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Anno Paolino

Ultimo Aggiornamento: 12/11/2008 20:16
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L’Anno Paolino degli universitari di Roma

ROMA, venerdì, 17 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo a cura di don Emilio Bettini dell'Ufficio per la Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.

 



* * *

«Quello che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio» (At 17,23). Con la Veglia di Pentecoste si è concluso il ciclo triennale del programma di pastorale universitaria della Diocesi di Roma ritmato sui sacramenti dell’iniziazione cristiana. L’anno pastorale 2008-2009 apre il nuovo ciclo triennale ponendo particolare attenzione al sacramento del Battesimo. Mentre è ancora viva la memoria dell’incontro mondiale dei giovani di Sydney, dove Benedetto XVI ha sottolineato la realtà di nuova creatura del battezzato, gli universitari di Roma sono inviatati a vivere l’Anno Paolino preparandosi ad essere testimoni di Cristo in Università, vero e significativo Areopago della città, luogo privilegiato per la promozione della ricerca e della riflessione sulla realtà umana e sociale.

Guidati dalla Lettera ai Romani, che sarà consegnata a tutti gli universitari in occasione dell’incontro con il Papa Benedetto XVI, la celebrazione dell’Anno Paolino sollecita tutta la Chiesa di Roma ad una rinnovata esperienza apostolico-missionaria, proponendo al mondo della cultura, sull’esempio dell’evento di Atene, occasioni per confrontarsi e comprendere le attese dell’uomo contemporaneo. quale compito e responsabilità per una reale promozione integrale della persona umana. Infatti l’esperienza di Paolo ad Atene (At 17,22-34), per certi versi drammatica, ricordata da Benedetto XVI nel suo saluto ai giovani al Molo di Barangaroo, è decisiva per la vita del Cristianesimo. La proposta di Paolo, sintetizzate nelle parole famose, “Ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio” (At 17,23) aiuterà gli universitari a ricomprendere il ruolo del cristiano nella elaborazione e nella animazione culturale, che costituisce un insostituibile servizio di discernimento e di orientamento che è espressione significativa della diakonia della Chiesa nella storia.

In questa prospettiva paolina, l’itinerario teologico-pastorale avrà come tema: “Vangelo e cultura per un nuovo umanesimo”, aiutando gli universitari a riscoprire il dono del Battesimo quale evento di grazia che trasforma e sostiene la capacità progettuale dell’uomo. Si tratta di recuperare il vero dinamismo dell’evangelizzazione che raggiunge l’uomo hic et nunc e lo rende partecipe di una nuova esistenza in Cristo, storica ed eterna. In tal modo il cristiano, inserito nella comunità cristiana, sarà chiamato ad esercitare la diakonia della storia e ad incontrare le culture nelle quali vive e per le quali lavora. L’azione evangelizzatrice deve raggiungere il nucleo generatore della cultura illuminandola con il dono del Vangelo. In tale contesto si inserisce la proposta di Benedetto XVI di allargare gli orizzonti della razionalità che è apertura verso la nuova realtà esistenziale in cui fede e ragione sono chiamate a cooperare per comprendere la novità ontologica dell’esistenza umana. Solo in tal modo, infatti, il Cristianesimo può tornare ad essere matrice di cultura ed essere interlocutore della cultura contemporanea, in particolare di quella universitaria.

Come ha sottolineato Benedetto XVI ai giovani di Sydney, il mondo di oggi «si aspetta dai cristiani una parola di incoraggiamento e una testimonianza di vita che invitino a guardare con fiducia verso il futuro». Agli universitari è affidato il compito di realizzare nella comunità accademica la stessa esperienza di Paolo all’areopago di Atene, condividendo le ansie e le attese degli amici che faticano nella ricerca, mostrando la fecondità storica del Vangelo attraverso una nuova sintesi tra Vangelo e cultura. Gli universitari (docenti e studenti) di ogni Facoltà saranno sollecitati a promuovere e realizzare laboratori culturali che favoriscano l’incontro tra pensiero teologico e pensiero scientifico sul tema della costruzione di un nuovo umanesimo. Nelle Parrocchie i gruppi universitari parrocchiali promuoveranno incontri culturali sul tema della fede e, nel tempo pasquale, esperienze di accoglienza e di incontro con gli universitari che vivono nel territorio.

L’evangelizzazione della cultura oggi è la grande sfida per la Chiesa: da essa dipende il futuro educativo delle nuove generazioni. Occorre uno sforzo coordinato in modo che le comunità parrocchiali, le cappellanie universitarie, i collegi, le associazioni e i movimenti ecclesiali possano essere luoghi di accoglienza e di formazione dei giovani universitari. L’itinerario formativo, ritmato sui tempi dell’anno liturgico, accompagnerà il cammino missionario degli universitari che culminerà nel Giubileo paolino degli universitari che si celebrerà il 14 e 15 marzo 2009.

Tappe del cammino

-- Pellegrinaggio degli universitari ad Assisi: 8 novembre 2008

-- Incontro natalizio degli universitari con il Papa e consegna e della Lettera ai Romani: 11 dicembre 2008

-- Giubileo paolino degli universitari – Veglia mariana con il Papa: 14 – 15 marzo 2009

-- Incontro europeo degli studenti universitari: 27 luglio-2 agosto 2009

Emilio Bettini

Vicariato di Roma – Uff. Pastorale Universitaria



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Da 40 anni riuniti nel nome di Paolo

ROMA, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista al prof. Jacques Schlosser, presidente di turno del Colloquium Paulinum Oecumenicum e docente emerito di Teologia cattolica all'Università di Strasburgo, apparso sul quinto numero di “Paulus” (novembre 2008) dedicato a “Paolo il mistico”.

* * *

Pochi sanno che da quarant’anni, a cadenza biennale, l’Abbazia di San Paolo fuori le Mura ospita un incontro tra i maggiori studiosi mondiali dell’Apostolo. Il Colloquium Paulinum Oecumenicum nasceva nel 1968, per volontà dei benedettini, come risposta allo spirito del concilio Vaticano II. L’intento? Offrire un’accoglienza ecumenica a paolinisti di tutte le confessioni cristiane che, in massima libertà e senza alcuna intrusione esterna – le giornate di studio si svolgono infatti a porte chiuse –, favoriti da un’atmosfera raccolta, possano dedicarsi completamente allo studio e al dialogo. Anche quest’anno i convenuti giungevano da ogni parte del mondo: Atene (Christos Karakolis), Northampton (Karl Donfried), Ecublens (Daniel Marguerat), Uppsala (Lars Hartman), Sibiu (Vasile Mihoc), San Pietroburgo (Dimitri Jannuary Ivliev), Gerusalemme (Gregory Tatum), Lione (Michel Quesnel)... Alla luce di questi quarant’anni di esperienza, alcuni partecipanti hanno avanzato l’ipotesi di fondare un centro di studi paolini presso l’Abbazia con finalità pastorali, oltre che accademiche. Ne parliamo con il presidente, il professor Jacques Schlosser di Strasburgo.

Professore, il tema scelto per questo 40° anniversario del Colloquium è stato “L’unità della Chiesa in Paolo”: un tema trasversale, quindi, e non basato su una singola Lettera paolina come avevate sempre fatto finora. Un’eccezione per l’Anno Paolino o una felice coincidenza?

«È stata una coincidenza organizzata, se vuole. Secondo il nostro schema abituale avremmo dovuto lavorare su due Lettere, cioè la Seconda a Timoteo e la breve Lettera a Tito. Ma l’Abate di San Paolo ci ha chiesto per quest’anno di scegliere un tema più impegnativo e più teologico, per interessare un uditorio più ampio. Abbiamo allora affrontato le differenti metafore paoline, come l’immagine del gregge, del tempio e del corpo di Cristo».

In che modo gli studiosi possono aiutarci a scoprire l’unità nel pensiero di Paolo?

«Intanto, quale unità dobbiamo intendere? L’unità della Chiesa universale? In Paolo è troppo presto per parlarne in modo tanto aperto, come se allora ci fosse già stata una Chiesa organizzata su tutta la terra. Per questo anche i nostri interventi sono stati di più modesta portata. Ma, comunque vada intesa, l’unità della Chiesa è una caratteristica essenziale per la sua vita. L’unità non è una sorta di movimento che va di moda, ma un’esigenza profonda dell’essere cristiano. Fondamentalmente, l’unità non è qualche cosa che bisogna costruire, ma qualcosa che si riceve. E allora essa può essere rovinata, come capita nelle relazioni umane: l’unità di una famiglia si può rompere, così come può accadere tra due amici. C’è dunque un altro aspetto su cui bisogna impegnarsi, perché quest’unità si possa ristabilire, e cioè la riconciliazione, il perdono. Il nostro lavoro di studiosi arriva solo a questo punto né va inteso come un punto di partenza, quasi una sorta di morale che predica: “Bisogna essere uniti, perché è bene esserlo”. No, bisogna essere uniti nella vita perché Dio ci ha affidato questa unità, perché ce l’ha donata, perché essa è inseparabile dalla fede in Cristo. Le disgrazie della storia hanno fatto sì che non ci sia accordo tra le diverse Confessioni, eppure l’unità o una certa forma di unità sussistono sempre; e negli ultimi tempi essa ha fatto discreti progressi. Qual è allora il nostro compito? Noi specialisti di san Paolo dobbiamo leggere i suoi testi e vogliamo comprenderli prima di tutto a nostro vantaggio, ma anche per arricchire altri».

Secondo un luogo comune molto diffuso, san Paolo non sarebbe l’uomo dell’unità, ma l’uomo della divisione, colui che avrebbe travisato in qualcos’altro il messaggio originario di Cristo. Eppure è nel suo nome che vi siete riuniti qui dai quattro angoli del pianeta. Chi è e chi deve essere Paolo per la Chiesa universale?

«È storicamente falso, oltre che scorretto, affermare che san Paolo è il fondatore del cristianesimo. Come non ha senso, d’altronde, dire che il cristianesimo è stato fondato un determinato giorno. Il cristianesimo è la conseguenza di quelle particolarissime novità che il giudeo Gesù di Nazareth ha immesso nel giudaismo. Il cristianesimo deriva direttamente dalla risurrezione di Gesù. Paolo è stato chiamato dal Signore e in virtù di questo c’è stata per lui, soltanto in una certa maniera, una rottura. Egli è un giudeo divenuto discepolo di Gesù. Paolo pregava tutti i giorni come un giudeo, continuava a frequentare il suo popolo, eppure allo stesso tempo non era più giudeo su tutta la linea. Qualcosa di nuovo era entrato nella sua esistenza e da questo punto di vista egli è effettivamente un agente di rottura, ma oggi non ha alcun senso parlare di Paolo come avversario dei giudei. Sono affermazioni da sfumare molto, proprio come una certa mentalità che vede in Paolo un antifemminista. In effetti c’è, nella tradizione delle sue Lettere – sempre che sia di suo pugno – la richiesta che le donne nelle assemblee tacciano. Sì, non bisogna negare che in alcuni tratti Paolo riflette la mentalità del tempo, eppure negli stessi anni – fatte poche eccezioni – nel mondo ellenistico le donne non erano affatto emancipate. Paolo non poteva rivoluzionare d’un colpo tutta la cultura del tempo. Rendiamoci conto che i gruppi di cristiani erano una minoranza – pochi, piccoli e talvolta perseguitati –: non avrebbero mai potuto abolire la schiavitù, per quanto se ne dica. Eppure Paolo ha seminato abbastanza dinamismo, così che nel suo messaggio ci sono già i germogli non della divisione, ma del superamento delle divisioni. Quando egli dice che non c’è più né greco né giudeo, né schiavo né libero, né uomo o donna, ma che tutti sono uno in Cristo, esprime in modo profetico quello che noi non abbiamo ancora saputo realizzare neppure nella Chiesa cattolica».

Come si svolgevano le vostre giornate di studio?

«Ogni mattina ci riunivamo per un momento di preghiera, presieduta a turno da colleghi delle diverse confessioni e lingue, che durava circa un quarto d’ora. Dopo di che cominciavano i lavori. Prima una conferenza di 30-40 minuti cui seguiva, a seconda dei casi, un lungo dibattito. Poi una breve pausa per ristorarsi un po’, anche a causa del caldo che abbiamo trovato in Italia. I lavori riprendevano poi con le discussioni in gruppi più piccoli, formati secondo le tre lingue ufficiali del Congresso: francese, inglese e tedesco. Poi si tornava in aula per sviluppare il discorso più in generale: ogni gruppo riferiva i propri interrogativi emersi dal confronto, a cui il relatore di turno rispondeva con puntualità. Così si concludeva la prima metà della giornata. I lavori riprendevano al pomeriggio dopo un momento di riposo, come in buon uso tra i romani. Verso le 16 c’era una seconda conferenza, seguita da riunioni e dibattiti. Si finiva tra le 18 e le 19, dopo di che si andava a cenare nel refettorio dei benedettini, dove ci intrattenevamo in un ambiente di serenità e preghiera. Ecco il quadro generale».

Un programma impegnativo. Ci sono stati anche dei momenti informali? Al Colloquium si respirava un’atmosfera diversa da quella di una semplice conferenza...

«Certamente le conferenze erano piuttosto impegnative e richiedevano una grande concentrazione, ma senza eccessiva fatica e tensione. Durante le pause si continuava a discutere tra noi sul tema della conferenza in un’atmosfera del tutto amichevole. Durante i pasti, i benedettini avevano adottato un regime speciale, tralasciando le lunghe letture abituali, e permettendoci di rompere il silenzio per parlare con molta distensione. Nel programma avevamo previsto un’uscita pomeridiana per visitare la chiesa di Santa Maria Antiqua. Non abbiamo potuto invece effettuare la nostra visita a Santa Maria Nuova né a San Teodoro. Così siamo andati verso Roma sud per un’escursione in campagna, all’aria aperta, e poi siamo stati a mangiare fuori. Ottimo cibo, un’escursione eccellente... ma siamo rientrati molto tardi e la mattina dopo eravamo tutti piuttosto stanchi. È stato tutto così piacevole! Potevamo parlare finalmente senza affrontare grandi discorsi, in un’atmosfera distesa e allegra. Dopo tutto, siamo uomini e donne in carne e ossa».

Come si è toccata quotidianamente la dimensione ecumenica, ad esempio nella preghiera?

«Domanda interessante. Tutti i giorni, oltre alla nostra preghiera del mattino nella sala dove si svolgevano i nostri lavori, c’era la possibilità di partecipare alla preghiera dei monaci. E i nostri colleghi protestanti – sia luterani, sia riformati, sia metodisti –, nonché i nostri colleghi ortodossi, hanno largamente partecipato ad alcuni momenti di preghiera con loro. Talvolta erano un po’ spaesati, perché non sono abituati allo stesso tipo di preghiera o, ad esempio, all’uso del latino. E venerdì sera abbiamo celebrato tutti insieme il Vespro ecumenico, all’interno del quale, secondo la tradizione del Colloquium, si è tenuta una conferenza per un pubblico più vasto... erano presenti almeno duecento persone. L’idea di una conferenza pubblica che desse conto dei risultati raggiunti sul tema della settimana risale ai primissimi tempi, credo addirittura al secondo Colloquium. L’ultima giornata si è conclusa con un dibattito scientifico molto impegnativo, dopo di che abbiamo pregato di nuovo tutti assieme, a mezzogiorno. Negli altri appuntamenti con il Colloquium, quando studiavamo una singola Lettera, la si leggeva per intero in greco, dopo di che i membri dei diversi gruppi la leggevano nelle altre lingue. In occasione di questo 40° anniversario, invece, abbiamo letto tre testi di Paolo in greco. Il lettore ha poi pronunciato una preghiera nella propria lingua che tutti abbiamo poi ripetuto. Quindi tre letture, tre preghiere e tre salmi, a cui è seguita una breve omelia conclusiva. E infine la benedizione e il congedo dell’Abate, che ci ha dato appuntamento fra due anni».

Com’è mutato il Colloquium, nei suoi quarant’anni di storia?

«Personalmente ho partecipato almeno a otto incontri e non ricordo variazioni sostanziali. Certo, sono cambiate le persone – molte sono morte –, ma l’ambiente è sempre stato accogliente. Ci tengo a sottolineare il vantaggio pressoché unico di poter svolgere questi incontri in un monastero: non sarebbe stato lo stesso in un hotel, anche se ci si conosce bene e si è amici, perché mancherebbe quest’ambiente raccolto, di preghiera e di riflessione. Siamo davvero molto grati ai monaci che ci accolgono come veri amici e s’interessano ai nostri lavori tanto complessi, che forse allontanano altri. C’è una specie di... come dire? in Francia diremmo che c’è una complicité: c’è come una reciproca empatia. E questo è molto bello».

Paolo Pegoraro



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Il genio di san Paolo


di Juan Manuel de Prada

La commemorazione di questo Anno paolino dovrebbe servirci da stimolo per riflettere su uno dei tratti più distintivi e geniali di san Paolo, l'impulso di universalismo che presto sarebbe divenuto un elemento costitutivo della fede in Gesù Cristo. Un universalismo che, oltre a dare compimento alla missione che Gesù aveva affidato ai suoi discepoli, avrebbe definito l'orientamento innovatore del cristianesimo come religione che incorpora nel suo patrimonio culturale la sapienza pagana. Questa assimilazione culturale trasforma il cristianesimo, fin dai suoi inizi, in una religione diversa da qualsiasi altra:  poiché mentre le altre religioni stabiliscono che la loro identità si deve costituire negando l'eredità culturale che le precede, il cristianesimo comprese, grazie al genio paolino, che la vocazione universale della nuova fede esigeva di introdursi nelle strutture culturali, amministrative e giuridiche della sua epoca; non per sincretizzarsi con esse ma per trasformarle radicalmente dal di dentro. E questa illuminazione geniale di san Paolo - che senza dubbio fu illuminazione dello Spirito - deve servire da vigorosa ispirazione per noi cattolici di oggi, spesso tentati di arroccarci contro un mondo ostile.
San Paolo, nato a Tarso di Cilicia, in seno a una famiglia ebrea, fu anche cittadino romano; e questa condizione o status giuridico lo aiutò a comprendere che la vocazione di universalità del cristianesimo si sarebbe realizzata pienamente solo se fosse riuscita a introdursi nelle strutture dell'Impero padrone del mondo. Introdursi per beneficiare della sua vasta eredità culturale; introdursi, anche, per lavare dal di dentro la sua corruzione. Il cristianesimo non sarebbe riuscito a essere quello che in effetti fu se non avesse fatto proprie le lingue di Roma; e se non avesse adottato le sue leggi, per poi umanizzarle, fondando un diritto nuovo, penetrato dalla vertiginosa idea di redenzione personale che apporta il Vangelo. I cristiani avrebbero potuto accontentarsi di rimanere ai margini di Roma, come dei senza patria che celebrano i propri riti nella clandestinità. Addentrandosi nella bocca del lupo, armati solo della fiaccola della fede, rischiarono di perire tra le sue fauci; ma alla fine provocarono un incendio più duraturo dei monumenti di Roma.
Di quale potente lega era fabbricato quell'uomo che sconvolse per sempre il corso della storia? Sappiamo che nella formazione culturale di san Paolo si amalgamavano elementi ebraici e ellenistici. Possedeva una esauriente conoscenza della lingua greca, nutrita dalla Scrittura secondo la versione dei Settanta. Si distingueva però anche per una conoscenza affatto superficiale dei miti greci, come pure dei loro filosofi e poeti:  basta leggere il suo discorso nell'Areopago di Atene per renderci conto della sua solida cultura classica. E anche, naturalmente, del modus operandi della sua missione evangelizzatrice:  san Paolo inizia il suo discorso apportando riflessioni nelle quali pagani e cristiani potevano convergere, fondandosi anche su citazioni di filosofi; lo conclude però con l'annuncio del Giudizio Finale, pietra dello scandalo per i suoi ascoltatori - fra i quali, a quanto sappiamo, si contavano alcuni filosofi epicurei e stoici - che potevano accettare l'immortalità dell'anima, ma non la resurrezione della carne. Quel gruppo di filosofi probabilmente si sciolse prendendo san Paolo per matto; tuttavia, di ritorno a casa, mentre rimuginavano sulle parole che avevano appena ascoltato, forse riuscirono a scoprire che i principi sui quali si fondava il discorso di san Paolo si potevano cogliere attraverso la ragione. E questi principi assimilabili da un pagano che affiorano nel discorso dell'Areopago sono gli stessi che san Paolo incorpora nelle sue epistole:  la possibilità di conoscere Dio attraverso la sua Creazione, la presenza di una legge naturale iscritta nel cuore dell'uomo, la sottomissione alla volontà di Dio come frutto della nostra filiazione divina. Principi sui quali in seguito san Paolo erigeva il suo portentoso edificio cristologico. Mettiamoci nei panni di quei filosofi pagani che ascoltarono san Paolo. Come non sentirsi interpellati da una predicazione che univa, in un modo così misteriosamente soggiogante, principi che la ragione poteva accettare con tesi che esigevano il concorso di una nuova fede? Come non sentirsi interpellato da questo Mistero che rendeva congruente ciò che ascoltavano e ciò che la mera intelligenza non permetteva loro di penetrare? E, nel cercare di approfondire quel Mistero, come non aprirsi agli orizzonti inediti di libertà e di speranza di cui Cristo era portatore?
Così accadde allora; e il genio paolino ci insegna che può continuare ad accadere ora. A un patrizio romano come Filemone non doveva sembrare più strano concedere la libertà al suo schiavo Onesimo, accogliendolo come un "fratello carissimo" nel Signore, di quanto deve sembrare a un uomo del nostro tempo - ad esempio - aborrire l'aborto. Se il genio paolino riuscì a far sì che un patrizio romano rinunciasse al diritto di proprietà su un altro uomo che le leggi gli riconoscevano, perché noi non possiamo far sì che gli uomini della nostra epoca recuperino il concetto di sacralità della vita umana, per quanto le leggi della nostra epoca sembrino averlo dimenticato? Per farlo, dovremo usare parole che risultino intelligibili agli uomini del nostro tempo; e così riusciremo, come a suo tempo riuscì il genio paolino, a minare dal di dentro una cultura che si è allontanata da Dio, senza arroccarci contro di essa.
Dobbiamo tornare a predicare in questa società neopagana che Dio si è fatto uomo; non per innalzarsi su un trono, ma per partecipare ai limiti umani, per provare le stesse sofferenze degli uomini, per accompagnarli nel loro cammino terreno. E, facendosi uomo, Dio ha fatto sì che la vita umana, ogni vita umana, divenisse sacra. San Paolo riuscì a farsi capire dagli uomini del suo tempo; e così trasformò in realtà la missione insostituibile che noi cristiani abbiamo nel mondo, descritta con parole sublimi nella Lettera a Diogneto:  "Come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani (...) L'anima è racchiusa nel corpo, ma essa sostiene il corpo; anche i cristiani sono nel mondo come in una prigione, ma essi sostengono il mondo (...) Dio li ha messi in un posto tale che ad essi non è lecito abbandonare".
Arroccarsi contro il mondo equivale ad abbandonare il posto che Dio ci ha assegnato. Il genio paolino ci insegna che possiamo continuare a essere l'anima del mondo, senza rinunciare ai nostri principi e senza rinnegare la nostra essenza.



(©L'Osservatore Romano - 13 novembre 2008)
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