siria, l'arcivescovo Giovanni Battista Morandini in questa intervista concessa a "L'Osservatore Romano" e alla Radio Vaticana.

Qual è l'importanza dell'Anno paolino per la Siria?

Direi che è scontato che quando si parla di Paolo automaticamente si parla di Damasco, perché segna il luogo e il momento nel quale Saulo, per la grazia di Dio, diventa Paolo. Lo diventa a Damasco colpito da questo Cristo che dice:  "Perché mi perseguiti? Sono io chi tu cerchi". Direi che proprio Damasco è essenziale per la storia stessa della nostra Chiesa:  le due colonne della Chiesa sono Pietro e Paolo. Paolo riceve la conversione direttamente da Cristo, quando lui va in estasi; senza avere vissuto con Cristo, diventa uno fra i più importanti degli apostoli. E direi che l'importanza dell'Anno paolino per la Siria è anche sul piano proprio culturale. Mi piace molto questo segno dei tempi, cioè, vedere che quest'anno Damasco è la capitale della cultura araba. Bisogna trovare la ricchezza grandiosa di Paolo combinata con l'ecumenismo, perché lui è l'apostolo delle Genti. Damasco è la città dove si è realizzato quel mistero di risto che è diventato poi la Chiesa di Roma, una, santa, cattolica e apostolica.

Che impatto ha l'Anno paolino sul dialogo tra le religioni in Siria?

Non lo vedo ancora. Cioè, lo vedo in termini tecnici, se si vuol dire così. Poi in termini reali è diverso:  c'è una ricerca direi non di fondo, però c'è questa comunione tra le Chiese. Qui siamo cattolici - sei Chiese - e ci sono gli ortodossi:  greco-ortodossi, siro-ortodossi. Quindi è un dialogo non a distanza ma direi che forse si dovrebbe spingerlo un po' più in là. Adesso stiamo cominciando l'Anno di Paolo, quindi anche sul piano ecumenico c'è una ricerca comune, una volontà che speriamo diventi sempre più profonda.

In Siria osserviamo la tolleranza tra le diverse religioni; sembrerebbe che proprio il sigillo paolino si vede un po' dappertutto...

La cultura siriana è una cultura millenaria sulla quale si innesta un po' della cultura cristiana di Paolo. Come l'ha definita il Santo Padre, la Siria è la culla delle religioni e delle culture, e mi pare che qui s'incentra l'Anno paolino come ha voluto il Papa:  conoscere sempre di più il vero Paolo con accanto poi lo sforzo ecumenico. La cultura mussulmana e cristiana sono state il fondamento di quello che si vive oggi; qui veramente si può vivere - parlo di religioni, non di fede -, in armonia e in serenità.

Vorrebbe accennare ad altre spinte dall'Anno paolino?

Credo che l'Anno paolino sia stato una grande intuizione. Per me ci sono già frutti che erano impossibili da immaginare solo quattro o cinque mesi fa. Ci sono segni della Provvidenza che sta aprendo cammini che a noi spetta di proteggere.



(©L'Osservatore Romano - 3 agosto 2008)

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Papa Montini alla scuola di Paolo

ROMA, martedì, 19 agosto 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura del teologo Angelo Maffeis, apparso sul secondo numero della rivista “Paulus” .


* * *

Sono passati quaranticinque anni dal momento in cui, dopo la sua elezione alla cattedra di Pietro, il 21 giugno 1963, Giovanni Battista Montini ha scelto per sé il nome di Paolo, e tren'anni dal 6 agosto 1978, quando il Signore l'ha chiamato a sé. Non è facile individuare con certezza le ragioni di questa scelta. In ogni caso, non era certamente il legame con l'ultimo pontefice che aveva portato questo nome – Paolo V Borghese, papa dal 1605 al 1621 – che Paolo VI intendeva rinnovare. Egli intendeva piuttosto porre il suo ministero sotto il segno della proclamazione del messaggio evangelico a tutte le genti, di cui l'apostolo Paolo era stato modello insuperabile agli inizi della storia cristiana. La familiarità con Paolo e con i suoi scritti è un tratto ben presente in Giovanni Battista Montini fin dagli anni giovanili e i riferimenti agli insegnamenti dell'Apostolo affiorano spesso negli scritti appartenenti al periodo della sua attività di assistente ecclesiastico della FUCI. Lo documentano in modo evidente i quaderni nei quali, tra il 1929 e il 1933, ha annotato le sue riflessioni sulle lettere di Paolo, pubblicati nel 2003 dall'Istituto Paolo VI di Brescia.

Nell'apostolo Paolo Montini ritrova anzitutto la centralità del mistero di Cristo. Quando nella lettera ai Filippesi l'Apostolo esclama: «Per me vivere è Cristo», egli esprime «l'assorbimento e la concentrazione di tutti i pensieri, i sentimenti, gli affetti, le speranze, le aspirazioni, i principii morali e religiosi in Cristo». Oltre a rivelare l'intensità della sua personale esperienza del Signore, l'affermazione di Paolo ha validità universale e, oggi in particolare, deve indurre a vincere «una insinuante e generale tentazione, che la vita cioè tragga d'altronde che da Cristo la sua suprema ragion d'essere e la sua salute». In quanto centro della storia della salvezza, il mistero di Cristo rappresenta anche il termine della ricerca umana della verità. Per conoscere il mistero di Cristo sono dunque necessarie tutte le risorse dell'intelligenza, poiché esso «è l'oggetto conoscibile primo ed estremo» e, d'altra parte, «una conoscenza di Cristo che non esaurisse e soddisfacesse le più alte aspirazioni del pensiero non sarebbe penetrante nella realtà di Lui».

Alla ricerca di un'apologetica adeguata alla temperie culturale contemporanea, Montini vede nella parola della croce proclamata da Paolo nella prima lettera ai Corinzi l'indicazione della foma in cui si compie la rivelazione e, insieme, del cammino che l'intelligenza è chiamata a compiere per accoglierla. La verità che viene da Dio supera infatti le anguste attese dell'uomo, fino a provocare lo scandalo di una ragione umana che è sì dono di Dio, ma porta in sé il rishio e la tendenza a pensarsi come autosufficiente. E' per questo che la rivelazione di Dio si è compiuta per un'altra via. «Dio volle difendere il suo messaggio dai pericoli del razionalismo autosufficiente proprio rivestendolo di una forma che non può essere da esso accettata e compresa. Dio fu più geloso del carattere divino del messaggio evangelico che della sua adattabilità alla mente umana. Cioè: prima la gloria di Dio, poi la salute umana; né poteva fare altrimenti se davvero voleva salvare divinamente l'uomo: la salute umana non è un prodotto umano, Dio doveva mostrarsi celandosi». Il tema della Chiesa costituisce il secondo punto focale della meditazione delle lettere di Paolo condotta da Montini. L'istituzione ecclesiastica e l'autorità che ad essa compete deve essere a servizio dell'unità e della circolazione della carità tra i fedeli. L'autorità apostolica esercitata da Palo è fondata su una vocazione divina ed egli la esercita con decisione di fronte a comunità turbolente e divise: «Egli insegna, giudica, comanda, punisce». Ma è consapevole al tempo stesso che non è l'esercizio dell'autorità e l'ordine da essa assicurato nelle comunità il fine dell'azione apostolica. L'apostolo Paolo diviene così il modello di un ministero ecclesiale che scompare dietro al messaggio da proclamare e in tutto ciò che compie lascia trasparire l'azione di Dio. Al tempo stesso, Paolo diviene così il modello di un ministero ecclesiale che scompare dietro al messaggio da proclamare e in tutto ciò che compie lascia trasparire l'azione di Dio. Al tempo stesso, Paolo stabilisce con i cristiani «una relazione d'amicizia, di paternità», profondamente differente dal modo burocratico di esercitare il ministero che spesso si deve constatare nella Chiesa e ricco di tutte le sfumature del sentimento e dell'affetto. Non si deve dunque scambiare l'esercizio dell'autorità pastorale con l'atteggiamento autoritario della gente che «va avanti alla cieca, parla senz'essere ascoltata: si fa ubbidire senza farsi amare», mentre l'autorità del pastore «deve pur compire un'opera che le anime o prima o poi debbono sentire salutare, e vivificante; altrimenti non verrà meno in se stessa, mai, ma mancherà al suo fine, farà il vuoto d'intorno, si priverà della fiducia delle anime, faticherà per nulla. La fiducia delle anime: ecco ciò che sottintende o intende l'Apostolo. Bisogna pensarvi, bisogna meritarla».


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“Nato da Donna”: Maria in Paolo

ROMA, mercoledì, 20 agosto 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura del mariologo Stefano de Fiores, SMM, apparso sul secondo numero della rivista “Paulus” .


* * *

E' raro trovare l'accostamento di Paolo di Tarso e Maria di Nazaret, due figure bibliche senza evidente legame o necessario richiamo. Basti consultare il Dizionario di Paolo e delle sue lettere per accorgersi che il nome di Maria è completamente ignorato, anche come donna che ha generato il Figlio di Dio (Gal 4,4), passo saltato perfino nella voce «Lettera ai Galati». A prima vista sembra che in realtà non ci sia niente di comune tra i due personaggi di rilievo nella Chiesa delle origini. Paolo è il missionario teologo, l'apostolo delle genti e il rappresentante di un cristianesimo libero dalla legge di Mosè e aperto all'ellenismo, Maria è una donna tenuta in grande considerazione come Madre di Cristo, ma professante come Pietro Giacomo un giudeo-cristianesimo fedele alle prescrizioni legali in seno alla comunità di Gerusalemme. Eppure il legame tra Paolo e Maria esiste, dal momento che dobbiamo all'Apostolo il primo testo del Nuovo Testamento dove si parla di Cristo come «nato da donna» (Gal 4,4). Riflettendo sul piano della salvezza e in particolare sull'incarnazione, Paolo non può fare a meno di riferirsi a quella donna d'Israele che ha generato il Messia. Come è risaputo, i discorsi kerigmatici di Pietro (At 2,14-39; 3,12-26; 4,9-12; 5,29-32; 10,34-46) e di Paolo (At 13,16-30; 17,22-31) mirano a comunicare il contenuto essenziale della storia della salvezza: Cristo morto e risorto. Solo una volta si fa riferimento all'attività sanatrice ed esorcista di Gesù dopo il battesimo di Giovanni (At 10,38) e solo una volta si menziona la discendenza davidica di Cristo: «Dalla discendenza di lui [Davide], secondo la promessa, Dio trasse per Israele un salvatore» (At 13,23). In questa prima fase non si nomina mai Maria. La ragione di questo silenzio sulla madre di Gesù è comprensibile: essa rientra nel più vasto silenzio circa l'intero arco della vicenda storica di Cristo (che sarà oggetto di considerazione accurata da parte degli evangelisti), perché il centro di interesse degli apostoli è l'annuncio del mistero pasquale.

Paolo rompe il silenzio su Maria offrendo in Gal 4,4 la più antica testimonianza mariana del NT, che risale al 49 o al massimo al 57 d.C., cioè una ventina d'anni dopo l'ascensione. Occasione della lettera ai Galati è l'infiltrazione nella comunità della Galazia in Asia minore (attuale Turchia) di alcuni cristiani giudaizzanti, che insegnavano la validità della legge giudaica per nulla abolita da Cristo. A questi Paolo oppone il suo Vangelo, ossia la salvezza mediante la fede in Cristo. Da autentico teologo, Paolo pone il dilemma: chi ci salva Cristo o la legge? Se la salvezza viene dalla legge, allora «Cristo è morto invano» (Gal 2,21). Ma se Cristo è il salvatore, allora la legge perde la sua funzione e necessità, sicché le genti possono credere ed essere battezzate senza passare dall'obbedienza alle prescrizioni mosaiche. Con questa soluzione, che raccoglie l'accordo degli apostoli e comunità, il cristianesimo cessa di essere un semplice gruppo ebraico (pur mantenendone la fede monoteistica e la profonda spiritualità), e diviene una comunità universale.

In tale contesto polemico contro i giudaizzanti, Paolo introduce il testo di alto interesse cristologico in cui si fa menzione «tangenzialmente e in forma anonima» (A. SERRA, «Gal 4,4: una mariologia in germe», in Theotokos 1 (1993)2,8) di Maria, la «donna» dalla quale nacque Gesù: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio e mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (Gal 4,4). Nonostante la sua laconicità, tale testo è considerato di altissimo interesse mariano, quasi una «mariologia in germe», in quanto «nucleo germinale» aperto «alle successive acquisizioni del Nuovo Testamento». Lo storico dei dogmi mariani Georg Söll giunge ad affermare: «Dal punto di vista dogmatico l'enunciato di Gal 4,4 è il testo mariologicamente più significativo del NT, anche se la sua importanza non fu pienamente avvertita da certi teologi di ieri e di oggi. Con Paolo ha inizio l'aggancio della mariologia con la cristologia, proprio mediante l'attestazione della divina maternità di Maria e le prima intuizione di una considerazione storico-salvifica del suo significato» (G. SÖLL, Storia dei dogmi mariani, Roma 1981, 31). L'importanza del testo paolino è dato dal fatto che esso ha una struttura trinitaria e insieme storico-salvifica. Paolo ricorre chiaramente allo schema di invio. Il soggetto della frase è il Padre, che determina la pienezza del tempo. Il tempo è considerato dall'AT come un recipiente che si riempie, ma per Paolo la pienezza è determinata da Dio, che fissa la data della fine della tutela dei pedagoghi per entrare nell'età adulta e libera.

In questo senso si comprende la posizione degli esegeti, al seguito di Lutero: «La missione del Figlio di Dio non è conseguenza della pienezza del tempo, ma è proprio il suo ingresso nella storia che realizza tale pienezza, trasformando il chrónos [tempo cronologico] in kairós [tempo salvifico]» (A. VALENTINI, Editoriale, in Theotokos 1 [1993]2,3). Per Paolo è il tempo propizio alla salvezza dopo il periodo di sudditanza e di maturazione (Gal 4,1-2), e decide l'invio di suo Figlio. Questi, che preesiste per poter essere inviato, viene nel tempo secondo due modalità e finalità intimamente connesse e contrapposte: nasce in condizioni di fragilità (nato da donna) e di schiavitù (nato sotto la legge) in vista della liberazione dalla schiavitù (per riscattare coloro che erano sotto la legge) e del dono della figliolanza divina reso possibile dallo Spirito (Gal 4,6) (perché ricevessimo l'adozione a figli).

Maria è la donna che inserisce il Figlio di Dio nella storia in una condizione di abbassamento, ma ella è situata nella pienezza del tempo e si trova coinvolta nel disegno storico-salvifico della trasformazione degli uomini in figli di Dio. Nei due versetti (Gal 4,4-6) sono presenti le persone della Trinità in un orizzonte storico-salvifico, sicché si può giustamente osservare che la donna da cui nasce Cristo è incomprensibile al di fuori della sua relazione con le tre persone divine e con la storia della salvezza: «Il “mistero” della donna in Gal 4,4ss è totalmente inserito in un disegno cristologico-trinitario-ecclesiale e posto a garanzia dell'effettiva libertà dei figli di Dio. La donna, di cui non si menziona neppure il nome, è interamente al servizio dell'evento salvifico che impegna la Trinità intera ed è a vantaggio di tutti gli uomini» (A. VALENTINI, Maria seondo le Scritture. Figlia di Sion e Madre del Signore, Ed. Dehoniane, Bologna 2007, 31). Potremmo dire - con il linguaggio del teologo riformato Jean -Jacques von Allmen - che Maria è coinvolta nel «complotto» di Dio, meglio nel suo misterioso e sorprendente «disegno», per la salvezza degli esseri umani: «[Maria] è colei che porta in sé Gesù Cristo; ma non vuole conservarlo per sé, perché infine è colei che lo porta al mondo: in questo senso partecipa - come la Chiesa - a quello che si potrebbe chiamare il «complotto» di Dio per salvare il mondo, e si può celebrarla come quella che ha introdotto segretamente tra gli uomini il Cristo, nel quale il regno di Dio è presente» (J.-J. VON ALLMEN, «Nomi propri/2. Maria, la madre del Signore», in J.-J. VON ALLMEN (ed.), Vocabolario biblico, AVE, Roma 1969, 324).


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Capolavori d'arte nell'antico Oratorio della Compagnia di san Paolo di Torino

Splendori barocchi in visione
«come in uno specchio»


di Arabella Cifani e Franco Monetti

La Compagnia della fede cattolica, detta anche Compagnia di san Paolo dal nome del suo santo protettore, fu fondata il 25 gennaio 1563 a Torino, in una temperie storica che poneva il Piemonte sabaudo come baluardo contro le infiltrazioni protestanti in Italia. Nel 1564 i confratelli affittarono una casa per l'oratorio. In seguito a partire dal 28 ottobre 1568 trovarono una più comoda sistemazione prima nella casa di un confratello e poi in una scuola del collegio dei gesuiti. Erano tuttavia solo ripieghi temporanei. Emanuele Tesauro, primo storico della Compagnia, narra infatti che i confratelli coltivavano l'intenzione di fabbricare con "splendidezza" il loro oratorio. Nel 1576 comprarono un "sito" vicino ai gesuiti e lo costruirono, impiegando duemila scudi d'oro. Due anni dopo (1578) la Compagnia incominciò "ad officiare" l'oratorio, che era però ancora disadorno. Soltanto nel 1580 fu dotato "decentemente" con i banchi e la cattedra di noce del rettore per le funzioni e le preghiere. Dopo il 1580, scrive Tesauro, fu addobbato "con ricca supellettile, et bei parati" e vi fu aggiunto "il pretioso Quadro dell'Apostolo, che fulminato dalla voce di Cristo, di Saulo si cambia in Paolo; con una furiosa fuga degli atterriti Satelliti".
La tela del pittore faentino Alessandro Ardente (o Ardenti), commissionata per l'occasione e ancora esistente, fu la prima opera d'arte presente nell'oratorio.
La Compagnia, con le patenti ducali del 23 dicembre 1580, ottenne la concessione del Monte di pietà di Torino e con il tempo si trasferì proprio nell'edificio del Monte, ove costruì il suo nuovo oratorio.
L'antico oratorio restò in uso per circa quattrocento anni:  oggi non esiste più. Con l'inaugurazione del moderno edificio dell'Istituto delle Opere Pie di san Paolo in via Monte di pietà (6 ottobre 1902), tutto venne infatti mutato. Ma già prima di questi rifacimenti le tele del Cinque-Seicento che adornavano l'oratorio, per interessamento dell'arcivescovo di Torino, Ottavio Riccardi di Netro, erano state trasferite alla chiesa dell'arcivescovado (1876). I dipinti nel 1963 furono dalla curia di Torino ceduti all'Istituto, che ne curò il restauro e li collocò nella sede di una banca cittadina.
Durante tutto il Seicento l'oratorio posto nel Monte di pietà fu arricchito e parato, per committenza di confratelli, con una teoria di notevoli tele di diversi autori.
I dipinti non sono più tutti reperibili; ne sono stati conservati dieci, distribuiti in vari ambienti del palazzo di piazza San Carlo. Sono opere preziose, sia per il valore artistico, sia per l'insostituibile valore storico:  costituiscono infatti il cuore della memoria dell'Istituto, la tangibile testimonianza delle profonde convinzioni religiose dei fondatori e della loro volontà di radicarsi nel tessuto della città.
Le antiche guide di Torino, riprese successivamente da altri studiosi, consentono la ricostruzione virtuale, seppur tardiva, della disposizione dei dipinti nell'antico oratorio. All'altar maggiore trovava posto il dipinto della Caduta di san Paolo da cavallo di Alessandro Ardente. Di testa, a sinistra dell'altar maggiore, era collocato San Paolo ed Anania; a destra dell'altar maggiore, La decollazione di san Paolo e la crocifissione di san Pietro.
Sulla parete di destra dell'oratorio, guardando l'altar maggiore erano disposti in successione:  San Paolo condotto al martirio; San Paolo alla mensa eucaristica; Cristo appare a san Paolo in carcere; San Paolo al transito della Vergine. E sulla parete di sinistra dell'oratorio, guardando l'altar maggiore:  San Paolo che libera un ossesso; San Paolo rapito al terzo cielo; San Paolo che disputa all'Areopago di Andrea Pozzo (1642-1709) e San Paolo che distribuisce l'elemosina. Nel vestibolo dell'oratorio vi era San Paolo e santa Tecla. Infine, sopra la porta di ingresso, San Paolo seduto con un libro in mano e sopra la tribuna la tela rappresentante San Paolo in piedi con un libro nella mano destra e la spada in quella sinistra, di Federico Zuccari (1542/43-1609), dipinto andato purtroppo distrutto. Le tele di San Paolo ed Anania; San Paolo che libera un ossesso e San Paolo che disputa all'Areopago furono tolte verso il 1860 e la loro destinazione è ora ignota.
Le tele superstiti, a eccezione di quella dell'altar maggiore di Alessandro Ardente, presentano l'arma gentilizia dei vari committenti:  membri delle maggiori famiglie torinesi e spesso confratelli o addirittura rettori della Compagnia. I pittori che parteciparono all'impresa furono prescelti fra i più significativi della Torino della seconda metà del Seicento, legati strettamente alla corte sabauda, a eccezione del genovese Pietro Paolo Raggi, che eseguì il suo quadro in occasione di una permanenza temporanea a Torino.
Il pittore più rappresentato all'interno della quadreria è Giovanni Bartolomeo Caravoglia, "principe" dell'Accademia dei pittori di Torino e a sua volta membro della Compagnia di san Paolo:  un fatto che certamente contribuì a facilitargli le committenze.
Ancorché mutila, la serie di opere conservata costituisce uno dei più cospicui e omogenei gruppi di dipinti secenteschi torinesi, nonché uno dei più importanti e significativi cicli pittorici italiani dedicati alla vita di san Paolo apostolo, a cui i confratelli della Compagnia si conformavano nel loro ardente desiderio di carità. I grandi quadri dell'antico oratorio si propongono come un prezioso intreccio di fede, arte e storia della Torino fra tardo Cinquecento e Seicento.
Una rapida carrellata sui dipinti permette di coglierne i molteplici pregi artistici e il loro forte e suggestivo messaggio religioso.
Il quadro più antico - come ricordato - è quello del faentino Alessandro Ardente (notizie dal 1539-1595), che raffigura la Caduta di san Paolo. Il dipinto è dotato di un discreto corredo critico e documentario antico. Emanuele Tesauro nella Historia della venerabilissima Compagnia della Fede Catolica (1657) lo loda e lo data dopo l'anno 1580. La scena raffigura il celeberrimo episodio della vocazione di Saulo, narrata dagli Atti degli Apostoli (9, 3-8). Paolo è a terra, accecato dalla luce incombente della figura di Cristo; in basso, intorno a lui e al cavallo stramazzato, vive una folla di astanti. La composizione è molto articolata, impostata sul rimando reciproco di sguardi e di gesti tra la figura di Saulo e il Cristo. Le figure nel registro inferiore si rivolgono in tutte le direzioni, scalandosi su più piani di profondità. Lo schema della composizione è improntato al severo programma della Riforma cattolica, nel quale si inseriscono abilmente personaggi ben caratterizzati e ricchi di introspezione psicologica.
La seconda tela è opera di pieno Seicento, realizzata dal più illustre pittore francese attivo a Torino in quel periodo:  Charles Dauphin (1625/28-1678), che fu uno dei migliori allievi di Simon Vouet. Come chiarisce l'iscrizione in basso, il dipinto raffigura san Paolo rapito in estasi fino al terzo cielo, a contemplare il mistero dell'Eterno. L'apostolo, sorretto da angeli, viene infatti sollevato verso l'alto e appare immerso nella contemplazione di uno specchio. In basso, due angeli reggono un libro sul quale è appoggiata la spada, simbolo consueto della sua iconografia. Lo specchio allude all'affermazione di Paolo della prima lettera ai Corinti (13, 12) circa l'impossibilità di poter durante la vita terrena sondare il mistero di Dio:  "Noi vediamo come per mezzo di uno specchio, in immagine". La scena è percorsa da un vento impetuoso, che intende rappresentare la visibile presenza dello Spirito Divino nel quale Paolo è completamente immerso.
L'opera è da annoverare fra i capolavori del pittore e denuncia stretta affinità con quella di Nicolas Poussin oggi al Louvre raffigurante analogo soggetto, dipinta dal sommo maestro francese fra il 1649 e il 1650 e subito nota tramite numerose copie e incisioni. La singolare iconografia è stata letta sotto l'influenza diretta di Emanuele Tesauro, nella quale immagine e parola diventano complementari nella comprensione della pittura. Nella temperie culturale e religiosa della Torino di metà Seicento è però proponibile anche un'altra chiave di lettura:  di velata inclinazione giansenista, con la presenza della grazia divina che si inserisce dominante nell'uomo.
La terza tela - opera di compiuta bellezza - è lavoro del grande pittore torinese Giovanni Francesco Sacchetti (notizie a partire dal 1665). La scena è tratta dagli Atti degli Apostoli:  la confessione di Paolo davanti al tribunale di Felice, governatore di Giudea, sedente in Cesarea. L'apostolo afferma di essere tornato nella sua terra di Israele al fine di "portare elemosine e fare oblazioni". È raffigurato nell'atto di distribuire monete e panni a un gruppo di poveri raffigurati alla sua destra. Opera di alta qualità, ricca di squisiti particolari, denuncia precisa conoscenza dell'arte bolognese classica nella levigatezza dei corpi e nell'impostazione ordinata delle figure. Vi compaiono citazioni da Domenichino, da Annibale Carracci, da Guido Reni, da Albani.
Segue la poetica e visionaria tela, datata 1682, del pittore Pietro Paolo Raggi (1637 circa-1724) con Cristo che appare a san Paolo in carcere. San Paolo è rappresentato a terra, coricato su un fianco, con le mani in catene e alle sue spalle guardie addormentate. La parte superiore della scena è interamente sovrastata dalla luminosa visione di Cristo. L'episodio rimanda alla prigionia dell'Apostolo in Gerusalemme nella Fortezza Antonia; nella notte, narrano gli Atti degli Apostoli, gli apparve Cristo che lo incoraggiò e gli comunicò la necessità del suo viaggio a Roma.
Il quadro è l'unica opera superstite in Torino dell'importante artista ligure, presente nella capitale sabauda per qualche anno, e del quale stanno ricominciando ad affiorare solo ora scarse, ma significative testimonianze. Nel dipinto per l'oratorio della Compagnia Raggi utilizza un campionario assai vasto di riferimenti e citazioni culturali di ambito ligure stemperati però in reminiscenze tardo-manieriste nella figura di Paolo e in quelle dei soldati realizzati in monocromo nello sfondo; non mancano spunti tratti dalla pittura emiliana. Raggi rivela - in quest'opera maggiore - un forte temperamento artistico; usa infatti scenograficamente luci taglienti e mosse con gusto ancora tardo-caravaggesco; diffonde un caldo cromatismo carico di tinte dorate. È da segnalare, infine l'abile composizione della scena giocata su linee costruttive prevalentemente diagonali, che contribuiscono a dilatarne e muoverne lo spazio con effetto assai coinvolgente per il fedele.
Di fine Seicento è la solenne tela - da noi attribuita al pittore piemontese Sebastiano Taricco (1641-1710) - che raffigura Paolo seduto all'aperto, con il tronco ruotato verso lo spettatore e l'espressione maestosa. Con la mano sinistra l'apostolo indica un libro aperto sul quale è scritta una frase tratta dalla lettera agli Ebrei, attribuita oggi a un suo discepolo.
Il nucleo più consistente di opere dell'oratorio fu dipinto dall'illustre pittore piemontese Giovanni Bartolomeo Caravoglia (1616-1691). Si tratta di ben cinque tele nelle quali si dispiegano il gusto e lo stile della pittura aulica e religiosa piemontese del Seicento, carica di ombre e densa di severa religiosità.
La prima tela, databile fra 1664 e 1665, rappresenta san Paolo al transito della Vergine e si riferisce all'episodio narrato da un apocrifo attribuito a san Giovanni il teologo e intitolato Dormitio Mariae Virginis. Nel capitolo xix san Paolo racconta di aver udito, giunto a poca distanza da Roma, la voce dello Spirito Santo che lo avvisava dell'imminente morte della Vergine. Rapito in una nube di luce viene deposto a Betlemme davanti al letto di morte di Maria, dove trova tutti gli altri apostoli come lui miracolosamente convenuti. La scena è però qui rappresentata secondo la descrizione degli Annales di Cesare Baronio, come appare anche dal cartiglio alla base della tela. San Paolo è raffigurato mentre viene trasportato rapidamente da un gorgo di angeli al capezzale della Vergine morente, dove si sono già raccolti altri apostoli.
Caravoglia evidenzia precisi influssi da Charles Dauphin, mantiene tuttavia i tratti distintivi della sua maniera nella quale le ombre si imprimono marcate e il colorito è brunastro, a tratti terreo; la tonalità dell'insieme è livida con improvvisi, corruschi bagliori di luce, tipica della sua inconfondibile pittura, intrisa di severità, mistero, silenzio, malinconia.
L'artista fu tra i maggiori protagonisti del Seicento pittorico piemontese e le sue opere vennero richieste per altari prestigiosi di chiese della capitale subalpina e di tutto il Piemonte. La storiografia ne ha ipotizzato un apprendistato presso la bottega del Guercino; in effetti evidenzia soprattutto nelle opere giovanili un influsso dell'arte emiliana del primo Seicento, influsso che viene in seguito riassorbito all'interno di uno stile austero e solenne, perfettamente in linea con le richieste e i gusti della committenza piemontese.
La seconda tela di Caravoglia rappresenta san Paolo alla mensa eucaristica e venne dipinta verso il 1665. Al centro della composizione vi è san Paolo raffigurato nell'atto di offrire il pane eucaristico davanti alla mensa. La scena fa riferimento, come si evince anche dalla scritta sottostante, al preciso passo della prima lettera ai Corinti (11, 23-34) nel quale Paolo riafferma l'istituzione dell'Eucaristia e richiama i fedeli alla responsabilità altissima del sacramento. La composizione è ben scandita nei primi piani. Le figure dagli ampi gesti patetici e dai corpi convergenti verso la mensa eucaristica, il vivace senso materico del tappeto anatolico e delle stoffe, che si accendono di chiarori colorati in primo piano, appartengono a una fase pienamente barocca del pittore.
La terza tela dell'artista raffigura san Paolo che accompagna santa Tecla presso una casa di religiose. L'episodio è molto singolare e particolare, raramente raffigurato, storicamente inesatto, narrato da un presbitero vissuto nell'ultimo trentennio del secondo secolo in Asia Minore, che, per devozione a san Paolo, si inventò degli Acta Pauli et Theclae, poi da lui stesso riconosciuti falsi e rifiutati anche dal Decretum Gelasianum. L'invenzione dei falsi Acta è riferita sia da Tertulliano che da san Girolamo (De viris illustribus). Sant'Ambrogio tuttavia li accolse e li usò come spunto per inserire santa Tecla nel novero delle vergini sante nel trattato De Virginibus. Gli Acta narrano in forma romanzata i viaggi di san Paolo e la conversione di Tecla avvenuta a Iconio, dove la santa avrebbe ascoltato san Paolo predicare sulla castità e l'avrebbe seguito superando l'ostilità della madre, che voleva condannarla al rogo. Cesare Baronio nel Martirologio Romano associa erroneamente Tecla alle sante Trifena e Trifosa ricordate da lettere dell'apostolo. L'opera di Caravoglia rappresenta Paolo nell'atto di accogliere santa Tecla e, contemporaneamente, nel gesto di trattenere la madre che tenta di opporsi, mentre Trifena la invita a entrare in un edificio, nel quale si trovano altre religiose.
La quarta tela dell'artista piemontese - dipinta fra 1665 e 1670 - raffigura san Paolo condotto in catene al martirio. Intorno a lui soldati romani e aguzzini con sferze e armi sguainate, mentre Nerone sul cocchio, a sinistra, fra labari e bandiere romane, indica con gesto perentorio la porta di Roma - oggi Porta San Paolo - che conduce verso il luogo dell'esecuzione; nella penombra si distinguono la piramide di Caio Cestio e alcuni seguaci di Paolo. L'ispirazione per l'iconografia è tratta dal testo di san Giovanni Crisostomo Contro i detrattori della vita monastica (Migne greco, xlvii, libro primo, coll. 319-386). I tratti della composizione sono quelli caratteristici della fase della produzione matura del Caravoglia. Sono gli anni in cui il pittore è giunto all'apice della sua fama:  nel 1665 infatti i Decurioni della città di Torino lo elencano per primo in una lista comprendente i nomi dei sette migliori artisti operanti in città.
L'ultima tela - la più drammatica - raffigura il martirio dei santi Paolo e Pietro, associati secondo una formula iconografica inusuale. In primo piano, la raccapricciante visione del corpo privo di testa dell'apostolo, ancora guizzante di vita. Dal terreno, nei punti in cui la testa recisa è rimbalzata tre volte, sgorgano tre sorgenti d'acqua. Alle spalle di Paolo, sta san Pietro in croce, appeso a testa in giù. L'immagine si ricollega alla tradizione narrata da fonti apocrife e divenuta diffusa e consolidata credenza popolare, secondo la quale dai rimbalzi della testa di san Paolo scaturirono tre fontane, poi racchiuse nella basilica ostiense di San Paolo fuori le Mura. Committente della tela fu Giovanni Francesco Bellezia (1602-1672), insigne giurista, illustre e amato sindaco di Torino, che guidò - come ricorda il Tesauro - la città con mano ferma e "sviscerata e paolina carità" fra 1629 e 1630, nel pieno della grande peste. Il Bellezia, le cui armi comitali sono ben visibili in primo piano in basso a destra, fu primo presidente del Senato del Piemonte (1660) e più volte presidente e rettore della Compagnia di San Paolo.
Il pittore dimostra nel dipinto fedeltà al suo stile maturo, che qui raggiunge effetti di alta drammaticità, funzionali - in un pittore intensamente cattolico come lui - all'applicazione della Riforma cattolica in atto ai suoi tempi in Piemonte e alla convinta, personale adesione e partecipazione del fedele ai dolori e al martirio dei due apostoli:  esempio di sopportazione e di superamento dei dolori quotidiani.
Poco conosciuto al di fuori dei confini del Piemonte e della ristretta cerchia degli specialisti, il grande ciclo paolino dell'antico Oratorio della Compagnia di San Paolo ci appare meritevole di maggior fama. Una di quelle opere buone della Compagnia, secondo il Tesauro, da "mettersi come fiaccola accesa sul candeliere in vista di tutti".
Di attualità in questo Anno paolino, il ciclo, esemplificando con calda eloquenza barocca la vita di Paolo, offre attraverso un'arte fortemente persuasiva un indiscusso richiamo alla meditazione del grande apostolo e ci ricorda che i confratelli, che nel 1563 fondarono nel suo nome la Compagnia, la vollero dedicata alla preghiera, alla cultura, a una fattiva carità verso i bisognosi. Un ruolo che ancor oggi persegue con grande attenzione.



(©L'Osservatore Romano - 23 agosto 2008)

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In Cappadocia sulle orme di san Paolo

In pellegrinaggio nella natura di pietra


di Mario Spinelli

Se il programma di un pellegrinaggio ai luoghi paolini della Turchia non include la Cappadocia, vi sconsigliamo caldamente di iscrivervi. È una terra troppo bella, troppo interessante e unica per rinunciare all'occasione di visitarla. E poi, anche se di memorie legate propriamente a san Paolo non vi è traccia sul posto, nel senso storico-archeologico del termine, è un fatto che quella regione centrale dell'altopiano anatolico fu evangelizzata in età apostolica ed era conosciuta dalle primissime generazioni cristiane, tanto è vero che il paese e il suo popolo vengono ricordati più di una volta nel Nuovo Testamento.
Esistono tradizioni antiche e orali sulla presenza di Saulo in Cappadocia, e le guide non mancano di indicare a turisti e pellegrini questo o quel luogo dove l'Apostolo dei Gentili avrebbe sostato e predicato. Per esempio la chiesa rupestre dei Quaranta Martiri, nei dintorni di Urgrup, scavata in cima a una scala di pietra, dentro uno di quegli stranissimi coni rocciosi che sono fra le componenti fondamentali del fascino e dell'originalità di questa terra straordinaria.
Arrivando al mattino presto in Cappadocia la prima cosa che colpisce sono le tante mongolfiere colorate che vedi fluttuare dolcemente nell'aria in lontananza, sospese sui monti e le vallate che per chi le ammira da quell'altezza si estendono a perdita d'occhio. Un modo originale e quasi poetico di fare turismo che è subito una promessa di novità, di bellezze e di insolite emozioni per il visitatore appena entrato nel paese. Promessa puntualmente mantenuta, per cominciare, dalla vista mozzafiato della valle di Göreme (sito Unesco dal 1985) che si gode dal picco di Uchisar. Sembra di affacciarsi sulla luna, con le sue algide estensioni e i suoi paesaggi scabri e silenziosi. Montagne, rocce, valloni ripidi e profondi, coni capovolti e ardite guglie di pietra che si inseguono per chilometri, torri, cime, gole, burroni e rocche imponenti che ricordano pure il mitico far west con le sue montagne rocciose, i canyons e la monument valley. E lontano lontano a nord-est, a dominare su tutto dai suoi quasi quattromila metri, la vetta sempre innevata del monte Argeo (oggi Erciyes Dagi), l'antico vulcano che assieme all'Hasan Dagi (a sud-ovest) con le sue eruzioni all'alba del mondo ha offerto la materia prima al paesaggio cappadoce. Al resto hanno pensato le piogge, le nevi, i venti, il gelo, i terremoti, i bradisismi e tutti gli altri agenti naturali e atmosferici, che hanno lavorato, eroso, modellato, ricamato e giocato per millenni con la lava leggera e il tufo vulcanico, realizzando alla fine l'incredibile scenografia che abbiamo davanti agli occhi.
Stesso spettacolo, stessa esperienza affascinante nella valle di Peristrema, a sud, attraversata dal fiume Melendiz, che la fa sembrare un po' il Grand canyon, con le tinte delle rocce - dalle forme più bizzarre - che trascolorano dal bianco al grigio, dal rosa al giallo, dall'ocra al malva, non solo per la diversità della pietra ma anche a seconda delle ore del giorno e di come vi batta la luce del sole. Il pellegrinaggio cristiano, paolino si fonde in Cappadocia con un pellegrinaggio nella natura, nella sua grandiosità, nelle sue infinite possibilità espressive e costruttive, nel suo estro e nei suoi capricci, nella sua inesauribile capacità di sbalordire e di conquistare. E questa scoperta, questa full immersion nella creatività della natura è la prima ragione per cui la Cappadocia, come scrivono i curatori delle guide, pure da sola "vale il viaggio".
Poi c'è la storia, la presenza dell'uomo nei secoli. A cominciare dalla Turchia di oggi, con i villaggi che oscillano fra tradizione e modernità, investiti dal turismo - mercatini, pullman, oggetti d'artigianato in onice, tappeti, quello che sopravvive di una rinomata ceramica - ma ancora legati al passato e alla loro origine nei ritmi di vita, nell'abbigliamento, nei dialetti, nella cultura montanara. Le città grandi sono più decisamente moderne, con traffico di auto, alberghi, servizi, infrastrutture. Cesarea è ancora il centro principale, come ai tempi di san Basilio. Quanto a Nissa, la città dove fu vescovo il fratello Gregorio, ora è Nevsehir, la seconda città del Paese, al confine ovest, sul pendio del monte Kahveci, con vestigia romane, un museo archeologico e la splendida moschea di Kursunlu.
Ma la vicenda storica dell'uomo in Cappadocia ha la sua traccia più importante, vistosa e originale - tutto, qui, è all'insegna dell'originalità - negli infiniti fori e pertugi che punteggiano le rocce. Sono gli accessi in stanze, in ambienti articolati o in vere e proprie città sotterranee scavate nella pietra come rifugio dalle genti locali in età precristiana, e utilizzate anche dai cristiani fra vii e x secolo per scampare alle incursioni arabe. Uno scenario che fa pensare ai Sassi di Matera, solo che qui le pareti rocciose traforate come alveari o termitai - dai piedi delle alture fino ai picchi più arditi - coprono l'intero Paese. Impressionanti specialmente Derinkuyu, Kaymakli, Mazi Köyü e Özkonak, città sotterranee dove nel buio totale rischiarato da poche lampade elettriche percorri gallerie interminabili, si passa da un vano all'altro, ci si piega sotto gli archetti che separano i locali, scendendo e risalendo di sei o sette livelli, fino a ottanta metri sottoterra. A Derinkuyu le gallerie scendono al ventesimo piano, e si calcola che il vastissimo ipogeo si sviluppava per quattro chilometri quadrati e ospitava duemila famiglie.
Poi il cristianesimo. Non solo la memoria di san Paolo, che probabilmente seminò il Verbo anche qui, ma anche la Chiesa patristica, la storia delle persecuzioni (Giuliano l'Apostata passò l'adolescenza a Macellum, in Cappadocia), i padri cappadoci, il monachesimo basiliano, le chiese rupestri, l'arte sacra bizantina pre e posticonoclasta restituiscono questa terra al percorso religioso e al pellegrinaggio anche cristiano. Polmone spirituale e culturale della Chiesa antica e della cristianità di Bisanzio, la Cappadocia è musulmana dall'inizio del ii millennio. L'ultima consistente presenza cristiana sparì nei primi anni Venti del Novecento con le riforme di Atatürk, la laicizzazione dello stato e della società turca e lo scambio di minoranze fra greci e turchi. Ma rimangono le radici, rimane la memoria storica, che vive appunto nei monasteri e nelle chiese scavate nella roccia, e vive nell'iconografia sacra. La valle di Göreme è pure da questo lato una miniera di tesori. C'è la Chiesa Oscura, una delle più belle costruite nel xii secolo, con la sua cupola su quattro colonne e le tre absidi. I vivaci affreschi dell'interno non sono sbiaditi grazie alla mancanza di luce solare (da qui il nome della chiesa). Dentro la cupola è rappresentato il Cristo Pantocrator, alle pareti l'ultima cena, la crocifissione, il battesimo nel Giordano, il tradimento di Giuda e gli evangelisti Marco e Giovanni.
Ci si avvicina a una chiesa rupestre come a una delle tante ruvide rocce scavate, quasi senza accorgersi di essere davanti a un edificio sacro, dove monaci e popolo hanno pregato per secoli. Ma una volta dentro si apre un mondo esuberante di immagini e di colori, con le scene più importanti della vita di Cristo e dei santi. Come nella chiesa dello Sguardo, o in quella della Vergine Maria, o in quella della Fibbia, con dipinti che esprimono la pietà mariana dei cappadoci (Annunciazione, Visita a Elisabetta, Verginità di Maria, viaggio a Betlemme, ossequio dei Magi e così via). Sono opere che datano per lo più dal ix secolo, e testimoniano il fervore e l'entusiasmo che hanno accompagnato la riscoperta dell'immagine sacra, dopo la crisi iconoclasta dei secoli precedenti. Natura e storia, arte, cultura e fede, e mille anni e più di cristianesimo, inaugurati da Paolo e dalla Chiesa apostolica. È questo il tesoro racchiuso fra i monti e le valli della Cappadocia.



(©L'Osservatore Romano - 1-2 settembre 2008)

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Colloquio internazionale a Roma su “L'Unità della Chiesa in Paolo”

Dal 9 al 14 settembre presso l'Abbazia di San Paolo fuori le Mura

di Marco Cardinali

ROMA, mercoledì, 3 settembre 2008 (ZENIT.org).- Dal 9 al 14 settembre presso l'Abbazia di San Paolo fuori le Mura si svolgerà il Colloquio Paolino 2008. L'antica abbazia benedettina, alla cui custodia e preghiera liturgica è affidata la cura della Tomba dell'Apostolo Paolo, ha compiuto 40 anni.

Esperti di fama internazionale, studiosi degli scritti di Paolo si raduneranno nell'Abbazia per un tempo proficuo di studi sullo speciale tema dell'anno celebrativo paolino: “L'Unità della Chiesa in Paolo”.

Questo impegno culturale dei monaci benedettini di San Paolo si inserisce in una solida tradizione di lavoro in favore dell'ecumenismo, compito loro ulteriormente affidato e con nuovo vigore direttamente da Papa Benedetto XVI.

Padre Edmund Power, Abate di San Paolo fuori le Mura, ha sottolineato come il Colloquio Paolino assuma un tono tutto particolare in questo anno del bimillenario della nascita dell'Apostolo delle Genti, un'occasione per approfondire a vari livelli il ricco messaggio di Paolo, tanto antico e sempre nuovo per ciascuno di noi oggi.

"Il Colloquio – ha detto – è un mezzo privilegiato per unirsi al lavoro infaticabile di Papa Benedetto XVI a favore dell'ecumenismo e del dialogo interreligioso".

Durante il Colloquio gli studiosi potranno visitare anche i luoghi di interesse archeologico a Roma e in particolare nella Basilica di San Paolo in cui, grazie a recenti scavi archeologici, sono rese visibili parte della tomba dell'Apostolo e l'abside costantiniana dell'antica basilica.

Il 12 settembre i convegnisti con il loro presidente di turno, per quest'anno il prof. Jaques Schlosser, docente emerito di Teologia cattolica all'Università di Strasburgo, parteciperanno insieme ai monaci benedettini al "Vespro Ecumenico" in Basilica, che si celebra ogni venerdì, durante il quale uno degli esperti terrà una riflessione conclusiva sul tema del Convegno.

Sui lavori esegetici del Colloquio seguirà la pubblicazione degli Atti.

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Gli ultimi studi sul rapporto tra Gesù e l'Apostolo

Paolo non è solo un genio
È anche l'espressione di un popolo


di Romano Penna

Gli studi più recenti sulle origini cristiane, oltre a quelli che si interessano del loro ambiente storico-culturale, si possono suddividere grosso modo in due categorie. Gli uni prendono in considerazione il fenomeno da un punto di vista globale, sia individuandone tappe cronologiche e dislocazioni geografiche, sia esaminandone i contenuti e le posizioni ideali. Gli altri insistono piuttosto o su momenti o su personaggi o su temi particolari, che hanno contribuito, ciascuno per la sua parte, a configurare da posizioni diverse l'insieme del fenomeno stesso.
Per quanto riguarda specificamente i personaggi, non c'è dubbio che, oltre a Gesù, la parte del leone la fa Paolo, che di volta in volta viene studiato in rapporto ai suoi maestri ebrei, ai primi apostoli, ai suoi collaboratori, a Giacomo fratello del Signore, e particolarmente in rapporto a Gesù stesso.
Proprio sulla relazione tra Gesù e Paolo, o tra Paolo e Gesù (a questo proposito va precisato che si intende solo il Gesù storico e non il Gesù risuscitato), si dà ormai una bibliografia vastissima, la cui catalogazione e discussione meriterebbero da sole una ricerca. A mia conoscenza, le ultimissime produzioni sono quelle di Giuseppe Barbaglio, di Jerome Murphy-O'Connor e del curatore Todd D. Still. Tra questi tre studi dico subito che quello di Murphy-O'Connor è un prodotto infelice, non solo per la bizzarra idea derivata impropriamente da Plutarco di mettere in parallelo due personaggi del tutto asimmetrici, stante il fatto che il secondo si professa addirittura doùlos del primo, ma anche perché a mio parere va a forzare i testi e, per fare ad ogni costo di Gesù un corrispettivo di Paolo, sostiene addirittura che anche lui ebbe una sorta di conversione da una primitiva fase di sostenitore zelante della Legge.
In ogni caso, resta vero ciò che scriveva Alexander J. M. Wedderburn nel 1996, cioè che "è difficile pensare nello studio di tutto il Nuovo Testamento un tema più pressante del rapporto tra Paolo e Gesù".
In realtà, questo non è altro che un capitolo della questione più ampia concernente il passaggio dalla fase gesuana a quella più propriamente cristiana. Infatti, se John Dominic Crossan ritiene di non poter trovare correttamente Gesù partendo da Paolo, è pur vero che, come osserva invece Larry W. Hurtado, se non si tiene in adeguata considerazione Paolo non si arriva a presentare correttamente la nascita del cristianesimo.
Il giudizio negativo sulla parte svolta da Paolo proprio sulla nascita del cristianesimo, diventato poi pressoché un tòpos negli studi o meglio in "certi" studi sulle origini cristiane, a mia conoscenza è stato formulato per la prima volta da Nietzsche in Aurora (del 1881). Mentre in Umano, troppo umano (del 1879) è ancora Gesù a essere considerato il "fondatore del cristianesimo" ( 85, 177), in Aurora invece egli scrive testualmente a proposito di Paolo:  "È questo il primo cristiano, l'inventore della cristianità" ( 68, 53), dove però bisogna avere presente la singolare ermeneutica nietzschiana secondo cui si trattò di un passaggio dall'"evangelo" di Gesù al "dysangelo" paolino imperniato sull'odio per l'umano, che sarebbe tipico dell'ebreo.
Ancora nel 1999 uno scrittore esponente del giudaismo italiano poneva come sottotitolo a una sua biografia dell'Apostolo L'ebreo che fondò il cristianesimo.
Il più noto Georg William Wrede nel 1904, pur senza citare Nietzsche, parlerà se non altro di "secondo fondatore del cristianesimo", riconoscendo tra i due, non proprio una continuità, ma uno sviluppo. Ancora Rudolf Bultmann, ampiamente debitore della religionsgeschichtliche Schule, scorgeva nella teologia di Paolo eine neue Bildung in quanto tra Gesù e Paolo si deve calcolare il cristianesimo ellenistico, sicché la questione del rapporto tra i due si ridurrebbe semplicemente a quella tra Gesù e appunto il cristianesimo ellenistico.
I successivi studi sul giudeo-cristianesimo hanno in buona parte modificato il quadro generale, sicché, a quanto vedo, nella produzione luterana tedesca recente, quel tòpos sembra ormai abbandonato, anche se qualcuno mette di più l'accento sul fattore della discontinuità, almeno nella misura in cui è possibile ipotizzare che Paolo si collocasse in una corrente della tradizione cristiana che concedeva poco spazio alla trasmissione di dati gesuani. E in effetti, una semplice equivalenza tra i due è ben difficile da sostenere.
In tutto questo gran parlare di Gesù e Paolo si trascura spesso il ruolo decisivo, giocato dalla comunità cristiana primitiva. Perlomeno questo fattore è praticamente dimenticato o comunque bypassato da chi continua a parlare di Paolo come fondatore o inventore del cristianesimo, che semmai è rimasto un luogo comune solo in ambito giornalistico o simili. A livello di ricerca, invece, non v'è (Bultmann compreso) chi non ponga tra la trattazione della figura di Gesù e quella di Paolo un capitolo specifico dedicato alla comunità primitiva, eventualmente divisa un po' discutibilmente tra versante palestinese e versante ellenistico.
Ebbene, ciò che a me preme di evidenziare è appunto la parte svolta dal cristianesimo pre-paolino nei confronti dell'Apostolo, per dire in sostanza che, se dobbiamo proprio parlare di una eventuale "ri-fondazione" del cristianesimo, questa semmai avvenne già prima di Paolo. Altri recentemente vorrebbero enfatizzare piuttosto il ruolo specifico di Simon Pietro, che funzionerebbe come trait-d'union tra la Third Quest on Jesus e la New Perspective on Paul, in quanto egli è caratterizzato sia dal giudaismo sia anche da un sicuro rapporto storico con entrambi, Gesù e Paolo. Ma in definitiva il suo è un ruolo che si può inserire nel quadro più ampio della Chiesa primitiva. Comunque, è certamente indiscusso il fatto che il rapporto tra Paolo e Gesù non è stato diretto ma che tra di essi, un ebreo palestinese e un ebreo della diaspora ellenistica, si inframmezzò la comunità postpasquale.
Tuttavia, ciò che interessa in questa sede non è la descrizione completa del patrimonio confessionale della comunità o, meglio, delle comunità al plurale (ma si potrebbe anche usare il singolare "comunità/chiesa" da intendersi come singolare collettivo), che storicamente si interposero tra i due Ebrei. Mi interessa piuttosto considerare l'apporto che le comunità primitive diedero al formarsi dell'identità cristiana di Paolo.
Il mio punto di vista, cioè, non vuol essere quello delle comunità cristiane in quanto tali, ma quello di Paolo stesso in quanto nelle sue lettere rivela di essere stato condizionato dalla loro vita di fede. A questo proposito distinguo metodologicamente tra il Paolo anteriore all'evento di Damasco e il Paolo posteriore, in quanto ciascuna delle due fasi in modi diversi influì sulla sua conoscenza di Gesù Cristo.
Con ogni probabilità, come già accennato, Paolo non incontrò mai Gesù di Nazaret durante la propria vita terrena, anche se resta il problema suscitato da una loro effettiva contemporanea presenza a Gerusalemme, sia quando Gesù vi scendeva dalla Galilea, sia quando egli vi fu crocifisso, stante il fatto che Paolo si trovava proprio in quella città fin da quando vi si trasferì da Tarso (forse all'età del bar mitzvà) e quindi anche sul finire degli ultimi anni venti del primo secolo.
Al massimo, quindi, egli seppe di Gesù solo per sentito dire. Ed è qui che si colloca il primo decisivo influsso esercitato su di lui da quelle che egli stesso chiama "le chiese della Giudea" (1 Tessalonicesi, 2, 14; Galati, 1, 22). È precisamente da queste che egli ebbe la prima conoscenza di Gesù di Nazaret. E fu una conoscenza "secondo la carne", come scrive testualmente nella seconda lettera ai Corinzi (5, 16). Egli cioè percepì nella fede dei primi cristiani qualcosa di eccessivamente nuovo e insostenibile, che non poteva essere facilmente coniugato con il tradizionale patrimonio del popolo d'Israele. Non intendo qui parlare dello "zelo" del fariseo Paolo (cfr. Galati, 1, 14; Filippesi, 3, 6), che peraltro si inscrive in un fenomeno tipico del giudasimo del Secondo Tempio. Piuttosto è importante rendersi conto del perché abbia preso di petto il movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret e si sia dimostrato intollerante nei suoi riguardi fino ad adottare forme di persecuzione.
A questo proposito sono state scritte pagine importanti da Terence Donaldson. Egli fa vedere bene che, se Paolo avversò il movimento cristiano, non fu perché gli fosse genericamente antipatico, ma perché là scorse dei tratti inaccettabili da un pio Giudeo in quanto incompatibili con il suo status di appartenente al popolo dell'alleanza costituito dall'adesione alla Torah rivelata da Dio.
L'unica incongruenza è che non abbiamo una documentazione che provenga direttamente dal periodo predamasceno. Ma due fattori ci confermano in questa ipotesi. L'uno è che l'evangelo paolino svincolato dalla Legge non è certamente anteriore a quell'esperienza. Infatti la consapevolezza che egli attribuisce già a quel momento (cfr. Galati, 1, 15-16a:  "perché lo annunziassi tra le Genti") dimostra almeno un tendenziale superamento dei limiti storico-salvifici della Legge, la quale non è per i Gentili, tanto più che il cristianesimo prepaolino nel suo insieme, almeno quello palestinese, non è sostanzialmente intenzionato a varcare i confini di Israele. L'altro fattore è il fatto incontestabile che Paolo dimostrò uno zelo particolare nel perseguitare la comunità cristiana con l'intento addirittura di distruggerla (cfr. Galati, 1, 13-14). Il motivo per cui ciò avvenne riecheggia in alcune parole del Paolo postdamasceno, là dove egli afferma che il Gesù oggetto di fede delle prime comunità non poteva che essere collocato al primo posto per una motivazione di tipo teologico attinente al patrimonio ideale della fede israelitica oppure per una motivazione di tipo piuttosto sociologico correlata all'emergere di un gruppo deviante all'interno di una comunità precostituita.
Generalmente, "il giudaismo del Secondo Tempio era caratterizzato da un considerevole grado di tolleranza verso partiti, sette e altri movimenti dai punti di vista diversi. Solo quando la presenza e le attività di tali gruppi rompevano l'equilibrio sociale ed erano percepiti come minaccia alla comunità costituita e alle sue linee di demarcazione, veniva intrapresa un'azione di persecuzione per preservare le delimitazioni sociali e proteggere la solidarietà di gruppo".
Ma ciò significa che doveva esserci in gioco qualcosa di troppo importante. Questo "qualcosa", nel caso di Paolo, non poteva essere altro che una minaccia alla Torah e quindi alla comunità che si definiva in base all'obbedienza ad essa. Non per nulla, il gruppo di Qumran - benché assolutamente settario tanto da definire "figli delle tenebre" tutti coloro che non vi appartenevano - per quanto ne sappiamo non suscitò voglie persecutorie da parte dell'establishment giudaico, poiché evidentemente non rappresentava una minaccia al criterio identitario fondamentale del giudaismo dominante.
Ebbene, la prima comunità cristiana e il suo kèrygma dovevano caratterizzarsi appunto per una centralità e una funzione particolare accordata a Gesù, proclamato Cristo e Signore, tale da non potersi accordare con il punto focale della tradizionale identità giudaica e quindi da non poter essere sopportata da un fariseo zelante come Paolo. Improvvisamente apparve che la Torah (da sola) non era più sufficiente e quindi neanche necessaria per acquisire la giustizia davanti a Dio. Una ulteriore discussione si potrebbe instaurare sull'interrogativo se il fattore determinante sia stato più la cristologia (Gesù come Signore) o la soteriologia (Gesù come Salvatore) o non piuttosto l'idea di appartenenza alla vera comunità di salvezza.
Certo è che, "se il Gesù crocifisso e risuscitato era l'Unto di Dio, allora l'associazione al popolo di Dio, o la giustizia, non poteva venire dalla Torah".
Proprio questo fu il Gesù conosciuto per la prima volta da Paolo! Probabilmente invece Paolo non ebbe contatti con la/le comunità che fanno capo alla cosiddetta fonte Q, poiché in quell'ipotetico testo mancano lògia sulla morte salvifica di Gesù e invece vi è presente una cristologia di tipo sapienziale e profetico che Paolo non dimostra di conoscere. Non dunque il maestro e profeta della Galilea fu quello conosciuto da Paolo, ma un Gesù crocifisso-risuscitato, inopinatamente confessato e venerato come decisivo identity marker di una inedita comunità che si stava impiantando all'interno di Israele. Questa comunità ormai non vedeva più "soltanto" nella Legge il proprio elemento distintivo. Un Gesù di questo tipo per il fariseo Paolo, come già accennato, non poteva che essere associato alla maledizione di cui si legge in Deuteronomio, 21, 23; 27, 26 (cfr. Galati, 3, 13) ed essere quindi assolutamente motivo di scandalo (cfr. 1 Corinzi, 1, 23; Romani, 9, 33). Certo non si può dire che la fede della prima comunità cristiana si riducesse tutta qui, poiché la sua configurazione confessionale era sicuramente molto sfaccettata. Neppure si può dire che la sua soteriologia corrispondesse già a quella poi elaborata da Paolo, essendo invece connotabile come giudeocristiana. Ma Paolo si concentrò polemicamente su questo particolare aspetto, che sul piano della caratterizzazione propria dei credenti in Cristo era quello forse più distintivo.
Come si vede, dunque, se ci fu uno slittamento confessionale a proposito di Gesù di Nazaret, questo si verificò non primariamente con Paolo, ma già con le prime chiese della Giudea. E fu subito qualcosa di rilevante a livello di configurazione identitaria. Fu, se non l'inizio, certo un inizio del parting of the ways. A questo proposito va però precisato che il fortunato sintagma coniato da James D. G. Dunn connota, semmai, non la coscienza propria della comunità dei "santi di Gerusalemme" (Romani, 15, 26), che per parte loro si sentivano certamente integrati in Israele, ma certo connota la reazione risentita di almeno una parte della comunità israelitica, di cui proprio Paolo rappresentò il fenomeno più vistoso. È dunque sulle prime chiese che occorrerebbe puntare l'attenzione per prendere atto di un secondo inizio del cristianesimo, chiedendosi eventualmente come mai ciò sia stato possibile.
E allora il discorso dovrebbe riguardare l'importanza e la natura delle prime confessioni cristiane, che vertevano sulla resurrezione di Gesù.
L'evento della strada di Damasco non fece altro che condurre a un esito imprevedibile, ma in qualche modo anche sanzionò, una esperienza che per Paolo era stata traumatica. Là si provocò un vero e proprio ribaltamento del suo convictional world. Comunque si voglia spiegare il fatto, il risultato è uno solo:  colui che prima infieriva contro i discepoli di Gesù improvvisamente si trovò invece ad annunciare la sua signorìa (cfr. Atti degli apostoli, 9, 21. 28; Galati, 2, 23)!
È forse per questo capovolgimento, inaspettato e soprattutto documentato dalle fonti come per nessun altro dei primi testimoni di Gesù, che si pensò a una rifondazione del cristianesimo, naturalmente combinato con una originale operazione ermeneutica condotta poi personalmente da Paolo.
Ma ciò che importa notare in questa sede è che Paolo attesta ripetutamente nelle sue lettere una propria interessante dipendenza dalla fede delle prime comunità cristiane e dalla formulazione stessa di quella fede. Già per quanto riguarda alcuni lògia del Gesù terreno, Paolo è il primo scrittore a trasmettercene almeno qualcuno. Non sto qui a trattare la questione della conoscenza da parte sua delle tradizioni gesuane e in particolare dei detti riconducibili al Maestro galileo, eventualmente sotto forma di citazione o di riecheggiamento o di adattamento.
Benché le posizioni degli studiosi in materia siano molto diverse, una cosa è sicura:  Paolo ha ricevuto l'eventuale materiale gesuano rintracciabile nelle sue lettere soltanto dalla tradizione viva delle prime comunità cristiane palestinesi, il contatto con le quali è perlomeno documentato dalla sua propria informazione di essere stato quindici giorni con Cefa a Gerusalemme, oltre che di avere visto là anche Giacomo fratello del Signore (cfr. Galati, 1, 18-19).
Ma, a parte i debiti verso le tradizioni gesuane, sono le medesime lettere paoline a permetterci di ricostruire, mediante citazioni, richiami e allusioni, la stessa fede cristiana delle origini post-pasquali, quale essa era confessata prima di lui. Sicché, proprio Paolo è praticamente l'unica fonte, o almeno la principale, che ci permette di risalire all'identità confessionale della Chiesa primitiva. A questo proposito, già alcuni anni fa si produssero alcuni studi importanti a opera di Vernon H. Neufeld e Klany Wengst, per non dire di Reinhart Deichgräber, che si preoccuparono di distinguere e catalogare le forme letterarie, nelle quali aveva preso corpo la più antica enunciazione della fede cristiana. In effetti, l'Apostolo documenta l'esistenza di confessioni/homologìe, acclamazioni e "inni" che quella fede esprimono, testimoniandola e perfino celebrandola nel canto. Non è mia intenzione dare qui l'elenco di questa documentazione e tantomeno analizzarla esegeticamente. Ritengo sufficiente rimandare ad alcune di queste forme e ai rispettivi passi epistolari.
Per quanto riguarda le confessioni di fede, altrimenti etichettate anche come "il credo" o kèrygma, la loro caratteristica è la proclamazione degli eventi salvifici incentrati sulla figura di Gesù Cristo. Ricordo solo due di queste formule:  1 Corinzi, 15, 3-5 ("Vi ho trasmesso ciò che anch'io ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che risuscitò il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e poi ai Dodici") e Romani, 1, 3b-4a ("nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito figlio di Dio in potere secondo lo Spirito di santità dalla risurrezione dei morti").
Esse convergono unicamente nella confessione della resurrezione di Gesù, ma per il resto si differenziano e comunque ognuna delle due presenta un proprio schema ermeneutico di base (rispettivamente quello del giusto sofferente e quello della intronizzazione regale). In più si potrebbero citare perlomeno Romani, 3, 25; 4, 25; 1 Corinzi, 8, 6; 2 Corinzi, 13, 4; 1 Tessalonicesi, 4, 14.
Quanto alle acclamazioni, esse sono incentrate sulla dichiarazione solenne di Gesù/Cristo come Kyrios. Molto più brevi delle homologhìe, esse con ogni probabilità non sono destinate all'esterno della comunità cristiana ma appartengono a momenti celebrativi-cultuali della sua vita interna. Tali sono le frasi che leggiamo in 1 Corinzi, 12, 3 ("Nessuno può dire "Signore Gesù", se non nello Spirito Santo"); Romani, 10, 9 ("Se confesserai con la bocca che Gesù è Signore"); Filippesi, 2, 11 (ogni lingua confessi che Gesù è Signore"). Anzi, Paolo addirittura definisce i cristiani come "coloro che invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Corinzi, 1, 2). D'altronde, l'attribuzione al Gesù glorificato della qualifica aramaica di mâr/mârâ' (1 Corinzi, 16, 22) dice con chiarezza che si tratta di una venerazione di antica ascendenza proto-cristiana.
Anche la innologia proto-cristiana è documentata da Paolo.
A parte l'informazione generica che egli ci dà in 1 Corinzi 14, 26 ("Quando vi radunate ognuno può avere un salmo, un insegnamento, una rivelazione"), qui mi riferisco in particolare al brano di Filippesi, 2, 6-11, che ritengo essere con ogni probabilità pre-paolino e che in quanto tale può essere considerato "il più antico esempio di una composizione innica cristiana", anche se la sua qualifica formale di "inno" verosimilmente non è adeguata. Certo vi manca l'interpretazione soteriologica della morte di Cristo (e proprio questo a mio parere è un indizio pesante sulla pre-paolinità del testo), ma la doppia confessione della sua pre-esistenza e dell'ottenimento di una kyriòtes/signoria da parte del crocifisso, equiparabile solo a quella divina, dà ragione a quanto scrive Martin Hengel:  "L'"apoteosi del crocifisso" deve essere giunta a compimento già negli anni Quaranta, onde si  ha la tentazione di affermare che nel giro di neanche due decenni il fenomeno cristologico è andato incontro a un processo  le cui proporzioni sono maggiori di quelle più tardi raggiunte durante i successivi sette secoli".
Dunque, non si può pensare a Paolo senza includere necessariamente nella formazione della sua identità cristiana il ruolo decisivo svolto da coloro che egli riconosce esplicitamente essere stati in Cristo prima di lui (cfr. Romani 16, 7:  hoì kaì prò emoù gègonan en Christòi, a proposito della coppia Andronico e Giunia!).
Altra cosa è poi riconoscere che Paolo non si è limitato a fare il ripetitore e che invece ha elaborato l'evangelo primitivo con una propria ermeneutica, che dimostra indubbiamente l'apporto di una personale genialità.
In effetti, come ebbe a scrivere a suo tempo Albert Schweitzer, "Paolo ha assicurato per sempre nel cristianesimo il diritto di pensare (...). Egli non è un rivoluzionario. Parte dalla fede della comunità, ma non ammette di doversi fermare dove quella finisce (...) Egli fonda per sempre la fiducia che la fede non ha nulla da temere dal pensiero (...) Paolo è il santo protettore del pensiero nel cristianesimo"! Forse senza saperlo, con queste parole Schweitzer di fatto riformulava, applicandolo a Paolo, ciò che già aveva affermato Agostino in termini più generali:  "Se la fede non viene pensata, è come se non ci fosse".
Ma non credo che questo basti per fare dell'Apostolo un altro fondatore del cristianesimo, altrimenti chissà quanti ne dovremmo calcolare!



(©L'Osservatore Romano - 7 settembre 2008)

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Fra le rovine della città dell'Asia minore da cui l'apostolo partì per Cipro

Dall'antico porto di Seleucia
Paolo salpò per cambiare la storia


di Egidio Picucci

I circa trenta chilometri che dividono Antakya dall'antica Seleucia di Pieria - oggi Samanda - corrono sul fianco del Saman Dai, "montagna di paglia", sulla cui sommità si trovano i resti della basilica di san Simeone il Giovane, uno dei tanti monaci stiliti che riempivano di stupore e di preghiere le infocate solitudini orientali. C'è ancora la colonna da cui parlava ai pellegrini, fra cui si mischiavano principi e imperatori, e sulla quale ricevette l'ordinazione sacerdotale. Poco più in basso, spostato sulla sinistra, si intravede un famoso santuario degli Aloiti, un ramo dell'islam che non vela le donne, non ha moschee e osserva un ramadan particolare. La strada è quindi una specie di "Via Sacra" che prepara all'incontro con un luogo che vive di leggenda e di storia.
La leggenda parla di Seleucos Nicatore che si vide portar via da un'aquila in volo una parte della vittima che stava immolando alla divinità nella valle in cui muore l'Oronte, lasciata poi cadere su uno sperone del Musa Dagi (Montagna di Mosè), sul quale egli costruì una città a cui diede il proprio nome. Nelle sue intenzioni essa sarebbe dovuta diventare la capitale dell'impero seleucide, onore che toccò invece ad Antiochia. Seleucia ne divenne però il porto necessario. Un bel porto, se è vero - e qui si entra nella storia - chi vi affluivano le carovane di cammelli carichi delle mercanzie provenienti da Baalbek, da Palmira, da Babilonia, e che vi salpavano regolarmente le navi dirette in Italia e nelle principali Province dell'impero romano.
Niente di strano, perciò, che in un imprecisato giorno della primavera del 45 o del 46, si trovasse fra i viaggiatori anche un certo Paolo di Tarso che si imbarcò per Cipro insieme a Marco e Barnaba. Piccolo e con la barba ancora arruffata dal vento (aveva passato tre anni in Arabia), egli probabilmente fu notato soltanto dagli addetti all'imbarco; eppure quella traversata di poche miglia da lì a poco avrebbe cambiato la storia del mondo.
Si legge negli Atti degli apostoli 13, 1-4:  "C'erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori (...) Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse:  "Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati". (...) Essi dunque, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Seleucia e di qui salparono verso Cipro".
Il viaggio proseguì in Asia Minore e durò tre anni, coprendo oltre mille chilometri; tre anni di cammino, di predicazione, di fughe, di sofferenze previste e necessarie per "portare il Vangelo dinanzi ai popoli, ai re, ai figli d'Israele".
Cos'è rimasto del luogo da cui cominciò? Nulla di interessante, a parte alcune pietre che emergono dal terreno sabbioso, ora sparse come resti di monumenti votivi che nessun giudeo della diaspora di allora e nessun musulmano di oggi riuscirà a sconsacrare; ora allineate come un muro eretto a protezione di qualcosa, forse addirittura del porto, costruito ingrandendo un alveo naturale su cui scorreva un torrente. Il quale, insieme ai pochi benefìci legati all'acqua dolce che dissetava la gente, creava seri problemi con la massa di detriti che si trascinava dietro quando il monte cigolava alla bufera. Per questo ai tempi di Vespasiano (69-79) fu deciso di scavargli un letto artificiale che lo portasse a morire lontano dal porto, sulle cui rovine si affacciano oggi le bianche casette di Magaraçik, il villaggio che ha preso il posto di Samanda.
Il lavoro non era facile, perché si trattava di tagliare a metà una roccia che chiudeva la valle come una diga invincibile, ma che non intimorì affatto gli ingegneri dell'imperatore, i quali potevano contare sulle braccia dei legionari dislocati in Siria, su quelle degli equipaggi della flotta stanziata a Seleucia, e soprattutto su quelle dei prigionieri catturati durante la guerra giudaica. Una lapide attribuisce il merito dell'impresa a Vespasiano e a Tito, mentre altre iscrizioni sembrano attestare che l'opera fu completata sotto gli Antonini (ii secolo). Oggi il letto sassoso che si infila fra le pareti tagliate a picco è svenato e sembra chiedere pietà agli alberi rinsecchiti dal sole.
Ma a Seleucia non si va per immergersi in un tunnel, anche se eccezionale come questo. Ci si va per rileggere sugli isolati ruderi del porto (l'isolamento li esalta) la pagina in cui Luca, con stile di scriba veloce, narra la partenza di Paolo per Salamina e Pafo, dove convertì il proconsole romano Sergio Paolo, dal quale, secondo alcuni, mutuò il nome, dato che da quel momento gli Atti degli apostoli non lo chiamano più Saulo (il "desiderato"), ma Paolo (il "piccolo").
Vista dal mare, questa terra pare che sbocchi in un angolo di memorie lontane, nel gioco della luce, nel verde del monte che la sovrasta, nella fuga delle colline che slargano l'orizzonte. Su una di esse biancheggia Valiköy, l'unico villaggio armeno di tutta la Turchia.
Prima di imbarcarsi, anche Paolo dovette indugiare a guardare quell'incanto perché vi ritrovava qualcosa che gli richiamava Tarso e Damasco:  nella prima città, lambita dallo stesso mare che si apprestava a solcare, era nato; nella seconda, più grande, ma assolata come Seleucia e perduta in fondo alla strada su cui l'aveva atterrato la voce di Cristo, era rinato. La prima gli completò il nome, "Paolo di Tarso", distinguendolo da tanti altri; la seconda sarebbe divenuta sinonimo di conversioni radicali come la sua.
Egli avvertì sicuramente l'importanza e i rischi di quel primo viaggio, anche se era stato deciso dietro un'ispirazione divina:  "Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati". Essendo sincera, la sua umiltà era anche obbediente. E poi, dopo tre anni di deserto, aveva imparato a passare dalla contemplazione all'azione senza sforzo, senza pena, senza intervallo. Se non sapeva come avrebbe fatto il viaggio, sapeva perché lo faceva, e tanto bastava per tranquillizzarlo sulla riuscita, a costo di doverlo portare a termine da solo, tant'è vero che non si dolse eccessivamente del rifiuto di Marco a proseguire il viaggio.
Queste sensazioni si avvertono nell'aria, perché nel villaggio da cui il cristianesimo partì per "passare i mari", di cristiano c'è solo una piccola chiesa ortodossa. C'è invece molto di non cristiano, a cominciare da un piccolo tempio vicino ai resti del porto, alla cui ombra si sentono cantare le "nefes" (odi religiose degli Aloiti) e si sgozzano le vittime in onore di una di quelle divinità che Paolo sbugiardò con parole di fuoco.



(©L'Osservatore Romano - 12 settembre 2008)

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Suor Chiara, voce del silenzio

ROMA, mercoledì, 17 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervista di Antonella Gaetani apparsa sul numero di settembre della rivista “Paulus” .



* * *

L’Anno Paolino arriva «come un raggio di sole mattutino che illumina e scalda il sentiero». A parlare è suor Chiara Beatrice Riggio, vicaria del Monastero delle Clarisse di Santa Chiara di Roma. Di origine siciliana, divide il suo tempo tra preghiera, lavoro, fraternità e... internet! «Lo sviluppo tecnologico – aggiunge – è il migliore apporto della scienza alla diffusione del messaggio evangelico». L’amore per la comunione e la comunicazione ha portato le clarisse a dare il benvenuto all’Anno Paolino con un seminario su “Comunicazione e clausura”, che ha ospitato in monastero confessioni ideologiche e spirituali diverse «per aprirsi gli uni agli altri in un sostegno reciproco, che supera le diversità di orientamento sociopolitico, per favorire il reciproco completamento facendo leva sui valori comuni». Perché «anche per l’uomo di oggi, che sia credente o agnostico, l’incontro con la realtà trascendente è una sorta di Damasco che lumeggia aspetti inesplorati di sé e fa rileggere tutta la vita e la storia».

Suor Chiara, come si conciliano silenzio e comunicazione?

«La nostra vita, protesa alla ricerca di Dio nella comunione fraterna, riverbera quanto il Signore ci comunica nel convito della contemplazione. Noi scegliamo Dio e ci rapportiamo a Lui e agli altri con il silenzio, con la parola, con la nostra gioia, con il dialogo. La nostra comunicazione scaturisce dalla vitalità della nostra interiorità vissuta in un rapporto amicale-sponsale con Cristo, e la comunicazione del messaggio che condividiamo con quanti cercano Dio sulle strade del mondo ci riporta in fraternità allargata alla quiete dell’interiorità».

Oggi qual è il ruolo della clausura nel comunicare il Vangelo?

«Quello di sempre. In edizione inedita, con le modalità moderne velocizzate: il chicco di frumento che marcisce e dal quale nasce nuova vita si sviluppa per forza intrinseca e si comunica per l’erompente bellezza e la forza trasformante da cui è originata. Questo processo di morte-risurrezione, per il fatto che è vissuto in clausura – cioè nel solco oscuro e luminoso, nascosto e trasparente dell’esistenza – ha la forza radiale dell’immersione dell’umano nel divino e della fraternità».

San Paolo e santa Chiara: dove s’incontrano queste due figure?

«Direi nella consapevolezza di essere eletti da Dio, cioè scelti come suoi intimi collaboratori. Chiara desume dalla meditazione delle sue lettere una ricchissima definizione della vita contemplativa nella Chiesa: “E per avvalermi delle parole dell’Apostolo – scrive ad Agnese – ti stimo collaboratrice di Dio stesso e sostegno delle membra deboli e vacillanti del suo ineffabile Corpo”. La meditazione dei testi paolini ha fatto scaturire in Chiara quest’altissima convinzione della missione della donna nella Chiesa: collaboratrice di Dio stesso, cioè allo stesso livello degli apostoli impegnati nell’annuncio e nella testimonianza diretta, ma, in forma prettamente femminile: sostegno delle membra deboli e vacillanti del suo ineffabile Corpo, con le prerogative proprie della donna, della madre che si dona, si dedica, non si stanca di spendersi nell’amore, perché questa è la sua forza costitutiva e quindi inesauribile. Come Maria ai piedi della croce del Figlio, in orazione e contemplazione, in umile atteggiamento consenziente alla volontà d’amore del Padre».

Il Papa ha detto: «La visione universalistica tipica della personalità di san Paolo, almeno del Paolo successivo all’evento della strada di Damasco, deve il suo impulso alla fede in Gesù Cristo, in quanto la figura del Risorto si pone di là di ogni ristrettezza particolaristica». Nel silenzio della clausura, queste parole quali riflessioni aprono e quali propositi suscitano?

«La visione universalistica del Paolo dopo Damasco è tipica di chi è stato a contatto col Risorto. Mi riferisco all’esperienza di Paolo nel deserto d’Arabia. L’evento della strada di Damasco è fondamentale e determinate, oltre che sconvolgente, nella sua esperienza di fede monoteistica. È a partire dall’incontro con il Risorto che il messaggio cristiano prende consistenza, attraverso la poliedricità della sua personalità. Direi che le affermazioni del Papa aprono a riflessioni che suscitano propositi certamente di preghiera, di comunione e di comunicazione con gli uomini di ogni fede».

Nella lettera ai Galati si legge: «Non c’è più Giudeo né Greco né schiavo né libero, ma tutti siete uno solo in Gesù Cristo». Parole di grande attualità. Dove possono condurre?

«Indubbiamente su strade che s’incrociano e si diramano per piazze e creano ponti e abitazioni conviviali. L’altro, colui che è diverso da me per cultura e formazione etica e religiosa, è un riverbero della vita di Dio, in quanto da Lui chiamato all’esistenza e merita rispetto, spazio e amore».

...e in Filippesi si legge: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, onorato, amabile, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri». Come intenderle alla luce del vostro carisma?

«Sono espressioni stupende che indubbiamente hanno nutrito la mente e il cuore di Francesco e di Chiara d’Assisi e hanno contribuito alla loro formazione spirituale, se sono giunte a noi nei loro scritti espressioni come questa: “Siano invece sollecite di conservare sempre reciprocamente l’unità della scambievole carità, che è il vincolo della perfezione”. L’unità della scambievole carità la conservano coloro che custodiscono il cuore nella comunione con Dio e, quindi, protetto da infiltrazioni di elementi di divisione interiore rispetto a se stessi e agli altri».

Come vivete il vangelo?

«Il nostro rapporto con il vangelo è sostanziale perché la vita di Gesù Cristo, specialmente la sua povertà e umiltà, sono la nostra Regola di vita nella Chiesa. Nella Regola il nostro carisma è definito in questi termini: “La forma di vita delle Sorelle Povere, istituita dal beato Francesco, è questa: osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo”. E, nel Testamento, Chiara ribadisce con abbondanza di particolari lo scopo per cui l’Ordine delle Sorelle ha avuto origine: “Imitare la povertà e l’umiltà del Figlio di Dio che si è fatto nostra via”. Condividendo la sua interiorità, ne veniamo inevitabilmente trasformate. La conformità a Lui, cammino mai esaurito, è il risultato del nostro itinerario di fede, di sequela. Il nostro rapporto con il vangelo è assolutamente privo da imitazioni settorializzanti. Noi non scegliamo la povertà, o qualche altro aspetto della vita di Cristo. Scegliamo Lui. Lo troviamo povero, crocifisso, morente tra i più struggenti dolori sulla croce e, contemplandolo, desiderando di condividere la sua esperienza, realizziamo la nostra sequela che in termini concreti si esprime in atteggiamenti di misericordia, di accoglienza, di perdono, di ascolto dell’altro».

Paolo è apostolo, certo, ma è anche un mistico. Una strada a voi familiare...

«Qui entriamo nel mistero della persona, nel rapporto d’intimità con Dio. La mistica è un argomento complesso da spiegare, perché riguarda l’agire di Dio nell’anima. Noi ne cogliamo le emozioni e, dai frutti di carità, riconosciamo che Egli passa misericordiosamente nella nostra vita. Viviamo, infatti, un’esperienza sublime di libertà e di limite, di grazia e di peccato. Ma avanziamo liete, pur nella fatica della conquista del cuore puro, perché abbiamo la speranza che il desiderio dell’incontro definitivo con il Signore segni l’inizio di una comunione che non avrà mai termine. Nel godimento di Dio si naufraga nella pace del silenzio. E le parole umane si spengono perché non possono esprimere l’esperienza di Dio. Le immani fatiche che l’Apostolo ha sostenuto per l’annuncio del vangelo e la vitalità travolgente della sua testimonianza si comprendono e si spiegano alla luce dell’esperienza mistica che il Signore largamente gli accordava per renderlo idoneo alla sua missione».


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L'apostolo Paolo VI approdò con Barnaba e Marco

Perge, porta del cristianesimo
in Asia Minore


di Egidio Picucci

Perge, nell'antica Panfilia, assomiglia a un grande teatro all'aperto abbandonato in fretta da una compagnia che non ha avuto il tempo di raccogliere le scene, lasciandole dietro due grosse quinte alzate all'ingresso della città.
Le guide dicono che si tratta dei resti della porta ellenistica del iii secolo prima dell'era cristiana, e hanno ragione; ma il visitatore ha l'impressione di trovarsi davanti a un teatro abbandonato o distrutto da un ciclone che, venendo dal mare ha imbarcato i capricci del vento e ha fatto mulinello ai piedi dell'acropoli distruggendo tutto. A dir la verità un teatro c'è davvero, addossato a una collina sulla quale si slargano a ventaglio trentotto gradinate per quindicimila spettatori. Grazie a Dio qualcosa è rimasto come il bassorilievo che rappresenta la nascita di Dionisio; nascita difficile perché il dio che secondo i pagani avrebbe dato il vino agli uomini nacque prematuro e dovette essere affidato prima alle cure grossolane di Giove e poi a quelle delicatissime delle ninfe, nate fra i gabbiani che si posavano sulle onde.
Forse sono le stesse ninfe che di notte si pensava danzassero sotto i portici che attraversavano la città in direzione dell'acropoli e la cui leggendaria bellezza brilla ancora nei frammenti dei capitelli che ingentiliscono i ruderi della tomba di Plancia Magna, la matrona che precorse le conquiste del femminismo. È scomparsa, invece, la casa di Apollonio, matematico e astronomo dalle intuizioni copernicane.
In ottime condizioni è lo stadio che si trova fuori città, oltre le mura di cinta, con le gradinate digradanti a ferro di cavallo, ripulite e riallineate dagli archeologi. Gli incitamenti agli atleti che si esibivano sull'arena dovevano infastidire la gente raccolta nell'ex basilica romana, trasformata in chiesa, e divertire, invece, quella che oziava nelle terme. Nella basilica romana parlò Paolo, arrivato a Perge con Barnaba, suo primo compagno di apostolato, e con il quale era arrivato da Pafo (Cipro) insieme a Marco cugino di Barnaba, che proprio qui decise di tornare a Gerusalemme, forse spaventato dall'idea di dover attraversare le montagne del Tauro, pericolose di bestie e di briganti. Gli Atti parlano di questa rinuncia con parole misurate:  "Qui Giovanni Marco si separò e tornò a Gerusalemme". Barnaba non dimenticò il cugino e ne ripropose la collaborazione all'inizio del secondo viaggio apostolico. "Ma Paolo - sottolinea Luca - non volle, ricordando che in Panfilia li aveva lasciati bruscamente né li aveva più aiutati. Ne nacque un forte dissidio, tanto che i due si separarono:  Barnaba si imbarcò per Cipro con Giovanni Marco".
Tuttavia non fu una rottura totale e definitiva. L'impetuosa franchezza di Paolo non conosceva rancore:  più tardi, infatti, parlerà di Barnaba con ammirazione nella sue lettere (1 Corinzi, 9, 6; Galati, 2, 9), e meglio ancora tratterà Giovanni Marco, che ebbe vicino durante la prigionia a Roma; che raccomandò ai Colossesi (Colossesi, 4, 10), che enumera tra i suoi collaboratori scrivendo a Filemone (Filemone, 24) e che vuole sia condotto a Roma da Timoteo, "perché - scrisse - mi sarà molto utile nel ministero" (ii Timoteo, 4, 11).
La costruzione più bella di Perge era il tempio di Artemide Pergaia, "regina di Perge", il maggior santuario della Panfilia, scomparso nel nulla. Forse se ne può "ricostruire" lo splendore fermandosi a guardare i ruderi del ninfeo in stile corinzio che spandeva acqua da una balaustra snella di colonne e di satiri giocosi. Un'iscrizione assicura che la fontana fu dedicata ad Artemide Pergaia, la veneratissima protettrice della Panfilia che ottenne alla città il diritto d'asilo e il rango di metropoli, ma che non raggiunse la celebrità dell'Artemide efesina.
Perge era lontana dal mare, per cui si salvò dai pirati, ma non da Alessandro Magno, che vi pose il proprio quartier generale per la conquista di Aspendos e di Side, la città in cui, fra il 338 e il 394 d.C., si tenne un sinodo che condannò i messaliani, assertori di un ascetismo che predicava il distacco dal mondo e una povertà radicale.
Anche se disabitata, non si può dire che Perge sia una città morta, piena com'è di colonne e di archi che hanno ancora qualcosa di vivo e abitato. Infatti pare che dentro vi dormano i bagliori delle fiaccole che illuminavano il selciato della strada larga più di venti metri, e che si sentano, rigiocate dall'eco, le voci che commentavano le conquiste degli eserciti o i pettegolezzi della vita cittadina nell'agorà o nel tiepido tepore delle terme, restaurate in questi ultimi anni.
È indicibile il sentimento di rispetto e di ammirazione davanti a città come questa, misto all'impressione di una maestà sconfitta, ma non sopraffatta; di una storia umiliata, ma non vinta.
Se poi si pensa che nel porto fluviale della città sbarcarono gli apostoli che diffusero il cristianesimo nell'Asia Minore, e da qui nel mondo, allora le rovine diventano Bibbia in pietra e in luce, ed emanano un'aria di permanente miracolo.
Guardare e ricordare è allora una grande felicità.


(©L'Osservatore Romano - 19 settembre 2008)

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Il cuore di Paolo, fiamma sempre viva

ROMA, lunedì, 22 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di padre Johannes Paul Abrahamowicz, osb, Priore dell'Abbazia di S. Paolo fuori le Mura, apparso sul numero di settembre della rivista “Paulus”.




* * *

La balaustra della Confessione, intorno alla tomba dell’Apostolo delle genti a San Paolo fuori le Mura, è incoronata da piccole lucerne. Sono elettriche purtroppo, eccetto una, che ancora conserva la fiamma viva. Lungo i secoli, i pellegrini hanno sempre rinnovato l’olio della lampada presso la tomba del Santo. Già dal secolo VII i Pontefici stabilirono una presenza monastica – le ancillae domini e poi i monaci benedettini – conosciuti per il loro voto di stabilità, per “curare le lampade”. Papa Gregorio II (715-731) estese il compito del monastero San Cesareo, attiguo alla basilica, a quello femminile di Santo Stefano, collocato davanti alla facciata della basilica, all’interno dell’atrio. Le monache benedettine di Santo Stefano avevano la cura delle lampade, per le quali papa Gregorio Magno (590-604) – in una lettera Praeceptum datata 25 gennaio 604 e indirizzata a Felice, il rector del patrimonio della via Appia – indicava di assegnare le entrate del territorio alle spese dei luminaria della basilica (cfr. card. Ildefonso Schuster, La Basilica e il Monastero di San Paolo fuori le Mura, p.13). Giorno per giorno, fino a oggi, un monaco si occupa della lucerna. Per l’Anno Paolino i fedeli possono contribuire, offrendo un piccolo lumino all’entrata della Basilica.

Dio mantiene la sua parola. Nel Tempio di Gerusalemme, e già nella tenda del convegno, chiamata anche “dimora” di Dio, si doveva «tener sempre accesa una lampada» (Es 27,20), come per indicare che Dio non abbandonerà mai il suo popolo. L’olio si consuma e dev’essere continuamente rinnovato. Usiamo spesso il significato figurativo del “consumarsi”: consumarsi nel lavoro, di gelosia, d’amore… Gesù, consumandosi fino alla morte, ci ha dato il senso della vita. La lampada a olio, e anche la candela, ne sono l’immagine perfetta: mentre l’olio e la cera si consuma, la fiamma dà energia vitale. Certamente la bellezza di Dio è il suo amore e la giustizia che ne scaturisce. Ma ciò che rende davvero bello il suo amore e la sua giustizia è che non hanno fine. Dio mantiene ciò che promette, è fedele. Il suo amore continuo è come un perenne “consumarsi” per noi.

Oggigiorno la praticità degli oggetti che usiamo è un criterio di scelta prioritario. Tendiamo a usare, anche in chiesa, degli oggetti più pratici e meno impegnativi. Per ragioni di praticità preferiamo delle finte candele, poiché agevolano la manutenzione. Non dobbiamo per questo dimenticare che i simboli esprimono ciascuno un suo valore, ma, quando il loro esprimersi è soppresso, i simboli non ci parlano più: diventano simboli muti perché falsificati. Infatti, la bellezza di un simbolo viene meno nella stessa misura in cui ne viene diminuito o tolto quel particolare attraverso cui si esprime. Scrive Piero Marini, a questo proposito, che «l’intelligenza del segno non è, infatti, elemento estrinseco alla qualità del segno, ma ne è parte integrante», (Liturgia e bellezza. Nobilis Pulchritudo, Editrice Vaticana 2005, p. 65).

L’unico garante per la bellezza è la verità. Una cosa bella, ma non vera, è, nel migliore dei casi, poco utile e, nel peggiore dei casi, un inganno. Neanche l’abitudine ne mette rimedio. L’atteggiamento di abituarsi a oggetti apparentemente belli ma falsi rischia di diminuire in noi la sensibilità per il discernimento, e di trascinare la nostra sana gerarchia dei valori verso un disordine, che finisce col far prevalere la praticità non solo sulla bellezza, ma anche sulla carità e sulla giustizia. Giustamente, la praticità vuole farci risparmiare del lavoro inutile. Ma è davvero un lavoro inutile, quello di impegnarsi per i simboli della bellezza di Dio? Non è invece appropriato faticare accuratamente, quando si tratta di esprimere il significato simbolico del continuato “consumarsi” di Dio? Le vergini sagge (Mt 25,1-13) non potevano né volevano condividere la loro riserva d’olio, simbolo della loro perseveranza, poiché essa è un atteggiamento personale, intimo, un impegno, un valore spirituale, non una questione di meno fatica, di praticità o di calcolo. La cura della lampada alla tomba di san Paolo è in fondo una piccola, ma continua triplice celebrazione della bellezza di Dio. La sua fedeltà, testimoniata da san Paolo fino al martirio, è infine confermata instancabilmente fino ai nostri giorni dai fedeli e dai monaci. Tutto è fatto con accuratezza da chi riconosce in queste “fatiche” dei simboli della divina bellezza. Gli innumerevoli pellegrini provenienti da tutto il mondo vi possono vedere il riflesso del continuo “consumarsi” di Dio. Proprio come acclamiamo al vangelo nella festa della Trasfigurazione: «È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà» (Sap 7,26).

Johannes Paul Abrahamowicz osb

Priore di San Paolo



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La Parola al Sinodo

ROMA, giovedì, 2 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di monsignor Fortunato Frezza, Sottosegretario del Sinodo dei Vescovi, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.



* * *

Come è ben noto ormai a tutta la Chiesa, l’anno 2008 è contrassegnato da due provvidenziali eventi: la proclamazione dell’inizio dell’Anno Paolino e la celebrazione della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Si tratta di due avvenimenti che sono collegati dal profondo e costitutivo vincolo del tema della stessa assemblea sinodale: La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa.

I Pastori della Chiesa in questo mese di ottobre si radunano in quella XII Assemblea per la quale hanno efficacemente operato, nelle loro Chiese particolari, con lo scambio di pareri, con la riflessione condivisa, con la redazione di documenti, e rivolgono la loro meditazione, prima e durante il Sinodo, alla Parola di Dio come anima della vita e della missione della Chiesa. In questo loro alto compito pastorale e collegiale sanno di poter affidarsi ad un modello ineguagliabile di dedizione incondizionata alla Parola (cfr. At 20,24.32), qual è l’Apostolo Paolo.

L’Apostolo delle Genti, come viene chiamato, divenuto, insieme al Principe degli Apostoli, «colonna e fondamento della città di Dio» (Inno dell’Ufficio delle Letture), destinatario del Vangelo da annunciare al mondo (cfr. Gal 2,7-8), fu convertito dalla Parola del Signore Risorto (cfr. At 9, 15-16) e «subito nelle sinagoghe annunciava che Gesù è il Figlio di Dio» (At 9,20). Paolo mostra così il dinamismo efficace della Parola divina che da persecutore lo rende Apostolo, annunciatore coraggioso di quella medesima Parola che ha trasformato la sua persona e la sua vita (cfr. At 9,27).

La missione apostolica di Paolo ha ricevuto il sigillo del Vangelo, che ha segnato l’inizio, lo sviluppo e la fine della testimonianza da lui resa al Maestro (cfr. At 20,18-24). Il persecutore, divenuto apostolo, è stato afferrato da Cristo (cfr. Fil 3,12), perché fosse fatto capace di «guadagnare Cristo» (Fil 3,8), guadagnare molti a Cristo, come servo di tutti, tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno, per amore del Vangelo (cfr. 1Cor 9,16.19-23). La stessa Parola del Signore ha dato una direzione decisiva alla missione di Paolo, quella dell’utilità in vista della salvezza (cfr. 1Cor 10,33).

L’Apostolo sente impellente dentro di sé l’urgenza di predicare il Vangelo (cfr 1Cor 1,19) e le insondabili ricchezze di Cristo e la rivelazione del mistero di Dio (cfr. Ef 3,6-9). È talmente forte in lui questa consapevolezza della missione che Paolo arriva a godere della grazia e della salvezza in una profonda comunione con i destinatari della Parola di cui è fatto servo (cfr. Rm 1,19) nel fruttuoso dialogo della salvezza.

Rivolgendosi ai credenti delle sue comunità, anche con accenti di commossa confidenza e tenerezza, ricorda di averli generati mediante il Vangelo (cfr. 1Cor 4,15), di averli nutriti gratuitamente con il Vangelo (cfr. 2Cor 11,7), anche nei momenti di prova nell’infermità (cfr. Gal 4,12-14) o addirittura incarcerato con le catene del Vangelo (cfr. Fm 13).

La XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi è davvero un kairos di grazia per i Vescovi che sono posti nella Chiesa a pascere il gregge del Signore (cfr. At 20,28), innanzitutto con la Parola di Dio, che sorpassa ogni sapienza umana (cfr. 1Cor 2,1-5) e ogni umano desiderio.

Riuniti nel Sinodo, dopo aver pregato e meditato anche attraverso i documenti Lineamenta e Instrumentum laboris, hanno propizia l’occasione di confrontarsi tra loro, ma soprattutto di unirsi nella sollecitudine pastorale e in collegiale comunione per esporsi alla luce, alla consolazione e alla grazia di quella Parola che, venendo da Dio, guida i loro lavori sinodali in modo efficacemente adatto alle necessità odierne della Chiesa.


Fortunato Frezza

Sottosegretario Sinodo dei Vescovi


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Il cristianesimo mette radici nelle culture

ROMA, lunedì, 6 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di don Piergiorgio Gianazza, missionario salesiano in Terra Santa, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.

 



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«Guai a me se non evangelizzassi» (1Cor 9,16): questo è l’anelito supremo di Paolo. Per il vangelo egli mette in gioco la sua vita. Convertito, dona alla sua vita un solo scopo: amare Gesù e farlo amare. Libero da tutti, si fa schiavo di tutti, perché è stato «conquistato da Cristo» (Fil 3,12). Eccolo allora spogliarsi di tutto per rivestirsi di Cristo. Sa adattarsi ai gruppi, ai popoli, alle loro tradizioni. A cominciare dal nome stesso! Se il suo nome ebreo era Sha’ùl/Saul, datogli dal padre appartenente alla tribù di Beniamino, cui apparteneva appunto il re Saul, il suo nome acquisito, con il quale volutamente sempre si presenta e si firma, sarà Pàulos, versione grecizzata del latino Paulus. In occasione dell’incontro missionario con il governatore romano di Cipro, Sergio Paolo, passa dal nome Sàulos a quello di Paulos (cfr. At 13,9). Dobbiamo leggere, in questo cambiamento, non un semplice adattamento convenzionale, ma una scelta convinta, un ampliamento di prospettiva in ordine al vangelo, da predicarsi in tutto il mondo. È la manifestazione esteriore d’una doppia appartenenza culturale, quasi un ponte gettato tra aree linguistiche.

Quanto all’adattamento linguistico, di cui abbiamo già detto [cfr. Paulus 3/pp. 23], Paolo sapeva maneggiare arti oratorie come la discussione, la diatriba, la retorica. Ripeteva a memoria frammenti di poesie, proverbi e detti popolari. Egli cita, ad esempio, il comico greco Menandro (cfr. 1Cor 15,33), il poeta cretese Epimenide (cfr. Tit 1,12 e At 17,18) e il conterraneo di Cilicia, Arato di Soli (cfr. At 17,28). Familiarizzatosi con la lingua greca della Settanta – la traduzione delle Scritture ebraiche –, ma anche con il linguaggio dei pagani dell’Asia Minore, Paolo sa attingere all’una e all’altra fonte la terminologia per la teologia cristiana, in modo da essere meglio capito. Termini greci come: amartolòs e amartìa (“peccatore”, “peccato”), sperma (“discendenza”), krites (“giudice”), kleronomìa (“eredità”), paroikìa (“dimora”, “passaggio”), ekklesìa (“assemblea”, “convocazione”), synérgheia (“sinergia”, “collaborazione”), koinonìa (“partecipazione”), e altri termini del linguaggio sociale, religioso, giudiziario e commerciale, sono presenti in vari discorsi di Paolo e più ancora nelle sue lettere (cfr. At 13,17-41).

In particolare egli sente il fascino dell’ideale della libertà, ben presente nel mondo greco, e ciò lo spinge, unico autore degli scritti neotestamentari, ad elaborare una teologia cristiana della libertà e della liberazione. La eleutherìa (“libertà”) era centrale nella tradizione politica delle città greche, tendenti alla democrazia, alla libertà politica, di pensiero e di espressione. In Paolo emerge non solo la libertà del parlare, dello scrivere e del pensare (la parresìa: cfr. 1Ts 2,2; 2Cor 3,12; Fil 1,20), ma soprattutto la libertà esistenziale, certo illuminata e mossa dallo Spirito. Egli si sente «libero da tutti, fatto servo di tutti» (1Cor 9,19). Questo perché «Cristo ci ha liberati perché potessimo vivere nella libertà» (Gal 5,1). Una libertà però che «non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma [che] mediante la carità sia a servizio gli uni degli altri» (5,14). In questo quadro di morale personalistica è da inserirsi anche il frequente richiamo alla “coscienza” (synèidesis: cfr. At 23,1; Rm 2,15; 1Tm 1,5) come riferimento all’agire morale, molto comune nel mondo ellenistico (cfr. 1Cor 8,7; 10,25).

Inoltre Paolo usa categorie mentali appartenenti alla visione del mondo greca-latina. Così impiega le distinzioni tra cittadino e straniero, magistrato e privato, libero e schiavo, città di nascita e città di adozione: tutte parole dell’amministrazione civile greco-romana. Persino nella geografia fa propria la concezione romana del mondo: ha una visione geografica dell’Asia Minore e dei Balcani, basata sull’organizzazione amministrativa dell’Impero romano. Prende infatti in considerazione, non le regioni o gli stati, e tanto meno le città, ma soltanto le divisioni in Province (Siria, Cilicia, Galazia, Asia, Macedonia, Acaia). I suoi stessi itinerari di viaggio sono programmati e compiuti lungo le strade romane e le capitali amministrative dell’Impero. Qui egli studia le caratteristiche che rendono rinomato quel luogo, oltre alle scene di vita o ai monumenti più tipici.

Volentieri ne fa uso per la sua catechesi, ritenendo che rimarrà ancor più impressa nel cuore dei suoi ascoltatori. La città di Corinto, per esempio, era famosa a quel tempo per i suoi giochi che attiravano non solo atleti, ma spettatori da ogni. L’immagine delle gare e dell’atleta vittorioso è ben sfruttata da Paolo nel suo parlare ai Corinti (cfr. 1Cor 9,24-27). Sempre a Corinto, era famoso il santuario della salute in onore del dio della medicina, Asclepio. Non solo Paolo rinfrescò laggiù le sue nozioni mediche, già apprese nella sua formazione a Gerusalemme, ma le sviluppò lungo la sua predicazione sul tema del corpo umano, simbolo di ogni collaborazione organica e vitale (cfr. 1Cor 9,12-27).

La metafora del corpo umano era già usata nel mondo ellenistico in versione politica e in prospettiva cosmica. Da un lato essa mostrava bene l’unità dello Stato o della città (pòlis) integrante i singoli cittadini e le parti sociali; dall’altro sottolineava l’unità del genere umano e persino dell’universo (kòsmos). Paolo sfrutta questa ottima immagine per presentare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, ove tutti formano un unico corpo e ove ognuno riceve e svolge il suo proprio ministero o carisma. Gli ascoltatori, oltre che al proprio corpo, potevano richiamare alla memoria gli ex-voto plasmati sulle forme delle varie membra appesi alle pareti del santuario come testimonianza della grazia ricevuta.

Trovandosi ad Atene, egli si lasciò certamente prendere dall’interesse artistico e culturale, se lui stesso, parlando ai cittadini, si descrive come uno che «passa ed osserva i monumenti del vostro culto» (At 17,23) e fra questi dice di «aver trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto» (ivi). È vero che era stato «preso dal fremito nel vedere la città piena di idoli», ma, nel suo desiderio di dialogo e di avvicinamento, non sottolinea questa divergenza (pluralità di dèi), ma parte da ciò che unisce: la pietà, il culto, il timore degli dèi. Paolo si lancia per annunciare la buona notizia.

Nei giorni precedenti aveva preso a discutere non solo nella sinagoga con i giudei e i pagani credenti in Dio, ma anche nella piazza principale, con filosofi epicurei e stoici (cfr. 17,17-18). Il che induce a pensare che avesse le cognizioni adatte per discutere con loro, benché qualcuno l’aveva tacciato di essere un ciarlatano! Il giorno stabilito volle dare prova della sua sophía o sapienza al modo dei predicatori pagani, anzi dei retori e più ancora dei filosofi.

Tutti ci attenderemmo un successo da quel gioiello di discorso che fa leva non solo sulle argomentazioni razionali, ma tocca le corde dell’inquietudine umana, desiderosa di un dio che si faccia vicino. Eppure conosciamo l’esito: chi lo derise come stravagante per la sua predicazione della risurrezione dai morti e chi più educatamente espresse il proprio disappunto. In una parola, lo scacco di Paolo fu totale. Un vero fallimento su scala professionale, perché egli non aveva saputo convincere un pubblico esigente e difficile.

Da allora egli rifiuterà di appoggiarsi agli argomenti della sophía/sapienza greca. Andando, più tardi, a evangelizzare i Corinti, dichiarerà loro che «la mia parola e il mio messaggio non si basano su discorsi persuasivi di sapienza» (1Cor 2,4). Una sconfitta della cultura, dunque? Un rifiuto della discussione e del dialogo? No, soltanto la maturazione della convinzione che i soli discorsi intellettuali, per quanto persuasivi, condurrebbero al massimo a un’adesione umana. Mentre invece solo la rivalazione divina conduce all’adesione di fede, ed essa è basata «sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non sia fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,4-5). Non rifiuto, dunque, ma uso appropriato della cultura al servizio del vangelo e del primato dello Spirito.

A Efeso, altra città cosmopolita dell’Asia Minore sulle rive dell’Egeo, Paolo affina lo strumento epistolario giungendo a una dimensione letteraria. Le sue lettere, anche se testimonianze di corrispondenze personali (cfr. il “biglietto” a Filemone) o scritti di circostanza (cfr. le due lettere ai Tessalonicesi e ai Corinti), assurgono sempre a veri trattati dottrinali, sintesi del suo pensiero e della sua teologia. Ma anche nel suo intento centrale di comunicare il vangelo in tale forma, Paolo non tralascia di compiere un grande sforzo di stile e di composizione, nella sollecitudine di far arrivare l’annuncio a lettori di culture diverse.

Analizzando le lettere e confrontandole con l’epistolografia greco-romana del tempo, gli studiosi notano, dal punto di vista formale, una struttura comune e una più complessa derivata dalla retorica classica. Esse infatti sono costituite da indirizzo, introduzione, corpo epistolare, per terminare con saluti e auguri conclusivi. Inoltre vengono impiegati stereotipi quali ringraziamenti, richieste, raccomandazioni, notificazioni, ricordi, progetti, ammonizioni. Paolo adotta uno stile letterario, ma allo stesso tempo lo arricchisce con formule cristologiche.

Quanto alle regole della retorica classica, Paolo si mostra abile nel proporre argomentazioni, strutturate secondo tesi, confutazioni, perorazioni. Sa fare largo uso di vari tipi dimostrativi: si serve della mozione degli affetti (cfr. Gal 4,13-16), ricorre alle narrazioni autobiografiche al fine di ottenere o confermarsi la fiducia delle sue comunità (cfr. 1Ts 2,1-10) e dimostra di saper argomentare (cfr. 1Cor 15). Ma egli sfrutta questo quadro culturale tutto e solo in funzione del servizio del vangelo. A proprio appoggio non porta la sua parola, ma quella di Dio, manifestata nelle Scritture (cfr. Rm 1,1-2), attualizzata e compiuta da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, e a lui stesso comunicata per rivelazione (cfr. Gal 1,16; 1Cor 12,1.7). Riassumendo, egli sa disporre la forma a servizio del contenuto che è «la sublime conoscenza di Cristo» (cfr. Fil 3,8), «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3).

Nei suoi anni di apostolato, Paolo, solerte lavoratore (cfr. At 18,3; 1Cor 4,12), ma anche perenne studioso che non sa staccarsi dai suoi libri e dalle sue pergamene (cfr. 2Tm 4,13), ha modo di approfondire la sua cultura greca. Adotta il concetto filosofico di «pienezza» (plèroma) per descrivere la Divinità (cfr. Col 1,19; 2,9). Il crescente utilizzo del vocabolario mistico e della stessa parola mystérion (“mistero”) rivela che Paolo non è insensibile all’atmosfera religiosa dell’ambiente circostante, specialmente a Efeso, all’ombra del tempio della dea Artemide. Egli infatti parla di palingenesìa (“rigenerazione”, “rinascita”: Tt 3,5) e anche di «passare la soglia» (in greco embatéuein: Col 2,18) per indicare l’accesso al luogo d’iniziazione. A Efeso ebbe probabilmente contatti anche con l’essenismo, da cui ha potuto assumere immagini di contrapposizione, quali luce-tenebre, Cristo-Beliar (Satana), Dio-idoli (cfr. 2Cor 6,14-16).

Tutto questo adattamento è fatto in vista della proclamazione del vangelo. Ciò non significa che Paolo baratti o tanto meno rinunci a presentare la dottrina rivelata nella sua nella sua novità dirompente ed esigente. Il vangelo è irrinunciabile. L’apostolo intende consegnare la tradizione come egli l’ha ricevuta, particolarmente nei suoi nuclei essenziali e centrali, quali la risurrezione del Signore e la sua Cena (cfr. 1Cor 15,1-3 e 11,23-25). Di fronte alle fortissime resistenze e difficoltà incontrate in campo giudaico e pagano per l’annuncio della risurrezione di Cristo, Paolo non recede e non addomestica il suo messaggio. E similmente per il mistero dell’eucaristia, «corpo e sangue del Signore» (1Cor 11,27). Il messaggio di cui è fedelissimo portatore e testimone non è a disposizione del gusto degli uditori né adattabile alle loro aspettative, ma è divina rivelazione da comunicare integralmente.

Per questo annuncia cose assolutamente inaudite, contrarie al senso comune e inaccettabili per alcune concezioni religiose, compresa quella in cui lui stesso era stato educato. Ai giudei presenta lo scandalo di un Messia crocifisso. Ai greci la stoltezza di un Dio debole. Ai cristiani di Corinto, città di pessima reputazione in fatto di costumi, parla nientemeno che di verginità come possibile scelta di vita (1Cor 7). A tutti non esita a presentare la morte come un guadagno (cfr. Fil 1,21.23). Ai pagani annuncia non che un uomo è diventato dio, ma che Dio è diventato uomo (cfr. Gal 4,4). A tutti proclama che Dio è unico, ma anche che Egli ha inviato il suo Figlio e che con lui ci da dato il suo Spirito (cfr. Rm 5,5).

Attento a tutte le culture incontrate, Paolo non si lega ad alcuna di esse, per vivere la libertà del vangelo. Anzi, di fronte alle pretese di sapienza dei greci e di giustizia dei giudei, di fronte alla repressione della voce della coscienza nei pagani e alle loro deviazioni morali (cfr. 1Cor 1,18-25; Rm 1,23-30), egli non teme di smascherare i fallimenti di una cultura avulsa dal Dio di Gesù. Sfidato da rigurgiti provenienti da culture paganeggianti anteriori alla conversione (cfr. 1Cor 1-2) e persino da inutili applicazioni di pesi giudaici alla libertà di Cristo, Paolo si scaglia contro coloro che «snaturano il vangelo» (Gal 1,7) o rinunciano allo scandalo della croce.

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Una vita per l’annuncio del Vangelo

ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.



* * *

Cosa può dire l’apostolo Paolo può dire agli uomini e alle donne di oggi? Gli elementi sono certamente tanti, ma credo che il tutto possa essere sintetizzato in due termini: conversione e apostolato. Prima di tutto Paolo ci dice che incontrare Gesù Cristo è possibile, come è possibile poter parlare con Lui. Come conseguenza di questo, siamo chiamati a cambiare vita. In At 9,17-18 apprendiamo che all’Apostolo, che si trovava davanti ad Anania, uscirono dagli occhi come delle squame. Non sappiamo in cosa consistessero, sappiamo però che, simbolicamente, qualcosa della sua vita era realmente cambiata. La stessa cosa la troviamo descritta in 2Cor 5,16-17: «anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». L’invito di Paolo a ciascun cristiano è di conoscere Cristo secondo lo spirito: anche per noi oggi vi è la possibilità di un cambiamento nella possibilità di incontrare Gesù di Nazareth il Signore.

Siamo chiamati, dunque, come primo passo a cambiare vita. Ora passiamo al secondo termine, alla seconda dimensione a cui abbiamo fatto riferimento, quella che rende Paolo tanto conosciuto fino ai nostri giorni, cioè l’apostolato. “Apostolo” è una parola greca che significa: “colui che è inviato”. Paolo è un missionario e questo non per un caso. Chi incontra Cristo è portato a diventare un evangelizzatore. Secondo la mia esperienza, sono convinto che per conoscere l’Apostolo dobbiamo leggere innanzitutto la lettera ai Galati. Qui Paolo parla della sua vita, dice in che cosa è consistita questa rivelazione, di cui molto sinteticamente ci ha dato una sua versione (cfr. Gal 1,13-18). In questi versetti scopriamo subito chi era l’Apostolo e vorremmo avere tutti i dettagli su ciò che è accaduto sulla via di Damasco. Nella nostra immaginazione, anche a motivo di tante rappresentazioni pittoriche, ci raffiguriamo Paolo che cade da cavallo... ma né nelle lettere né negli Atti degli Apostoli si menzionano cavalli nei racconti della conversione.

Forse Paolo adoperò un animale da trasporto, ma è molto più probabile che andasse anche a piedi: a quei tempi era comune percorrere circa trenta km al giorno. Paolo, dunque, non si preoccupa di dirci cos’è avvenuto, ma com’è avvenuto; a lui interessa dirci l’essenziale: Dio «si compiacque di rivelare a me suo Figlio». Come questo sia avvenuto appartiene alla dimensione del mistero che ci rimanda al giorno di Pasqua. Quando gli evangelisti lo raccontano, usano lo stesso linguaggio per dire che Gesù “si è fatto vedere”. Non siamo stati noi a vedere Lui, Lui si è fatto vedere a noi. Secondo il linguaggio biblico, questa condizione è diversa: non sono le nostre categorie, ma è Lui che si fa vedere e chiama a entrare nella sua dimensione. Chi è all’interno della visione e della rivelazione non riesce a esprimere nulla. Paolo sperimenta tutta l’incapacità del linguaggio di poter esprimere l’esperienza fatta, e questo può valere anche per ognuno di noi non alle prese con una visione, ma chiamati a cambiare la nostra vita dall’annuncio del vangelo.

Nella stessa lettera ai Galati ci viene descritto anche il carattere di Paolo, un uomo che non conosceva mezze misure e andava là dove era chiamato senza consultare nessuno e senza andare a Gerusalemme da chi aveva conosciuto direttamente il Signore, ma subito andò in Arabia per annunciare il vangelo e poi di nuovo a Damasco e poi così via per tutta la vita. Paolo è il missionario, l’evangelizzatore per eccellenza. Da un calcolo approssimativo delle date possiamo vedere che Paolo incontra Gesù sulla via di Damasco intorno all’anno 33, tre anni dopo la morte di Gesù e, dal 33 fino al 65-67, Paolo è sempre e soltanto in viaggio per annunciare il vangelo. Pensiamo solo ai viaggi di Paolo: 16.500 km! Duemila per il primo viaggio, cinquemila per il secondo, seimila per il terzo, tremilacinquecento da Gerusalemme a Roma.

In 2Cor 11,23-28 Paolo racconta della sua ansia missionaria ed elenca con passione cosa abbia significato annunciare il vangelo nelle molte fatiche, prigionie, percosse, naufragi... ciò che ha vissuto in questi trent’anni di evangelizzazione è tutto vero. Paolo ha dato gli anni più belli della sua vita per annunciare il vangelo di Gesù Cristo fino ad arrivare a Roma, dove l’accoglienza non fu tra le migliori.

Paolo aveva scritto la lettera ai Romani per preparare la sua visita. Ma i Romani erano autonomi: la loro era una bella comunità e non era stata fondata da Paolo, bensì da Pietro. Paolo veniva visto quasi come un intruso. Perché? Perché aveva detto che la legge era una preparazione, ma quello che Gesù aveva portato era l’amore. Avrebbe dovuto rallegrare il cuore di tutti, e invece non era così, perché nei primi tempi sottostare alla legge era ancora una tentazione molto forte.

Paolo, però, con forza, andando fino a Gerusalemme e discutendo con Pietro e con Giacomo, ha voluto far capire che Gesù era arrivato ed era veramente il Messia; per questo la legge di Mosè era completamente superata. Per questo l’Apostolo è stato tanto osteggiato. Alcuni pensavano che bisognava andare adagio senza urtare la mentalità di quelli che si erano convertiti dal giudaismo. Anche noi tante volte facciamo attenzione a come parliamo, nel dire tutta la verità perché qualcuno si può scandalizzare, perché si può essere intolleranti e allora è meglio smussare gli angoli, e magari rinunciare alla nostra identità. Se Paolo sentisse tanti ragionamenti simili che oggi vengono fatti...! La verità è Cristo, dice l’Apostolo, in lui siamo stati battezzati, in lui tutti siamo peccatori come nel primo Adamo, ma nel secondo Adamo, il Cristo, tutti siamo stati salvati, perché Dio ha rinchiuso tutti nel peccato per portare tutti alla salvezza nella morte e nella risurrezione di suo Figlio.

Per concludere possiamo dire che questo richiamo, questo appassionato annunzio dell’amore ha portato a vedere Paolo in alcuni ambienti anche con un certo sospetto. Fino al secondo secolo le lettere di Paolo venivano lette, ma non in tutte le comunità. Si deve arrivare a Ireneo e ad altri discepoli, che incominciano a mettere insieme gli scritti di Paolo e a scoprire la profonda ricchezza presente nel suo insegnamento a cui tutti noi possiamo oggi attingere.

Penso infine agli ultimi momenti della vita di Paolo, a quel 30 giugno di ormai duemila anni fa in cui i protomartiri di Roma morirono a causa di Cristo e della fede. E tra loro c’erano anche Pietro e Paolo. Paolo nell’avvicinarsi a questo momento supremo, scrive una delle pagine più dense e toccanti dei suoi scritti: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7). Da questo tutti possiamo comprendere chi è Paolo per noi, cosa ci dice ancora oggi; da questi versetti comprendiamo chi è l’apostolo di oggi: è colui che per tutta la vita annuncia il vangelo e conserva la fede fino alla fine.

Rino Fisichella

Presidente della Pontificia Accademia per la Vita

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La liturgia per S. Paolo: mettersi al servizio del progetto di Dio

Afferma padre Carlos Gustavo Haas

di Alexandre Ribeiro

SAN PAOLO, lunedì, 13 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Per San Paolo, “la liturgia che è realmente gradita a Dio è porci interamente al servizio del progetto divino, vissuto da Gesù, il Figlio di Dio”, ha spiegato il responsabile per la liturgia della Conferenza Nazionale dei Vescovi del Brasile (CNBB).

In una conferenza durante la Settimana Teologica dell'Istituto di Teologia e Filosofia Santa Teresina della Diocesi di São José dos Campos (Brasile), due settimane fa, padre Carlos Gustavo Haas ha parlato dell'influenza della teologia paolina nella liturgia.

All'inizio del suo intervento, il sacerdote ha ricordato l'epistemologia del termine liturgia, derivante dal greco “leitourgía”, che può essere inteso come “servizio pubblico”, citando poi la definizione della costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II Sacrosanctum Concilium, che afferma che la liturgia è considerata “l'esercizio della funzione sacerdotale di Gesù Cristo”.

“Paolo usa la parola 'liturgia' per parlare di prestazione di servizio. Per questo, per lui, la parola liturgia implica impegno sociale, impegno con la vita, con la carità. In Gesù Cristo, ciò che vale è la fede che agisce per amore”, ha spiegato il sacerdote.

Paolo afferma che Dio gli ha dato la grazia di essere “liturgo” o “ministro di Gesù Cristo presso i pagani”, prestando un servizio sacerdotale al Vangelo di Dio.

Secondo padre Haas, oltre alle considerazioni sul significato della liturgia come servizio, San Paolo apporta un grande contributo a ciò che si intende per culto spirituale.

In Romani 12, egli afferma: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a presentare i vostri corpi in sacrificio vivente, santo, gradito a Dio; questo è il vostro culto spirituale”.

“Per Paolo, la liturgia che è realmente gradita a Dio è porci interamente al servizio del progetto divino, vissuto da Gesù, il Figlio di Dio”, sottolinea.

“E' molto facile vivere una liturgia del tempio, una liturgia della Chiesa solo come tempio. Ma è molto difficile fare della nostra vita un'ostia viva, santa, gradita a Dio”, ha ammesso.

Il responsabile della CNBB ha spiegato che il termine “culto” ha una radice latina che significa “coltivare”. “Cosa significa dare culto a Dio?”, ha chiesto. Significa “coltivare quotidianamente, nella celebrazione e nella vita, ciò che Dio è Il culto spirituale come impegno, su esempio di Gesù”.

“Molte Messe, battesimi e matrimoni sono stati e ancora sono opportunità più per giustificare gli schemi di questo mondo che per coltivare la volontà di Dio”.

“A volte si coltiva ciò che vogliamo, ciò che desideriamo, ciò che pensiamo, e non coltiviamo, non prestiamo il culto a Dio. Anziché servire Dio, ci serviamo di Dio. E' questo l'avvertimento che San Paolo ci può lasciare”, ha osservato.

Per padre Haas, la liturgia deve “portarci a fare proprio ciò che Paolo ha detto in Galati 4: far sì che Cristo si formi in noi, in me, in te, in noi”.

L'Anno Liturgico è questo, “un modo fantastico perché la gente coltivi i sentimenti di Gesù Cristo che vengono celebrati” durante questo periodo.

“La Chiesa non ha un calendario liturgico, ha l'Anno Liturgico, che è un itinerario che la gente segue domenica dopo domenica, settimana dopo settimana coltivando quella Parola, e questa penetra, trasforma la vita della gente”.

“Non è devozione; è coltivare, perché possiamo diventare ostie vive, sante, gradite a Dio; questo è la liturgia, non è ritualismo. C'è bisogno di rito, di una ritualità, ma non di ritualismo. Non è devozione, è celebrazione”, ha sottolineato.

Nel contesto del Sinodo sulla Parola di Dio, padre Haas ha affermato che è necessario ascoltare la Parola con il cuore.

Per questo, sostiene, “abbiamo bisogno di silenzio. Non solo il silenzio della bocca, ma il silenzio degli occhi, delle orecchie, del cuore, del nostro corpo. Viviamo in un mondo molto rumoroso. Abbiamo Messe così rumorose...”.

“Questa esperienza umana di accogliere, ascoltare, comprendere, obbedire alla Parola è fondamentale per tutti noi”.

Padre Haas ha quindi sottolineato che la Parola non è un semplice messaggio. “Ho sentito tante persone dire: 'il messaggio del Vangelo di oggi...'. La Parola non è un messaggio, è la verità, è la vita, è Cristo. La Parola è un avvenimento”.

[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]


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