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Anno Paolino

Ultimo Aggiornamento: 12/11/2008 20:16
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A Damasco nei luoghi di Paolo

ROMA, mercoledì, 25 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito alcuni estratti del colloquio con Sua Beatitudine Gregorio III Laham, patriarca della Chiesa cattolica Greco-Melkita, apparso sulla primo numero della rivista “Paulus” .



* * *

Cè qualcuno che san Paolo ce l’ha nel DNA. Una vocazione scritta nel sangue e nello spirito, viene da dire. Questo qualcuno è Sua Beatitudine Gregorio III Laham, patriarca della Chiesa cattolica Greco-Melkita, che ci racconta come la sua vita sia stata segnata dall’Apostolo fin dal suo inizio. Anzi, prima ancora... «La mia appartenenza paolina – ci dice il Patriarca – è “viscerale” nel senso letterale del termine, perché comincia addirittura con la mia gestazione. Mia madre proveniva infatti da una località nota come “il monte degli arabi”, a 50 km da Damasco, in direzione di Amman. È il luogo dove Paolo fuggì dopo la persecuzione dei Giudei e che cita nella lettera ai Galati, quando afferma di essere andato in Arabia (Gal 1,17) prima ancora che a Gerusalemme: non si tratta dell’Arabia Saudita, ma di una zona desertica tra Damasco e la Giordania. Sono nato a Daraya, dove Paolo è stato convertito dall’incontro con il Signore, ma vivo a Damasco, l’unica città al di fuori della Terra Santa dove è apparso il Risorto. Il mio legame con l’Apostolo delle genti si è rafforzato ancora di più quando, alla mia ordinazione vescovile, il precedente patriarca Massimo V mi ha assegnato il titolo di vescovo di Tarso, per cui mi sento a tutti gli effetti il successore di Paolo. Tuttora continuo ad appartenergli perché la mia residenza si trova in quello che io amo chiamare il “quartiere paolino”, cioè quella zona dove sorge da un lato la casa di Anania e dall’altro la cappella dove Paolo ricevette il battesimo. Vivere in quel luogo è per me fondamentale, proprio perché vi ha operato Anania. E Anania è forse uno dei primi vescovi del mondo in senso moderno, prima ancora dello stesso Pietro, perché mentre Pietro era anche missionario e si spostava di frequente, Anania era fisso presso una sede precisa, proprio come un vescovo locale. Mi piace anche ricordare il 15 febbraio 1959, prima della mia ordinazione sacerdotale, quando mi sono raccolto in ritiro spirituale presso le Tre Fontane e poi alla prigione di san Paolo a Roma. Proprio ieri ho celebrato la divina liturgia nella Basilica di San Paolo fuori le Mura e ho pregato sulla tomba di san Paolo come patriarca e come suo successore. E mi sono commosso perché, 49 anni fa, vi avevo celebrato la mia prima divina liturgia».

[...] sul versante dell’ecumenismo il Patriarca coltiva il carisma dell’unità proprio del suo protettore, e ci racconta come si possa essere “costruttori di chiese” in senso spirituale e in senso materiale allo stesso tempo. «Un altro cantiere di lavori ancora aperto è la costruzione di una chiesa a Damasco. Nel frattempo, nel nostro piccolo villaggio abbiamo già costruito un’altra chiesa dedicata a san Paolo ed è stata inaugurata nel 2004. Si tratta di una vera rarità mondiale, una chiesa comune come solo lo spirito paolino poteva ispirarci: è una co-proprietà dei greco-ortodossi e dei greco-cattolici. Credo sia l’unico esemplare di co-proprietà tra cattolici e ortodossi. [...]».

Sul fronte delle iniziative per il bimillenario fervono i preparativi. È un’occasione unica per la Chiesa intera, ma in particolare per quanto resta – come un seme seminato a fondo – delle antichissime comunità cristiane fondate dall’Apostolo. «Per l’Anno Paolino sto pensando a diverse iniziative che si dovrebbero svolgere in tutto il Libano. Tra le tante cose, desideriamo produrre un film sulla vita di Paolo che ripercorra gli Atti degli Apostoli e le Lettere. Abbiamo già pronta la sceneggiatura – un testo di grande bellezza spirituale – e ora occorrono solo i fondi per girarlo. Stiamo anche cercando di rivitalizzare alcune località significative per le celebrazioni, anche se sono poco note. Ad esempio è degno di menzione Msimiè, posto a 50 minuti a sud di Damasco, dove Paolo trovò rifugio trattandosi di una regione romana: se fosse rimasto a Damasco, lo avrebbero ucciso. Ma restando nella geografia spirituale paolina del Medioriente, i due luoghi più importanti restano Damasco e Roma. Un altro luogo importante potrebbe essere Atene, ma essendo la Grecia di religione ortodossa non sappiamo quale potrebbe essere la risposta a un’iniziativa voluta dal Papa. Lo stesso discorso vale per la Turchia, che è musulmana. Damasco ha una maggioranza Ortodossa e in un primo momento non sembrava interessata all’iniziativa, ma ora che si è lasciata trascinare dal fervore dei cattolici ne è entusiasta. Oltre tutto Damasco, che è interamente musulmana, ora passa agli occhi dell’attenzione mondiale grazie alla sua sparuta minoranza cristiana. Questo offrirà l’occasione per far conoscere a tutti che anche nel mondo arabo, dove siamo una minoranza, si celebra un evento cristiano che testimonia la fede in Gesù Cristo e che incoraggia tutti i cristiani orientali. Così il nostro Presidente si è mostrato molto interessato e ha dato ordine ai ministri di rendersi disponibili nei confronti dei Patriarchi della Chiesa cattolica e ortodossa per l’Anno Paolino! Così sono a nostra disposizione anche il Ministro del Turismo, dell’Economia e delle Comunicazioni».

[...] la Chiesa senza Paolo sarebbe una Chiesa che non avrebbe voce. Questa voce ci dice che dev’esserci un papa nel mondo, e che la presenza dei cristiani nel mondo non può essere che forte. Ma la voce di Paolo ci ricorderà anche che il più grande ministero del Papa non è il primato, ma quello di confermare e fortificare i suoi fratelli. Abbiamo bisogno perciò di una voce cristiana unica nel mondo, che predichi l’annuncio fondamentale del vangelo senza scendere in quei particolarismi che finiscono per creare solo divisione. Ricordiamo sempre quello che disse Giovanni XXIII: “Quello che ci unisce è molto di più di quello che ci divide”».

Gregorio III Laham

Patriarca della

Chiesa cattolica Greco-Melkita

di Antiochia, di Gerusalemme

e di tutto l’Oriente

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Ecumenismo, Domenica Santa Messa concelebrata dal Papa e da Bartolomeo I

CITTA’ DEL VATICANO - Domenica prossima, 29 Giugno, solennita' dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, Benedetto XVI celebrera' la Messa, alle ore 9.30, nella Basilica vaticana, con la partecipazione del patriarca ecumenico Bartolomeo I. L’esponente ortodosso e il Santo Padre - informa la sala stampa della Santa Sede - terranno l'omelia, reciteranno insieme la professione di fede e impartiranno la benedizione. Concelebreranno con il Papa i nuovi arcivescovi metropoliti, ai quali il Pontefice imporra' il sacro Pallio preso dalla Confessione dell'apostolo Pietro.

Bartolomeo sara' presente anche il giorno precedente, 28 Giugno, quando Benedetto XVI presiedera' alle ore 18.00, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, la celebrazione dei primi Vespri in occasione dell'apertura dell'Anno Paolino. Insieme con il patriarca ecumenico, parteciperanno alla celebrazione anche i rappresentanti delle altre Chiese e Comunita' cristiane.

http://www.papanews.it/news.asp?IdNews=8242#a

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All'Angelus il Papa invita i fedeli a celebrare l'Anno paolino, che si aprirà sabato 28 giugno

Chi teme Dio
non ha paura


Il timore di Dio è "il principio della vera sapienza" che libera l'uomo dalle paure e dalle angosce. Lo ha detto il Papa all'Angelus di domenica 22 giugno, in piazza San Pietro. Benedetto xvi ha anche invitato i fedeli a celebrare l'Anno paolino, che si aprirà sabato 28.

Cari fratelli e sorelle,
nel Vangelo di questa domenica troviamo due inviti di Gesù:  da una parte "non temete gli uomini" e dall'altra "temete" Dio (cfr Mt 10, 26.28). Siamo così stimolati a riflettere sulla differenza che esiste tra le paure umane e il timore di Dio. La paura è una dimensione naturale della vita. Fin da piccoli si sperimentano forme di paura che si rivelano poi immaginarie e scompaiono; altre successivamente ne emergono, che hanno fondamenti precisi nella realtà:  queste devono essere affrontate e superate con l'impegno umano e con la fiducia in Dio. Ma vi è poi, oggi soprattutto, una forma di paura più profonda, di tipo esistenziale, che sconfina a volte nell'angoscia:  essa nasce da un senso di vuoto, legato a una certa cultura permeata da diffuso nichilismo teorico e pratico.
Di fronte all'ampio e diversificato panorama delle paure umane, la Parola di Dio è chiara:  chi "teme" Dio "non ha paura". Il timore di Dio, che le Scritture definiscono come "il principio della vera sapienza", coincide con la fede in Lui, con il sacro rispetto per la sua autorità sulla vita e sul mondo. Essere "senza timor di Dio" equivale a mettersi al suo posto, a sentirsi padroni del bene e del male, della vita e della morte. Invece chi teme Dio avverte in sé la sicurezza che ha il bambino in braccio a sua madre (cfr Sal 130, 2):  chi teme Dio è tranquillo anche in mezzo alle tempeste, perché Dio, come Gesù ci ha rivelato, è Padre pieno di misericordia e di bontà. Chi lo ama non ha paura:  "Nell'amore non c'è timore - scrive l'apostolo Giovanni - al contrario, l'amore perfetto scaccia il timore, perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell'amore" (1 Gv 4, 18). Il credente dunque non si spaventa dinanzi a nulla, perché sa di essere nelle mani di Dio, sa che il male e l'irrazionale non hanno l'ultima parola, ma unico Signore del mondo e della vita è Cristo, il Verbo di Dio incarnato, che ci ha amati sino a sacrificare se stesso, morendo sulla croce per la nostra salvezza.
Più cresciamo in questa intimità con Dio, impregnata di amore, più facilmente vinciamo ogni forma di paura. Nel brano evangelico odierno Gesù ripete più volte l'esortazione a non avere paura. Ci rassicura come fece con gli Apostoli, come fece con san Paolo apparendogli in visione una notte, in un momento particolarmente difficile della sua predicazione:  "Non aver paura - gli disse - perché io sono con te" (At 18, 9). Forte della presenza di Cristo e confortato dal suo amore, non temette nemmeno il martirio l'Apostolo delle genti, del quale ci apprestiamo a celebrare il bimillenario della nascita, con uno speciale anno giubilare. Possa questo grande evento spirituale e pastorale suscitare anche in noi una rinnovata fiducia in Gesù Cristo che ci chiama ad annunciare e testimoniare il suo Vangelo, senza nulla temere. Vi invito pertanto, cari fratelli e sorelle, a prepararvi a celebrare con fede l'Anno paolino che, a Dio piacendo, aprirò solennemente sabato prossimo, alle ore 18, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura, con la liturgia dei Primi Vespri della Solennità dei Santi Pietro e Paolo. Affidiamo sin d'ora questa grande iniziativa ecclesiale all'intercessione di san Paolo e di Maria Santissima, Regina degli Apostoli e Madre di Cristo, sorgente della nostra gioia e della nostra pace.


(©L'Osservatore Romano - 23-24 giugno 2008)

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A Damasco la nuova Cappella della Conversione edificata dalla Custodia di Terra Santa

Là dove Saulo divenne Paolo


di Michele Piccirillo

"Èda pellegrino che sono venuto oggi a Damasco per ravvivare la memoria dell'avvenimento che ebbe luogo qui, due mila anni fa:  la conversione di san Paolo. Mentre si reca a Damasco per combattere e imprigionare coloro che professano il nome di Cristo, giunto alle porte della città, Saulo fa l'esperienza di una straordinaria illuminazione. Lungo la via, Cristo risorto si presenta a lui e, sotto l'influsso di questo incontro, si produce in lui una profonda trasformazione:  da persecutore diventa apostolo, da oppositore del Vangelo, ne diviene grande missionario. La lettura degli Atti degli apostoli ricorda con abbondanza di particolari questo avvenimento che ha cambiato il corso della storia:  quest'uomo "è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai fìgli di Israele"".
È l'inizio del discorso che Papa Giovanni Paolo ii, pellegrino a Damasco, tenne nella cattedrale greco cattolica melchita il 6 maggio 2001. Dopo essere stato in Terra Santa e sul monte Sinai sulle tracce di Mosè e di Gesù, il Papa sentì la necessità di completare il pellegrinaggio del giubileo alle radici della fede e della Chiesa, sulle tracce dell'apostolo Paolo.
I dettagli topografici del racconto degli Atti degli apostoli al capitolo nono:  conversione alle porte della città; i tre giorni a Damasco nella casa di Giuda senza vedere e senza prendere cibo né bevanda; la visione di Anania invitato ad andare a battezzare Saulo nella casa di Giuda sulla strada chiamata Diritta; la fuga di notte dalla città calato in una cesta dalle mura; restarono nell'immaginario cristiano. Sant'Agostino, predicando in Africa sull'episodio della conversione diceva ai suoi fedeli:  "Oggi in quelle regioni anche gli stessi luoghi testimoniano ciò che era avvenuto, e ora lo si legge e lo si crede".
I luoghi più ricordati dai pellegrini sono quelli della conversione fuori le mura e la casa di Anania in città. Il Pellegrino di Piacenza nel sesto secolo nel suo Itinerario ricorda:  "Partimmo dalla Galilea e giungemmo a Damasco. Lì, al secondo miliario (fuori della città) c'è un monastero dove san Paolo si convertì". Nel 1217, Maestro Titmar, un pellegrino tedesco, tra le tante chiese di Damasco, ferma la sua attenzione su una chiesa bella e grande che i Greci costruirono nel passato dedicandola a san Paolo e che i saraceni convertirono in moschea. La chiesa, sarebbe stata costruita sulla casa di Anania confusa con quella di Giuda luogo del battesimo, come fu spiegato al francescano fra Nicolò da Poggibonsi nel 1345-1350:  "Andando per la strada di Damasco, dove si lavora il metallo, e volgendosi alla prima strada a parte sinistra, che si chiama la strada che si dipigne ivi il vetro, e ivi si è una grande chiesa, come il duomo di Siena, la quale fu fatta per li cristiani; ma ora i Saracini n'anno fatto loro moscheda. Ivi sta lo cadi, cioè il loro vescovo. E in questo luogo proprio il santo discepolo di Cristo, che a nome Anania, battezzò Saulo, mutandogli il nome Paulo".
Nella toponomastica della città ai pellegrini viene anche mostrata sulla via Diritta una moschea costruita sulla casa di Giuda e sulle mura il luogo della fuga nella cesta all'altezza di Bab Keisan che nel 1923 venne cambiata in chiesa greco cattolica melchita su progetto del conte Eustache de Lorey.
Lo stesso archeologo che nel 1921 aveva ritrovato parte della chiesa bizantina scavando all'esterno di una cappella costruita dai frati minori della Custodia di Terra Santa sul luogo tradizionale della Casa di Anania nei pressi della moschea ex chiesa nota agli abitanti di Damasco con il nome di al-Musallabeh.
Appena potettero i frati minori, che nelle prigioni della cittadella di Damasco avevano pagato il loro prezzo di sofferenze e di sangue per la cristianità - gettati in prigione ogni volta che in Europa si festeggiava una vittoria militare contro i mamelucchi di Egitto o contro i turchi ottomani! - costruirono un convento dedicato a san Paolo nel quartiere cristiano di Bab Tuma non lontano dalla Musallabeh.
Fuori le mura, nel quartiere Tabbaleh nei pressi della Porta Orientale (Bab esh-Sharqi) entrarono in possesso di un'area cimiteriale con al centro una grotticella venerata dai cristiani scavata nel conglomerato del terreno dell'oasi di Damasco. La notizia la conserva padre Francesco Quaresmi (1583-1656), nell'Elucidatio Terrae Sanctae pubblicato ad Anversa nel 1639:  "Nella zona meridionale di Damasco, da principio si vede nelle mura la porta della città che adesso è chiusa; per essa Paolo fu introdotto in città e per essa fu fatto scappare (...) Procedendo ulteriormente nella medesima strada vi sta un luogo dove tutti i Cristiani, Greci, Armeni, Siriani, Maroniti ecc. vengono spesso sepolti (...) E là furono sepolti tre Frati Minori uccisi dai Saraceni(...) Questo luogo dista circa un quarto di miglio e più dalla città.
Oltre alle tombe dei cristiani, sulla via c'è un agglomerato di piccoli sassi e di terra compattata:  dentro c'è una piccola grotta nella quale si dice che san Paolo si nascondesse e si riposasse per un po', quando calato dalla finestra dai fratelli fuggì dalla città verso Gerusalemme".
Padre Quaresmi, che resta il più illustre dei palestinologi francescani a giusto titolo considerato il caposcuola della palestinologia francescana, dopo aver passato in rassegna le quattro ipotesi di localizzazione del luogo della conversione di Paolo, giunse alla conclusione che quel tratto di strada conservato al centro del cimitero a circa un quarto di miglio dalle mura, fosse il luogo più conveniente per commemorarvi l'episodio:  "Prima di entrare in questa illustrissima città viene mostrato un luogo (...) in cui il Signore nostro Gesù Cristo fece che Paolo, persecutore della Chiesa, diventasse il predicatore della medesima (...) Del luogo preciso di cui si tratta(...) trovo quattro opinioni tra loro discordanti. Credo però che l'ultima opinione sia più conforme al luogo e alla regione (...) si vuole intendere che è più adatto e più comodo quello che è più vicino, che dista da Damasco mezzo miglio, a preferenza di quello più lontano che è di dodici o di sei o di due miglia".
Nel 1925 la Custodia di Terra Santa, accettando la conclusione di padre Quaresmi, costruì una cappella a est della grotticella venerata che fu protetta da una tettoia e circondata da una balaustra. Una icona all'interno e una lapide in marmo con testo in latino e in arabo posta su un semplice cippo di cemento ricordava ai passanti il santuario:  Traditionalis locus conversionis S. Pauli Apostoli.
Dopo la visita in Terra Santa di Papa Paolo vi nel 1964, su iniziativa vaticana, la cappella fu sostituita da un edificio sacro più imponente con vetrate istoriate e sculture di artisti italiani, che fu inaugurato nel 1971 con annesso ospizio per i pellegrini e ambulatorio per i poveri del quartiere divenendo il Memorial Saint Paul di Damasco. Nell'occasione, la tettoia sulla grotticella fu distrutta e sostituita con una struttura molto più semplice.
Prima di lasciare Damasco e ripartire per Roma, Papa Giovanni Paolo ii volle terminare il suo pellegrinaggio con una visita di preghiera proprio al Memoriale di San Paolo, dove fu ricevuto dal Custode di Terra Santa e dai confratelli della comunità francescana di Siria. Nelle parole di saluto rivolte ai presenti il Papa disse:  "Saluto i religiosi francescani della Custodia di Terra Santa, incaricati di gestire questa casa, e le religiose e i laici oggi presenti. Sono lieto di ricordare con voi l'Apostolo Paolo in questa casa voluta dal mio predecessore Papa Paolo vi per raccogliere il tesoro di fede, di spiritualità e di ardore missionario dell'Apostolo delle Genti che, sulla via di Damasco, ha accettato di accogliere la luce di Cristo (...) Possano le persone che beneficiano di questo spazio spirituale offerto da questa casa camminare ogni giorno sulle orme dell'Apostolo delle genti!".
Le condizioni di salute del Papa e il tempo non permisero una visita alla grotticella all'origine del santuario restata isolata nel giardino, mortificata e nascosta dalla imponenza della nuova chiesa.
Fu una occasione di ripensamento per i responsabili del santuario e in particolare per padre Romualdo Fernandez. Ne nacque l'idea di inserire la grotticella in uno spazio liturgico eliminando la pensilina coperta di tegole che negli anni aveva coperto ma non protetto sufficientemente l'interno dalle intemperie.
Con la cooperazione dei giovani architetti della missione archeologica del Monte Nebo iniziammo a preparare la documentazione e a discutere le possibili soluzioni. Finché nel 2005 il progetto fu affidato agli architetti Luigi Leoni e Chiara Rovati dello "Studio di Arte Sacra padre Costantino Ruggeri" di Pavia.
Il primo intervento ha riguardato il risanamento dell'area da infiltrazioni d'acqua causa principale del deterioramento della grotticella che, come aveva notato padre Quaresmi nel diciassettesimo secolo, era stata ricavata nel conglomerato naturale dell'oasi di Damasco. Da questo intervento si è imposta l'idea di inglobare la grotticella al centro della devozione dei fedeli in un nuovo spazio inserito nel verde del giardino circostante che potesse rispondere adeguatamente alla doppia finalità di protezione e di accoglienza anche di gruppi di fedeli desiderosi di celebrare liturgicamente il ricordo della conversione di Saulo.
Nelle parole entusiastiche degli architetti "si trattava in realtà di mettere in luce e valorizzare un luogo da sempre chiamato a celebrare un evento tanto caro al cuore di ogni cristiano di tutti i tempi e di tutte le latitudini, che vede nell'Apostolo delle genti un grande testimone delle meraviglie che Dio in Gesù Cristo compie nell'animo di ogni uomo rinato alla grazia dello Spirito Santo.
Si trattava di aprire la grotta, un tempo raggiungibile attraverso spazi inadeguati e disadorni, ad un canto di luce e di gioia perché ogni pellegrino che vi giunge senta quanto è grande l'amore del Dio".
Immediatamente davanti alla grotta è stato ricavato, dalla quota inferiore fino al piano del giardino, un anfiteatro a gradoni per permettere di vivere momenti celebrativi.
L'involucro esterno è stato pensato con semplicità e purezza di linee, con murature in pietra a vista all'esterno legate con malta di calce, la cui composizione è stata studiata con attenzione affinché potesse armonizzarsi nel colore e nella fattura con le pietre naturali.
La copertura è stata progettata con uno stacco visivo dalla muratura grazie alla creazione di una fascia continua di vetrate che danno luminosità allo spazio interno.
Per quanto riguarda il restauro della grotta originaria in conglomerato roccioso, è stato rimosso lo zoccolo in calcestruzzo e si è proceduto al consolidamento delle pareti laterali con pietre a spacco, mentre la volta è stata ripulita mediante idropulitura dalle incrostazioni dovute all'inquinamento e rinforzata con un arco di contenimento.
La parte superiore della roccia, corrispondente al tratto superstite della strada antica, mai coperta dalla pensilina, risulta ora protetta dalle intemperie e non più soggetta alle infiltrazioni d'acqua.
La grotticella con un nuovo pavimento lastricato in pietra è così diventata il presbiterio della nuova cappella. L'altare, l'ambone e il seggio del presidente e dei concelebranti sono stati realizzati in masselli di pietra calcarea di colore chiaro proveniente dalle cave vicine alla città.
Sulla parete di fondo della grotta è stata collocata la scultura in marmo bianco di Carrara raffigurante la conversione di san Paolo che precedentemente decorava un altare nella chiesa francescana di Bab Touma all'interno delle mura.
L'ultimo problema ha riguardato la visibilità della nuova cappella e il raccordo con la chiesa esistente senza stravolgere quanto fatto negli anni Sessanta.
L'abbiamo risolto con un percorso, una strada, in ricordo di quella percorsa da Saulo per giungere a Damasco, con partenza sul lato settentrionale della facciata della chiesa, accompagnata da monoliti in pietra calcarea che delimitano e indicano il percorso da seguire per giungere alla grotticella. La strada selciata con blocchi di basalto del Hauran nell'Arabia dove Saulo diventato Paolo passerà i primi tre anni dalla conversione prima di iniziare la sua missione, guiderà il pellegrino allo slargo nel giardino sul retro tra i due spazi sacri. Al centro dello slargo il raccordo tra i due edifici sarà affidato ad un masso con la raffigurazione della caduta di Saulo sulla via di Damasco. Della realizzazione di quest'opera e dei motivi che decorano gli altri quattro monoliti che affiancano la strada, si è incaricato lo scultore Vincenzo Bianchi di Isola di Liri. L'opera appena abbozzata vorrà essere una resa dell'avvenimento e insieme un omaggio agli artisti ciociari che, come Umberto Mastroianni, hanno espresso e cantato la forza dirompente delle energie che cambiano il mondo, non ultima quella che sulla via di Damasco fece di Saulo l'apostolo del messaggio rivoluzionario di Cristo.
L'episodio fondante della conversione sarà ricordato anche dalle parole del testo del capitolo nono degli Atti degli apostoli scolpito in arabo, in latino e in greco, sulla parete in travertino della chiesa che potrà essere letto dai pellegrini una volta imboccata la strada del santuario.

(C) Osservastore Romano

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Rimpianto per il “Paolo” di Pasolini

ROMA, venerdì, 27 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito ampi estratti dell'articolo scritto da don Attilio Monge, già responsabile del settimanale Orizzonti, del Giornalino e poi della Sampaolofilm, e apparso sulla primo numero della rivista “Paulus” .

* * *

Se, come credo, anche i santi alla fine della vita nutrono rimpianti, so per certo che don Giacomo Alberione, ora beato, fondatore della Società San Paolo, Congregazione religiosa che si dedica ai mezzi moderni di comunicazione e quindi anche al cinema, alla sera della vita ha avuto il rammarico di non aver realizzato un film su Paolo, l’apostolo che ha ispirato la sua grande opera. Negli scaffali della Sampaolofilm, con le numerose sceneggiature dei film e documentari biblici o religiosi portati a compimento negli anni ’39-’80, vi sono almeno quattro copioni di autori diversi, mai realizzati, che riguardano la vita di san Paolo. Risalta una sceneggiatura, brossurata con copertina marrone, dal titolo San Paolo di Pier Paolo Pasolini e con il sottotitolo “Appunti per un direttore di produzione”.

Siamo nel 1967 e don Alberione, avviato purtroppo sul viale del tramonto, seppe dell’esistenza del progetto, e sperò di vederne la realizzazione. Chi ne scrive fu l’incaricato principale del programma e certamente – lui sì – si porterà per sempre il rammarico, non la colpa, di non aver realizzato il film di Pasolini. Ma la storia, come vedremo, non è semplice. Nel settembre del 1967 approdo alla Sampaolofilm per affiancarne il direttore, don Emilio Cordero, e sostituirlo due anni dopo. Il mio compito è di seguire la produzione cinematografica. Nasce in quei mesi il progetto Pasolini: a commissionarne la sceneggiatura fu don Cordero, regista di documentari religiosi e del primo film italiano a colori Mater Dei del 1954, film che Pasolini, in seguito, confesserà di aver visionato più volte per Il Vangelo secondo Matteo. Fu il successo di questo film di Pasolini, nonostante alcune resistenze cattoliche, a far pensare a lui per una vita di san Paolo.

[...] Pasolini dedicò i primi mesi del 1968 a scrivere gli appunti su san Paolo e venne due o tre volte a parlarne alla Sampaolofilm: da subito ebbe l’idea della trasposizione di Paolo nei tempi moderni. «L’idea poetica – spiega egli stesso nell’introduzione – che dovrebbe diventare il filo conduttore del film, e anche la sua novità, consiste nel trasporre l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, di rimpiazzare cioè i luoghi antichi del potere e della cultura civile e religiosa con Parigi, Londra, Roma, New York». Abbiamo sorriso, leggendo con lui gli appunti, dove Efeso (la caotica città dell’Asia Minore con tante contraddizioni di attività e di razze, ma fra le più amate da Paolo) era diventata la Napoli moderna. Quando il 4 aprile 1968 giunse la notizia dell’uccisione di Martin Luther King, Pasolini fu così colpito che decise di addebitargli la parte del martirio di Paolo, facendo morire l’Apostolo – non già nel traffico di una metropoli, com’era nella prima stesura – ma come Martin Luther King, ucciso da due colpi di fucile sul ballatoio di un alberghetto di New Jork dove si era affacciato dopo aver scritto la lettera-testamento: «Quanto a me è ormai giunta l’ora di offrire la mia vita come sacrificio a Dio. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato lacorsa, ho mantenuto la fede. Ora mi aspetto il premio...» (2Tm 4,6-8).

A fine giugno 1968, alla Sampaolofilm di via Portuense, Pasolini, alla presenza di cinquesei persone, presentò il suo abbozzo di sceneggiatura; devo dire, senza molto calore, aggiungendo con mia sorpresa: «Questo film non sarà un successo commerciale, perché non vi sono donne...». Il direttore don Cordero si affrettò a far notare che, invece, accanto a san Paolo scorrono molti volti femminili, e citò la lettera ai Romani dove troviamo un elenco di donne da salutare, come Lidia, Giulia, la carissima Pérside, Febe nostra sorella, ecc.

[...] Non so quante volte, dopo quell’incontro, ho riletto la sceneggiatura e le note che l’anticipano, sempre attuali, anche ora in occasione dell’Anno Paolino. Dopo aver assicurato che «nessuna delle parole pronunciate da Paolo nel dialogo del film sarà inventata o ricostruita per analogia», egli spiega le ragioni per cui voleva trasporre la sua vicenda ai nostri giorni e cioè «per dare cinematograficamente nel modo più diretto e violento l’impressione e la convinzione della sua
attualità. Per dire insomma esplicitamente, e senza neanche costringerlo a pensare, allo spettatore, che “san Paolo è qui, oggi, fra noi” e lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia».

Il rammarico della Sampaolofilm Rileggendo gli appunti a distanza di quarant’anni, cresce il rammarico per la Sampaolofilm di non averli tradotti in film. Ma i motivi sono tanti... Nonostante la carta d’identità de Il Vangelo secondo Matteo, in campo cattolico la figura di Pasolini, per altri film successivi, e per alcuni episodi di cronaca, non era bene accetta. [...] proprio in quei mesi intervenne un fatto che scatenò – e qui posso in parte essere d’accordo – la critica cattolica. Era uscito Teorema e il film, come molte delle altre opere di Pasolini, fece scandalo e il soggetto venne attaccato come osceno da una parte dei cattolici, mentre l’ala più progressista lo esaltò al punto da attribuirgli il premio dell’OCIC (Office catholique international du cinéma).

Era il secondo Oscar cattolico che Pasolini riceveva, ma certamente non condiviso da molti come per Il Vangelo secondo Matteo. Aumentarono le opposizioni al progetto San Paolo. Il direttore della Sampaolofilm e il sottoscritto, che faceva parte della commissione nazionale valutazione film della Conferenza Episcopale Italiana a cui partecipavano, spesso, anche membri di dicasteri vaticani, fummo più volte invitati a riflettere bene prima di affidare il film a un regista così discusso.

Pasolini, quando allo scadere del semestre gli comunicammo la notizia che la Sampaolofilm rinunciava alla realizzazione, non fu sorpreso più di tanto, quasi lo aspettasse. Sapeva delle critiche che ci avevano assediato. [...] Trascorsero più anni, sette per la precisione, con qualche furtivo contatto con il regista. A fine settembre del 1975 Pasolini mi chiamò al telefono per raccomandarmi la distribuzione, nel circuito Sampaolofilm, di un documentario religioso Passione di una sua amica regista, Elsa De’ Giorgi. Ne approfittai per riaprire il discorso sul film San Paolo e parlammo a lungo di un’ipotesi televisiva. Quando lo assicurai che i tempi erano cambiati in meglio, ci fu un lungo silenzio dall’altra parte, poi Pasolini concluse: «Anche se la minestra riscaldata non mi è mai piaciuta, non escludo nulla: parliamone. Chiamerò fra qualche settimana...».

Non ci saremmo più incontrati. Qualche settimana dopo, il 2 novembre, apprendendo della sua tragica morte, lessi che, andando a Ostia incontro alla morte, Pasolini con il giovane che l’avrebbe ucciso si fermò per una pizza in una trattoria a meno di cento metri dalla Basilica di San Paolo fuori le Mura. Ho pensato: quella notte il suo sguardo si sarà posato sulla basilica e, passando poi accanto, gli sarà venuto in mente il film su san Paolo che l’aveva impegnato per mesi? Avrei voluto, due giorni dopo, partecipare ai suoi funerali e recitare una preghiera; ma arrivando a Campo de’ Fiori, dove lo scrittore Alberto Moravia teneva la commemorazione, mi sono imbattuto in troppi pugni alzati e troppo chiasso.

Mi ha poi consolato apprendere dall’amico padre David Maria Turoldo, suo conterraneo, che era andato a Casarsa in Friuli. E nel piccolo cimitero aveva benedetto la bara di Pasolini mentre la calavano nell’abbraccio della sua terra nativa. E assieme, Turoldo ed io, ci siamo scambiati la speranza che, sulla soglia dell’aldilà, lo attendesse l’abbraccio misericordioso dei due protagonisti dei suoi migliori film: Il Vangelo secondo Matteo e l’incompiuto Paolo.
AttilioMonge

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40° Video - San Paolo - Apostolo delle genti
Dal 28 giugno 2008 al 29 giugno 2009:
tanto durerà l'Anno Paolino

Per la celebrazione dell'anno paolino

O Dio, nostro Signore e Padre,
per intercessione di san Paolo apostolo
noi ti preghiamo.

Santifica le nostre famiglie
e fa' di esse autentici focolari
di educazione alla vita cristiana.
Accendi nel cuore di tanti giovani
il desiderio di servirti come Paolo
diffondendo il santo Vangelo.

Manda alla tua Chiesa
numerosi e santi sacerdoti,
testimoni credibili del tuo amore.
Fa' che la nostra Chiesa
in questo anno dedicato a san Paolo
cresca nell'amore a Te e ai fratelli.
Amen!

+ Arc. Carlo Ghidelli


Preghiere a san Paolo del Beato
Giacomo Alberione

Preghiere a san Paolo

Beatissimo Paolo, prega per noi
Tu, che hai conseguito la misericordia di Dio, prega per noi
Tu, in cui si è rivelato il Figlio di Dio, prega per noi
Tu, che fosti vaso di elezione per Cristo, prega per noi
Tu, che sei stato posto quale predicatore,
apostolo e dottore delle genti nella verità, prega per noi
Tu, il cui apostolato fu confermato
da prodigi portenti, prega per noi
Tu, che fosti fedelissimo ministro della Chiesa, prega per noi
Tu, che hai dato ai popoli
il Vangelo di Cristo la tua vita, prega per noi
Tu, che portavi i cristiani
nel tuo cuore nelle tue catene, prega per noi
Tu, che fosti crocifisso con Cristo, prega per noi
Tu, in cui viveva e operava Cristo, prega per noi
Tu, che non potevi venir separato
dalla carità di Cristo, prega per noi
Tu, che hai sopportato prigionia e travagli, prega per noi
Tu, che hai sofferto ferite e pericoli, prega per noi
Tu che, vivente ancora,
fosti rapito fino al Paradiso, prega per noi
Tu, che hai glorificato il tuo ministero, prega per noi
Tu che, consumata la tua missione,
aspettasti la corona di gloria prega per noi

Agnello di Dio,
che hai convertito Paolo persecutore, usaci misericordia
Agnello di Dio,
che hai coronato Paolo apostolo, ascoltaci
Agnello di Dio,
che hai glorificato Paolo martire, abbi pietà di noi

V. Tu sei strumento eletto, o san Paolo apostolo.
R. Predicatore della verità nel mondo intero.

Preghiamo - Signore, nostro Dio, che hai scelto l''apostolo Paolo per
diffondere il tuo Vangelo, fa' che ogni uomo sia illuminato dalla fede che
egli annunziò davanti ai re e alle nazioni, e la tua Chiesa si manifesti
sempre come madre e maestra dei popoli.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Preghiere a san Paolo

del Beato Giacomo Alberione (1884-1971)
fondatore della Famiglia Paolina

Supplica universale

Preghiera che il Beato Giacomo Alberione nel 1944, rivolge a San Paolo
come "supplica universale" per le necessità spirituali e apostoliche dei suoi
"figli e discepoli". Essa è intessuta di riferimenti alle lettere paoline.

O santo Apostolo,
che con la tua dottrina e la tua carità
hai ammaestrato il mondo intero,
volgi lo sguardo sopra di noi,
tuoi figli e discepoli.
Tutto aspettiamo dalla tua preghiera
presso il Maestro divino
e presso Maria, Regina degli Apostoli.
Fa', o Dottore delle genti,
che viviamo di fede,
che ci salviamo per la speranza,
che sola regni in noi la carità.
Ottienici, o Vaso di elezione,
docile corrispondenza alla grazia divina,
affinché essa in noi non rimanga infruttuosa.
Fa' che possiamo sempre meglio conoscerti, amarti, imitarti;
che siamo le membra vive della Chiesa,
corpo mistico di Gesù Cristo.
Suscita molti e santi apostoli. Passi sul mondo
il caldo soffio della vera carità.
Fa' che tutti conoscano e glorifichino
Iddio e il Maestro divino, Via e Verità e Vita.
E tu, o Signore Gesù, che conosci

Inno a San Paolo -- Apostolo delle genti
(Mons. Marco Frisina)

1. A te, Paolo, noi cantiamo
ripercorrendo il tuo cammino,
annunciando il Vangelo,
speranza e gioia per il mondo.

Tu, chiamato dal Signore
ad annunciare la salvezza
predicando alle genti
la Croce di Cristo, nostra gioia.

Apostolo delle genti,
apostolo della grazia,
con te noi cammineremo
testimoniando il Vangelo,
portando al mondo l'annuncio
di Cristo Salvatore.

2. Testimone del Risorto,
a lui donasti la tua vita,
nella forza dello Spirito
portasti l'annuncio dell'amore.

Tu, Apostolo di Cristo,
hai seminato la Parola,
con la grazia della fede
formasti la Chiesa del Signore.

Apostolo delle genti,
apostolo della grazia,
con te noi cammineremo
testimoniando il Vangelo,
portando al mondo l'annuncio
di Cristo Salvatore.

3. La missione che hai compiuto
nel tuo martirio hai suggellato,
la tua corsa hai concluso
e hai meritato la vittoria.
I tuoi passi percorriamo
seguendo insieme il Signore;
la potenza del Vangelo
sostenga la Chiesa in mezzo al mondo.

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L'enigma di Damasco

Cosa avvenne davvero su quella strada


di Romano Penna

Come di molti personaggi dell'antichità, non conosciamo l'anno esatto della nascita di Paolo, e tanto meno quello della morte. Però tutta una serie di dati sicuri e di vari indizi ci permette di fissarne con buona approssimazione sia gli estremi sia le tappe intermedie.
Quando scrive il biglietto a Filemone, probabilmente nell'anno 54 (o, secondo una cronologia più bassa, verso il 62), egli si dichiara "vecchio", in greco presbùtes (Filemone, 9); e quando Luca negli Atti degli Apostoli narra della lapidazione di Stefano all'inizio degli anni Trenta, annota anche la presenza di Saulo che viene qualificato come "giovane", in greco neanìas (Atti, 7, 58). Le due denominazioni sono evidentemente generiche, ma, secondo i computi antichi sull'età dell'uomo, la prima dovrebbe indicare grosso modo uno attorno alla sessantina e la seconda uno attorno alla trentina. Ne deduciamo che egli dovette nascere negli ultimi anni dell'era precristiana ed essere quindi di pochi anni più giovane di Gesù.
Nato a Tarso in Cilicia (cfr Atti, 22, 3) come ebreo della diaspora di lingua greca e con un nome latino (cambiato per assonanza da Saulo in Paolo), per di più insignito della cittadinanza romana (cf Atti, 22, 25-28), egli appare collocato sulla frontiera di tre culture diverse e forse anche per questo disponibile a feconde aperture universalistiche, come si rivelerà in seguito. Forse derivandolo dal padre, egli apprese anche un lavoro manuale consistente nel mestiere di skenopoiòs, letteralmente "fabbricatore di tende" (cfr Atti, 18, 3), probabilmente lavoratore della lana ruvida di capra per farne stuoie o tende, forse per uso militare ma soprattutto privato (cfr Atti, 20, 33-35).
Del resto, nell'antichità Tarso era famosa per la lavorazione tessile specialmente del lino (cfr Dione di Prusa, Discorsi, 34, 21), tanto che alcuni papiri testimoniano l'aggettivo tarsikàrios per indicare un tessitore di lino. Verso i 12-13 anni, l'età in cui il ragazzo ebreo diventa bar mitzvà ("figlio del precetto"), Paolo lasciò Tarso e si trasferì a Gerusalemme per essere educato ai piedi di Rabbi Gamaliele il Vecchio secondo le più rigide norme del fariseismo (cfr Galati, 1, 14; Filippesi, 3, 5-6; Atti, 22, 3; 23, 6; 26, 5), imbevendosi di un grande zelo per la Toràh mosaica.
È sulle basi di una forte ortodossia religiosa, là acquisita, che egli intravide nel nuovo movimento che si richiamava a Gesù di Nazaret un grande rischio per l'identità giudaica. Da una parte, Paolo aveva conosciuto la forte critica di Stefano al Tempio di Gerusalemme (cfr Atti, 6, 14; 7, 47-50). Dall'altra, egli non poteva ammettere un Messia crocifisso, che si doveva ritenere soltanto scandalo e maledizione (cfr 1 Corinzi, 1, 23; Galati, 3, 13); se poi questi era ormai positivamente collegato con gli ignoranti della Legge (gli cammê ha-'aretz) e persino con i peccatori così che per essere giusti davanti a Dio bisognava credere in Gesù, allora la Torah finiva per non essere più né sufficiente né tanto meno necessaria. Ciò spiega il fatto che egli abbia fieramente "perseguitato la chiesa di Dio", come per tre volte ammetterà nelle sue lettere (1 Corinzi, 15, 9; Galati, 1, 13, Filippesi, 3, 6).
Peraltro è difficile immaginarsi concretamente in che cosa consistesse questa persecuzione. Per esempio, ciò che scrive Luca in Atti 9, 1-2 ("Saulo, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne seguaci della Via") fa difficoltà a combaciare con i dati storici, come rilevano i commentatori. Infatti, sotto i procuratori romani il Sinedrio non aveva giurisdizione fuori della terra d'Israele né Paolo poteva godere di un mandato ufficiale senza essere membro del Sinedrio stesso. Si ipotizza perciò che egli sia stato semplicemente inviato a Damasco da una sinagoga di Giudei "ellenisti" di Gerusalemme, forse con una lettera di raccomandazione da parte del sommo sacerdote, per mettere in guardia le sinagoghe locali contro il pericolo della nuova eresia ed esortarle a prendere misure adeguate, anche severe.
Certo è che proprio sulla strada di Damasco, all'inizio degli anni Trenta, forse nel 32, si verificò il momento decisivo della vita di Paolo. Là avvenne una svolta, anzi un capovolgimento di valori. Allora egli, inaspettatamente, cominciò a considerare "danno" e "spazzatura" tutto ciò che prima costituiva per lui il massimo ideale, la ragion d'essere della sua esistenza (cfr Filippesi, 3, 7-8). Che cos'era successo? Abbiamo a questo proposito due tipi di fonti. Il primo tipo, il più popolare, sono i racconti dovuti alla penna di Luca, che per ben tre volte narra l'evento (cfr Atti, 9, 1-19; 22, 3-21; 26, 4-23), indugiando su alcuni dettagli pittoreschi, come la luce dal cielo, la caduta a terra, una voce che chiama, la nuova condizione di cecità, e la sua guarigione come di squame tolte dagli occhi, il digiuno. È difficile che ci sia Paolo in persona all'origine di queste narrazioni, sia perché egli non ne parla mai in questi termini, sia perché in Galati, 1, 13 rimanda i suoi lettori a qualcosa di sentito dire.
Perciò è ben possibile che Luca abbia utilizzato un racconto nato probabilmente nella comunità di Damasco (si pensi al colorito locale dato dalla presenza di Ananìa e dai nomi sia della via sia del proprietario della casa in cui Paolo soggiorna:  Atti, 9, 11), la quale compose in un primo tempo un racconto di conversione che metteva in rilievo la straordinaria trasformazione avvenuta nell'ex persecutore e che divenne poi anche il racconto della vocazione di un nuovo evangelizzatore.
Il secondo tipo di fonti è quello più "autentico", in quanto consiste nella testimonianza del diretto interessato, e sono le lettere di Paolo stesso. Più volte infatti egli fa riferimento a quella straodinaria esperienza, e si tratta sempre di accenni molto brevi, non descrittivi, che puntano soltanto al senso di ciò che allora avvenne (cfr Romani, 1, 5:  "mediante Cristo Gesù ricevemmo la grazia dell'apostolato"; 1 Corinzi, 9, 1:  "non ho io visto Gesù, il Signore nostro?"; 1 Corinzi, 15, 8:  "ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto"; 2 Corinzi, 4, 6:  "Dio che disse "Rifulga la luce dalle tenebre" rifulse nei nostri cuori per far risplendere la conoscenza della gloria divina che brilla sul volto di Cristo"; Filippesi, 3, 7:  "ciò che per me era un guadagno lo stimai una perdita a motivo di Cristo"); il testo più diffuso si legge in Galati, 1, 15-16:  "Quando a Dio, che mi mise a parte fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, piacque di rivelare il Figlio suo in me, perché lo annunziassi fra le genti, immediatamente non consultai carne o sangue né salii a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, ma mi recai in Arabia e poi tornai a Damasco". Come si vede, in tutti questi passi egli non indulge a dettagli narrativi, ma interpreta sempre quel momento non tanto come un fatto di conversione, poiché non ne impiega mai il lessico specifico (con i verbi metanoèin-epistrèfein e derivati), quanto come fondamento del suo apostolato, come incarico di evangelizzazione, e quindi come un evento di missione (con un lessico di visione, apparizione, rivelazione, illuminazione).
Ci si può chiedere come spiegarsi il cambiamento verificatosi in Paolo sulla strada di Damasco. Nel clima romantico dell'Ottocento si preferiva ricorrere allo schema dell'uomo tormentato, che finalmente trova una via d'uscita alle proprie angosce adottando una soluzione estrema. Per fare questo si interpretava in senso autobiografico ciò che si legge in Romani, 7, 7-25, dove Paolo parla alla prima persona singolare:  "Io non faccio quello che voglio, ma quello che detesto... Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra" (vv.15.22.23).
Senonché, l'esegesi odierna di questa pagina paolina è molto più guardinga e dubbiosa, sia perché il testo è scritto al presente (quindi letteralmente dovrebbe riferirsi non al passato anteriore alla conversione), sia perché il passo appartiene non a un contesto autobiografico bensì a una riflessione di principio sul valore della Legge (sicché l'Io può benissimo spiegarsi con la figura retorica della enallage così da includere una esperienza universale), sia perché in un altro passo sicuramente autobiografico Paolo dice al contrario di essere stato "irreprensibile quanto alla Legge" (Filippesi, 3, 6:  qui emerge addirittura la fierezza e la gioia di una identità giudaica vissuta in pienezza come "un guadagno"). Si può sempre pensare che quanto egli scrive in Romani, 7, 7-25 rappresenti semplicemente la coscientizzazione successiva (cristiana) di un vecchio conflitto inconscio nei confronti della Legge, mentre Filippesi, 3, 4-6 rappresenterebbe soltanto la tipica coscienza del Paolo precristiano.
Ma le cose sono più complesse. Le testimonianze personali di Paolo sull'evento di Damasco sono costantemente incentrate sulla precisa figura di Gesù Cristo. Egli non parla d'altro, al punto da confessare persino di essere stato "ghermito da Cristo Gesù" (Filippesi, 3, 12). Si trattò dunque essenzialmente di un incontro di "persone", mentre invece i concetti, le "idee", pur implicite, giocarono un ruolo secondario. Egli vide la gloria di Dio brillare sul volto di Cristo (cfr 2 Corinzi, 4, 6). Da questo punto di vista, l'esperienza di Paolo si deve spiegare anche in riferimento a certe categorie della mistica giudaica della merkavàh, cioè del "carro", che affonda le sue radici nella visione del primo capitolo di Ezechiele. Là il profeta dice di aver visto un carro trainato da quattro esseri viventi "e su questa specie di trono, in alto, una figura dalle sembianze umane (...) Tale mi apparve l'aspetto della gloria del Signore" (1, 26.28):  qui, cioè, si osa associare la gloria celeste di Dio a un essere umano, sia pur indeterminato, e ciò spiega le riserve del rabbinismo su questa pagina.
In ogni caso, non si può trascurare la dimensione psicologica dell'esperienza di Paolo, spesso trattata in termini di allucinazione (benché di norma agli storici e ai teologi manchino gli studi in materia di psicologia, così come gli psicologi sono perlopiù digiuni di tecniche storiografiche e di teologia). Uno studio di pochi anni fa cerca di fare chiarezza in materia, sia distinguendo tra allucinazione e illusione, in quanto esse non vanno identificate, sia precisando onestamente che la non oggettività del fenomeno (visione, udito, odorato, tatto) riguarda solo l'osservatore esterno ma non il soggetto che ne fa esperienza, e sia badando anche ai condizionamenti socioculturali del soggetto interessato.
Quanto a Paolo, va preso atto che le sue dichiarazioni sull'evento sono rare (non in tutte le lettere) e molto sobrie (prive di descrizioni); in più, bisogna constatare che egli non adduce mai di fronte ai propri interlocutori l'esperienza da lui vissuta per fondare su di essa la propria autorità, né per garantire una qualche tesi teologica, né per rafforzare una qualche presa di posizione disciplinare; anzi, semmai, succede esattamente il contrario.
Occorre perciò guardarsi dal giudicare l'evento della strada di Damasco con le categorie della psicopatologia. L'unico dato sicuro sul piano della fattualità storica, detto in termini junghiani, è che esso ha avuto una funzione prospettica tale da determinare il resto della vita di Paolo, e da farlo in modo del tutto positivo e fecondo:  là egli ha fatto esperienza di un incontro e ha maturato una convinzione che ha ribaltato la sua esistenza, sia resettando l'intero suo patrimonio ideale sia riorientando le sue energie verso un nuovo scopo.



(©L'Osservatore Romano - 29 giugno 2008)

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Numerosi incontri hanno caratterizzato il calendario degli eventi a Tarso

Tutte le confessioni cristiane
in Turchia per l'Anno paolino


di Egidio Picucci

A Tarso si parla ancora della suggestiva apertura dell'Anno paolino, avvenuta nei giorni scorsi sul sagrato della chiesa bizantina che la città ha dedicato a Paolo, il suo figlio più illustre.
Se ne parla non perché la gente conosce la vita e l'attività dell'apostolo, ma perché nella lunga storia della città non aveva mai visto una presenza così numerosa di rappresentanti di tutte le confessioni cristiane e delle varie fedi religiose professate in Turchia. Ciò che a Istanbul è normale, a Tarso ha fatto storia, anche perché alla liturgia della parola ha partecipato un gran numero di pellegrini italiani, tedeschi e iracheni.
Tarso è il luogo dove l'apostolo Paolo vide la luce. Qui, in Turchia si trova il punto centrale della sua attività. Seleucia, Iconio, Listra, Derbe, Efeso, Mileto, Perge, Troade:  è da qui che Paolo iniziò i suoi viaggi missionari. Paolo è il più illustre figlio di Tarso. Il messaggio di Paolo è ancora oggi vivo e valido. Le sue lettere sono usate durante le liturgie cristiane in ogni parte del mondo e sono studiate in tutte le accademie teologiche.
Lo svolgimento del rito è stato semplice:  lettura della conversione di Paolo sulla via di Damasco, presa dagli Atti, e del brano della Lettera ai Romani in cui si dice di "non rendere a nessuno male per male"; discorso del vicario apostolico di Anatolia, monsignor Luigi Padovese; preghiera dei fedeli in varie lingue; preghiere fatte da ortodossi armeni, siriaci e protestanti; recita della preghiera semplice attribuita a san Francesco e preghiera conclusiva del cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l'Unità dei Cristiani.
Il rito si è svolto alla presenza del nunzio apostolico in Turchia e in Turkmenistan, arcivescovo Luigi Antonio Lucibello; di monsignor Ruggero Franceschini, arcivescovo di Izmir; di monsignor Giuseppe Germano Bernardini, arcivescovo emerito di Izmir; di monsignor Georges Khazzoum, vescovo coadiutore degli Armeni di Turchia; di monsignor Louis Pelâtre, vicario apostolico di Istanbul; del corepiscopo monsignor Yusuf Sa, vicario patriarcale dei siro-cattolici di Turchia; di monsignor François Yakan, vicario patriarcale dei siro-caldei di Turchia, e di monsignor Elpidophoros Lambriniadis, primo segretario del Patriarca ecumenico Bartolomeo I.
Alla cerimonia religiosa ha fatto seguito la manifestazione civile nella piazza accanto al St. Paul kuiusu ("pozzo di san Paolo"), cosiddetto perché pare si trovasse nel quartiere ebraico in cui nacque Paolo. È l'unico ricordo dei tempi dell'apostolo. Molto applauditi i due cori che si sono esibiti sul palcoscenico, sia quello di musica classica, proveniente da Mersin, sia il Coro delle civiltà di Antiochia, composto da cattolici, ortodossi, ebrei, protestanti e aloiti tutti vestiti di bianco.
Il calendario prevede una celebrazione a Tarso con ottanta diaconi il prossimo 24 agosto; il pellegrinaggio della Pontificia università Gregoriana il 9 settembre; una visita della Conferenza episcopale tedesca il 2 ottobre; la presenza di monsignor Ludwig Schick, arcivescovo di Bamberg, e altre manifestazioni locali.
"L'anno dedicato a Paolo - hanno scritto i vescovi della Conferenza episcopale turca - invita i cattolici a intensificare il dialogo con il mondo musulmano:  il dialogo della vita, dove si vive e si condivide; il dialogo delle opere, dove cristiani e musulmani agiscono insieme in vista dello sviluppo integrale e della liberazione della gente; il dialogo dell'esperienza religiosa e degli scambi teologici, dove ci si sforza di meglio conoscersi per un maggior rispetto reciproco. Il tutto, ovviamente, senza mettere da parte le proprie convinzioni religiose, perché si dialoga veramente solo quando ciascuno rimane se stesso, mantenendo intatta la propria identità di fede, non tacendo mai, per nessuna ragione, quanto potrebbe apparire difficile da capire per chi non è cristiano".



(©L'Osservatore Romano - 29 giugno 2008)

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Così Roma racconta la vita dell’Apostolo
 i luoghi


 Dalla tomba lungo via Ostiense alle catacombe di San Sebastiano fino all’abbazia delle Tre Fontane costruita nel sito della decapitazione sulla Laurentina, la città eterna testimonia «la presenza» viva del grande convertito

 I
l martirio e il culto. Girano at­torno alla fine della sua vita ter­rena e all’inizio della sua fama di apostolo i luoghi paolini della Città eterna. Di due c’è la certezza ar­cheologica del loro legame con Sau­lo di Tarso. Uno è la Basilica di San Paolo fuori le Mura, dove recenti sco­perte hanno indicato con altissima probabilità la presenza dei resti mor­tali. Il secondo è il centro di devo­zione presso le catacombe di San Se­bastiano, dove graffiti del terzo se­colo immortalano preghiere e invo­cazioni a lui e a Pietro.
  Legata al luogo della sua esecuzione anche la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, dove la tradizione indica in tre polle sorgive i punti in cui la te­sta del santo rimbalzò staccata dal­la spada del carnefice. Per gli altri –
finora – solo un’antica tradizione de­vozionale: San Giovanni in Laterano per presunte reliquie, San Paolo alla Regola e Santa Maria in Via Lata con­siderate sue dimore, Santa Prisca al­l’Aventino dove era la casa di Aquila e Priscilla, collaboratori dell’aposto­lo, e il carcere Mamertino dove è cer­to che fu rinchiuso Pietro.
  La prima basilica paolina nasce per volontà di Costantino nei decenni i­niziali del IV secolo – assieme alle più grandi San Pietro e San Giovan­ni – sulla via Ostiense, dove era sta­to seppellito. La più antica testimo­nianza del sito è di Eusebio di Cesa­rea, «ideologo» di Costantino e pri­mo
storico della Chiesa. Eusebio cita Gaio Presbitero, a lui precedente, che in una polemica dice :«Voi avete la tomba di Filippo, noi sul­l’Ostiense e in Vati­cano i trofei di Pao­lo e Pietro». La basi­lica costantiniana ha l’ingresso sulla via Ostiense. I resti dell’abside sono sta­ti ritrovati negli ulti­mi scavi, sotto il pre­sbiterio.
 
La seconda basilica detta dei tre imperatori – Valentiniano II, Arcadio e Teodosio – viene rifatta, ruotata di 180 gradi, nel V secolo e in forme molto più grandi, per egua­gliare quella dell’altro grande apo­stolo, Pietro. La costruzione viene or­dinata nel 386 al praefectus urbi
Sal­lustio. L’inaugurazione, secondo gli ultimissimi studi – ancora inediti – viene fatta da Onorio nel 403.
  La storia della seconda basilica fini­sce nel 1823. Un lattoniere sta ripa­rando le grondaie del tetto e dal suo fornello per fondere il piombo si sca­tena l’incendio. Si salva solo il tran­setto col ciborio di Arnolfo di Cam­bio. Si decide di ricostruire tutto, del­la
vecchia basilica restano pochissi­mi rilievi e disegni. Gli ultimi ritro­vamenti sono degli anni scorsi: gli archeologi dei Musei Vaticani rin­vengono sotto l’altare, a livello del pavimento – rialzato all’epoca dei tre imperatori – una lastra di marmo da un sarcofago con l’iscrizione PAVLO APOSTOLO MART ( cioé martyri ). Lì dentro, con ogni probabilità, ci sono i resti mortali dell’apostolo. Poten­do scavare sotto il ciborio si potreb­be cercare anche l’edicola funeraria, citata da Gaio Presbitero, simile a quella da tempo ritrovata a San Pie­tro e datata al 160 che segnava la tomba petrina. Testimonianze anti­chissime di culto paolino sono anche alle catacombe di San Sebastiano. Le tombe verranno do­po, ma i cristiani si nascondono qui per pregare durante la persecuzione di De­cio. Sugli intonaci di una triclia, un pic­colo portico, incido­no preghiere e invo­cazioni:

  Paule et Pe­tre petite pro Victore,

 scrive uno.
Paule et Petre petite pro Herote - rogate, aggiunge un altro. In mente nos habetote, invocano altri. Il sito è attestato come luogo di culto dal Depositio Martyrum
dal 258.
  La vita terrena di Saulo di Tarso fini­sce appena fuori Roma, a Sud, sotto il colpo netto di una lama pesante. Nel V secolo viene eretta la chiesa di San Paolo alle Tre Fontane, sulla via Laurentina, oggi quartiere Eur, rifat­ta nel 1599. All’interno ci sono le tre edicole con le leggendarie tre fonti miracolose scaturite dal contatto della testa del santo, rimbalzata do­po la decapitazione. Tra il primo e il secondo altare c’è la colonna a cui sarebbe stato legato per il martirio.
(C) Avenire


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Un testimone che continua ad affascinare Tarso

Undici volumi, 143 interventi, 3.120 pagine. A tanto ammonta il contributo dato agli studiosi dai Simposi che l’Istituto Francescano di Spiritualità della Pontificia Università Antonianum di Roma organizza da 19 anni con l’associazione culturale Eteria sull’apostolo Paolo a Tarso ( Turchia), dov’egli nacque con molta probabilità tra il 7 e il 10. L’ultimo si è tenuto dal 22 al 25 giugno ed è stato promosso insieme al Centro di dialogo interculturale e interreligioso « Don Andrea Santoro » . Tema della dodicesima edizione del Simposio: « Paolo di Tarso: storia, archeologia, ricezione » .
  L’appuntamento è stato animato da studiosi provenienti dall’Italia, dalla Svizzera, dalla Germania, dalla Turchia,
dalla Grecia e dalla Spagna. La scelta del luogo è stata ritenuta fondamentale fin dagli inizi per capire meglio la formazione e la personalità di Paolo, che a Tarso ha respirato – secondo quanto Strabone dice a proposito dei suoi abitanti – « lo zelo per la filosofia e per ogni altra cultura generale in maniera superiore a quella che si aveva in Alessandria, Atene e qualsiasi altro luogo in cui sorgono scuole di filosofia » . Se l’ambiente non spiega fino in fondo il genio di Paolo, aiuta tuttavia a capire la sua padronanza del greco ( che dovette essere la sua lingua madre), il suo ministero svolto principalmente nelle città e non nelle campagne, tra ceti socialmente elevati a cui si rivolgeva adattando il messaggio cristiano alla loro preparazione culturale. Di ambiente si doveva parlare, perciò, anche nel Simposio di quest’anno perché la vera Tarso, come tutte le città antiche, sta riemergendo lentamente dai dieci metri di profondità in cui tempo e uomini l’hanno sepolta. Da lì sono venuti gradatamente alla luce tratti di una via che andava verso la catena del Tauro e un ponte che, proprio in mezzo alla città, attraversava il Kidnos. Paolo potrebbe avervi camminato più volte e con passo frettoloso, se è vero che nella « sua » Asia percorse, tra persecuzioni e rischi, ma con fiato agevole, gran parte dei 16 mila chilometri coperti per muoversi tra Lidia, Panfilia, Licaonia e Galazia. Dalle relazioni sull’archeologia si è passati a quelle sulla storia « sostando » nei porti asiatici da cui l’apostolo salpò o sbarcò nei tre viaggi che ne fecero un viandante tra due mondi. L’Anno Paolino, comunque, imponeva che ci si fermasse di più sugli scritti e sulla loro ricezione nei secoli. Ci si è voluto chiedere, insomma, se quel certo numero di Lettere che Paolo ha dettato o scritto, visto che la perdita di velocità di una missiva comporta anche una diminuzione di interesse, possono avere come destinatari gli uomini di oggi. Se il mittente è scomparso da secoli; se le notizie, la lingua, i modi di esprimersi e di pensare sono inevitabilmente datati; se le condizioni sociali e culturali non sono più quelle di allora; se il terzo millennio ci sta travolgendo sotto tsunami di inquinamenti mortali, come quelle Lettere possono resistere e parlare? Certo che lo possono – si è detto durante le relazioni e le discussioni – perché Paolo ha ancorato il suo pensiero non a un’idea, ma a un Uomo ucciso e
risorto di cui fece esperienza nella propria carne innamorandosene.
  Partendo da questa realtà, è stato facile per gli oratori parlare dell’attualità di Paolo fondata su alcune sue esperienze mistiche, come il « viaggio celeste » ; sulla validità delle sue chiese domestiche; sulle geniali esegesi che i Padri hanno fatto dei suoi scritti e alle quali i biblisti ricorrono ancora; sull’esemplare ricezione che ne hanno fatto alcuni studiosi di rilievo ( Tommaso Moro, Erasmo, Balthasar), e perfino sul tentativo di integrare, ai tempi di Manuele Comneno, cristianesimo e islam.
  Negli Atti si legge che l’avvocato ebreo Tertullo, in veste di pubblico ministero, nell’anno 58
disse: « Abbiamo scoperto che quest’uomo è una peste » , dando di Paolo una delle definizioni meno convenzionali. Il Simposio di quest’anno era stato inaugurato domenica scorsa dal cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani che, di fatto, aveva aperto in Turchia ( con una settimana di anticipo rispetto a Roma) l’Anno Paolino nella terra

 Ha ancorato il suo pensiero non a un’idea ma a un Uomo ucciso e risorto. Di cui fece esperienza nella sua carne innamorandosene
dell’Apostolo delle genti.
  Il saluto di benvenuto era stato affidato a monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico d’Anatolia. Da sottolineare che i Simposi che si organizzano in Turchia e che si chiudono sempre ad Antiochia, dov’è viva la memoria di Pietro ( più di una volta egli invitò i cristiani a leggere le missive scritte da Paolo « secondo la sapienza che gli è stata data » ), pur non avendo risonanze planetarie, intendono far conoscere anche ai laici la grandezza, la sapienza di un uomo che disse parole su cui meditare, come si legge nella seconda Lettera ai Corinzi: « Noi siamo davanti a Dio il profumo di Cristo fra quelli che si salvano e quelli che si perdono; per gli uni odore per la morte, e per gli altri odore di vita per la vita » . Vita risorta, naturalmente.

 Studiosi internazionali a confronto sulla formazione e la personalità dell’Apostolo delle genti. E sulla sua eredità

 DI
EGIDIO PICUCCI

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SPECIALE "ANNO DI SAN PAOLO 2008"


... e proprio per questo, sono lieto di annunciare ufficialmente che
all'apostolo Paolo dedicheremo uno speciale anno giubilare,
dal 28 giugno 2008  al  29 giugno 2009,
in occasione del bimillenario della sua nascita !"

Benedetto XVI 


In cammino sulle orme dell'Apostolo Paolo a Roma:
Vademecum del pellegrino

Il Vademecum per l'Anno di San Paolo: arte, spiritualità, luoghi e informazioni per i pellegrini a Roma

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Benedetto XVI
Paolo: L'apostolo delle genti

Il libro del papa sull'apostolo delle genti

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Anno di San Paolo: Preghiere

Da Mons. Angelo Comastri, il libro per la preghiera comunitaria e personale con San Paolo

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Benedetto sia Dio: Inni paolini

La lectio divina con gli Inni di San Paolo e le splendide illustrazioni a colori

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Benedetto XVI: San Paolo “vuole parlare con noi oggi”

Inaugura l'Anno Paolino a Roma

ROMA, lunedì, 30 giugno 2008 (ZENIT.org).- San Paolo non è “una storia passata, irrevocabilmente superata”, ma “vuole parlare con noi oggi”, ha affermato Benedetto XVI sabato scorso, durante l'apertura solenne dell'Anno Paolino nella Basilica romana di San Paolo fuori le Mura.

“Per questo ho voluto indire questo speciale 'Anno Paolino': per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, 'la fede e la verità', in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo”, ha osservato.

Riflettere sul “Maestro delle Genti”, afferma il Pontefice, apre lo sguardo “al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi”.

Benedetto XVI ha invitato a considerare tre aspetti della vita dell'Apostolo: il suo amore per Cristo e il suo coraggio al momento di predicare il Vangelo; la sua esperienza dell'unità della Chiesa con Gesù Cristo; la consapevolezza che la sofferenza è indissolubilmente unita all'evangelizzazione.

Quanto al primo aspetto, il Papa ha ha riflettuto sulla confessione di fede contenuta nella lettera ai Galati, in cui mostra che “la sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora”.

“La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore”.

Questa esperienza lo spingeva attraverso le difficoltà, perché ciò che “lo motivava nel più profondo” era “l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro”.

E' questa la causa della sua libertà: “l’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana – quell’esperienza abbracciava tutto”.

Unità della Chiesa

Il Pontefice ha anche commentato la manifestazione di Cristo sulla via di Damasco, e la frase “Io sono Gesù che tu perseguiti”.

“Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. 'Tu perseguiti me'. Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo”.

“Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti 'la sua causa'. La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa”, ha aggiunto il Papa, ed è questa la dottrina che Paolo trasmette nelle sue Lettere.

“Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me”, ha aggiunto.

Il Papa ha quindi riflettuto sul senso della sofferenza per l'Apostolo attraverso la Lettera a Timoteo. “L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione”.

“In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede”, ha aggiunto Benedetto XVI.

“Non c’è amore senza sofferenza – senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore”.

Anno Ecumenico

Benedetto XVI ha espresso la propria gioia per il “carattere ecumenico” di questo Anno Paolino, alla cui apertura erano presenti, oltre al Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, rappresentanti delle Chiese di Gerusalemme, Antiochia, Cipro, Grecia e di altre Chiese e comunità d'Oriente e Occidente.

Bartolomeo I ha accompagnato il Papa durante l'inaugurazione della Porta Paolina. Il Papa ha anche acceso una speciale “fiaccola paolina”, che rimarrà accesa tutto l'anno, in un braciere speciale collocato nel portico della Basilica.

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Benedetto XVI: l'Anno Paolino, tempo di unità ed evangelizzazione

Parole introduttive alla preghiera dell'Angelus

CITTA' DEL VATICANO, lunedì, 30 giugno 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'intervento pronunciato questa domenica da Benedetto XVI in occasione della preghiera mariana dell'Angelus recitata insieme ai fedeli e ai pellegrini convenuti in Piazza San Pietro.


* * *

Cari fratelli e sorelle,

quest’anno la festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo ricorre di domenica, così che tutta la Chiesa, e non solo quella di Roma, la celebra in forma solenne. Tale coincidenza è propizia anche per dare maggiore risalto ad un evento straordinario: l’Anno Paolino, che ho aperto ufficialmente ieri sera, presso la tomba dell’Apostolo delle genti, e che durerà fino al 29 giugno 2009. Gli storici collocano infatti la nascita di Saulo, diventato poi Paolo, tra il 7 e il 10 dopo Cristo. Perciò, al compiersi di circa duemila anni, ho voluto indire questo speciale giubileo, che naturalmente avrà come baricentro Roma, in particolare la Basilica di San Paolo fuori le Mura e il luogo del martirio, alle Tre Fontane. Ma esso coinvolgerà la Chiesa intera, a partire da Tarso, città natale di Paolo, e dagli altri luoghi paolini meta di pellegrinaggi nell’attuale Turchia, come pure in Terra Santa, e nell’Isola di Malta, dove l’Apostolo approdò dopo un naufragio e gettò il seme fecondo del Vangelo. In realtà, l’orizzonte dell’Anno Paolino non può che essere universale, perché san Paolo è stato per eccellenza l’apostolo di quelli che rispetto agli Ebrei erano "i lontani" e che "grazie al sangue di Cristo" sono diventati "i vicini" (cfr Ef 2,13). Per questo anche oggi, in un mondo diventato più "piccolo", ma dove moltissimi ancora non hanno incontrato il Signore Gesù, il giubileo di san Paolo invita tutti i cristiani ad essere missionari del Vangelo.

Questa dimensione missionaria ha bisogno di accompagnarsi sempre a quella dell’unità, rappresentata da san Pietro, la "roccia" su cui Gesù Cristo ha edificato la sua Chiesa. Come sottolinea la liturgia, i carismi dei due grandi Apostoli sono complementari per l’edificazione dell’unico Popolo di Dio ed i cristiani non possono dare valida testimonianza a Cristo se non sono uniti tra di loro. Il tema dell’unità oggi è messo in risalto dal tradizionale rito del Pallio, che durante la santa Messa ho imposto agli Arcivescovi Metropoliti nominati durante l’ultimo anno. Sono 40, e altri due lo riceveranno nelle loro sedi. Anche ad essi va nuovamente il mio saluto cordiale. Inoltre, nell’odierna solennità è motivo di speciale gioia per il Vescovo di Roma accogliere il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, nella cara persona di Sua Santità Bartolomeo I, al quale rinnovo il mio fraterno saluto estendendolo all’intera Delegazione della Chiesa Ortodossa da lui guidata.

Anno Paolino, evangelizzazione, comunione nella Chiesa e piena unità di tutti i cristiani: preghiamo ora per queste grandi intenzioni affidandole alla celeste intercessione di Maria Santissima, Madre della Chiesa e Regina degli Apostoli.


[Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:]


Saluto con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i fedeli di Poncarale, Torino, Ivrea, Empoli e Carmignano. Un saluto speciale rivolgo alla città di Roma e a quanti vi abitano: i santi Patroni Pietro e Paolo ottengano all'intera comunità cittadina e diocesana di custodire e valorizzare la ricchezza dei suoi tesori di fede, di storia e di arte. Buona festa a tutti!



[© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana]

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Paolo, dalla conversione a oggi

Figlio di tre culture
Interprete della speranza



In occasione dell'apertura dell'Anno paolino, il numero di "Luoghi dell'Infinito" in edicola con "Avvenire" da martedì 1 luglio è dedicato all'"apostolo senza frontiere". Introdotto da un editoriale di Davide Rondoni, il dossier comprende un articolo del presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura che qui anticipiamo.



di Gianfranco Ravasi

Ciò che accadde, in un giorno imprecisato tra il 33 e il 35 d.C., sulla strada che dalla Galilea conduceva a Damasco è rimasto inciso nella memoria collettiva secondo una tipologia, di per sé fantasiosa, che è stata fissata in modo icastico dal Caravaggio nella sua tela di Santa Maria del Popolo a Roma: un enorme cavallo sogguarda un Paolo disarcionato e accecato. In realtà, la descrizione di quella celebre epifania (o, meglio, cristofania), offerta per ben tre volte dalla seconda opera dell'evangelista Luca, gli Atti degli Apostoli (ix, xxii; xXVI), non comprende quella scenografia equestre: "Mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Rispose: Chi sei, o Signore? E la voce: Sono quel Gesù che tu perseguiti!" (ix, 3-5).
Paolo, per evocare quella svolta capitale, ricorrerà nel suo epistolario solo a tre verbi, due di illuminazione ("Cristo è apparso anche a me... Dio si degnò di rivelarmi il suo Figlio") e uno di lotta ("sono stato afferrato da Cristo Gesù"). Certo è che quell'evento sarà per lui discriminante: dal persecutore Saulo, fariseo fanatico ("perseguitavo oltre ogni misura la Chiesa di Dio cercando di distruggerla"), nascerà l'apostolo Paolo, pronto a confessare che il suo stesso "vivere è Cristo". Così, la "via di Damasco" è divenuta un simbolo universale per indicare non solo una svolta esistenziale o una conversione, ma una vera e propria folgorazione che rivoluziona l'essere intero di una persona. Si pensi solo ad August Strindberg e al suo audace dramma Verso Damasco, composto tra il 1898 e il 1904: lo scrittore svedese trasforma, infatti, il simbolo paolino in una parabola del percorso della vita, sia pure con un approdo antitetico. La sua Damasco è un labirinto onirico e non certo un'illuminazione, una spirale ossessiva ove il passato non è annientato ma miscelato a brandelli col presente, ove tutto si aggroviglia e la meta non è liberatoria.
Ben diversa è la gloriosa rivisitazione di quell'evento da parte del protestante credente Felix Mendelssohn-Bartholdy che col suo Paulus - oratorio grandioso e clamoroso già al suo primo apparire nell'esecuzione del 22 maggio 1836 (356 coristi e 160 strumentisti!) - ha voluto idealmente offrire un'esegesi musicale della vicenda dell'apostolo, ritmata da un "prima" e un "poi" proprio a causa di quella "via". Non per nulla due sono i bassi che incarnano il protagonista: il Saulo ebreo della prima parte e il Paolo cristiano della seconda.
Che la meditazione musicale sia anche teologica appare dalla stessa ouverture ritmata su quello splendido corale luterano Wachet auf, ruft uns die Stimme, magnifico e dolce nella resa bachiana (Bwv 140), il cui incipit è già un'illuminante interpretazione della via di Damasco come "risveglio-risurrezione" ("Svegliatevi, la voce ci chiama").
E quella "risurrezione" fece di Saulo una figura capitale della nuova religione in tutta la sua storia successiva, anche se non sempre in modo pacifico e scontato. Già nella Seconda Lettera di Pietro l'autore osservava che "nelle lettere del nostro carissimo fratello Paolo vi sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina" (iii, 16). Un noto teologo ed esegeta tedesco dell'Ottocento, Wilhelm Wrede, in una sua opera intitolata semplicemente Paulus (1904), coniava per l'apostolo la definizione di "secondo fondatore del cristianesimo", definizione ambigua perché potrebbe introdurre l'idea di una trasformazione del messaggio di Gesù tale da supporre un altro progetto religioso. È stato in questa linea che il filosofo Friedrich Wilhelm Nietzsche aveva bollato Paolo come "disangelista", cioè annunziatore di una cattiva novella, al contrario degli "evangelisti", mentre il nostro Antonio Gramsci sbrigativamente lo classificava come "il Lenin del cristianesimo", ossia un teorico freddo e incline a costruire un sistema, e nell'Ottocento il famoso studioso Ernest Renan non esitava a definire gli scritti paolini come "un pericolo e uno scoglio, la causa dei principali difetti della teologia cristiana".
Noi ora cercheremo di delineare un profilo essenziale e oggettivo di questa figura, "santa per la Chiesa, grande per l'umanità", come diceva lo scrittore francese Victor Hugo, e lo faremo basandoci sui dati neotestamentari. Essi sono sostanzialmente offerti dalla seconda opera di Luca, gli Atti degli Apostoli, e dallo stesso epistolario paolino che allinea tredici scritti contrassegnati in modo esplicito dal nome dell'apostolo, mentre un quattordicesimo, la Lettera agli Ebrei, è stato da tempo escluso dalla paternità paolina. Dobbiamo, però, segnalare che la maggioranza degli studiosi ritiene che solo sette lettere (1 Tessalonicesi, 1 e 2 Corinzi, Galati, Filippesi, Romani e Filemone) siano strettamente di Paolo, mentre le altre sei siano di ambito paolino e, quindi, solo indirettamente derivanti dall'apostolo (naturalmente questo non significa che esse non siano, come le altre, ispirate e canoniche).
Un altro studioso tedesco dell'Ottocento, Adolf Deissmann, aveva definito Paolo "un cosmopolita". Effettivamente egli era figlio di tre culture che già apparivano nella sua ideale "carta d'identità". Il suo nome originario era ebraico, lo stesso del primo re d'Israele, Saul. "Sono un ebreo di Tarso di Cilicia", dichiara al tribunale romano che gli chiede le generalità al momento dell'arresto a Gerusalemme (Atti, xxi, 39). In polemica con i suoi detrattori ebrei di Corinto, rivendica le sue radici: "Sono essi ebrei? Anch'io lo sono. Sono israeliti? Anch'io. Sono stirpe di Abramo? Anch'io" (2 Corinzi, 11, 22). Agli amati cristiani macedoni di Filippi ribadisce vigorosamente di essere "circonciso l'ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo secondo la legge" (3, 5). In crescendo ai Romani scrive: "Vorrei essere io stesso maledetto, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e a loro appartengono l'adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi. Da essi proviene Cristo secondo la carne" (ix, 3-5). E ai Galati rivela persino una punta di integralismo nazionalistico: "Essi sono per natura ebrei e non peccatori come le genti" (ii, 15).
Formatosi a Gerusalemme "alla scuola di Gamaliel, nelle più rigide norme della legge dei padri" (Atti, xxii, 3), educato secondo la prassi giudaica anche al lavoro manuale, quello dello skenopoiòs, "fabbricatore di tende" (forse tessitore di peli di capra per stoffe ruvide, dette appunto "cilicium" dalla regione d'origine, la Cilicia, che era la stessa di Paolo), Saulo era però un giudeo della Diaspora, nato a Tarso, "non oscura città della Cilicia", come egli la definisce con civetteria (Atti, xxi, 39). Posta sul fiume Cidno, la città, ora compresa nella Turchia meridionale, era sede di una vivace scuola filosofica stoica, che qualche traccia lasciò nel pensiero dell'apostolo, e godeva del diritto di cittadinanza romana, riconosciutole da Marco Antonio e Augusto. Paolo userà con orgoglio questa dignità di cittadino dell'impero, non solo appellandosi come è noto al tribunale supremo romano (Atti, xxii, 28), ma anche presentandosi in tutte le sue lettere con il suo secondo nome schiettamente latino, Paolo.
La tradizione posteriore, nel iv secolo, non esiterà a creare un epistolario apocrifo tra l'apostolo e Seneca ove incontriamo battute di questo genere. Seneca a Paolo: "Se il nome di un uomo così grande e prediletto da Dio sarà tutt'uno col mio, questo non potrà che essere quanto di meglio per il tuo Seneca". Paolo a Seneca: "Durante le tue riflessioni ti sono state rivelate verità che a pochi la divinità ha concesso il privilegio di conoscere (...) Io semino, allora, in un campo già fertile un seme imperituro, l'immutabile parola di Dio". Ma Paolo non è solo romano; la sua cultura e la sua attività si muoveranno sempre nell'atmosfera ellenistica. Egli usa il greco in modo creativo, forgiandolo con grande libertà come fosse un ferro incandescente: conosce le risorse retoriche di quella lingua, la rielabora con inventiva attribuendo accezioni inedite a vocaboli come sarx, "carne", pnèuma, "spirito", hamartìa, "peccato", dikaiosyne, "giustizia", soterìa, "salvezza", eleutherìa, "libertà", agàpe, "amore".
La storia di Paolo si consuma, dunque, in un crocevia di culture e le sue tre identità di ebreo, di romano e di greco sono indispensabili per comprenderne l'opera e la vicenda personale, che si svolge in tutto il bacino del Mediterraneo, aprendosi anche al sogno di raggiungere l'estremo capo occidentale, la Spagna (Romani, xv, 22-24). Storicamente, il punto fermo esterno e "profano" della cronologia paolina è l'incontro dell'apostolo con il proconsole romano Gallione a Corinto (Atti, XVIii, 12-17): un'iscrizione di Delfi ci attesta che costui risiedette nella città greca negli anni 50-51. Da questo nodo cronologico si cerca di ordinare i dati non del tutto combacianti offerti dalle due fonti neotestamentarie già citate, gli Atti e le Lettere paoline.
Partendo dalla conversione al cristianesimo, già ricordata, si possono ricostruire due traiettorie temporali. La prima, fondata sugli Atti degli apostoli, è scandita da tre grandi viaggi missionari di Paolo: dopo il primo, si celebra il "concilio" degli apostoli a Gerusalemme (anni 49-50); si individuano nel 58-60 un biennio di custodia cautelare in attesa di giudizio a Cesarea Marittima e un altro biennio di arresti domiciliari a Roma (60-62), in attesa dell'esito dell'appello presso la suprema corte imperiale. La morte, preceduta da un'altra detenzione, dovrebbe essere collocata nell'arco degli anni 64-67, ma su questo gli Atti tacciono. La seconda traiettoria, basata sulle Lettere paoline, situerebbe il "concilio" gerosolimitano dopo il secondo viaggio missionario dell'apostolo in Grecia (50-51), introdurrebbe un ampio soggiorno, forse con prigionia, a Efeso (52-55), mentre l'arresto a Gerusalemme e la carcerazione a Cesarea daterebbero dal 56-57, il trasferimento per nave a Roma avverrebbe nell'inverno del 57-58, gli arresti domiciliari romani durerebbero dal 58-60 e nel 60, sotto Nerone, Paolo sarebbe condannato a morte.
Ma, al di là di questa biografia cronologica, la figura di Paolo è decisiva per la storia della Chiesa a livello teologico. Due sono le prospettive aperte dalla sua azione, prospettive decisive per la cristianità. La prima è di ordine pastorale. Paolo lancia il messaggio di Cristo a orizzonti esterni al terreno di partenza, quello ebraico, divenendo in tal modo l'Apostolo delle genti per eccellenza. Egli è fermamente convinto che "non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più maschio né femmina: tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Galati, iii, 28). È una scelta che comporta tensioni all'interno della cristianità delle origini, come è attestato dal citato "concilio" di Gerusalemme (Atti, 15) e dalla polemica Cefa-Pietro, evocata dallo stesso Paolo scrivendo ai Galati. Ma la sua convinzione è irremovibile e sarà attestata da tutto il suo ministero apostolico: "Colui che mi scelse fin dal grembo di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani" (Galati, 1, 15-16).
Naturalmente, questa apertura implica un'elaborazione dello stesso linguaggio e anche un ulteriore approfondimento del messaggio di Cristo. Si apre, così, una seconda prospettiva altrettanto fondamentale, quella strettamente teologica. Paolo offre un suo disegno ideale che è costruito attraverso le sue varie lettere e che ha il suo cuore in Cristo e uno dei suoi nodi principali nella cosiddetta "giustificazione per la fede e per grazia". Essa è formulata per ben tre volte in modo essenziale in un solo versetto della lettera ai Galati: "Riconosciamo che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo. Abbiamo creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge. Dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno" (ii, 16).
Su questa tesi si svilupperà non solo la Lettera ai Galati, ma anche il capolavoro teologico dell'apostolo, la Lettera ai Romani: ma naturalmente i 432 versetti di quest'ultima spaziano verso altre linee e ambiti di pensiero che rendono la teologia di Paolo una stella polare nella riflessione secolare della Chiesa, talora anche come "segno di contraddizione": pensiamo solo alla Riforma protestante e al dibattito sempre vivo e fecondo sul pensiero paolino, un pensiero molto articolato anche sui temi ecclesiali e morali.
Aveva ragione il poeta Mario Luzi quando scriveva: "Paolo è un'enorme figura che emerge dal caos dell'errore e dell'inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza".
E la speranza per l'Apostolo non si poteva fondare che su "Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio" (1 Corinzi, 1, 24).



(©L'Osservatore Romano - 30 giugno 1 luglio 2008)
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Tempi.it, 19 Maggio 2008

Saulo di Tarso

Marta Sordi spiega la nuova cronologia della vita di Paolo e conferma l’autenticità del suo carteggio con Seneca

di Roberto Persico
Il 28 giugno il Papa inaugurerà solennemente un altro giubileo: la Chiesa festeggia due millenni dalla nascita di Saulo di Tarso detto Paolo, l’“Apostolo delle genti”, l’uomo che più di ogni altro ha diffuso il cristianesimo tra i popoli che abitavano le sponde del Mediterraneo; secondo i critici avversi, l’uomo che avrebbe “inventato” il cristianesimo, che senza di lui sarebbe rimasto un’oscura setta marginale del mondo ebraico. Un’occasione straordinaria per la Chiesa per riflettere sul proprio compito, sulla missione “ad gentes”, sul rapporto fra il suo annuncio e le culture dei popoli che incontra, questioni tutte che si pongono in maniera drammatica e affascinante in questo terzo millennio che si è appena aperto.


Un tema che affascina e riguarda da vicino Marta Sordi, professoressa emerita di Storia antica dell’Università Cattolica di Milano, che all’opera di Paolo ha dedicato una vita di studi, «dal punto di vista della storia romana – tiene a precisare – dello studio delle fonti, proiettando le notizie dei testi cristiani su quel che ci è noto dalla documentazione romana». Una conoscenza approfondita che presenterà e dibatterà nell’incontro del ciclo sul giubileo paolino promosso dal Centro culturale di Milano (vedi box nella pagina seguente) e che illustra con limpida chiarezza a Tempi.
Professoressa Sordi, ancora oggi qualcuno sostiene che il cristianesimo sarebbe un’invenzione di san Paolo, lui avrebbe trasformato il culto di un’innocua setta ebraica in una religione universale.
È del tutto falso. Tanto per cominciare, il primo ad aprire ai non ebrei non è Paolo, è Pietro. Gli Atti degli apostoli, capitolo 10, raccontano chiaramente la storia del centurione Cornelio, romano, battezzato senza essere circonciso; è Pietro che prende la decisione, che entra nella casa di un pagano sfidando le critiche degli altri apostoli, che nel primo concilio che si svolge a Gerusalemme si pronuncia contro l’obbligo della circoncisione: l’annuncio cristiano è per tutti, non solo per gli ebrei.
Sì, ma Paolo non aveva conosciuto direttamente Gesù, gli apostoli raccontavano dei fatti, lui invece ha elaborato una teologia.
Sempre in completa sintonia con la comunità degli apostoli. Come scrive nella lettera ai Galati, e come è riportato anche negli Atti, è andato due volte a Gerusalemme, la prima poco dopo la conversione, la seconda quattordici anni dopo, quando in tutte le chiese dell’Asia minore godeva già di grandissima autorità: e sempre per sottomettersi al giudizio di Pietro e di quelli che con lui – P aolo non fa nomi, ma verosimilmente dovevano essere Giacomo e Giovanni – erano le guide riconosciute da tutti. «Esposi loro il vangelo che io predico tra i pagani – scrive – per non trovarmi nel rischio di correre o di aver corso invano». Per non aver corso invano, capisce? Paolo sa benissimo che se predicasse qualcosa di diverso dalla fede degli apostoli la sua opera sarebbe vana.
Quali sono dunque le caratteristiche fondamentali di quest’opera?
Direi la presa di coscienza del “mistero nascosto nei secoli” della chiamata dei pagani, che nasce in lui durante la missione in Asia minore, e la capacità di rivolgersi a tutti, non escluse le autorità, i potenti, secondo il linguaggio e le forme più adatte a ciascuno. Due caratteristiche che si colgono fin dall’inizio. La missione di Paolo comincia infatti con il viaggio a Cipro. Qui lui predica, come sempre farà, in primo luogo alla comunità ebraica. Ma poi viene chiamato dal governatore romano dell’isola, Sergio Paolo, il quale, dicono gli Atti, «credette»; ed è proprio da qui in avanti che Paolo cambia il suo nome ebraico, Saul, prendendo non a caso il nome di quello che potremmo definire il suo primo convertito illustre. Il quale diventerà suo protettore, tanto che quando poi sbarca in Asia minore Paolo non si dirige nelle zone grecizzate della costa, ma in quelle più rozze dell’interno, dove la potente famiglia dei Sergi Paoli aveva terre e influenza. È qui, io credo, che Paolo acquisisce la consapevolezza che l’annuncio di Cristo è destinato, attraverso di lui, a tutte le genti; perché sempre rivolge il suo annuncio prima alla sinagoga, ma gli ebrei rispondono tiepidamente, quando addirittura non reagiscono duramente e cercano di trascinarlo davanti ai tribunali romani, mentre raccoglie seguito fra i gentili. Così a Corinto gli ebrei lo accuseranno davanti al proconsole di Acaia, Gallione, fratello di Seneca; il quale peraltro nemmeno prenderà in considerazione le accuse, perché gli paiono irrilevanti. A Efeso invece viene accusato dagli argentieri che prosperavano vendendo statuette di Diana Efesia e vedevano la propria attività rovinata dalla nuova religione; ma gli asiarchi intervengono a risolvere la situazione: in entrambi i casi vediamo come le massime autorità romane lo giudichino con benevolenza, segno evidente del fatto che sapeva come rapportarsi con loro.
Poi viene il celebre sogno del macedone che lo implora di “passare il mare” e di portare anche in Europa l’annuncio di Cristo.
Sì, anche se il desiderio di andare a Roma è presente da molto: è già formulato, secondo gli Atti, quando Paolo si trova a Efeso, ed è espresso anche nella Lettera ai Romani, che secondo la cronologia che io ho ricostruito risale al 53-54, non al 57 come generalmente si ritiene. Infatti tra le personalità romane che nomina ci sono Narciso, un liberto di Claudio morto nel 54, e Aristobulo, che nel medesimo anno venne mandato a governare la Piccola Armenia.


Lei attribuisce grande importanza a questa revisione della cronologia tradizionalmente accertata. Perché?
Perché con la cronologia tradizionale un sacco di questioni rimangono incomprensibili. Mentre con quella che propongo io – che si accorda con tutti i dati a nostra disposizione – ogni problema si chiarisce. Tutto dipende da un passo degli Atti (24,27), in cui si dice che «trascorsi due anni, Felice [il governatore romano della Giudea] ebbe come successore Porcio Festo; ma Felice lasciò Paolo in prigione»: generalmente, i due anni vengono riferiti alla prigionia di Paolo, mentre si tratta semplicemente della durata in carica di Felice, che fu governatore, secondo le fonti romane, nel 53-54. Dunque Paolo fu processato sotto il successore Porcio Festo nella prima metà del 55, in forza del suo status di cittadino romano si appellò a Cesare e fu quindi trasferito a Roma, dove giunse agli inizi del 56, e non dopo il 60, come generalmente si ritiene. Nel 56 era prefetto del pretorio Afranio Burro, amico di Seneca, uomo saggio e tollerante, e questo spiega le condizioni della prigionia di Paolo, una sorta di arresti domiciliari molto blandi, in cui era sorvegliato da un pretoriano ma poteva ricevere liberamente chi voleva. Poi venne assolto, verosimilmente da Burro, nella primavera del 58, e qui ha inizio il celebre epistolario con Seneca.
Generalmente ritenuto un falso costruito nei secoli seguenti.
Anch’io all’inizio ero convinta che fosse falso. Ma studiandolo con attenzione, e inserendolo nella nuova cronologia, ho cambiato parere. Due lettere sono sicuramente aggiunte a posteriori, diverse dalle altre per stile e lessico, e hanno per così dire trascinato con sé il giudizio sull’intera opera. Ma se eliminiamo queste due il resto io credo sia autentico. Si tratta di una corrispondenza amichevole, sovente poco più che biglietti, con allusioni a vicende quotidiane, a conoscenti comuni: se un falsario avesse voluto inventarsi un carteggio fra due personaggi del genere avrebbe scelto temi più impegnativi, non le pare? Poi c’è la questione dello stile: è un cattivo latino, si osserva, pieno di grecismi, segno che la lingua madre di chi le ha scritte era il greco. Ma, attenzione: i grecismi compaiono soltanto nelle lettere di Paolo, non in quelle di Seneca, che anzi in una gli rimprovera bonariamente il suo latino scadente e gli dà qualche consiglio su come migliorarlo. Ci sono poi un riferimento alla “lunga lontananza” di Paolo e una cono-scenza diciamo dall’interno della situazione politica, e una circospezione nel trattarla, che non potevano essere opera di un eventuale falsario.


		    	

Vuole chiarire questi ultimi punti?
Secondo la mia ricostruzione, Paolo rimase agli arresti domiciliari tra il 56 e il 58, venne quindi assolto, e qui si collocano le prime lettere con Seneca. Quindi, dal 59 al 62, c’è un vuoto, durante il quale Paolo si recò in Spagna. Tornò giusto in tempo per subire gli effetti nella svolta di Nerone: proprio in quell’anno morì Burro e Seneca perse il suo ascendente sull’imperatore, sostituito da quello della nuova moglie di lui, Poppea. E in una lettera di Seneca di questo periodo si fa cenno all’ostilità della «domina» nei confronti di Paolo, perché ha «abbandonato la religione dei padri». È un dettaglio fondamentale, perché Poppea effettivamente era giudaizzante, e quindi non guardava di buon occhio i cristiani, ma questo lo sappiamo da Flavio Giuseppe e da Tacito, i cristiani del secondo e del terzo secolo non lo sapevano. Inoltre tutto quel che riguarda gli ambienti di corte viene accennato con grande circospezione, come se i corrispondenti temessero che le loro lettere potessero cadere in mani sbagliate. Un falsario non avrebbe mai potuto avere questi riguardi.
Paolo tornò anche giusto in tempo per essere di nuovo in disaccordo con Pietro prima che entrambi venissero condannati a morte.
Guardi, tra Pietro e Paolo non ci sono mai, sottolineo mai, contrasti dottrinali. Potremmo dire che hanno due “stili pastorali” diversi: Pietro è più discreto nei confronti degli ebrei, tende a evitare contrasti; Paolo invece predica sempre in primo luogo ai connazionali, e solo in un secondo momento si rivolge ai gentili. Ma sono differenze di metodo e di temperamento, mai di dottrina. Da questo punto di vista anzi l’unità fra i due è uno dei fondamenti stessi della Chiesa di Roma. Una delle testimonianze più commoventi è un’iscrizione ritrovata a Ostia e databile agli inizi del II secolo o addirittura alla fine del I, riferita a un “Marco Anneo Petro Paolo”: Petro Paolo, capisce, è un cristiano che ha preso come cognome il nome di entrambi gli apostoli, indissolubilmente uniti. Pietro e Paolo: su questo binomio si fonda la Chiesa.

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12/11/2008 19:59

Hong Kong unisce l'Anno Paolino e l'Anno della Famiglia

Il Cardinale Zen spiega la teologia del corpo di San Paolo

HONG KONG, mercoledì, 2 luglio 2008 (ZENIT.org).- Il Cardinale Joseph Zen sta proponendo le lettere di San Paolo per gettare luce sulle sfide affrontate dalle famiglie nella società cinese.

In una lettera pastorale per l'Anno Paolino, l'Arcivescovo di Hong Kong ha sottolineato gli insegnamenti del Santo sulla teologia del corpo e la famiglia.

Hong Kong sta celebrando l'Anno della Famiglia congiuntamente all'Anno Paolino.

Visto che “il sesso prematrimoniale, la convivenza e i matrimoni di prova sono diventati più accettabili a livello sociale”, ha scritto il porporato, “i concetti tradizionali di amore e sesso si sono fatti più vaghi”.

Il Cardinale Zen ha lamentato il fatto che i cattolici locali incontrino molti problemi matrimoniali e familiari a Hong Kong, accennando che la situazione dei cattolici oggi è già stata descritta da Paolo nella Lettera ai Romani: “Provo diletto nella legge di Dio, ma vedo nelle mie membra un'altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?”.

Per questo, il Cardinale Zen ha affermato nella sua lettera pastorale, diffusa domenica, che le lettere di Paolo sono tra i tesori di cui la Chiesa si avvale per affrontare questo problema.

Il porporato ha richiamato le parole di San Paolo: “Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno guasta il tempio di Dio, Dio guasterà lui; poiché il tempio di Dio è santo; e questo tempio siete voi”.

La Diocesi di Hong Kong ha designato il 2007-2008 come “Anno della Famiglia” – con il 2008 centrato sulla virtù della castità – prima che Benedetto XVI annunciasse l'Anno Paolino.

Il Cardinale Zen ha sottolineato che “la Diocesi ha lanciato l''Anno della Famiglia' perché la visione della società di Hong Kong su famiglia e matrimonio è spesso opposta al piano di Dio”.

Secondo il porporato, l'Anno Paolino e quello della Famiglia sono complementari.

L'“obiettivo pastorale della Diocesi è darci un orientamento generale per le nostre attività, e gli insegnamenti di San Paolo possono aiutarci proprio a specificare meglio l'obiettivo e darci slancio per raggiungerlo”, ha affermato.

La Diocesi di Hong Kong ha celebrato una Messa solenne nella Cattedrale per l'apertura dell'Anno Paolino, anche se il Cardinale Zen era assente perché partecipava all'inaugurazione dell'Anno nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma.



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12/11/2008 20:00

Paolo di Tarso, Santo ecumenico

Punto di riferimento anche per il mondo protestante

ROMA, mercoledì, 2 luglio 2008 (ZENIT.org).- “Quando si parla di Paolo, l'apostolo, un protestante ha come l'impressione che si stia parlando anche di lui”, sostiene Luca Baratto, pastore e curatore del programma di Radiouno “Culto Evangelico”, sul settimanale NEV – Notizie Evangeliche.

Paolo, afferma in un editoriale apparso sul numero di questo mercoledì, “è l'apostolo preferito dai protestanti, e non solo perché non ha successori diretti”.

Il Santo di Tarso è infatti “ricollegabile a tutti i principali enunciati teologici della Riforma”: “è incluso nel 'Sola Scriptura' in quanto autore di un cospicuo corpo di epistole che costituiscono i testi più antichi del Nuovo Testamento”, così come “i principi del 'Sola Gratia' e 'Sola Fide' sono il risultato di una profonda riflessione dei riformatori sulle pagine dell'apostolo, sul significato della giustizia di Dio e della giustificazione per grazia mediante la fede che Paolo annuncia nelle lettere ai Romani e ai Galati”.

Allo stesso modo, “anche il 'Solus Christus' ha una chiara impronta paolina, la centralità e l'esclusività del Signore morto e risorto, la 'teologia della croce' contro la 'teologia della gloria' di una chiesa imperante”.

“Non solo Paolo sta all'inizio, alla nascita del protestantesimo, ma è rimasto presente anche nei secoli successivi”, ha osservato Baratto.

“Se parlare di Paolo non significa parlare dei protestanti – ha proseguito –, è invece vero che chiunque voglia parlare di Paolo non può non parlare con i protestanti”.

Se uno degli intenti dell'Anno dedicato all'Apostolo delle genti è apprendere “la verità e la fede in cui sono radicate le ragioni dell'unità tra i discepoli di Cristo”, “questo evento non può non tradursi in un rilancio del dialogo ecumenico tra cattolicesimo e protestantesimo, cioè con quella parte di cristianità occidentale che molto ha riflettuto su Paolo e la cui teologia spesso giudicata mancante, per esempio nella concezione della chiesa, affonda le sue radici nella teologia biblica in generale e in quella paolina in particolare”.

Sul dialogo ecumenico, infatti, “Paolo ha molto da insegnare”.

Vissuto in un ambiente in cui le chiese cristiane nascenti erano molto diverse le une dalle altre, “ha lottato per un cristianesimo inclusivo” e di fronte alla diversità tra le chiese proponeva la centralità di Cristo: “un'unità che si basa sul sapere chi è Gesù Cristo e che spazio ha nella nostra vita di singoli e chiese”.

Il suo essere “portatore di un messaggio che va al di là di barriere culturali, può portarci a riflettere sull'idea di inculturazione dell'evangelo in un mondo globalizzato come il nostro”.

Baratto ha concluso affermando che “sono tantissime le piste di riflessione che partono da Paolo per il nostro presente”.

“Ma se parlate di lui – ha osservato –, parlate anche con noi, con quella tradizione teologica che così tanto deve alla predicazione dell'apostolo”.

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12/11/2008 20:00

L'Anno paolino in Corea del Sud
nel segno del dialogo


Seoul, 5. Vivere l'Anno dedicato a san Paolo in spirito ecumenico, coinvolgendo le Chiese sorelle, dando nuovo vigore al dialogo e potenziando la collaborazione in tutti i campi, specialmente quello della carità.
Su questa linea si muoverà l'attività della Chiesa in Corea del Sud, in occasione della celebrazione dell'Anno paolino.
Il cardinale e arcivescovo di Seoul Nicholas Cheong Jinsuk ha presieduto una celebrazione eucaristica, in cui ha attualizzato l'apostolo delle genti, sottolineando la ricchezza della sua opera. Il porporato ha detto:  "Spero che l'Anno paolino non sia solo una festa all'interno della Chiesa, ma diventi una festa di vita, verità e speranza in tutti i settori della società".
Anche nell'arcidiocesi di Daegu si è celebrata l'apertura dell'Anno paolino, vivendola come opportunità di crescita e di evangelizzazione, in vista del centesimo anniversario di fondazione che sarà celebrato nel 2011.
Tutte le diocesi del Paese hanno contribuito, comunque, all'elaborazione di un programma di iniziative di formazione e preghiera, di incontri culturali e di approfondimento sulla figura e sugli scritti del santo.
La Chiesa coreana è molto attiva nel dialogo ecumenico e interreligioso. Recentemente è stata avviata l'iniziativa "In viaggio con la Conferenza episcopale per favorire l'ecumenismo e il dialogo interreligioso". I presuli delle varie diocesi hanno avviato una serie di incontri con esponenti buddisti, confuciani, oltre a cristiani ortodossi, anglicani e protestanti e a fedeli di culti che si rifanno alla tradizione popolare del Paese.



(©L'Osservatore Romano - 6 luglio 2008)

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12/11/2008 20:01

Ritornare a Paolo “nostro fratello”

ROMA, lunedì, 7 luglio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l'articolo scritto dall'Arcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, e apparso sul primo numero della rivista “Paulus” .


* * *

«Nelle Lettere del nostro carissimo fratello Paolo ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli incerti le travisano, al pari delle altre Scritture, a loro rovina». Queste parole, un po’ sorprendenti, della Seconda Lettera di Pietro (3,16) ci ricordano che già nei primi tempi della cristianità le Lettere di San Paolo erano considerate come “Scritture” sacre e ispirate, ma ci ammoniscono anche che è necessaria una corretta interpretazione per comprenderle e non travisarle.

Cosa che è accaduta nella storia successiva, se pensiamo che un famoso studioso francese dell’Ottocento, Ernest Renan, le esorcizzava come «un pericolo e uno scoglio e la causa dei principali difetti della teologia cristiana», mentre il filosofo tedesco Nietzsche giungeva al punto di definire Paolo un “disangelista”, il contrario di un “evangelista”, ossia l’annunciatore di una “cattiva novella”, e il nostro Gramsci lo etichettava come “il Lenin del cristianesimo”, un teorico freddo e lontano dal calore e dall’amore di Cristo.

Ebbene, l’Anno Paolino potrebbe diventare la grande occasione per un ritorno all’Apostolo in senso autentico, riprendendo in mano e approfondendo seriamente le tredici Lettere che recano il suo nome, una porzione rilevante del Nuovo Testamento, se si pensa che esse occupano 2003 dei 5621 versetti in cui sono state tradizionalmente suddivise le sacre Scritture neotestamentarie.

C’è da osservare che gli studiosi hanno diviso l’epistolario paolino in due grandi parti. La prima raccoglie sette Lettere fondamentali, assegnate direttamente all’Apostolo. Cerchiamo di indicare una trama essenziale di questo primo itinerario testuale. Siamo verso il 51 e da Corinto Paolo invia ai cristiani di Tessalonica una prima Lettera che è segnata dal tono autobiografico dei ricordi, ma anche da quello pastorale riguardante le tensioni che attanagliano la comunità ed è pure percorsa da un filo teologico che in questo caso si annoda attorno al tema della parousía, cioè della venuta di Cristo alla fine dei tempi, suggello della storia, ma anche luce per illuminare il presente senza cadere in esasperate eccitazioni apocalittiche.

A Corinto Paolo aveva soggiornato almeno un anno e mezzo. Da Efeso, a metà degli anni ’50, indirizza la prima delle sue due Lettere ai Corinzi. Essa è una clamorosa smentita di chi considera l’Apostolo come un freddo teorico. Le pagine di questo scritto, infatti, toccano tutti i temi di una Chiesa immersa in un contesto mondano col quale è invitata a confrontarsi, dal quale riceve spesso influssi negativi, ma nel quale deve testimoniare con coraggio la sua fede nel Cristo risorto e l’amore fraterno che la unisce. I rapporti tra i cristiani corinzi e Paolo non furono idilliaci e la seconda Lettera ad essi indirizzata ne è una vigorosa attestazione. La sua stessa redazione rivela salti tematici e di tonalità, riflettendo le tensioni interne, ma anche il difficile rapporto con l’Apostolo. Tuttavia, in quelle pagine si configura pure un progetto caritativo molto suggestivo, quello della colletta di tutte le nuove comunità cristiane a favore della Chiesa di Gerusalemme in difficoltà economiche.


Nel cuore del vangelo di Paolo

Con la Lettera ai Galati entriamo nel cuore del “Vangelo” di Paolo, anche se spesso lo scritto è stato considerato una “prova d’autore” rispetto al capolavoro successivo della Lettera ai Romani. Al centro si ha, infatti, la tesi squisitamente paolina della “giustificazione per la fede” nella grazia divina: si legga 2,16 ove per tre volte viene ribadito che «l’uomo non è giustificato dalle opere della legge, ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo». È pronta, così, la base per l’architettura centrale della Lettera destinata ai cristiani di Roma. Ma prima di essa si innesta probabilmente lo scritto rivolto agli amatissimi cristiani della città greco-macedone di Filippi nel quale, come scriveva un esegeta (J. Murphy O’Connor) «si sente battere il cuore di Paolo».

Composta nel carcere (forse durante un periodo di detenzione a Efeso), questa Lettera conserva uno splendido inno (2,6-11) che sintetizza in modo mirabile l’Incarnazione e la Pasqua di Cristo di un motto del profeta Abacuc reinterpretato da Paolo: «Il giusto, divenuto tale per la fede, vivrà» (1,17). La serie delle Lettere direttamente paoline si conclude col commovente biglietto indirizzato a Filemone per la vicenda dello schiavo Onesimo e con un sorprendente finale di speranza che illumina la prigionia dell’Apostolo: «Preparami un alloggio perché spero grazie alle vostre preghiere di esservi felicemente restituito!» (v. 22).

Siamo così, di fronte all’altra area storicoteologica dell’epistolario paolino, quella di sei Lettere che forse recano l’impronta redazionale di qualche discepolo, ma che appartengono al grande messaggio dell’Apostolo. Impressiona la Seconda Lettera ai Tessalonicesi, striata dei colori dell’apocalittica e non priva di passi difficili da interpretare, sempre però attenta a coniugare impegno presente e speranza futura. Subentra la Lettera ai Colossesi che è un punto di riferimento anche per il testo destinato agli Efesini (e forse alle altre Chiese dell’Asia Minore), Lettere entrambe contrassegnate da una solenne apertura innica. Cristo, la Chiesa e il cristiano sono i tre protagonisti di una riflessione dalle prospettive nuove e originali. La serie epistolare paolina si chiude con un fascicolo di tre scritti omogenei che dal XVIII sec. vengono chiamati “Lettere pastorali” a causa del loro tema dominante e dei loro destinatari, i collaboratori di Paolo e pastori di comunità cristiane Timoteo e Tito. In esse la Chiesa si presenta già con la sua struttura ministeriale di “episcopi”, presbiteri, diaconi, ma anche di vedove, di maestri non sempre ortodossi, e si rivela segnata da una crisi di crescita.

Indimenticabile è il testamento posto sotto la penna ideale di Paolo (2Tm 4, 6-8). Esterna all’epistolario di Paolo, con una sua radicale autonomia, pur con alcuni rimandi all’orizzonte paolino, rimane la Lettera agli Ebrei, un monumento letterario-teologico a sé stante. Pur nella complessità dell’impianto generale del pensiero dell’Apostolo e della sua tradizione, pur nell’occasionalità pastorale di molte sue riflessioni, pur nella diversità dei tempi e persino degli autori, le Lettere paoline costituiscono uno straordinario progetto in cui teologia e morale, pensiero e azione, cristologia ed ecclesiologia, teologia e pastorale si richiamano e si fondono, dilatandosi verso nuove prospettive e costituendo una stella polare per la storia e la vita della cristianità.



Gianfranco Ravasi
Presidente Pontificio Consiglio per la Cultura


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Messaggio comune dei due vescovi dell'isola rivolto ai fedeli delle rispettive diocesi

Celebrato a Malta
l'inizio dell'Anno paolino


Malta, 9. L'arcivescovo di Malta, monsignor Paul Cremona, e il vescovo di Gozo, monsignor Mario Grech, hanno indirizzato ai fedeli delle rispettive diocesi una lettera in occasione dell'apertura dell'Anno paolino il 28 giugno. "La forza delle sue parole e della sua visione - scrivono i due vescovi maltesi riferendosi alla figura dell'apostolo - ci dovrebbe aiutare affinché, sul suo esempio, non rinunciamo a proporre e a costruire un nuovo ordine nella vita pubblica e nel Paese".
La lettera pastorale dei vescovi di Malta e Gozo è stata letta ai fedeli durante la messa celebrata la sera del 28 giugno dall'arcivescovo Cremona sul sagrato della cattedrale di Medina. Tale celebrazione si è svolta in coincidenza con quella presieduta da Benedetto XVI che ha inaugurato l'Anno paolino nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura insieme al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo i, al rappresentante dell'arcivescovo di Canterbury e ai delegati delle diverse Chiese e comunità ecclesiali di Oriente e di Occidente.
Rievocando il naufragio di san Paolo sull'isola di Malta durante il suo terzo viaggio nel Mediterraneo, iniziato nell'anno 53 e terminato nel 58, i due vescovi hanno sottolineato:  "La sua sventura si è trasformata per noi in grazia e il suo naufragio ha avuto l'effetto provvidenziale che fin dai primi tempi del cristianesimo abbiamo potuto ricevere la buona novella del Vangelo. Per questo consideriamo il naufragio dell'apostolo una benedizione e un privilegio e abbiamo accolto con gioia l'invito di Benedetto XVI  a celebrare con la Chiesa universale l'Anno paolino in occasione del bimillenario della nascita dell'apostolo delle nazioni che per noi non è semplicemente un santo fra tutti gli altri, ma colui che ci ha generato nella fede".
I due vescovi maltesi nella lettera per i fedeli delle loro diocesi osservano che "in ogni tempo la comunità cristiana ha bisogno di riscoprire la propria identità, soprattutto quando la situazione in cui ci troviamo presenta nuove sfide e ci chiede nuove risposte", e se la Chiesa "deve ritornare alle proprie radici, non vi è dubbio che le nostre radici ci riportano alla prima predicazione di san Paolo, nostro padre nella fede" che ci insegna, innanzitutto, "a non perdere la speranza". Rievocando il racconto, tratto dagli Atti degli apostoli, della tempesta che fece naufragare l'apostolo sulle coste maltesi, i vescovi ricordano che "nel bel mezzo della tempesta egli continuava a ripetere ai suoi compagni:  "Non disperate. Nessuno morirà"". "Dal profondo del nostro cuore - aggiungono i due pastori maltesi - vorremmo ripetere queste parole a quanti hanno un disperato bisogno di ascoltare". Sul dolore, del resto, san Paolo "ha ancora molte cose da dire".
Questo apostolo di fronte alla cultura pagana "dovette necessariamente essere radicale, radicale e controverso". I due vescovi di Malta e di Gozo fanno notare che nonostante il clima di quel tempo contrario "alla proclamazione della fede", Paolo "non ha provato né imbarazzo né timore". L'apostolo "può esserci guida nelle foschie del nostro tempo, quando siamo tentati a fare retromarcia di fronte alla fede perché ci sentiamo imbarazzati o intimoriti".
La società e la cultura attuali hanno - per i due presuli maltesi - molti punti di contatto con quelle dei tempi di san Paolo. "La maggior parte di noi è stata battezzata e ha ricevuto una educazione religiosa, tuttavia molti di noi si chiedono:  "Chi sei signore?" ma a causa dell'apatia, dell'indifferenza o della stanchezza che talvolta prendono il sopravvento nessuno è in grado di rispondere a questa domanda".
Famiglia, eguaglianza, schiavitù, sessualità, condizione della donna:  questi alcuni dei temi trattati dall'apostolo alla luce della verità del vangelo, anche "quando ciò che egli affermava era in contrasto con le opinioni del tempo". Di qui l'esortazione conclusiva a costruire sul suo esempio un nuovo ordine poiché "il nostro Paese ha assolutamente bisogno del lievito della convinzione e della verità della fede".



(©L'Osservatore Romano - 10 luglio 2008)

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